N. 65 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 19 settembre 1992
N. 65 Ricorso per quesione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria il 19 settembre 1992 (della regione Lombardia) Finanza pubblica allargata - Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica - Riduzione per l'anno 1992 della quota di tributi erariali devoluti alle regioni dall'11,678 per cento al 10,50 per cento e riduzione dell'importo del fondo comune da 6.957 miliardi a 6.632 miliardi - Asserita lesione dell'autonomia finanziaria delle regioni in conseguenza della riduzione operata nel corso dell'esercizio annuale di una somma da tempo stanziata in relazione allo stesso esercizio, a favore delle regioni e prov- ince autonome, per interventi connessi a competenze rimaste invariate Mancata previsione della copertura finanziaria delle minori entrate - Riferimento alle sentenze della Corte costituzionale nn. 382/1990, 116/1991, 356 e 369 del 1992. (D.L. 11 luglio 1992, n. 333, art. 1, terzo e quarto comma; legge 8 agosto 1992, n. 359, nella parte in cui dispone la conversione in legge del suddetto d.l.). (Cost., artt. 81, quarto comma, 117, 118 e 119).(GU n.41 del 30-9-1992 )
Ricorso della regione Lombardia, in persona del presidente della giunta regionale ing. Giuseppe Giovenzana, autorizzato con delibera della giunta regionale n. 27339 del 10 settembre 1992, rappresentato e difeso dagli avv.ti prof. Valerio Onida e Gualtiero Rueca, ed elettivamente domiciliato presso quest'ultimo in Roma, largo della Gancia 1, come da delega in calce al presente atto contro il Presidente del Consiglio dei Ministri pro-tempore, per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'art. 1, terzo e quarto comma, del d.-l. 11 luglio 1992, n. 333, recante "misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica", convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 190 del 13 agosto 1992, nonche' della medesima legge di conversione n. 359/1992 nella parte in cui dispone la conversione in legge del predetto art. 1, terzo e quarto comma, del d.-l. n. 333/1992. Con ricorso notificato il 5 agosto 1992 e iscritto al n. 31/1992 reg. ricorsi, la deducente regione ha impugnato davanti a questa Corte i commi terzo e quarto dell'art. 1, del d.-l. 11 luglio 1992 n. 333, concernenti rispettivamente la riduzione del fondo comune di cui all'art. 8 della legge n. 281/1970 e misure nel campo della spesa sanitaria. Si trascrive di seguito il testo del ricorso: 1. - Sul fondo comune per le regioni. L'art. 1 della legge 14 giugno 1990, n. 158, fissa il principio secondo cui "l'autonomia finanziaria delle Regioni e' garantita da: 'fra l'altro' a) tributi propri e quote di tributi erariali accorpati in un fondo comune che assicuri il finanziamento delle spese necessarie ad adempiere a tutte le funzioni normali compresi i servizi di rilevanza nazionale ..". Detto fondo comune e' quello gia' previsto dall'art. 8 della legge 16 maggio 1970, n. 281, commisurato a quote stabilite del gettito annuale di alcuni tributi erariali: fra questi l'imposta di fabbricazione sugli oli minerali, loro derivati e prodotti analoghi, per la quale la quota di gettito confluente nel fondo comune era fissata nel 15 per cento (art. 8, lett. a), della legge n. 281/1970). E' ben noto come negli anni recenti il legislatore statale, contraddicendo la lettera e lo spirito dell'art. 119 della Costituzione, e sostanzialmente snaturando lo stesso sistema di finanziamento delle regioni adottato con la legge n. 281/1970, e pur solennemente confermato con il citato art. 1 della legge n. 158/1990, abbia fatto ricorso all'espediente di fissare annualmente, in sede di legge finanziaria o di leggi di accompagnamento o di legislazione speciale, la quota del gettito dell'imposta di fabbricazione sugli oli minerali, confluente nel fondo comune. A partire dal 1989 viene fissato direttamente dalla legge addirittura l'ammontare del fondo, "aggiustando" la quota del gettito devoluto in modo tale che essa venga a coincidere con la cifra fissata dallo stesso legislatore. Il prospetto che segue espone le quote di