N. 476 SENTENZA 14 - 22 dicembre 1992

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 Processo penale - Dichiarazioni rese dall'imputato alla p.g. con
 l'assistenza del difensore - Dibattimento - Lettura - Mancata
 previsione - Non irragionevolezza della scelta legislativa - Non
 fondatezza.
 
 (C.P.P., art. 513, primo comma).
 
 (Cost., art. 3).
(GU n.54 del 30-12-1992 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
 Giudici: dott. Francesco GRECO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo
    SPAGNOLI, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi
    MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA,  prof.  Francesco
    GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 513, primo
 comma, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza  emessa
 il  20 novembre 1991 dal Tribunale di Vicenza nel procedimento penale
 a carico di Bernasconi  Mario  ed  altro,  iscritta  al  n.  128  del
 registro  ordinanze  1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
 Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell'anno 1992;
    Visto l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri;
    Udito  nella  camera  di consiglio del 19 novembre 1992 il Giudice
 relatore Mauro Ferri;
                           Ritenuto in fatto
    1. - Con ordinanza del 20 novembre 1991, il Tribunale  di  Vicenza
 ha  sollevato  questione di legittimita' costituzionale dell'art. 513
 del codice di procedura penale "nella parte in  cui  non  prevede  la
 lettura  anche  delle  dichiarazioni  rese dall'imputato alla polizia
 giudiziaria con l'assistenza del difensore ai sensi dell'art. 350 del
 c.p.p.".
    Premesso che l'imputato, contumace, aveva  reso  alla  Guardia  di
 finanza    di    Vicenza,    con   l'assistenza   del   difensore   e
 nell'immediatezza del fatto, dichiarazioni confessorie, non piu'  re-
 iterate ne' avanti al pubblico ministero ne' avanti al giudice per le
 indagini preliminari (essendosi avvalso in quelle sedi della facolta'
 di  non  rispondere),  il  giudice  remittente osserva che la mancata
 previsione, nell'art. 513  del  codice  di  procedura  penale,  della
 possibilita'  di  acquisizione  -  in  caso  di  imputato  contumace,
 assente,   o   che   si   rifiuta   di   sottoporsi    all'esame    -
 dell'interrogatorio  dal  medesimo  reso  alla polizia giudiziaria in
 presenza del difensore non trova giustificazione razionale e pone  il
 pubblico  ministero  nell'impossibilita' di far valere prove talvolta
 decisive;
    Cio' determina, a suo avviso, una disparita' di trattamento  (art.
 3  della Costituzione) tra accusa e difesa in ordine all'acquisizione
 e utilizzazione delle prove, in quanto, mentre l'imputato  dopo  aver
 reso  dichiarazioni  confessorie puo' evitare l'utilizzazione di esse
 rifiutando i successivi interrogatori e quindi rendendosi  contumace,
 il  pubblico  ministero  non  ha  alcun mezzo per recuperare la prova
 legittimamente acquisita;
    2. - E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri, concludendo per l'infondatezza della questione;
    Osserva  l'Avvocatura  dello Stato che la natura e le modalita' di
 assunzione delle dichiarazioni  rese  alla  polizia  giudiziaria  non
 consentono  di  assimilare  le stesse, sul piano dell'utilizzabilita'
 probatoria,  alle  dichiarazioni  rese  in  sede  di   interrogatorio
 condotto   dall'autorita'   giudiziaria  o  all'udienza  preliminare.
 Infatti, mentre ai sensi dell'art. 350 la polizia giudiziaria procede
 all'assunzione di "sommarie informazioni utili per le investigazioni"
 dalla persona sottoposta alle  indagini  con  le  modalita'  previste
 dall'art. 64, l'autorita' giudiziaria ha l'obbligo, a norma dell'art.
 65,  di contestare alla persona stessa il fatto che le e' attribuito,
 di renderle noti gli elementi di prova esistenti  a  suo  carico,  di
 indicare le fonti di prova esistenti e di invitarla ad esporre quanto
 ritiene utile a sua difesa.
                        Considerato in diritto
    1.  -  La  questione  sollevata  dal  Tribunale di Vicenza investe
 l'art.  513,  primo  comma,  del  codice  di  procedura  penale,   in
 riferimento  all'art.  3  della  Costituzione, nella parte in cui non
 prevede la possibilita'  di  dar  lettura  delle  dichiarazioni  rese
 dall'imputato   alla   polizia   giudiziaria   con  l'assistenza  del
 difensore, ai sensi dell'art. 350 del codice di procedura penale.
    Ritiene il giudice remittente che la mancata  previsione  di  tale
 possibilita'   "non  trovi  giustificazione  razionale"  e  ponga  il
 pubblico ministero nell'impossibilita' di far valere  prove  talvolta
 decisive,  prospettandosi  in tal modo "una disparita' di trattamento
 (art.  3  della  Costituzione)  tra  accusa  e   difesa   in   ordine
