N. 454 SENTENZA 4 - 17 novembre 1992

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Previdenza  e  assistenza - Pensione di inabilita' e pensione sociale
 sostitutiva  -  Ultrasessantacinquenni  -  Requisiti  reddittuali   -
 Trattamenti  differenziati  in  situazioni  identiche - Richiamo alla
 giurisprudenza  della  Corte  (sentenze  nn.    88/1992,  286/1990  e
 75/1991)  -  Legittimita'  del  ricorso alla legge di interpretazione
 autentica dell'art. 1, secondo comma, dalla legge n.  93/1988  -  Non
 fondatezza.
 
 (Legge 30 dicembre 1991, n. 412, art. 13, terzo comma)
 
 (Cost., artt. 3, 38 e 101).
(GU n.49 del 25-11-1992 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: dott. Aldo CORASANITI;
 Giudici: prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof.
    Gabriele  PESCATORE,  avv.  Ugo  SPAGNOLI,  prof.  Francesco Paolo
    CASAVOLA, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof.  Enzo
    CHELI,  dott.  Renato  GRANATA,  prof.  Giuliano  VASSALLI,  prof.
    Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nei giudizi di legittimita' costituzionale  degli  artt.  1,  secondo
 comma,  della  legge  21 marzo 1988, n. 93 (Conversione in legge, con
 modificazioni, del decreto-legge 8  febbraio  1988,  n.  25,  recante
 norme  in materia di assistenza ai sordomuti, ai mutilati ed invalidi
 civili ultrasessantacinquenni) e 13 della legge 30 dicembre 1991,  n.
 412  (Disposizioni  in  materia  di  finanza  pubblica), promossi con
 ordinanze emesse il 31 gennaio 1992 dal Pretore di Pisa e il 5  marzo
 1992  (n. 3 ordinanze) dal Pretore di Parma, rispettivamente iscritte
 ai nn. 187, 218, 219 e 220 del registro ordinanze 1992  e  pubblicate
 nella  Gazzetta  Ufficiale  della Repubblica nn. 16 e 19, prima serie
 speciale, dell'anno 1992;
    Visti gli atti di costituzione di  Barbi  Norina,  Bocchi  Lina  e
 dell'I.N.P.S.  nonche'  gli  atti  di  intervento  del Presidente del
 Consiglio dei ministri;
    Udito nell'udienza pubblica del 6 ottobre 1992 il Giudice relatore
 Ugo Spagnoli;
    Uditi gli avvocati Franco Agostini per Barbi Norina, Bocchi  Lina,
 Giancarlo  Perone  per  l'I.N.P.S.  e  l'Avvocato dello Stato Antonio
 Bruno per il Presidente del Consiglio dei ministri;
                           Ritenuto in fatto
   1. - Dovendo giudicare una domanda di  riconoscimento  del  diritto
 alla  pensione  sociale c.d. sostitutiva della pensione di inabilita'
 prevista dall'art. 19 della legge 30 marzo 1971, n. 118, proposta  in
 sede    amministrativa    nel    dicembre    1987    da   un'invalida
 ultrasessantacinquenne in possesso dei requisiti reddituali richiesti
 per il conseguimento della pensione di inabilita' civile, il  Pretore
 di Pisa, con ordinanza del 31 gennaio 1992 (r.o. n. 187 del 1992), ha
 rilevato  che  la  materia e' ora regolata dall'art. 13, comma terzo,
 della legge 30 dicembre 1991, n.  412  (Disposizioni  in  materia  di
 finanza  pubblica),  che  ha  stabilito  l'interpretazione  autentica
 dell'art. 1,  comma  secondo,  della  legge  21  marzo  1988,  n.  93
 (Conversione   in  legge,  con  modificazioni,  del  decreto-legge  8
 febbraio  1988,  n.  25,  recante  norme  in materia di assistenza ai
 sordomuti, ai mutilati ed  invalidi  civili  ultrasessantacinquenni),
 disponendo  che tale norma deve essere interpretata "nel senso che la
 salvaguardia degli effetti  giuridici  derivanti  dagli  atti  e  dai
 provvedimenti  adottati  durante  il  periodo  di vigenza del decreto
 legge 9 dicembre 1987, n. 495, resta delimitata a quelli adottati dal
 competente  ente  erogatore  delle  prestazioni".  Di  conseguenza  -
 osserva  il  giudice  a  quo  - il diritto alla pensione sociale c.d.