gettito devolute e l'importo del fondo per ciascuno degli anni dal 1982 (il primo dopo la scadenza della disposizione di cui all'art. 1 della legge 10 maggio 1976, n. 356) al 1992: Anno Quota Importo fondo Fonti gettito devoluto - - - - 1982 49,90% - art. 8, comma primo, legge 26 aprile 1982, n. 181 1983 49,93% - art. 4, comma primo, legge 26 aprile 1983, n. 130 1984 43,82% - art. 7, comma primo, legge 27 dicembre 1983, n. 730 1985 31,88% - art. 3, comma primo, legge 22 dicembre 1984, n. 887 1986 30,45% - art. 5, comma primo, legge 28 febbraio 1986, n. 41 1987 30,64% - art. 8, comma 21, legge 22 dicembre 1983, n. 910 1988 20,66% - art. 1, d.-l. 28 novembre 1988, n. 511, convertito in legge 27 gennaio 1989, n. 20 1989 23,906% 6.401 md. art. 1, legge 1 febbraio 1989, n. 40 1990 13,18% 6.000 md. art. 17, d.-l. 28 dicembre 1989, n. 415, convertito in legge 28 febbraio 1990, n. 38 1991 12,42% 6.300 md. art. 10, legge 29 dicembre 1990, n. 407 1992 11,678% 6.957 md. art. 5, legge 31 dicembre 1991, n. 415 L'importo del fondo del 1992 e' comprensivo, ai sensi dell'art. 5 della legge n. 415/1991, di 374 miliardi destinati a fronteggiate gli oneri del rinnovo contrattuale, di cui all'art. 2, lett. b), del d-l. 13 novembre 1990, n. 326, convertito in legge 12 gennaio 1991, n. 4. Nel 1992, dunque, al netto delle somme trasferite per fronteggiare i nuovi oneri contrattuali, il fondo comune ammontava a 6583 miliardi (6957-374), cioe' ad un importo appena superiore in termini nominali (per l'esattezza del 2,85%) a quello del 1989, cioe' di tre anni prima. Cio', si badi, mentre il gettito complessivo dell'imposta di fabbricazione aumentava considerevolmente, anche per effetto di aumenti di aliquote (cfr. ad es. art. 1 del d.P.R. 30 aprile 1986, n. 137; art. 1 del d.-l. 2 settembre 1987, n. 365, convertito in legge 29 ottobre 1987, n. 446; art. 1 del d.-l. 19 settembre 1987, n. 383, convertito in legge 29 ottobre 1987, n. 451; art. 1 del d.-l. 13 giugno 1989, n. 228, convertito in legge 28 luglio 1989, n. 277; art. 7 del d.-l. 15 settembre 1990, n. 261, convertito in legge 12 novembre 1990, n. 331; art. 8 della legge 29 dicembre 1990, n. 405). La conclusione che se ne trae e' che lo Stato ha progressivamente spostato a proprio favore, e a danno delle Regioni, il riparto del gettito delle imposte in questione, riducendo in 10 anni di quasi l'80 la quota devoluta; e mediante tali "correzioni" ha considerevolmente ridotto, in termini reali, l'entita' del fondo comune destinato al finanziamento delle funzioni normali delle regioni. Le regioni hanno subi'to tali riduzioni, per lo piu' accettandole nello spirito di massima collaborazione ai fini del contenimento del deficit del bilancio statale: e tuttavia sempre hanno rivendicato un ordinamento della finanza regionale che garantisca loro "autonomia finanziaria fondata su certezza di risorse proprie e trasferite", come solennemente si esprime, con disposizione riferita ai comuni e alle province ma valida a fortiori per le regioni, l'art. 54, secondo comma, della legge 8 giugno 1990 n. 142 sull'ordinamento delle autonomie locali. Questa Corte non ha mancato, anche recentissimamente, di "sottolineare l'urgenza di una compiuta razionalizzazione di tale sistema, al fine di assicurare adeguati punti di riferimento per la programmazione di bilancio delle Regioni", e l'obbligo del legislatore di "ottemperare al principio .. della necessaria corrispondenza tra bisogni regionali e mezzi finanziari" (sentenza n. 369/1992). Ma la nuova disciplina della finanza regionale, ancora una volta "promessa" dall'art. 2, primo comma, della legge 14 giugno 1990, n. 158, non e' venuta alla luce: al suo posto - in perfetto contrasto con i principi che dovrebbero ispirare tale disciplina - l'art. 1, secondo comma, del d.