N. 553 ORDINANZA (Atto di promovimento) 3 luglio 1992
N. 553 Ordinanza emessa il 3 luglio 1992 dalla pretura di Taranto, sezione distaccata di S. Giorgio Jonico, nel procedimento civile vertente tra Fanigliulo Cosimo e comune di S. Giorgio Jonico Elezioni - Elettorato attivo - Esclusione per il fallito - Lamentata omessa previsione della perdita di tale capacita' al passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa di fallimento - Disparita' di trattamento rispetto a coloro che siano stati condannati per taluni delitti o per i colpiti da misure di prevenzione (mafiosi o delinquenti abituali) per i quali e' richiesta la definitivita' del provvedimento giurisdizionale. (Legge 16 gennaio 1992, n. 15, artt. 1, primo comma, lett. a), e 9; d.P.R. 20 marzo 1967, n. 223, artt. 2 e 32, primo comma, n. 3). (Cost., art. 3).(GU n.41 del 30-9-1992 )
IL PRETORE Sciogliendo la riserva formula nel verbale di causa del 9 giugno 1992, O S S E R V A Con ricorso ex art. 700 del c.p.c. del 3 giugno 1992 Fanigliulo Cosimo conveniva in giudizio il comune di San Giorgio Jonico in persona del sindaco in carica e tutti i consiglieri dell'ente predetto per i seguenti motivi: il ricorrente, con delibera del c.c. del comune convenuto del 27 aprile 1992, vistata dal Co.Re.Co. in data 15 maggio 1992, veniva dichiarato decaduto dalla carica di consigliere comunale per essere stato cancellato dalle liste elettorali con provvedimento del 10 aprile 1992 della C.E.C. Avverso tale cancellazione egli attivava procedura di imputazione pendente innanzi alla corte d'appello di Lecce. Il provvedimento di cancellazione e la conseguente declaratoria di decadenza da consigliere comunale venivano adottati in base alla legge 16 gennaio 1992, n. 15 (entrata in vigore il 6 febbraio 1992) e, per effetto della sentenza del tribunale di Taranto del 3 febbraio 1992 con la quale l'istante veniva dichiarato fallito. Avverso tale decisione costui aveva proposto opposizione e il relativo giudizio pende innanzi alla prima sezione civile di detto tribunale. A giudizio del ricorrente erroneamente C.E.C. e C.C. avevano adottato nei suoi confronti i provvedimenti suindicati sia perche' la nuova normativa non poteva trovare applicazione retroattiva e sia perche' la sentenza dichiarativa di fallimento non era ancora passata in giudicato, essendo in tal caso la definitivita' della stessa presupposto necessario delle summenzionate deliberazioni vertendosi "in materia di diritti di liberta' politica anche costituzionalmente protetti". Da tale punto di vista riteneva di poter richiedere con successo al giudice competente (tribunale di Taranto) l'annullamento della delibera di decadenza. Nelle more, pero', rischiava di subire pregiudizio imminente e irreparabile dalla esecutorieta' del provvedimento di esclusione dal consesso comunale. A tale proposito deduceva che stava per concludersi la fase di trattative per la risoluzione della crisi amministrativa con la formazione di una maggioranza e conseguente elezione del sindaco. Nel caso in cui si fosse visto riconoscere il diritto di rimanere in carica, egli non avrebbe potuto piu' rimuovere situazioni che, frattanto, si sarebbero anche consolidate senza che avesse potuto contribuire, esercitando i suoi poteri-doveri, a determinarle cosi' come voleva la legge anche costituzionale. Concludeva, pertanto, chiedendo che l'adito pretore provvedesse a sospendere la delibera di decadenza della quale avrebbe domandato l'annullamento nel giudizio di merito che avrebbe instaurato innanzi al tribunale di Taranto. In subordine eccepiva la illegittimita' costituzionale della normativa prevista dalla legge n. 15/1992 sostitutiva di quella di cui al d.P.R. n. 223/1967 con riferimento agli artt. 48 e 3 della Carta costituzionale per le ragioni che avrebbe illustrato in sede di discussione. Produceva copia dei provvedimenti impugnati. Con