N. 746 ORDINANZA (Atto di promovimento) 27 dicembre 1991- 16 novembre 1992
N. 746 Ordinanza emessa il 27 dicembre 1991 (pervenuta alla Corte costituzionale il 16 novembre 1992) dal tribunale di Reggio Calabria nel procedimento penale a carico di Gelli Licio ed altri Processo penale - Fase preliminare - Misure coercitive (nella specie: sequestro) - Riesame del tribunale della liberta' - Lamentata eccessiva esiguita' dei termini (dieci giorni), congiunta alla mancata disponibilita', per i giudici, del fascicolo - Violazione dei principi di "equo giudizio", di buona organizzazione del lavoro giudiziario, nonche' di adeguata motivazione dei provvedimenti giudiziari - Irragionevolezza. (C.P.P. 1988, artt. 309, nono e decimo comma, e 324, settimo comma). (Cost., artt. 3, 24, 97 e 111, primo comma).(GU n.50 del 2-12-1992 )
IL TRIBUNALE Letti gli atti del procedimento n. 437/90 r.g.n.r. e n. 1148/91 r.g.i.p. relativo a Pesce Giuseppe + 104 indagati; Lette le richieste di riesame proposte da Gelli Licio, Catambrone Nicola, Martino Domenico e La Ruffa Francesco (proc. t.l. n. 132/91, 133/91, 135/91 e 137/91) avverso i decreti di sequestro emessi dalla procura della Repubblica presso il tribunale di Palmi, propongono questione di legittimita' costituzionale in relazione agli artt. 309, nono e decimo comma, e 324, settimo comma del c.p.p. per violazione degli artt. 97, primo e secondo coma, 24, 111, primo comma, e 3 della Costituzione. Essi ritengono la q.l.c. relativa al comb. disp. degli artt. 309 e 324 del c.p.p. rilevante e non manifestamente infondata e dunque emettono la presente ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale, ordinando che alla stessa siano trasmessi tutti gli atti del processo e che quest'ultimo venga sospeso in attesa della relativa decisione. 1. - La questione appare innanzitutto rilevante, in quanto effettivamente - come prescrive l'art. 23, secondo comma, della legge n. 87/1953 - il particolare giudizio che compete al presente tribunale del riesame di Reggio Calabria, nella concreta fattispecie esaminata (i cui atti sono doverosamente trasmessi in allegato alla presente ordinanza), non puo' essere del tutto definito indipendentemente dalla risoluzione della q.l.c. sollevata. I tempi previsti dagli artt. 324 e 309 del c.p.p., secondo cui rispettivamente "si applicano le disposizioni dell'art. 309, nono e decimo comma" e "entro dieci giorni dalla ricezione degli atti il tribunale, se non deve dichiarare l'inammissibilita'della richiesta, annulla, riforma o conferma l'ordinanza oggetto del riesame .. Se la decisione sulla richiesta di riesame non interviene entro il termine prescritto, l'ordinanza che dispone la misura coercitiva perde immediatamente efficacia", appaiono, nel caso di processi con un notevole numero di indagati - qual'e' quello della fattispecie esaminata - oggettivamente ridotti e hanno reso dunque possibile, nel processo a quo, solo il giudizio, relativamente piu' urgente ed agevole perche' riguardante soggetti sottoposti a custodia cautelare, relativo a 58 su 62 indagati. Non viene emesso alcun provvedimento, infatti, per i ricorsi proposti da Gelli Licio, Catambrone Nicola, La Ruffa Francesco e Martino Domenico (non sottoposti a misura coercitiva personale) in attesa della decisione della Corte adita. Quanto ai quattro ricorrenti da ultimo ricordati e' doveroso osservare che: a) stante la singolare complessita' delle quattro particolari situazioni processuali considerate, relative a persone non sottoposte a custodia cautelare; b) visti l'esiguo organico dei magistrati (n. 4 non a tempo pieno in quanto componenti la seconda sezione penale del tribunale di Reggio Calabria) e il limitato numero di personale ausiliario disponibile (n. 2) in forza a detto tribunale della liberta' di Reggio Calabria, esso e' riuscito ad espletare, nel caso esaminato, gran parte delle proprie funzioni, ma non tutte proprio a causa di ridottissimi e, per questo, a giudizio di questo collegio, presumibilmente