-l. n. 333/1992 dispone ora nel modo seguente "Nel comma 2 dell'art. 5 della legge 31 dicembre 1991, n. 415, le parole " .. e' ridotta all'11,678 per cento" sono sostituite dalle parole " .. e' ridotta al 10,50 per cento" e al terzo comma dello stesso articolo le parole " .. e' stabilito in lire 6.957 miliardi .." sono sostituite con le parole " .. e' stabilito in lire 6.632 miliardi ..". Modificando formalmente la disposizione che aveva fissato quota devoluta e importo del fondo per il 1992, si riducono nuovamente, per l'esercizio in corso, l'una e l'altro. La riduzione di piu' di un punto percentuale del gettito devoluto e di 325 miliardi dell'importo del fondo incide dunque sul fondo per l'esercizio 1992, gia' definitivamente fissato nel suo ammontare dalla legge finanziaria, e gia' ripartito fra le regioni. Si tratta, si noti, del fondo comune il quale costituisce la piu' importante fonte di finanziamento delle spese necessarie per lo svolgimento delle "funzioni normali" delle regioni, ai sensi dell'art. 119, secondo comma, della Costituzione. Non quindi di un qualsiasi finanziamento statale discrezionale o a destinazione vincolata, bensi' della principale fonte di alimentazione di quella parte del bilancio regionale in cui si esprime la residua autonomia di spesa delle regioni. Orbene, siffatta riduzione del fondo, per un importo cospicuo (circa il 5%), disposta quando l'esercizio finanziario e' gia' largamente inoltrato, quando i bilanci regionali sono stati approvati e assestati, quando le destinazioni di spesa e la ripartizione fra di esse delle risorse disponibili sono gia' state stabilite - riduzione non accompagnata da alcuna indicazione di nuove entrate sostitutive - e' palesemente illegittima e lesiva dell'autonomia finanziaria e di spesa della regione. Questa Corte, nella sentenza n. 382/1990, ha ritenuto non illegittimo l'art. 17 del d.-l. n. 415/1989, che fissava per il 1990 la nuova quota di gettito confluente nel fondo comune e l'importo del fondo medesimo, affermando che esso "non svincola la composizione del fondo comune regionale dalle quote di tributi erariali, ma ne mantiene salvo, nella sostanza, l'ancoraggio". Sia consentito di osservare che tale ancoraggio rappresentava gia' allora piu' che altro una fictio, dato che la quota del gettito devoluto veniva ridotta proprio al fine di attribuire al fondo la dimensione finanziaria che il legislatore statale aveva deciso di conferirgli (e questa, come si e' visto, e' ormai la prassi costante da molti anni). Ma in ogni caso e' evidente, quanto meno, che l'ancoraggio del fondo al gettito di determinati tributi preclude operazioni legisla- tive che, in corso di esercizio, e senza alcun nesso con l'effettivo andamento del gettito di quegli stessi tributi, riducono nuovamente la quota di devoluzione al solo fine di ridurre di un importo dato e prestabilito l'ammontare del fondo. Come si fa a dire ancora che si devolvono alle regioni "quote di tributi erariali"? A questa stregua, qualsiasi finanziamento discrezionale, e discrezionalmente disposto, dello Stato ad altri enti potrebbe essere configurato come devoluzione parziale del gettito di un tributo, dato che ogni somma trasferita potrebbe essere agevolmente espressa in termini di percentuale del gettito (ormai conosciuto o largamente stimato, ad esercizio avanzato) di un qualsiasi tributo; e ogni riduzione discrezionalmente disposta del trasferimento potrebbe essere espressa - verbalmente - in termini di riduzione della quota devoluta del gettito di quel determinato tributo. Se la devoluzione di quote del gettito non ha da essere una mera lustra, un espediente verbale del legislatore, e' evidente, quanto meno, che una volta determinata la quota di riparto, l'entita' del gettito devoluto non puo' che essere, e restare, quella risultante dall'applicazione al gettito effettivo della percentuale di devoluzione stabilita. Ne' si dica che, come il legislatore puo' stabilire la quota devoluta prima dell'inizio dell'esercizio, cosi' la potrebbe modificare in corso di esercizio. L'ultimo residuo significato dell'espressione costituzionale "sono attribuite .. quote di tributi erariali" e' almeno quello per cui l'entita' delle somme devolute dipende soltanto dall'originaria fissazione della percentuale di devoluzione, e per il resto dal dato fattuale dell'andamento del gettito, senza possibilita' di variazione in corso d'anno per discrezionale