N. 694 ORDINANZA (Atto di promovimento) 15 luglio 1992

                                N. 694
 Ordinanza emessa il  15  luglio  1992  dal  tribunale  amministrativo
 regionale  per il Piemonte, Torino, sul ricorso proposto da Calabrese
 Giuseppe contro la U.S.S.L. Torino I
 Impiego pubblico - Decadenza automatica dal servizio dei pubblici
    dipendenti  condannati  con  sentenza  passata  in  giudicato  per
    determinati   reati  -  Irrazionalita'  della  norma  impugnata  e
    violazione  del  principio  di  eguaglianza   sotto   il   profilo
    dell'eguale  trattamento degli amministratori pubblici (solo per i
    quali originariamente era prevista la sanzione della decadenza)  e
    dei  pubblici  dipendenti  (ai  quali  la sanzione e' stata estesa
    mediante rinvio) nonostante la diversita' di rapporto con la  p.a.
    (servizio  onorario  per  i  primi  e  rapporto  di servizio per i
    secondi) - Incidenza sul diritto al lavoro,  sul  principio  della
    tutela  del  lavoro  nonche'  sui principi di imparzialita' e buon
    andamento della p.a. - Reviviscenza sotto altro nome dell'istituto
    della  destituzione   automatica   dichiarato   costituzionalmente
    illegittimo (sentenza n. 971/1988).
 (Legge 19 marzo 1990, n. 55, art. 15, commi 4-septies e 4-octies;
    legge 18 gennaio 1992, n. 16, art. 1).
 (Cost., artt. 3, 4, 35 e 97).
(GU n.46 del 4-11-1992 )
                 IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE
   Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  nel  ricorso  n. 597/1992
 proposto da Giuseppe  Calabrese,  rappresentato  e  difeso  dall'avv.
 Mirella Ferrero, con domicilio eletto presso il suo studio in Torino,
 via  S.  Agostino,  12,  ricorrente,  contro  la U.S.S.L. Torino I in
 persona dell'amministratore straordinario pro-tempore,  rappresentata
 e  difesa dagli avvocati Aldo Albanese e Massimo Carlo Capirossi, con
 domicilio eletto presso lo studio del primo in Torino, corso Vittorio
 Emanuele II, 62, resistente, per l'annullamento  della  deliberazione
 n.    421/01/92  del 16 marzo 1992, dell'amministratore straordinario
 dell'U.S.S.L.  Torino  I,  con cui viene disposta la destituzione del
 ricorrente a norma dell'art. 1, comma 4-quinquies,  septies,  octies,
 della  legge  n.  16/1992, nonche' degli atti presupposti, connessi e
 conseguenziali;
    Visto il ricorso con i relativi allegati;
    Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'U.S.S.L. Torino I;
    Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle  rispettive
 difese;
    Visti gli atti tutti della causa;
    Udita  nella  pubblica udienza del 15 luglio 1992 la relazione del
 referendario avv. Angelo Cabbricci, e uditi, altresi', l'avv. Ferrero
 per il ricorrente e l'avv. Capirossi per il resistente;
    Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
                         ESPOSIZIONE IN FATTO
    Con deliberazione 16  marzo  1992,  n.  421/01/92,  qui  impugnata
 l'U.S.S.L.  Torino  I  deliberava la destituzione (rectius decadenza)
 dall'impiego, ai  sensi  dell'art.  15,  commi  4-septies,  octies  e
 quinquies della legge 19 marzo 1990, n. 55, introdotti dalla legge 18
 gennaio  1992,  n. 16, di Giuseppe Calabrese, operatore professionale
 coordinatore-tecnico di laboratorio, in  servizio  presso  l'U.S.S.L.
 Torino  I,  a  seguito della sua definitiva condanna, con sentenza 14
 dicembre 1989, n. 3364 della Cassazione penale, sezione  sesta,  alla
 pena  di  anni  tre  e  mesi sette di reclusione e di L. 5.200.000 di
 multa, in quanto riconosciuto colpevole dei reati di cui  agli  artt.
 110,  81 cpv., 71, primo comma, 74, primo comma, n. 2, della legge 22
 dicembre 1975, n. 685 (produzione e  traffico  illecito  di  sostanze
 stupefacenti e psicotrope).