decreto del 3 giugno 1992 veniva fissata la comparizione delle parti per l'udienza del 6 giugno 1992. A tale udienza il ricorrente chiedeva termine per rinotificare il ricorso a tre consiglieri comunali. La procedura veniva cosi' rinviata all'udienza del 9 giugno 1992 e il Fanigliulo provvedeva all'incombente il giorno precedente. A tale udienza, con memoria del 6 giugno 1992, si costituiva solo il consigliere Pozzessere Cosimo Damiano ed eccepiva preliminarmente l'inammissibilita' e/o l'improponibilita' della domanda in quanto il procedimento ex art. 700 del c.p.p. non poteva trovare applicazione in subiecta materia. Le impugnazioni avverso le delibere adottate in materia di eleggibilita' e decadenza a (e/da) consigliere comunale erano disciplinate dalla normativa processuale contenuta nell'art. 82 del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570, ed erano sottratte al rito ordinario (nella cui dinamica poteva legittimamente trovare ingresso la misura cautelare prevista dall'art. 700 del c.p.p. ed invocata dal ricorrente) essendo devolute alla cognizione del tribunale in camera di consiglio secondo il rito previsto per i procedimenti di volontaria giurisdizione. Per la loro soluzione, inoltre, veniva dettato un meccanismo processuale estremamente celere (che rendeva superfluo il ricorso alla cautela d'urgenza). Deduceva, poi, che non era stato in alcun modo richiesto, sollecitato ed attuato il prescritto intervento obbligatorio del pubblico Ministero. Nel merito sosteneva l'infondatezza della domanda atteso che il c.c. di San Giorgio Jonico si era limitato a sacire e a formalizzate la decadenza della controparte della carica di consigliere comunale quale diretta ed inevitabile conseguenza della sua cancellazione dalle liste elettorali in quanto imprenditore commerciale dichiarato fallito e tanto in applicazione della normativa vigente. Rilevava che correttamente la C.E.C. aveva adottato il provvedimento di cancellazione (anche se la legittimita' di tale provvedimento non rientrava el thema decidendum) atteso che la ratio che aveva indotto il legislatore a prevedere siffatta situazione andava ricercata e individuata nell'esigenza di dare immediata attuazione, per ragioni legate alla necessita' di moralizzare la vita pubblica e combattere la criminalita', ad uno dei principi ispiratori dei piu' recenti provvedimenti legislativi in materia e cioe' quello di perseguire l'esclusione di alcune categorie di cittadini dalla partecipazione (almeno da quella attiva e apparente) alla vita pubblica. Cosi' correttamente individuata la ratio ispiratrice della norma contenuta nel primo comma dell'art. 2 del d.P.R. 20 marzo 1967, n. 223, modificato ed integrato dall'art. 1 della legge 16 gennaio 1992, n. 15, essa non poteva che trovare applicazione nei confronti di tutti i cittadini che si fossero trovati nella condizione giuridica di "falliti" e per la durata (espressamente prevista) di cinque anni a far tempo dalla data di pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento. Tale interpretazione, lungi dal costituire un'eccezione al principio di irretroattivita' nell'applicazione della ius superveniens consentiva di dare attuazione alla ratio ispiratrice del provvedimento e non creava alcuna disparita' di trattamento tra cittadini. Anzi essa attuava il principio di uguaglianza estendendone l'applicazione senza tener conto dell'epoca di pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento e non contrastava i principi costituzionali sanciti nell'art. 48 della Costituzione che, pur postio a garanzia dei diritti elettorali, tuttavia contemplavano la delega al Parlamento della funzione di adottare provvedimenti normativi che ne disciplinavano l'esercizio. Concludeva detto Pozzessere per l'inammissibilita' ovvero per l'improponibilita' della domanda e, in via gradata, perche' fosse ordinato l'intervento