decisione dello Stato. Se anche quest'ultimo, residuo significato venisse vanificato attraverso la pretesa di modificare ad nutum, in corso di esercizio, la percentuale di devoluzione e conseguentemente l'entita' del gettito devoluto, la previsione costituzionale diverrebbe - lo ripetiamo - mero flatus vocis. E' tempo dunque che la Corte dica una parola chiara su questo punto essenziale. Le regioni debbono sapere se l'autonomia finanziaria di cui godono si fonda "su certezza di risorse proprie e trasferite", oppure sulla volonta' del tutto libera - e dunque arbitraria - del legislatore statale, il quale, senza vincoli di sorta, stabilisce e modifica in corso d'anno, come e quando vuole, l'entita' dei trasferimenti. Se le cose stessero in quest'ultimo modo, non si potrebbe parlare di autonomia finanziaria: le regioni diverrebbero definitivamente e in toto meri centri di spesa statale, attraverso i quali passano solo quei flussi di spesa che momento per momento gli organi centrali intendono farvi passare. L'autonomia di cui parla l'art. 119 della Costituzione e' pero' un'altra cosa. Questa Corte si e' trovata altra volta a decidere questioni di legittimita' di disposizioni legislative statali che operavano in modo analogo a quella qui in esame: e ne ha riconosciuto l'illegittimita'. La sentenza n. 116/1991, nel dichiarare l'incostituzionalita' dell'art. 8, primo comma, lett. a, della legge 9 aprile 1990, n. 87 (interventi urgenti per la zootecnia), il quale sottraeva 140 milioni dal finanziamento gia' previsto per le regioni, al fine di coprire una nuova spesa statale, rilevo che, sebbene la Costituzione non vieti "che nuove leggi statali intervengano a modificare la legislazione preesistente, anche per quanto riguarda i proventi attribuiti dallo Stato alle regioni", tuttavia in quel caso "la lesione dell'autonomia finanziaria rappresentava la conseguenza della riduzione, operata nel corso dell'esercizio annuale, di una somma da tempo stanziata, in relazione allo stesso esercizio, a favore delle Regioni e delle province autonome, per interventi connessi a competenze rimaste invariate". "Una riduzione di risorse disposta in questi termini - proseguiva la Corte - non puo', infatti, non determinare uno squilibrio nella sfera di autonomia costituzionalmente garantita alle Regioni e alle Province autonome, stante la sua possibile incidenza su programmi di intervento e di spesa gia' adottati e in corso di svolgimento" (sottolineature nostre). Orbene, i richiami della Corte si attagliano perfettamente anche alla disposizione qui impugnata. Anche qui vi e' riduzione, nel corso dell'esercizio, di una somma da tempo stanziata in relazione allo stesso esercizio, a favore delle regioni per interventi connessi a competenze rimaste invariate: infatti il fondo comune e' inteso ad assicurare il finanziamento delle spese "necessarie ad adempiere tutte le funzioni normali" delle regioni (art. 119, secondo comma della Costituzione, e art. 1, lett. a, della legge n. 158/1990). Anche qui si ha uno squilibrio nella sfera di autonomia garantita alle regioni, stante l'incidenza della riduzione sui programmi di intervento gia' adottati e in corso di svolgimento: infatti l'entita' del fondo come risultante dall'art. 5, secondo comma, della legge n. 415/1991 e' stata tenuta a base nella formazione del bilancio regionale ed e' stata utilizzata per intero per il finanziamento delle spese per le funzioni normali della regione. Anche in questo caso, dunque, e' violata, ed anzi piu' gravemente, per l'entita' della riduzione e per la sua incidenza sulle spese normali e fondamentali delle regioni, l'autonomia finanziaria regionale. Non varrebbe certo, a giustificare la misura in questione, invocare l'esigenza per lo Stato di contenere la spesa e di ridurre il deficit. Nessuno contesta questi obiettivi: ma e' evidente che essi non possono essere perseguiti alterando le regole e gli equilibri fondamentali della finanza autonoma delle regioni. Quando, per indicare i settori di possibile riduzione della spesa pubblica, ci si riferisce indiscriminatamente, da un lato alla