illegittimi, tempi concessi dagli artt. 324 e 309 del c.p.p. Senz'altro non potrebbe ragionevolmente sostenersi, del resto, che il ridotto numero di ricorsi per i quali non e' stata adottata la relativa decisione di riesame (4 su 62), faccia venir meno la ragion d'essere, idest l'utilita' effettiva o influenza determinante o rilevanza, che l'autorevole decisione dei giudici ad quem (Corte costituzionale) puo' generare sul processo a quo. Non e', infatti, la mera "quantita'" condizione di esistenza della rilevanza quale fattore logico-giuridico necessario all'espletamento del processo a quo, il quale - nel nostro caso - non puo' essere interamente risolto senza l'ausilio della Corte costituzionale. Ed e' questo, senza ombra di dubbio, cio' che conta. Ne' puo' imputarsi - sia detto per inciso - al presente tribunale della liberta' una qualsivoglia forma, pur lieve, di negligenza, cui far risalire, direttamente o indirettamente, il mancato giudizio circa la posizione dei quattro indagati sopra menzionati. Per converso, e' opportuno sottolineare che - negli esigui termini oggettivi concessi dai cit. artt. 324 e 309 del c.p.p. (evidentemente previsti per "altri" tipi di procedimento, certo diversi dal presente e da simili indagini preliminari - detto tribunale reputa di aver compiutamente soddisfatto ogni suo compito per quanto materialmente possibile. D'altronde il rinvio operato dal p.m. a tutti gli atti del procedimento Pesce + 104 impone un'attenta disamina del fascicolo per verificare quali fossero le esigenze poste a base dei decreti di sequestro. Solo un oculato ed opportuno intervento, del Parlamento o della Corte, sul testo legislativo puo' risolvere simili inevitabili disfunzioni. Sicche' non mette conto di dubitare della rilevanza nella fattispecie dell'auspicato, necessario intervento della Corte costituzionale. 2. - La q.l.c. sembra poi senz'altro non manifestamente infondata in relazione agli artt. 24, 97, primo e secondo comma, e 111, primo comma, e 3 della Costituzione. Quanto all'art. 24 della Costituzione non ha dubbio che proprio la delicatissima funzione svolta dal tribunale della liberta' esige una particolare, accurata opera di esame, senza la quale verrebbero certamente alterati alcuni fondamentali diritti dei cittadini, non ultimo appunto quello di un "equo giudizio" che impedisca, per quanto e' possibile secondo l'ordinaria diligenza, il verificarsi di errori giudiziari, come previsto dall'art. 24 della Costituzione. A tal fine occorre considerare che la nuova legge processuale ha attribuito esclusivamente al giudice delle indagini preliminari il potere di disporre le misure coercitive a carico degli indagati precludendo analoga facolta' al pubblico ministero. Ne deriva che le ragioni di "celerita'" cui la norma (secondo la stessa redazione del progetto preliminare) dovrebbe sovrintendere sono in gran parte attenuate dalla deliberazione operata da un giudice che per definizione e' terzo fra accusa e difesa. Pare a questo collegio che interesse dell'indagato sia invece quello di conseguire una decisione del giudice del riesame, certo il piu' possibile rapida, ma prim'ancora - per evidenti ragioni di garanzia costituzionale (art. 24) - accuratamente ponderata. Orbene, e' condizione minima di qualsivoglia decisione giudiziaria che ambisca ad essere tale (accuratamente ponderata) la disponibilita' del tempo sufficiente entro cui esaminare le complesse deduzioni svolte dall'accusa e dalla difesa. Cio' soprattutto quando, come in questo caso, ci si trova innanzi a procedimenti con decine di misure cautelari e ad innumerevoli articolazioni difensive che - lo ribadiamo - e' dovere dei giudici prendere in esame. In questo quadro normativo, il termine di 10 giorni e' meramente teorico. Un'attenta lettura della norma, infatti, evidenzia che il termine in questione decorre dalla "ricezione degli atti" presso la cancelleria del tribunale del riesame, L'ottavo comma del cit. art. 309 sancisce, com'e' noto, che "l'avviso della data fissata per l'udienza e' comunicata al pubblico ministero e notificata all'imputato e al suo difensore almeno tre giorni prima". Cio' comporta che, pervenuti gli atti, la cancelleria debba immediatamente procedere (sempre che disponga dei relativi dati) agli avvisi di rito, che in casi come questo, vedono quali destinatari decine di imputati e difensori, sparsi su tutto il territorio nazionale e detenuti presso innumerevoli case circondariali. Talvolta anzi, e cio' si e' verificato nel corso del presente procedimento, gli indagati vengono tradotti dopo gli interrogatori in altre carceri e provvedono a nominare, com'e' loro diritto, altri difensori, cui si aggiungono quelli eventualmente nominati dai parenti ai sensi dell'art. 96, terzo comma, del c.p.p. Ne deriva una serie di complesse operazioni di individuazione dei luoghi di detenzione degli indagati e dei domicili dei difensori che del tutto plausibilmente "erode" in modo cospicuo il termine cogente di dieci giorni. Inoltre, lo stesso art. 309, ottavo comma, ultimo inciso, sancisce che "fino al giorno dell'udienza gli atti restano depositati in cancelleria", con conseguente preclusione per i componenti del collegio di riesame di prendere visione e di curarne lo studio. In definitiva, il termine residuo (quattro, cinque giorni) rispetto a quello assegnato, se di regola - in caso di processi con un numero esiguo di imputati e con posizioni processuali non complesse - forse potrebbe dirsi adeguato, senz'altro laddove tali condizioni ottimali non si realizzino, appare lesivo oltre che delle norme costituzionali appresso indicate, specificatamente del diritto di difesa ex art. 24 per come sopra esplicitato ("equo giudizio"). Quanto alla violazione dell'art. 97 della Costituzione, l'organizzazione del lavoro giudiziario in siffatte condizioni non puo' dirsi certo rispondente al precetto, costituzionalmente obbligatorio - com'e' noto - anche per i magistrati (oltre che per il personale dipendente dal Ministero di grazia e giustizia), del buon andamento (v. sentenza 7 maggio 1982, n. 86, e, soprattutto, sentenza 19 gennaio 1989, n. 18). E' appena il caso di ricordare le disfunzioni amministrative teste' accennate connesse al regime della comunicazione e della notificazione degli avvisi in termini cosi' angusti, la cui inosservanza comporta la nullita' del procedimento camerale e (per l'impossibilita' di una nuova fissazione in tempi utili) la conseguente perenzione della misura cautelare ex art. 309, ultimo comma. Ma e' soprattutto la violazione dell'art. 111, primo comma, secondo cui "Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati", che avvalora il sospetto di incostituzionalita' del combinato disposto degli artt. 309 e 324 del c.p.p., e questo sotto due diversi profili. A) Gli artt. 309 e 324 del c.p.p. consentono che la richiesta di riesame non sia accompagnata dalla contestuale indicazione dei motivi che la sorreggono e cio' per l'evidente ragione che essendo consentita la proposizione del ricorso personalmente anche all'indagato questi puo' legittimamente non essere a conoscenza delle ragioni di diritto che inficiano la misura cautelare. Ne deriva che solo all'udienza camerale il collegio e' investito della cognizione dei "motivi" di riesame che spesso in processi molto complessi (com'e' questo) esigono una minuziosa ricognizione degli atti processuali. Basti pensare che in un procedimento, qual'e' quello in corso, sono state effettuate, nell'arco di due anni, oltre cinquemila intercettazioni telefoniche e che, ove tutti gli indagati, deducessero l'inesistenza dei relativi decreti di autorizzazione o la loro irregolarita', sarebbero in condizioni di "paralizzare" di fatto qualunque procedimento (v., nella fattispecie qui considerata, la difesa dell'imputato Pesce Giuseppe). Sembra evidente che la facolta', certo legittima, di proporre in udienza i motivi del riesame ostacoli praticamente l'obbligo costituzionalmente ineludibile di