del p.m.; e, nel merito, per il rigetto di ogni avversa pretesa con vittoria delle spese di lite. Dopo che la causa veniva ampiamente discussa dai procuratori delle parti, il giudicante riservava la decisione. Preliminarmente va affrontata la questione di legittimita' costituzionale della normativa introdotta dalla legge n. 15/1992 sollevata dal ricorrente. Il Fanigliulo e' stato dichiarato decaduto dalla carica di consigliere comunale ai sensi degli artt. 1 e 6 della legge 23 aprile 1981, n. 154, secondo i quali "sono eleggibili a consiglieri comunali .. gli elettori di qualsiasi comune della Repubblica"; mentre "la perdita delle condizioni di eleggibilita' previste dalla legge (in esame) importa la decadenza dalla carica (suddetta)". In assenza della capacita' elettorale attiva, quindi, non si puo' assumere o mantenere la carica di consigliere comunale. La cancellazione dalle liste elettorali comporta automaticamente l'ineggibilita' ovvero la decadenza da tale carica. Alla sentenza dichirativa di fallimento consegue automaticamente la perdita del diritto elettorale (v. artt. 1 e 9 della legge n. 15/1992 che hanno sostituito gli artt. 2 e 32, primo comma, n. 3 del d.P.R. 30 marzo 1967, n. 223). Il ricorrente, anche se non le indica espressamente, certamente ha inteso censurare, sotto il profilo dell'illegittimita' costituzionale le due disposizioni da ultimo indicate poiche' la sua cancellazione dalle liste nonche' la pronuncia di decadenza dal suo incarico di consigliere comunale e' stata operata sulla base delle stesse. L'art. 2, primo comma, n. 2 del d.P.R. 20 marzo 1967, n. 223, disponeva la perdita dell'elettorato attivo per i "commercianti" falliti. L'art. 32, primo comma, n. 3 medesimo d.P.R. collegava tale effetto al passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa di fallimento. Tale disciplina sembra che sia mutata con l'entrata in vigore della legge 16 gennaio 1992, n. 15. Tanto potrebbe ricavarsi da un'interpretazione letterale dalla nuova normativa. L'art. 1 della legge n. 15/1992, nel riformulare il n. 2 dell'art. 2 del t.u. n. 223, ha sostituito la dizione "commercianti falliti" con l'altra piu' generica "coloro che sono dichiarati falliti"; mentre il successivo art. 9 della legge n. 15/1992, sostituito dal n. 3 dell'art. 32 del t.u. n. 223, ha eliminato il riferimento alla definitivita' delle sentenze e degli altri provvedimenti dell'a.g. Sembra che il legislatore abbia voluto raccordare la disciplina elettorale dello status di fallito, al sistema processuale previsto dalle norme fallimentari in base alle quali la sentenza dichiarativa di fallimento e' "provvisoriamente secutiva" (art. 16, terzo comma del r.d. 16 marzo 1942, n. 267) e l'opposizione avverso la stessa non ne sospende l'esecuzione (art. 18, quarto comma, del r.d. n. 267/1942). Potrebbe cosi' trarsi il convincimento che sia la non iscrizione dei falliti nelle liste elettorali e sia la loro cancellazione dalle stesse, dovrebbe aver luogo in presenza di sentenza dichiarativa di fallimento, a prescindere dall'esperimento di mezzi di gravame avverso tale sentenza e, a maggior ragione, a prescindere dall'irrevocabilita' di essa. Lamenta il ricorrente che le nuove disposizioni non potevano trovare applicazione nei suoi confronti per essere entrate in vigore in epica successiva alla dichiarazione di fallimento avvenuta con sentenza del tribunale di Taranto del 3 aprile 1992. In verita' la legge n. 15/1992 e' stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 22 gennaio 1992 (serie generale n. 17); pertanto, tenuto conto del periodo di vacatio di cui all'art. 10 delle "preleggi", e' entrata in vigore il 6 febbraio 1992. L'art. 11 della "preleggi" prevede che "la legge non dispone che per l'avvenire; essa non ha effetto retroattivo". Non sembra, pero', che tale principio (salvo diversa valutazione in sede di pronuncia