 sostitutiva della pensione di invalidita', per gli  invalidi  che  ne
 abbiano   fatto   domanda  dopo  il  sessantacinquesimo  anno,  resta
 salvaguardato soltanto se entro il  termine  di  vigenza  del  citato
 decreto-legge  n.  495  del 1987 - che non era stato convertito - sia
 intervenuto il  provvedimento  concessivo  dell'I.N.P.S.,  mentre  la
 salvaguardia non opera nei confronti di coloro che, entro il medesimo
 termine  abbiano proposto la domanda in sede amministrativa e neppure
 nei confronti di coloro che pur abbiano  ottenuto  il  riconoscimento
 dell'invalidita'  ad  opera  del  competente  Comitato provinciale di
 assistenza e beneficenza pubblica.
   La disposizione interpretativa  impugnata  si  pone  -  secondo  il
 giudice  a  quo - in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, nella
 parte in cui introduce un discrimine collegato non al  momento  della
 presentazione  della domanda in sede amministrativa, ma ad un evento,
 quello dell'avvenuta adozione del provvedimento di concessione ad op-
 era dell'I.N.P.S., dipende, in  sostanza,  dalla  maggiore  o  minore
 celerita'  che,  per  i  piu'  svariati motivi, puo' avere assunto la
 complessa procedura burocratica prevista per  il  riconoscimento  del
 beneficio in oggetto.
    Il  Pretore  di  Pisa  chiede  alla  Corte anche di valutare se il
 sistema oggi risultante dalla normativa denunciata non  si  ponga  in
 contrasto  con  l'art.  38 della Costituzione, secondo le indicazioni
 fornite dalla Corte stessa nelle sentenze nn. 769 del 1988 e  75  del
 1991,  per  le  quali  il  legislatore  avrebbe  dovuto provvedere ad
 uniformare il trattamento per gli invalidi e per i pensionati sociali
 c.d. puri equiparando i rispettivi requisiti di reddito.
    2. - Anche il Pretore di Parma,  con  tre  ordinanze  di  identico
 tenore  emesse il 5 marzo 1992 (r.o. nn. 218, 219 e 220 del 1992), ha
 sollevato questione di costituzionalita' del medesimo art. 13,  comma
 terzo,  della  legge  30  dicembre 1991, n. 412, con riferimento agli
 artt. 3, 38 e 101 della Costituzione.
    Il contrasto della norma  impugnata  con  gli  indicati  parametri
 costituzionali  deriva,  secondo  il  giudice a quo, dal fatto che il
 legislatore, attribuendo ad una norma sostanzialmente innovativa  una
 falsa  veste  interpretativa,  senza  alcuna  giustificazione logico-
 giuridica, invade un'area riservata al potere giurisdizionale (che  -
 si  legge  nell'ordinanza  - gia' aveva dato un'interpretazione senza
 incertezze alla norma interpretata) superando i limiti e  violando  i
 criteri  enunciati,  a  proposito  delle  leggi interpretative, dalla
 sentenza di questa Corte n. 123 del 1987.
    3. -  Nel  giudizio  davanti  alla  Corte  si  sono  costituite  -
 svolgendo   identiche  difese  e  ribadendo  le  tesi  esposte  nelle
 ordinanze di remissione - Norina Barbi, ricorrente  nel  procedimento
 instaurato  davanti al Pretore di Pisa (r.o. n. 187 del 1992), e Lina
 Bocchi, che aveva promosso davanti al Pretore di  Parma  il  giudizio
 nel  corso  del quale era stata pronunziata l'ordinanza di rimessione
 iscritta al n. 218 del 1992.
    In  particolare  la  difesa delle ricorrenti richiama l'attenzione
 sulla peculiarita' della questione in esame, che riguarda in  realta'
 -  a suo dire - una norma di interpretazione autentica di altra norma
 di interpretazione autentica (quale  era  da  considerare  l'art.  1,
 comma  secondo, della legge n. 93 del 1988, in quanto recepiva l'art.
 1 del decreto-legge n. 495 del 1987).
    4. - Nel giudizio relativo all'ordinanza del Pretore di Pisa si e'
 costituito l'I.N.P.S., chiedendo  che  la  questione  sia  dichiarata
 inammissibile o, in subordine, manifestamente infondata.