motivazione dell'ordinanza collegiale, soprattutto in punto di liberta' personale dell'imputato e di disponibilita' del suo patrimonio. B) Gli artt. 309 e 324 del c.p.p., accogliendo una prassi ormai invalsa sotto la vigenza del codice del 1930 (v. relazione al progetto preliminare, pp. 77 e segg.) consentono che "il tribunale puo' annullare il provvedimento impugnato o riformarlo in senso favorevole all'imputato anche per motivi diversi da quelli enunciati ovvero puo' confermarlo per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione del provvedimento stesso". Il che significa che il tribunale, ricevuti gli atti il giorno dell'udienza (art. 309, ottavo comma, e 324, sesto comma) e quindi a pochi giorni di distanza dalla scadenza della decade, deve - o dovrebbe - prendere visione dell'intero incartamento processuale, nel nostro caso circa 11.000 fogli, come la Corte potra' constare, al fine di ricavarne eventuali argomenti a sostegno delle ragioni dell'accusa o della difesa. Sembra di poter dire, a proposito, che - al di la' della piu' che plausibile violazione dell'art. 111 della Costituzione (non potendosi certo, rebus sic stantibus, pienamente ottemperare all'obbligo costituzionale di motivazione) - possa ravvisarsi, nella fattispecie, addirittura una sostanziale, per dir cosi', "incoerenza" fra gli artt. 324 e 309 del codice di rito, visto che i mezzi apprestati (essenzialmente temporali) sono evidentemente inadeguati ai fini pur vincolanti prescritti (esame delle motivazioni dedotte e rinvenimento di altre presenti agli atti ed ignote alle parti). Puo' quindi prospettarsi, sotto il profilo esaminato, l'esistenza di una sostanziale "irragionevolezza" del citato combinato disposto per incongruenza fra mezzi e fini, sicche' par giusto invocare pure la violazione dell'art. 3 della Costituzione. Da ultimo, e' opportuno segnalare il significativo precedente di questa autorevole Corte - sentenza 2 febbraio 1971, n. 11 - con cui si e' dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 446 del c.p.p. 1930 "limitatamente alla parte in cui esclude che l'imputato possa chiedere e il giudice possa concedere un termine maggiore di cinque giorni per preparare la difesa". Ora, ad avviso di questo collegio, il caso presenta forti analogie col presente rimesso, giacche' anche quel termine era dato come "improrogabile" (primo comma, ultimo inc.) ed era volto a disciplinare un caso, sotto certi aspetti, assimilabile all'attuale: ovverosia la contestazione suppletiva in udienza. Altrimenti detto: la necessita' di un'attivita' difensiva in relazione a fatti "improvvisi" dedotti dall'accusa e non compresi nel capo di imputazione (nel nostro caso: i motivi di udienza, al pari forse di ogni altro motivo, visto che il collegio non ha contezza dell'incartamento sino al giorno dell'udienza). Infine, ancorche' certo non competa a questo collegio prospettare una soluzione al dubbio di costituzionalita' ne' tantomeno esprimere il relativo giudizio sulla q.l.c., verosimilmente e' da supporre e da auspicare che quanto meno una diversa decorrenza della decade assegnata (sostituendo alla formula "dalla ricezione degli atti" per esempio quella "dall'audienza"), possa salvaguardare il rispetto dei principi di costituzionalita' qui richiamati.
P. Q. M. Ordina la sospensione del procedimento relativo ai ricorsi proposti da Gelli Licio, Laruffa Francesco, Martino Domenico e Catambrone Nicola; Dispone che, a cura della cancelleria, si provveda alla trasmissione di tutti gli atti relativi al procedimento denominato Pesce Giuseppe + 104 alla Corte costituzionale; Ordina la notifica alle parti in causa ed al pubblico ministero, nonche' al Presidente del Consiglio dei Ministri e la comunicazione ai Presidenti delle due Camere del Parlamento; Dispone, infine, la pubblicazione della presente ordinanza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana. Reggio Calabria, addi' 27 dicembre 1991 Il presidente della seconda sezione penale: CAPUTI 92C1306