sul merito della questione da parte dell'odierno giudicante o di altro giudice) possa trovare applicazione alla fattispecie in esame. Il problema da risolvere nel caso che ci occupa potrebbe essere quello relativo all'individuazione dell'oggetto della retroattivita' delle leggi. A tal proposito si e' posta particolare attenzione tra fatto produttivo di conseguenze e conseguenze stesse. Viene ritenuto che "in tema di retroattivita' delle leggi, la legge sopravvenuta deve essere comunque applicata quando il rapporto giuridico disciplinato, sebbene sorto anteriormente, non abbia ancora esaurito i suoi effetti e purche' la norma innovatrice non sia diretta a regolare il fatto o l'atto generatore del rapporto, ma gli effetti di esso" (v. Cass. 3 marzo 1979, n. 1350, in r.f.i. 1979, voce Legge, decreto e regolamento, c. 1667, n. 32; 27 febbraio 1987, n. 2118, ivi 1987, voce Assicurazione (contratto), c. 225, n. 184). Il principio di irretroattivita' sta a significare che la disciplina di ciascun fatto e di ciascuno stato di fatto va ricercata nella normativa del tempo in cui si verifica (tempus regit factum). Mentre, quindi, un fatto e cioe' un accadimento (es. la nomina ad un impiego, come anche la dichiarazione di fallimento), e' esposto soltanto alle norme vigenti al tempo del suo venire in essere, uno stato di fatto, e cioe' una situazione che si protrae nel tempo (es.: lo stato di impiegato, come anche lo stato di fallito) e' esposto a tutte le suc- cessive discipline giuridiche entrate in vigore nel corso della esistenza. In realta' in tale ultima ipotesi lo ius superveniens sarebbe privo di effetto retroattivo in quanto verrebbe applicato ad uno sta- tus e cioe' ad una situazione esistente alla data della sua entrata in vigore ancorche' "generato" da un fatto disciplinato dalla legge precedente (v. Cass. 29 aprile 1982, n. 2705, in r.f.i. 1982, voce legge decreto e regolamento c. 1829, n. 391; Cass. 20 marzo 1969, n. 858, ivi voce cit., c. 1561, n. 23). Appare evidente, come, a questo punto, le disposizioni di cui e' stata denunciata l'illegittimita' costituzionale trovino necessaria applicazione nel presente giudizio nel senso che essa rappresentano il referente normativo cui fare riferimento per definire (in senso favorevole o sfavorevole) il procedimento introdotto dal ricorrente. Occorre, quindi, verificare se detto procedimento possa o meno essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale. Le limitazioni al diritto di voto previste dall'art. 48 della Costituzione riguardano tre categorie di cittadini: a) coloro che si trovano in situazione di incapacita' civile; b) i condannati con sentenza penale irrevocabile; c) coloro che sono colpiti da indegnita' morale. E' indubbio, poi, che tale norma "abbia lasciato al legislatore piena facolta' di stabilire limitazioni di voto per categorie generali" (v. Cass. n. 4430/1979 in Resp. G. it. 79, voce Elezioni, n. 106), una volta individuate in linea di massima le limitazioni stesse, e cio' perche' "solo il legislatore ordinario puo' trasfondere in norma le valutazioni etico-politiche del dato momento storico". E' da escludere che l'incapacita' elettorale del fallito derivi dalla sua incapacita' civile (come sostenuto dal procuratore del resistente in sede di discussione orale). Tale incapacita', per poter giustificare l'esclusione del diritto elettorale, deve essere "piena", mentre quella del fallito e' "relativa" perche' si estende solo alle attivita' il cui esercizio potrebbe riuscire lesivo per i diritti della massa dei creditori. Peraltro con l'art. 11 della legge n. 180/1978 il legislatore, abrogando l'art. 2, n. 1 del d.P.R. n. 223/1967, ha eliminato ogni ostacolo per gli interdetti ed inabilitati per infermita' mentale che oggi possono partecipare alla volonta' del corpo elettorale, pur non potendo esprimere alcunche' di giuridicamente valido