sanita' o alla previdenza, dall'altro lato alla spesa delle regioni e degli enti locali, si incorre in un vero e proprio errore logico e concettuale. Mentre infatti sanita' e previdenza rappresentano altrettanti comparti di spesa corrispondenti a determinate prestazioni a favore dei cittadini, regioni ed enti locali sono istituzioni di autonomia chiamate ad adempiere alle piu' diverse funzioni ed ad assicurare ai cittadini i piu' diversi servizi. Onde, mentre per sanita' e previdenza e' possibile rendere concreto l'obiettivo di contenimento della spesa stabilendo quali prestazioni si intendono ridurre o eliminare, quali azioni si intendono svolgere per eliminare sprechi o sacche di evasione contributiva, quali forme di nuova o maggiore partecipazione dei cittadini al finanziamento dell'onere (attraverso aumenti contributivi, partecipazione al costo dei servizi, ecc.) si intendono realizzare, al contrario quando ci si riferisce alle spese delle regioni e degli enti locali, l'intento di contenimento e' solo un'astratta indicazione priva di senso, poiche' non si sa in quali comparti di spesa si intende che siano operati dei tagli o attraverso quali strumenti possono essere acquisite nuove entrate sostitutive. In realta', regioni ed enti locali sono da un lato enti beneficiari di trasferimenti da parte dello Stato, ma dall'altro lato sono soggetti attuatori di spese rispondenti ad interessi generali. Non ha percio' senso predicare in astratto una riduzione di trasferimenti statali (che allevia, certo, il bilancio dello Stato, ma crea automaticamente un corrispondente fabbisogno non coperto nei bilanci regionali e locali), senza dire dove e come si ritiene che si possa risparmiare nelle spese per prestazioni a cittadini o per i servizi o per gli investimenti, demandate alle regioni e agli enti locali. E' allora evidente che una misura "grezza" come la semplice riduzione del fondo comune a esercizio inoltrato, si palesa per quello che e': non una misura di contenimento reale delle spesa pubblica, la' dove questo sia possibile e conveniente, ma un semplice "passare la palla" alle regioni, addossando loro l'onere di fronteggiare quello squilibrio finanziario che si e' preteso di sanare (sulla carta, cioe' sulle sole cifre del bilancio dello Stato) attraverso la riduzione dei trasferimenti. A questa puo' conseguire, a seconda dei casi, una riduzione della spesa (peraltro largamente incomprimibile) o piu' plausibilmente un aumento del ricorso ad altre entrate, tributarie (se vi fossero margini di autonomia impositiva) o da mutui (con conseguente aumento dell'indebitamento complessivo del settore pubblico). E' dunque evidente come la riduzione del trasferimento, di per se', non sia significativa ai fini degli stessi obiettivi del risanamento finanziario. La riduzione del fondo comune, d'altra parte, si traduce immediatamente e necessariamente nell'addossamento di un nuovo onere ai bilanci regionali. Dovrebbe dunque trovare piena applicazione il principio costituzionale secondo cui ogni legge, la quale comporti nuovi o maggiori oneri per i bilanci pubblici, deve indicare i mezzi per farvi fronte (art. 81, quarto comma della Costituzione). Che tale principio valga anche nei riguardi delle leggi che importano, anziche' aumento di spesa, diminuzione di entrate, e' pacifico, ed e' del resto testualmente affermato dall'art. 27 della legge 5 agosto 1978, n. 468, ai cui sensi "le leggi che comportano oneri, anche sotto forma di minori entrate, a carico dei bilanci degli enti" del settore pubblico allargato "devono contenere la previsione dell'onere stesso nonche' l'indicazione della copertura finanziaria riferita ai relativi bilanci annuali e pluriennali". La disposizione impugnata, riducendo il fondo comune, determina una riduzione di entrate per le regioni: ma non indica in alcun modo la copertura finanziaria, violando cosi' l'art. 81, quarto comma della Costituzione e l'art. 27 della legge n. 468/1978. 