    La    difesa    dell'istituto   rileva   che   la   questione   di
 costituzionalita' sollevata in via principale dal giudice a  quo  era
 stata gia' dichiarata non fondata dalla Corte con le sentenze nn. 286
 del  1990  e 75 del 1991, che dell'art. 1, comma secondo, della legge
 n.  93   del   1988   avevano   preso   in   considerazione   proprio
 l'interpretazione poi recepita nell'art. 13, comma terzo, della legge
 n.  412  del  1991. Per quanto invece riguardava la seconda questione
 sollevata dal Pretore di Pisa -  quella  relativa  alla  legittimita'
 costituzionale  ex  art.  3  e 38 di una disciplina differenziata dei
 requisiti reddituali richiesti per la pensione di inabilita' civile e
 per la pensione sociale - l'I.N.P.S. ha rilevato che essa  era  stata
 gia' risolta con la sentenza n. 88 del 1992.
    5. - In tutti i giudizi e' intervenuto il Presidente del Consiglio
 dei  ministri,  rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello
 Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  inammissibile  o
 infondata e riservandosi di illustrare in seguito le proprie ragioni.
    6.  -  Prima dell'udienza le parti hanno depositato memorie illus-
 trative, nelle quali hanno  piu'  ampiamente  illustrato  le  ragioni
 esposte nelle precedenti difese.
                        Considerato in diritto
    1.  -  Le  ordinanze  di  rimessione  sottopongono  a questa Corte
 questioni identiche o analoghe. Pertanto i relativi  giudizi  possono
 essere riuniti e decisi con un'unica sentenza.
    2.  -  Per  rendere piu' agevolmente comprensibili i termini delle
 questioni  sottoposte  all'esame  della   Corte,   appare   opportuno
 premettere,  ancora  una  volta,  una  sintesi sommaria della vicenda
 legislativa che ha preceduto l'emanazione della norma impugnata.
    L'art. 26 della legge 30 aprile 1969, n. 153 istitui' la  pensione
 sociale  in favore dei cittadini ultrasessantacinquenni sprovvisti di
 reddito. Per aver diritto al trattamento occorreva che il reddito  di
 cui  il  cittadino  ultrasessantacinquenne  godeva  non superasse due
 distinti livelli,  il  primo  dei  quali  riferito  al  solo  reddito
 personale del soggetto, il secondo al reddito cumulato con quello del
 suo coniuge.
    Nel  dettare  una  nuova disciplina delle provvidenze a favore dei
 mutilati e invalidi civili, la legge 30 marzo 1971, n. 118 previde la
 concessione  -  a  carico  dello  Stato  e  a  cura   del   Ministero
 dell'interno - di una pensione di invalidita' ai mutilati ed invalidi
 civili  totalmente  inabili  al lavoro (art. 12) e la corresponsione,
 nei periodi di non collocamento al lavoro, di un assegno  mensile  ai
 mutilati ed invalidi civili la cui capacita' lavorativa fosse ridotta
 in misura superiore a due terzi (art. 13).
    Le  condizioni  economiche  richieste  per  l'assegnazione di tali
 prestazioni erano le stesse stabilite per il  diritto  alla  pensione
 sociale.  Correlativamente, al compimento del sessantacinquesimo anno
 di eta' cessava la corresponsione della  pensione  di  invalidita'  o
 dell'assegno  mensile  e,  in  sostituzione  di  tali  prestazioni, i
 mutilati  e  gli  invalidi  civili  venivano  ammessi  (art.  19)  al
 godimento  della  pensione  sociale  (alla quale essi avrebbero avuto
 comunque diritto in ragione della loro eta' e delle  loro  condizioni
 economiche).
    Con successivi interventi legislativi (a partire dalla legge n. 29
 del  1977 e dal decreto-legge n. 663 del 1979, convertito nella legge
 n. 33 del 1980), le condizioni reddituali richieste per  la  pensione
 di  inabilita'  e  per  l'assegno mensile vennero rese diverse e meno
 restrittive rispetto a quelle previste per il diritto  alla  pensione
 sociale;  in  particolare  venne  eliminata la capacita' ostativa del
 reddito del coniuge, quale che ne fosse il livello.