    Contro  tale  decisione  veniva proposto il ricorso in esame per i
 seguenti motivi.
    Violazione di  legge  per  erronea  applicazione  della  legge  n.
 16/1992,  in  riferimento  agli  artt.  11  delle preleggi e 25 della
 Costituzione.
    Illegittimita' derivata  dalla  incostituzionalita'  dell'art.  1,
 comma 4-quinquies ed octies, della legge n. 16/1992.
    Con  il  primo  motivo  di ricorso di afferma che il provvedimento
 impugnato, ponendo a proprio  fondamento  una  sentenza  di  condanna
 anteriore  all'entrata  in  vigore della normativa applicata, avrebbe
 attribuito a questa un'efficacia retroattiva, in  asserito  contrasto
 con  l'art.  25,  secondo  comma,  della  Costituzione - applicabile,
 secondo il ricorrente, anche in materia di sanzioni non penali  -  e,
 comunque,  con il generale principio di irretroattivita' della legge,
 di cui all'art. 11 prel., non espressamente derogato dalla  normativa
 applicata.
    Nel  secondo motivo si sostiene il contrasto delle norme applicate
 con gli artt. 3, 4, 35 e 97  della  Costituzione,  e  la  conseguente
 invalidita'   derivata   dall'atto   impugnato,   in   quanto  queste
 disporrebbero la destituzione d'ufficio (tale sarebbe in sostanza  la
 "decadenza"  di cui alla norma citata) del dipendente senza un previo
 procedimento disciplinare, eliminando, in tal modo,  la  possibilita'
 di  adeguare  la  sanzione  alla  reale  gravita'  dell'infrazione, e
 reintroducendo, di fatto, una disposizione analoga  all'art.  85  del
 t.u.   n.   3/1957,  dichiarato  costituzionalmente  illegittimo  con
 sentenza della Corte costituzionale 14 ottobre 1988,  n.  971,  nella
 parte   in   cui   non  prevedeva,  in  luogo  del  provvedimento  di
 destituzione di diritto, l'apertura e lo svolgimento del procedimento
 disciplinare.
                             D I R I T T O
    Non  manifestamente  infondata  e rilevante appare la questione di
 legittimita' costituzionale sollevata dal ricorrente.
    Per quanto attiene  anzitutto  alla  rilevanza,  sembra  a  questo
 collegio  di dover escludere che le norme de quibus siano applicabili
 esclusivamente in caso di  reati  verificatisi  successivamente  alla
 loro  entrata  in  vigore,  o per i quali sia intervenuta la condanna
 definitiva dopo tale data.
    Invero, scopo del legislatore  appare,  nella  specie,  quello  di
 precludere l'esercizio di pubblici uffici, in particolare elettivi, a
 soggetti  che  abbiano  tenuto  determinati  comportamenti criminosi,
 indicati nell'art. 1, primo comma, lettere da a) ad f) della legge n.
 16/1992.
    Le peculiari e contingenti ragioni di tutela dell'ordine  pubblico
 che   ispirano  la  nuova  normativa  conducono  a  ritenere  che  le
 disposizioni in esame trovino applicazione a tutti i soggetti i quali
 comunque si trovino nelle situazioni previste, poiche', diversamente,
 la  normativa,  concepita  per   fronteggiare   l'attuale   crescente
 estensione    di    fenomeni    criminosi   coinvolgenti   anche   le
 amministrazioni pubbliche, finirebbe per produrre utili effetti  solo
 in tempi futuri difficilmente prevedibili.
    A  cio'  non  puo'  essere  opposto  ne'  il dettato dell'art. 25,
 secondo comma, della Costituzione, non costituendo i provvedimenti di
 decadenza de quibus sanzioni penali, ne' quello dell'art.  11  prel.,
 che  ha  valore  e forza di legge ordinaria, e puo', pertanto, essere
 derogato, seppure non esplicitamente, da norme di pari  grado,  quali
 sono quelle in esame.