 all'acquisizione e utilizzazione di prove";
    2. - La questione non e' fondata.
    L'art.   513   del   codice  di  procedura  penale  disciplina  la
 possibilita' di dare  lettura  nel  dibattimento  dei  verbali  delle
 dichiarazioni  precedentemente  rese  dall'imputato,  nel caso in cui
 questi sia contumace, assente, o rifiuti di sottoporsi all'esame.  Il
 legislatore,  in questa come in altre disposizioni, si e' ispirato al
 criterio diretto a contemperare il principio-guida dell'oralita'  con
 l'esigenza  di  evitare  la  "perdita",  ai  fini della decisione, di
 quanto acquisito prima del dibattimento e  che  sia  irripetibile  in
 tale  sede  (cfr. sentt. nn. 254 e 255 del 1992). Ha percio' previsto
 che nelle ipotesi sopra elencate il giudice disponga, a richiesta  di
 parte,  la lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dall'imputato
 al  pubblico  ministero  o  al  giudice  nel  corso  delle   indagini
 preliminari o nell'udienza preliminare.
    Il  legislatore  delegato,  nell'operare  tale scelta, si e' mosso
 sulla linea della direttiva n. 76 della legge-delega ("previsione  di
 una  specifica  diversa  disciplina per gli atti assunti dal pubblico
 ministero di cui  e'  sopravvenuta  una  assoluta  impossibilita'  di
 ripetizione"),  fino  a comprendere anche il rifiuto dell'imputato di
 sottoporsi all'esame nell'ambito dei casi  di  sopravvenuta  assoluta
 impossibilita' di ripetizione dell'atto. Ma, oltre ai vincoli imposti
 dalla  norma  delegante,  il legislatore doveva anche darsi carico di
 rispettare comunque i diritti garantiti all'imputato, fra i quali  e'
 fondamentale la facolta' di non rispondere.
    Pertanto  - a prescindere, come si e' detto, dai vincoli derivanti
 dalla citata ultima parte  della  direttiva  n.  76  della  legge  di
 delega, che non menziona gli atti assunti dalla polizia giudiziaria -
 certamente   non  appare  irragionevole  la  scelta  di  limitare  la
 possibilita' di lettura (e quindi  di  utilizzazione  ai  fini  della
 decisione)  alle  sole  dichiarazioni  rese dall'imputato al pubblico
 ministero o al giudice, escludendo le sommarie  informazioni  assunte
 dalla  polizia  giudiziaria  ai  sensi  dell'art.  350  del codice di
 procedura penale. Vi e' invero, una  sostanziale  differenza  (sempre
 sotto  l'angolo  visuale  delle  garanzie  dell'imputato)  fra queste
 ultime  e  l'interrogatorio  effettuato  dall'autorita'  giudiziaria:
 soltanto  questo  atto,  infatti (il quale costituisce essenzialmente
 uno  strumento  di   difesa   dell'indagato,   mentre   le   sommarie
 informazioni   assunte  dalla  polizia  giudiziaria  hanno  finalita'
 prettamente  investigative)  deve  essere  svolto  con  le  modalita'
 stabilite  dall'art.  65 del codice di procedura penale, ai sensi del
 quale l'autorita' giudiziaria ha l'obbligo di contestare alla persona
 sottoposta  alle  indagini  in  forma  chiara  e  precisa  il   fatto
 attribuitole, di comunicare gli elementi di prova a carico, ed anche,
 salvo  eventuale  pregiudizio per le indagini, le fonti dei medesimi,
 nonche'  quello di invitare la persona stessa ad esporre gli elementi
 ritenuti utili per la sua difesa;
    Ma neppure sotto il profilo della disparita'  di  trattamento  fra
 accusa  e  difesa si rinviene nella norma impugnata alcuna violazione
 dell'art. 3 della Costituzione. Innanzitutto puo'  rilevarsi  che  il
 principio  di parita' tra accusa e difesa costituisce uno dei criteri
 ispiratori della legge delega (direttiva n. 3) ed  opera  quindi  nei
 termini  e  nei limiti delle direttive in essa contenute. Va, poi, in
 ogni caso osservato che nella fattispecie il suddetto  principio  non
 appare   invocato  a  proposito,  in  quanto  la  disciplina  dettata
 dall'art. 513 del codice di procedura penale concerne  il  regime  di
 utilizzabilita'  ai  fini della decisione di precedenti dichiarazioni
 provenienti dallo stesso imputato ed attiene, quindi, essenzialmente,
 come  si  e'  detto  sopra,  al  tema  delle  garanzie  difensive  di
 quest'ultimo.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  non  fondata  la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art.  513,  primo  comma,  del  codice  di   procedura   penale,
 sollevata,   in   riferimento  all'art.  3  della  Costituzione,  dal
 Tribunale di Vicenza con l'ordinanza in epigrafe.
    Cosi' deciso in  Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 14 dicembre 1992.
                        Il Presidente: CASAVOLA
                          Il redattore: FERRI
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 22 dicembre 1992.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
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