    Ne conseguiva che la pensione sociale  sostitutiva,  prevista  dal
 citato  art.  19  della  legge  n.  118  del  1971,  veniva ad essere
 corrisposta anche a soggetti (i titolari di pensione di inabilita'  e
 di assegno mensile) che potevano non essere in possesso dei requisiti
 economici    valevoli    per    la    generalita'    dei    cittadini
 ultrasessantacinquenni.
    Di qui il quesito se questo vantaggio spettasse soltanto a  coloro
 che  al  compimento  dell'eta'  di  sessantacinque  anni,  erano gia'
 titolari di pensione di inabilita' o di  assegno  mensile  ovvero  si
 estendesse  anche  a  coloro  la  cui  inabilita'  al  lavoro venisse
 riconosciuta  con  decorrenza  successiva  al  compimento  del   loro
 sessantacinquesimo anno.
    La  prassi amministrativa adotto', in un primo tempo, la soluzione
 piu' aperta, ma fu smentita e  quindi  arrestata  da  un  parere  del
 Consiglio  di Stato e dalla giurisprudenza della Corte di cassazione,
 secondo cui coloro ai  quali  venisse  riconosciuta  l'inabilita'  al
 lavoro con decorrenza successiva al compimento del sessantacinquesimo
 anno  potevano  conseguire  la  pensione  sociale soltanto secondo la
 normativa generale e quindi solo se in possesso dei piu'  restrittivi
 requisiti    reddituali    previsti    per    tutti    i    cittadini
 ultrasessantacinquenni.
    In questa situazione, intervenne il decreto-legge 9 dicembre 1987,
 n. 495 stabilendo invece (art. 1, comma primo) che "Gli artt. 10 e 11
 della legge 18 dicembre 1973, n. 854, devono intendersi nel senso che
 i sordomuti e i mutilati ed invalidi civili,  anche  se  siano  stati
 riconosciuti  tali  a  seguito  di  istanza  presentata alle apposite
 commissioni sanitarie dopo il compimento dei 65 anni  di  eta',  sono
 ammessi al godimento della pensione sociale a carico del fondo di cui
 all'articolo 26 della legge 30 aprile 1969, n. 153, in base ai limiti
 di reddito stabiliti per l'erogazione delle prestazioni economiche da
 parte   del  Ministero  dell'interno  alle  rispettive  categorie  di
 appartenenza".
    Il decreto suddetto non venne peraltro convertito in  legge.  Alla
 scadenza  del  suo termine di efficacia ne venne emanato un altro, il
 decreto-legge 8 febbraio 1988, n. 25, il cui  art.  1,  comma  primo,
 disponeva   che   l'I.N.P.S.   era  autorizzato  a  corrispondere  le
 prestazioni gia' liquidate in favore degli invalidi civili  anche  se
 erano    stati    riconosciuti    tali   dopo   il   compimento   del
 sessantacinquesimo anno di eta'. Il comma secondo disponeva poi,  che
 l'istituto  avrebbe  dovuto  provvedere anche alla liquidazione della
 pensione  sociale  "sostitutiva"  in  favore  degli  invalidi  civili
 riconosciuti  tali dopo il compimento del sessantacinquesimo anno, ma
 cio' limitatamente ai casi in cui prima dell'entrata  in  vigore  del
 decreto  fosse  pervenuta  all'I.N.P.S. la delibera di riconoscimento
 dello stato di invalidita'  da  parte  del  Comitato  provinciale  di
 assistenza  e  beneficenza  pubblica.  L'operativita' di quest'ultima
 disposizione era  peraltro  circoscritta  e  condizionata  dal  comma
 terzo,  secondo  cui la corresponsione delle prestazioni liquidate ai
 sensi del comma secondo avrebbe dovuto  avvenire  "nei  limiti  delle
 disponibilita' del proprio bilancio".
    L'articolo  unico della legge di conversione del 21 marzo 1988, n.
 93,  soppresse  i  commi  secondo  e  terzo  ora  riportati,  sicche'
 acquisto' efficacia definitiva il solo comma primo. Ma l'art. 1 della
 legge  di  conversione  conteneva  anche  un secondo comma, che cosi'
 stabiliva "Restano validi gli atti ed i provvedimenti adottati e sono
 fatti salvi gli effetti prodotti ed i rapporti giuridici sorti  sulla
 base del decreto-legge 9 dicembre 1987, n. 495".