    Tanto  osservato  sull'applicabilita'  della legge n. 16/1992 alla
 fattispecie in esame, occorre ora procedere all'esame della questione
 di incostituzionalita' sollevata.
    Invero,  come  gia'  sopra  accennato,  la  nuova   normativa   ha
 profondamente modificato il previgente testo dell'art. 15 della legge
 n.  55/1990, che si limitava a prevedere, per i componenti elettivi o
 di  nomina  pubblica  appartenenti  ad  organi  di  enti  locali,  la
 sospensione  e la decadenza quando coinvolti in fatti di criminalita'
 di tipo mafioso.
    Attualmente, invece, si preclude  l'accesso  o  la  permanenza  in
 pubblici uffici elettivi a soggetti riconosciuti autori, sia pure con
 sentenza  non  definitiva,  di  reati  che determinano un particolare
 allarme  sociale  e  che  vanno  dai   reati   contro   la   pubblica
 amministrazione,   a   quelli   di   tipo  mafioso,  al  traffico  di
 stupefacenti e di armi: si e' cosi' introdotta,  principalmente,  una
 nutrita  serie  di  cause  di  ineleggibilita'  e  di decadenza per i
 pubblici  amministratori,  da  ricondurre  a  superiori  ragioni   di
 interesse pubblico, che giustificano, in particolare, l'automaticita'
 della decadenza stessa.
    In tale quadro, l'equiparazione dei dipendenti degli enti pubblici
 ai   pubblici  amministratori  appare  quasi  frutto  di  una  scelta
 estemporanea, di cui e' indizio assai  significativo  la  circostanza
 che  la tecnica legislativa utilizzata e' quella del semplice rinvio,
 senza che sia  stata  minimamente  valutata  la  diversa  natura  dei
 rapporti di servizio presi in considerazione, e dopo che, meno di due
 anni  prima,  con l'art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19, si era
 affermato il principio che il pubblico  dipendente  non  puo'  essere
 rimosso di diritto a seguito di condanna penale.
    Ora, e' appena il caso di sottolineare che gli amministratori sono
 ordinariamente  soggetti  legali agli enti da un rapporto di servizio
 onorario, che ha per sua natura carattere temporaneo  e  comporta  un
 compenso  di  tipo  indennitario, e sono, inoltre, responsabili delle
 fondamentali scelte politiche e di  alta  amministrazione  dell'ente,
 per cui la loro decadenza ex lege appare piu' che giustificata.
    Al  contrario,  i dipendenti sono legati all'amministrazione da un
 rapporto di tipo professionale, che viene  assunto  come  abituale  e
 normalmente  principale  attivita'  lucrativa;  inoltre, essi possono
 avere nell'ente una posizione affatto marginale.
    L'eguale trattamento di categorie cosi' differenziate di  soggetti
 appare,  ad avviso del collegio, costituire di per se' violazione del
 principio costituzionale di uguaglianza, di  cui  all'art.  3,  primo
 comma, della Costituzione, che si esprime, come ben noto, anche nella
 necessita' di differenziare la disciplina normativa di situazioni tra
 loro non assimilabili.
    Inoltre,  pare non appropriato parlare, per i pubblici dipendenti,
 nella fattispecie de quibus, di "decadenza" dal rapporto d'impiego.
    Infatti, le pur eterogenee  ipotesi  qualificate  come  tali,  cui
 l'ordinamento  ricollega  l'estinzione del rapporto d'impiego trovano
 un'elencazione e generale disciplina  nell'art.  127  del  d.P.R.  10
 gennaio 1957, n. 3 (t.u. imp. civili dello Stato).
    Orbene,  nessuna  di queste puo' essere assimilata alle ipotesi di
 decadenza previste dalla legge n.  16/1992:  i  fatti  di  reato  ivi
 elencati  corrispondono piuttosto, in gran parte, a quelli per cui il
 previgente art. 85 del d.P.R. 10 gennaio 1957,  n.  3,  prevedeva  la
 sanzione  della  destituzione di diritto, e possono, comunque, essere
 tutti ricondotti alle infrazioni disciplinari per le quali l'art.  84
 del   ripetuto   d.P.R.   n.   3/1957,   commina  la  sanzione  della
 destituzione.