quanto alla sfera dei loro personali interessi. Quindi si potrebbe affermare che la categoria dell'incapacita' civile cui la costituzione fa riferimento non ha piu' valore, posto che essa prendeva in considerazione solo gli interdetti e gli inabilitati per infermita' mentale, non trovando invece applicazione per i prodighi, per chi abusava di bevande alcoliche o di sostanze stupefacenti, ne' per gli affetti da cecita' o sordomutismo che non avessero ricevuto un'educazione sufficiente. Si e' detto che i falliti rientrerebbero nella categoria dell'indegnita' morale. A tale soluzione si e' giunti facendo valere, oltre ad alcune disposzioni della legge fallimentare (come per es. la riabilitazione civile del fallito di cui all'art. 142 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267), la considerazione che la minorazione stabilita dalle leggi civili a carico del fallito e' disposta quale sanzione del danno recato alla fede pubblica ed alla sicurezza dei traffici, in conseguenza della deficienza di attitudini dimostrata nell'esercizio dell'attivita' commerciale esplicata (v. in merito Cass. 10 maggio 1958, n. 1547, in giur. Cost., 1959, pag. 507). Peraltro vi e' stato chi ha dubitato dell'appartenenza dei falliti a tale categoria e chi e' arrivato a dire che la norma che li riguarda sarebbe addirittura incostituzionale. Cio' sulla base della considerazione che il fallito, alcune volte, puo' essere esente da ogni colpa (e l'incremento del numero dei fallimenti in periodi di crisi economica comprova l'esattezza del rilievo) e che, altresi', il reato di bancarotta semplice non e' incluso fra quelli che importano privazione del diritto di voto. In passato, quindi, molto si e' dis- cusso circa l'opportunita' della disposizione riguardante i falliti sino alla pronuncia della Corte costituzionale n. 43/1970 che dichiaro' infondata la questione di legittimita' costituzionale sollevata a proposito dell'art. 2, n. 2, t.u. n. 223/1967 in relazione agli artt. 3 e 48 della Costituzione (v. tale sentenza in G. Cost. 70,493 e segg.). Ma in passato era espressamente previsto che "l'indegnita' morale" e, quindi, l'incapacita' elettorale attiva di tale categoria di cittadini si verificassero solo al passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa di fallimento (v. art. 32, comma primo, n. 3 del t.u. n. 223/1967). Per altra categoria di cittadini, resisi responsabili di fatti obbiettivamente piu' gravi e connotati da maggiore disvalore sociale rispetto alla situazione determinata dal fallito, la precedente disciplina e' rimasta inalterata nel senso che la perdita da parte di tali persone della capacita' in questione puo' derivare solo da sentenza penale irrevocabile ovvero da provvedimento definitivo dell'a.g. (art. 48 della Costituzione e 1, primo comma, lett. b), c), d), ed e), e secondo comma della legge 16 gennaio 1992, n. 15). Se dovesse risultare esatta l'interpretazione data all'art. 9 della legge n. 15/1992 come innanzi esposta, sembra che il legislatore, nel formulare tale norma, sia incorso in una vera e propria "svista". Comunque non si puo' non esprimere quanto meno, un giudizio di "omogeneita'" tra le due situazioni raffrontate dal punto di vista della gravita' dei comportamenti e, quindi, tale da rendere difficilmente giustificabile (se non irrazionale) la diversita' di trattamento riservata dall'ordinamento alle predette due situazioni (v. in merito Corte costituzionale n. 81/1979 e n. 209/1988 che parla di "minimo di omogeneita' necessario per l'instaurazione di un giudizio di ragionevolezza"). Il non avere il Legislatore, quantomeno, equiparato il "criminale incallito" che ha perpetrato gravissimi delitti cui consegue l'interdizione perpetua dai pubblici uffici al "fallito" appare scelta che merita il controllo ex art. 3, primo comma, della Costituzione da parte del giudice delle leggi. Non potrebbe