    L'interpretazione  di  tale  disposizione  dette luogo a contrasti
 giurisprudenziali sia in sede di merito che nell'ambito della  stessa
 Sezione  lavoro  della  Corte  di  cassazione.  Secondo la prima tesi
 interpretativa la disposizione stessa doveva essere  considerata  una
 mera  clausola  di  stile,  sicche'  la  sanatoria  era da intendersi
 limitata - secondo l'esplicita statuizione dell'art. 1, comma  primo,
 del  decreto-legge  convertito  e  in  conformita'  alla volonta' del
 legislatore, quale risultante con chiarezza dagli atti parlamentari -
 ai casi in cui prima dell'8 febbraio  1988  fosse  stato  emanato  il
 provvedimento di liquidazione ad opera dell'I.N.P.S.. La seconda tesi
 interpretativa, invece, sosteneva che la volonta' del legislatore non
 si  era tradotta in un testo normativo con essa compatibile e che non
 era legittimo dare al comma secondo dell'art. 1, della  legge  n.  93
 del  1988  un'interpretazione  tale da rendere la disposizione stessa
 superflua (perche' di contenuto  coincidente  con  quello  del  comma
 primo, dell'art. 1 del decreto-legge convertito) e come tale priva di
 significato  precettivo:  doveva  quindi ritenersi - in ragione della
 disposta salvezza  dei  "rapporti  giuridici  sorti  sulla  base  del
 decreto-legge  9  dicembre  1987, n. 495" - che avessero diritto alla
 pensione  sociale  sostitutiva  anche  tutti  gli   invalidi   civili
 ultrasessantacinquenni  che  avevano  presentato  domanda  fino  allo
 scadere del periodo di vigenza del decreto-legge n. 495 del 1987.
    In ragione del perdurare di  tale  contrasto,  la  Sezione  lavoro
 della  Cassazione,  con  ordinanza  n. 712 del 7 settembre 1991, dopo
 aver illustrato con puntualita' termini e ragioni del dissenso,  dis-
 pose  la  rimessione  degli  atti  al  Primo  Presidente  della Corte
 affinche' valutasse l'opportunita' di investire le Sezioni Unite  per
 la risoluzione di tale questione di diritto.
    E'  invece  intervenuto nuovamente il legislatore: l'art. 13 della
 legge finanziaria del 30 dicembre 1991, n. 412, stabilisce  al  comma
 terzo  che  "L'articolo 1, comma 2, della legge 21 marzo 1988, n. 93,
 si interpreta nel senso che la salvaguardia degli  effetti  giuridici
 derivanti  dagli atti e dai provvedimenti adottati durante il periodo
 di  vigenza  del  decreto-legge  9  dicembre  1987,  n.  495,   resta
 delimitata  a  quelli  adottati  dal  competente ente erogatore delle
 prestazioni".
    E'   quest'ultima   la   disposizione  che  i  giudici  remittenti
 sottopongono al vaglio di questa Corte.
    3. - Secondo il Pretore di  Pisa  la  norma  impugnata  violerebbe
 l'art.  3  della  Costituzione  a causa del carattere irrazionale del
 discrimine da essa  stabilito.  La  norma,  infatti,  limiterebbe  la
 salvezza  del  diritto  alla  pensione  sociale  sostitutiva (per gli
 invalidi che  avevano  presentato  domanda  dopo  il  compimento  del
 sessantacinquesimo  anno  di  eta') alle sole ipotesi in cui entro il
 termine di vigenza del decreto-legge n. 495 del 1987, non convertito,
 fosse intervenuto il  provvedimento  di  liquidazione  dell'I.N.P.S.,
 escludendo,  quindi  tutte  le altre ipotesi in cui entro il medesimo
 termine, fosse stata presentata la domanda alla competente  autorita'
 amministrativa   (domanda   che,  in  presenza  delle  condizioni  di
 invalidita' e  di  reddito  richieste  dalla  legge,  rappresenta  il
 momento perfezionativo della fattispecie costitutiva del diritto alla
 prestazione).  In tale modo, rileva il giudice a quo, la salvaguardia
 del diritto e' stata collegata ad un elemento  variabile  e  casuale,
 quale la maggiore o minore celerita' del procedimento amministrativo,
 del tutto inidoneo a giustificare il discrimine cosi' operato.