    Sembra, pertanto, di poter concludere  che  la  decadenza  de  qua
 altro  non  sia  che  una destituzione ex lege irrogata al dipendente
 autore di determinati tipi di reato.
    Ma non si puo' allora mancare di ricordare nuovamente  che  l'art.
 85 precitato fu dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte
 costituzionale,  con sentenza 14 ottobre 1988, n. 971, nella parte in
 cui non prevedeva in  luogo  del  provvedimento  di  destituzione  di
 diritto, l'apertura del procedimento disciplinare.
   Rilevo'  la  Corte,  in  quell'occasione, che "l'ordinamento appare
 vieppiu' orientato, oggi, verso la  esclusione  di  sanzioni  rigide,
 avulse  da un confacente rapporto di adeguatezza col caso concreto ..
 anche  nel  campo  disciplinare   amministrativo"   aggiungendo   che
 "l'indispensabile  gradualita'  sanzionatoria, ivi compresa la misura
 massima destitutoria, importa - adunque - che le valutazioni relative
 siano ricondotte, ognora,  alla  naturale  sede  di  valutazione:  il
 procedimento  disciplinare,  in  difetto  di  che ogni relativa norma
 risulta  incoerente,  per  il  suo  automatismo,  e  conseguentemente
 irrazionale,  ex art. 3 della Costituzione" concetti, questi, gia' in
 precedenza espressi nella sentenza 19 dicembre  1986,  n.  270,  che,
 tuttavia, dichiaro' inammissibile la questione di incostituzionalita'
 sollevata.
    Cosi',  appare  in  contrasto  con gli artt. 3, primo comma, e 97,
 primo  comma,  della  Costituzione  l'automatica  cessazione  di   un
 rapporto  di  pubblico  impiego  senza  che  sia  possibile valutare,
 adeguando la sanzione  al  caso  specifico,  la  gravita'  del  reato
 commesso,  la  rilevanza di questo in rapporto con l'attivita' svolta
 dal dipendente, il vantaggio che l'amministrazione puo' ricavare  dal
 suo mantenimento in servizio.
    Inoltre,  la destituzione automatica appare altresi' incompatibile
 con l'esigenza di tutela del diritto  al  lavoro,  costituzionalmente
 riconosciuto  dagli  artt.  4  e  35 della Costituzione, e che appare
 troppo gravemente vulnerato dall'esclusione di ogni forma  di  difesa
 in  sede  amministrativa,  in  cui  possono e debbono essere presi in
 esame  elementi  ed  interessi  diversi  ed  ulteriori,   da   quelli
 considerati  dal  giudice penale, innanzi al quale, indubbiamente, il
 dipendente ha avuto  possibilita'  di  svolgere  la  propria  difesa,
 adeguata, tuttavia, alle esigenze di quel processo.
    In  conclusione,  va  riconosciuta  la  rilevanza,  ai  fini della
 decisione del ricorso e non manifesta infondatezza della questione di
 legittimita' costituzionale sopra indicata.
    Deve,  conseguentemente,  disporsi  la  sospensione  del  presente
 giudizio,  e  la  remissione  della  questione  all'esame della Corte
 costituzionale, giusta art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87.
                               P. Q. M.
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione  di
 legittimita'  costituzionale  dell'art. 15, commi 4-septies ed octies
 della legge 19 marzo 1990, n. 55, introdotti dall'art. 1 della  legge
 18  gennaio 1992, n. 16, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 4,
 35, primo comma, e 97, primo comma, della Costituzione;
    Sospende il giudizio  in  corso  e  disponde  che,  a  cura  della
 segreteria  della sezione, gli atti dello stesso siano trasmessi alla
 Corte costituzionale per la risoluzione della prospettata questione;
    Ordina che la presente ordinanza sia notificata alle parti  ed  al
 Presidente  del Consiglio dei Ministri e comunicata al Presidente del
 Senato della Repubblica e al Presidente della Camera dei deputati.
    Cosi' deciso in Torino, nella camera di consiglio addi' 15  luglio
 1992.
                        Il presidente: BARBIERI
                                  Il referendario estensore: GABBRICCI
 92C1171