2. Sulla spesa sanitaria. L'art. 4, quinto comma, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, nel quadro delle misure di contenimento e di razionalizzazione della spesa sanitaria disposte con detto articolo, ha stabilito che "in caso di spesa sanitaria superiore a quella parametrica correlata ai livelli obbligatori uniformi di cui al primo comma non compensata da minori spese in altri settori, le regioni decidono il ricorso alla propria e autonoma capacita' impositiva ovvero adottano, in condizioni di uniformita' all'interno delle regioni, le altre misure previste dall'art. 29 della legge 28 febbraio 1986, n. 41" (tale articolo riguarda la facolta' delle regioni di erogare prestazioni in forma indiretta "con partecipazione alle spese anche differenziata per reddito"; di maggiorare le vigenti quote di partecipazione dei cittadini al costo delle prestazioni; di eliminare temporaneamente dalle prestazioni erogate a carico del servizio sanitario nazionale, o di configurare come prestazioni aggiuntive erogate a carico del bilancio regionale, una o piu' categorie di prestazioni, fra cui quelle specialistiche e di diagnostica strumentale a domicilio, quelle fisioterapiche, quelle di ricovero ospedaliero in assistenza indiretta). In sostanza, si prevede che una parte della spesa sanitaria gravi esclusivamente, anziche' sul fondo nazionale, sui bilanci delle regioni. Tale previsione era strettamente collegata, peraltro, alla fissazione da parte del Governo dei "livelli di assistenza sanitaria da assicurare in condizioni di uniformita' sul territorio nazionale" nonche' degli "standard organizzativi e di attivita' da utilizzare per il calcolo del parametro capitario di finanziamento di ciascun livello assistenziale per l'anno 1992". Lo stesso art. 4, primo comma, prosegue precisando fra l'altro che "il parametro capitario per ciasucn livello di assistenza e' finanziato in rapporto alla popolazione residente" (lett. c), e che "per favorire la manovra di rientro e' istituito, nell'ambito delle dispobilita' del Fondo sanitario nazionale, un fondo di riequilibrio da utilizzare per sostenere le regioni con dotazione di servizi eccedenti gli standards di riferimento" (lett. d). L'addossamento dell'onere alle regioni era dunque strettamente collegato e conseguente alla fissazione della spesa "parametrica" correlata ai livelli obbligatori uniformi stabiliti dal Governo, e finanziata dal fondo nazionale: solo per l'eccedenza della spesa rispetto a quella "parametrica" si contemplava l'obbligo delle regioni di farvi fronte con i propri mezzi. Lo stretto nesso fra parametri fissati dallo Stato (e conseguente finanziamento statale dei livelli di assistenza uniformi) e responsabilita' finanziaria delle regioni per la spesa eccedente e' stato sottolineato esplicitamente da questa Corte nella recentissima sentenza n. 356/1992, che dichiara non fondate le questioni di costituzionalita' sollevate proprio nei riguardi di alcune disposizioni dell'art. 4 della legge n. 412/1991. In essa la Corte rileva che le misure finanziarie (di riduzione delle quote del fondo sanitario a favore di alcune regioni) "sono dettate in previsione dell'emanazione del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri che dovra' indicare i livelli assistenziali, gli standards organizzativi ed i criteri di riparto del fondo nazionale"; sottolinea che l'autonomia finanziaria ed amministrativa delle regioni non puo' dirsi violata da una norma che autorizza le regioni a contrarre mutui "qualora esse intendano discostarsi dai livelli di assistenza assicurati con criteri uniformi dallo Stato"; e ancora ribadisce che "lo Stato .. trasferisce alle regioni e alle province autonome, in modo da garantire livelli uniformi di assistenza, i mezzi finanziari di cui e' in grado di disporre", il che non esclude che "sia ciascuna delle regioni medesime a colmare alcune lacune" provvedendo con risorse proprie "qualora si manifestino specifici bisogni nei rispettivi territori". Dunque, nella logica della pronuncia di questa Corte, in tanto e' lecito addossare nuovi oneri alle regioni per le spese sanitarie, in quanto lo Stato abbia provveduto a fissare e a finanziare i livelli uniformi di prestazioni (la spesa "parametrica"), onde la regione possa valutare se e come provvedere con mezzi propri a sovvenire ad esigenze ulteriori. Ora l'art. 1, quarto comma, del d.