    La  questione e' stata gia' sottoposta a questa Corte negli stessi
 termini e con gli stessi argomenti, pur se con  riferimento  all'art.
 1,  comma primo, del decreto-legge n. 25 del 1988, ovvero all'art. 1,
 comma secondo,  della  legge  21  marzo  1988,  n.  93  (sulla  base,
 peraltro,  di un'interpretazione della normativa suddetta coincidente
 con  quella  poi  recepita  dal   legislatore   con   la   norma   di
 interpretazione autentica qui impugnata).
    La  Corte,  con le sentenze nn. 88 del 1992, 286 del 1990 e 75 del
 1991, dichiaro' non fondata la questione stessa.
    Il Pretore di Pisa, che pure non prospetta profili sostanzialmente
 nuovi rispetto a quelli gia' vagliati in tali pronunzie, ritiene  che
 la  questione  sia  tuttavia  meritevole  di  riesame  in ragione del
 rilievo che la regola posta dal decreto-legge n. 495 del 1987,  lungi
 dal  costituire  una  mera  sanatoria  di  una  prassi amministrativa
 illegittima, come la Corte aveva ritenuto,  rappresentava  invece  la
 conferma  legislativa  della  legittimita' di tale prassi, posto che,
 secondo la legge n. 118 del 1971, la pensione di inabilita' competeva
 effettivamente anche a chi  avesse  presentato  la  domanda  dopo  il
 sessantacinquesimo anno. Infatti - osserva il Pretore - mentre l'art.
 13  della  legge  del  1971  prevedeva  espressamente  che il diritto
 all'assegno mensile spettasse ai cittadini  parzialmente  inabili  di
 eta'  compresa  tra  i  18  e i 65 anni, l'art. 12 non contemplava il
 limite del sessantacinquesimo anno  per  il  diritto  degli  invalidi
 totali  alla  pensione  di  invalidita', essendo soltanto prevista la
 trasformazione di quest'ultima  in  pensione  sociale  ai  sensi  del
 successivo art. 19.
    La  Corte  osserva  che l'interpretazione sostenuta dal Pretore di
 Pisa si pone in contrasto con quella reiteratamente  affermata  dalla
 Corte  di  cassazione  nell'esercizio della funzione nomofilattica ad
 essa assegnata dall'ordinamento (per tutte, tra le ultime, Cass.,  24
 aprile  1991,  n.  4488 e Cass., 9 giugno 1989, n. 2808) e cio' senza
 che il giudice prenda in  considerazione  gli  argomenti  ermeneutici
 esposti dalla Cassazione stessa a sostegno del proprio indirizzo.
    In  queste  condizioni,  l'assunto  interpretativo  enunciato  dal
 giudice a quo non puo' costituire una ragione  adeguata  per  indurre
 questa Corte a mutare le proprie decisioni.
    La questione deve quindi essere dichiarata non fondata.
    4.  -  Il Pretore di Pisa chiede inoltre che la Corte valuti se il
 sistema oggi risultante dalla normativa denunziata non  si  ponga  in
 contrasto  con  l'art.  38 della Costituzione, secondo le indicazioni
 fornite da questa Corte, con le sentenze nn. 769 del 1988  e  75  del
 1991, circa la necessita' di porre rimedio all'incoerenza del sistema
 dei    requisiti    reddituali    fissati   per   il   conseguimento,
 rispettivamente, dei  trattamenti  di  inabilita'  e  della  pensione
 sociale,   mediante  un  appropriato  riequilibrio  che  realizzi  un
 adeguato contemperamento degli interessi in gioco.
    La questione - sulla quale, peraltro, questa Corte si e'  gia'  di
 recente  pronunziata  con  la  sentenza n. 88 del 1992 - e' in questa
 sede infondata, posto che la disciplina dei requisiti reddituali  per
 il conseguimento delle prestazioni suddette non ha la sua fonte nella
 norma impugnata.