obbiettarsi, (cosi' come ha dedotto il procuratore del resistente sempre in sede di discussione orale), che la previsione della sentenza penale irrevocabile trova giustificazione anche nel principio contenuto nell'art. 27 cpv. della Costituzione (oltre che nell'art. 48 della Costituzione) atteso che il principio in parola, sotto il profilo oggettivo, concerne le sole garanzie rel- ative all'attuazione della pretesa punitiva dello Stato e, come tale, non puo' ricevere applicazione analogica in campi diversi (v. Cass. n. 5481/1985). Peraltro anche per coloro che sono colpiti dalle misure di prevenzione di cui all'art. 3 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, come da ultimo modificato dall'art. 4 della legge 3 agosto 1988, n. 327, (cioe' mafiosi e persone abitualmente dediti a traffici delittuosi o che vivono abitualmente con i proventi di attivita' delittuosa), la perdita della capacita' elettorale e' subordinata alla definitivita' del provvedimento che irroga la misura, contrariamente a quanto disposto per i falliti. Non sembra che possa dubitarsi del fatto che la situazione in cui viene a trovarsi siffatta categoria di persone (socialmente pericolose dei falliti) non confligge con il principio costituzionale di non colpevolezza (v. Corte costituzionale n. 6/1962, n. 23/1964 e n. 79/1969). Ultimo problema da affrontare e' quello relativo all'ammissibilita' della cautela d'urgenza nella materia che ci occupa. E' chiaro che se il ricorso proposto dal Faniglulo non fosse ammissibile, sarebbe del tutto superfluo investire l'alta Corte della questione surriferita. Il giudizio elettorale e' attualmente disciplinato dall'art. 82 del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570. L'impugnativa avverso la delibera di decadenza o di rineleggibilita' si propone con ricorso al tribunale, ricevuto il quale, il presidente fissa l'udienza di discussione della causa "in via d'urgenza" e provvede alla nomina del relatore. Sono previsti brevi termini perentori per la notifica e il deposito degli atti e la costituzione delle parti. All'udienza, dopo la discussione, l'organo giudicante decide in camera di consiglio. E' prevista, inoltre, la possibilita' di disporre mezzi istruttori con delega al relatore e, quindi, di differire la decisione all'esito dell'espletamento degli stessi. Infine ai sensi dell'art. 82/3 del t.u. n. 570 "l'esecuzione delle sentenze emesse dal tribunale resta sospesa in pendenza del ricorso alla corte d'appello". Pertanto il procedimento in questione, anche se connotato dal requisito dell'urgenza, non appresta alcuna cautela tipica in materia di sospensione degli effetti delle delibere di ineleggibilita' o di decadenza. Ma quando anche si volesse ravvisare siffatta cautela nella "rapidita" del procedimento (cosi' come sostenuto dal resistente), tuttavia essa non sarebbe completa perche' non coprirebbe gli eventuali pregiudizi che possono aversi anteriomente alla costituzione del giudizio di merito che, fra l'altro, potrebbe durare in maniera considerevole. Alla luce delle suesposte considerazioni, non sembra che il ricorso proposto dal Fanigliulo possa incontrare ostacoli in ordine alla sua ipotetica ammissibilita'.
P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 1, primo comma, lett. a), e 9 della legge 16 gennaio 1992, n. 15, sostitutivi degli artt. 2 e 32, primo comma, n. 3, del d.P.R. 20 marzo 1967, n. 223, nella parte in cui non prevedono che la perdita della capacita' elettorale attiva del fallito debba conseguire al passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa di fallimento, in relazione all'art. 3, primo comma, della Costituzione; Sospende il presente giudizio e ordina trasmettersi gli atti alla Corte costituzionale; Dispone che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. San Giorgio Jonico, addi' 3 luglio 1992 Il pretore: ARGENTINO 92C1081