-l. n. 333/1992 dispone invece che "le misure previste dall'art. 4, quinto comma, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, si applicano, per l'anno 1992, anche in assenza di livelli obbligatori uniformi di assistenza di cui al comma 1 dello stesso articolo". La disposizione e' di significato alquanto oscuro. Le "misure" a cui si fa riferimento sono, come si e' detto, previste dalla norma richiamata "in caso di spesa sanitaria superiore a quella parametrica correlata ai livelli obbligatori uniformi": si concretano percio' nel finanziamento regionale delle spese eccedenti quella parametrica. Se dette misure "si applicano" "anche in assenza di livelli obbligatori uniformi di assistenza", non e' chiaro in che cosa esse possano concretarsi, se non nel finanziamento a carico del bilancio regionale di una quota della spesa sanitaria del tutto indeterminata, in quanto non piu' commisurata al superamento dei parametri. Ma porre a carico della regione un onere indeterminato, per il finanziamento della spesa non eccedente i parametri corrispondenti ai livelli obbligatori uniformi (non stabiliti), equivale ad addossare "ai bilanci regionali oneri di spesa che non dipendono da decisioni imputabili alle regioni": il che, come da ultimo ribadisce la sentenza n. 369/1992 di questa Corte, richiamando anche la precedente giurisprudenza, non e' legittimo, e contrasta con il "principio .. della necessaria corrispondenza tra bisogni regionali e mezzi finanziari". Ne risulta violata dunque l'autonomia finanziaria della regione, e risulta violato altresi' l'art. 81, quarto comma, della Costituzione (nonche' l'art. 27 della legge n. 468/1978 e l'art. 3, sesto comma, della legge n. 158/1990), in quanto si verrebbe ad addossare un nuovo onere ai bilanci regionali senza l'indicazione dei mezzi di copertura.
P. Q. M. La regione ricorrente chiede che la Corte voglia dichiarare l'illegittimita' costituzionale dell'art. 1, terzo e quarto comma, del d.-l. 11 luglio 1992, n. 333, in riferimento agli artt. 119, 117, 118 e 81, quarto comma, della Costituzione, nonche' in riferimento all'art. 27 della legge 5 agosto 1978, n. 468 e all'art. 3, sesto comma, della legge 14 giugno 1990, n. 158". Con legge 8 agosto 1992, n. 359, e' stata disposta ora la conversione in legge del d.-l. n. 333/1992, con alcune modificazioni, nessuna delle quali tuttavia tocca le impugnate disposizioni dell'art. 1, terzo e quarto comma. Stando alla giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 75/1967), dunque, il ricorso prodotto da questa regione contro il decreto legge si estende senz'altro alla legge di conversione, e permane l'interesse alla devisione del ricorso medesimo, il che dovrebbe rendere superflua l'impugnazione autonoma della legge di covnersione. A titolo prudenziale, peraltro, e stanti talune incertezze della dottrina circa gli effetti della conversione in legge dei decreti legge, la deducente regione ritiene di reiterare l'impugnazione delle disposizioni in questione, in relazione all'intervenuta conversione in legge del decreto-legge n. 333/1992. Le disposizioni in questione sono infatti illegittime e lesive dell'autonomia della ricorrente per le stesse ragioni, sopra riportate, esposte nel ricorso contro il decreto-legge, e che pertanto motivano pure il presente ricorso. P. Q. M. La regione ricorrente chiede che la Corte voglia dichiarare l'illegittimita' costituzionale dell'art. 1, terzo e quarto comma, del d.-l. 11 luglio 1992, n. 333, come convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, nonche' di detta legge di conversione nella parte in cui dispone la conversione in legge delle medesime disposizioni del d.-l. n. 333/1992, in riferimento agli artt. 119, 117, 118 e 81, quarto comma, della Costituzione, nonche' in riferimento all'art. 27 della legge 5 agosto 1978, n. 468 e all'art. 3, sesto comma, della legge 14 giugno 1990, n. 158. Roma, addi' 10 settembre 1992 Avv. prof. Valerio ONIDA - Avv. Gualtiero RUECA 92C1115