    5. - Il Pretore di Parma ritiene invece che la norma impugnata sia
 in  contrasto  con  gli  artt. 3, 38 e 101 della Costituzione, per il
 fatto di non aver effettivamente fornito un'interpretazione autentica
 dell'art. 1, comma secondo, della legge n. 93 del 1988, avendo invece
 disposto,  con  effetto  retroattivo,  una   disciplina   innovativa,
 difforme rispetto a quella risultante dall'interpretazione che, senza
 possibilita' di incertezze, doveva essere data ed era stata data alla
 norma  del  1988.  Il  contrasto  con  le norme costituzionali citate
 deriverebbe quindi dall'uso irrazionale che  il  legislatore  avrebbe
 fatto, in questo caso, del potere di emanare leggi di interpretazione
 autentica.
    Anche tale questione deve ritenersi non fondata.
    A  sostegno  della  denunzia,  il  giudice  a quo, richiama quanto
 affermato, in tema di interpretazione autentica,  dalle  sentenze  di
 questa  Corte  nn. 123 del 1987, 233 del 1988, 283 del 1989 e 155 del
 1990.
    La  censura  e'  peraltro  contraddetta  proprio   dal   principio
 enunciato  ripetutamente  da  questa Corte (da ultimo con le sentenze
 nn. 155 del  1990  e  233  del  1988)  secondo  cui  va  riconosciuto
 carattere   di   interpretazione   autentica   -   per   quanto  tale
 qualificazione   possa   rilevare   in   ordine   alla   legittimita'
 costituzionale  della  norma  -  soltanto  ad una legge che, fermo il
 tenore testuale della norma interpretata, ne chiarisce il significato
 normativo ovvero ne  privilegia  una  tra  le  tante  interpretazioni
 possibili.
    La norma impugnata corrisponde invero esattamente a tali caratteri
 ed  il ricorso all'interpretazione autentica appare giustificato, nel
 caso in esame, anche secondo le piu' restrittive concezioni circa  la
 legittimita' costituzionale di interventi legislativi di tale natura.
    Non  spetta  alla  Corte, in questa sede, accertare quale fosse la
 lettura piu' plausibile dell'art. 1, comma secondo, della legge n. 93
 del 1988. Ma e' sufficiente l'ordinanza della Cassazione n.  712  del
 1991  (di  cui  gia' si e' fatto cenno sopra), per rendere palese che
 della norma suddetta era possibile una duplicita' di interpretazioni,
 tanto  che  essa  aveva  dato  luogo  a  contrasti  giurisprudenziali
 nell'ambito  della  stessa Sezione lavoro della Cassazione. Non solo,
 ma la tesi che sosteneva la soluzione interpretativa opposta a quella
 poi autoritativamente adottata dal legislatore con la norma impugnata
 assumeva   di   basarsi   sul  vincolo  derivante  dal  tenore  della
 disposizione, ma riconosceva che esso era il frutto  di  una  carente
 tecnica legislativa, tale da aver impedito al legislatore di tradurre
 in norma la propria volonta' effettiva.
    In  questa  situazione,  non puo' non riconoscersi come pienamente
 legittimo  il  ricorso  alla  legge  di   interpretazione   autentica
 dell'art.  1,  comma  secondo, della legge n. 93 del 1988, al fine di
 evitare  che  si  determini,  contro  la   volonta'   effettiva   del
 Parlamento,  una  integrale  convalida, sia pure solo per il passato,
 dell'efficacia normativa di un decreto che il Parlamento  stesso  non
 aveva inteso convertire in legge.
    Ne'  puo' sostenersi che tale intervento legislativo sia in questo
 caso  irrazionale  in  relazione  al  fatto  che  la   stessa   norma
 interpretata era a sua volta una norma interpretativa. E' sufficiente
 osservare,  al  riguardo,  che  la  norma autenticamente interpretata
 dall'impugnato art. 13, comma terzo, della legge n. 412 del  1991  e'
 rappresentata dall'art. 1, comma secondo, della legge n. 93 del 1988,
 che non e' norma di interpretazione autentica.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  non  fondate  le questioni di legittimita' costituzionale
 dell'art. 13, terzo comma, della  legge  30  dicembre  1991,  n.  412
 (Disposizioni  in materia di finanza pubblica), sollevate dal Pretore
 di Pisa con ordinanza del 31 gennaio 1992 e dal Pretore di Parma  con
 tre ordinanze del 5 marzo 1992.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 4 novembre 1992.
                       Il Presidente: CORASANITI
                        Il redattore: SPAGNOLI
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 17 novembre 1992.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
 92C1277