N. 41 SENTENZA 7 - 17 febbraio 1994

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Processo  penale  -  Dibattimento  -  Contestazione  di fatto nuovo -
 Consenso dell'imputato alla contestazione - Rito abbreviato -  Omessa
 previsione  del  procedimento  - Inapplicabilita' dell'attenuante  ex
 art. 444 del  c.p.p.  -  Incensurabilita'  del  termine  relativo  al
 patteggiamento    -    Ragionevolezza    fondata   sulla   condizione
 indispensabile del consenso  dell'imputato  e  sul  fine  di  offrire
 speditezza ai procedimenti - Non fondatezza.
 
 (C.P.P., art. 446, primo e terzo comma).
 
 (Cost., artt. 3 e 24, secondo comma)
 
(GU n.9 del 23-2-1994 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
 Giudici:  prof.  Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio
 BALDASSARRE, prof.  Vincenzo  CAIANIELLO,  avv.  Mauro  FERRI,  prof.
 Luigi   MENGONI,  prof.  Enzo  CHELI,  dott.  Renato  GRANATA,  prof.
 Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI,  prof.  Cesare  MIRABELLI,
 avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel  giudizio  di  legittimita' costituzionale dell'art. 446, primo e
 terzo comma, del codice di procedura penale, promosso  con  ordinanza
 emessa  il  22  gennaio 1993 dal Tribunale di Torino nel procedimento
 penale a carico di Greco Franco, iscritta  al  n.  173  del  registro
 ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
 n. 17, prima serie speciale, dell'anno 1993;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri;
    Udito nella camera di consiglio del 12  gennaio  1994  il  Giudice
 relatore Mauro Ferri;
                           Ritenuto in fatto
    1.  - Con ordinanza emessa il 22 gennaio 1993 (r.o. n. 173/93), il
 Tribunale  di  Torino  ha   sollevato   questione   di   legittimita'
 costituzionale,  in  riferimento  agli  artt.  3 e 24, secondo comma,
 della Costituzione, dell'art. 446, primo e terzo comma, del codice di
 procedura penale, "nella parte in cui  non  prevedono  che  le  parti
 possano  formulare  la richiesta di cui all'art. 444 e reciprocamente
 dare  il   consenso   nella   situazione   di   autorizzazione   alla
 contestazione  in  udienza  di  un  fatto nuovo con relativo consenso
 dell'imputato ex art. 518, secondo comma,  del  codice  di  procedura
 penale".
    Premette  in fatto il remittente che nel corso del dibattimento il
 pubblico ministero ha chiesto, ai sensi dell'art. 518, secondo comma,
 del  codice  di  procedura  penale,  di   essere   autorizzato   alla
 contestazione all'imputato di un fatto nuovo; l'imputato ha accettato
 la  contestazione  ed ha proposto istanza di "patteggiamento", cui il
 pubblico ministero ha aderito.
    Dopo aver rilevato che la richiesta di applicazione della pena per
 il  nuovo  reato  urta  contro  il disposto della norma impugnata, il
 giudice  a  quo  osserva  che  sotto  il  profilo  del  principio  di
 eguaglianza appare di tutta evidenza che la legge viene a trattare in
 maniera  diseguale  due  situazioni  fra loro estremamente simili, ed
 anzi a  trattare  in  maniera  piu'  "punitiva"  quella  nella  quale
 l'imputato,   accettando  la  contestazione  di  un  fatto  nuovo  in
 dibattimento e proponendo istanza di patteggiamento,  rende  il  piu'
 agevole possibile il compito della giustizia, consentendo di giungere
 immediatamente  ad  una decisione e rinunciando al limite al mezzo di
 impugnazione costituito dall'appello.
    Non vale, ad avviso  del  Tribunale,  rilevare  che  l'alternativa
 consentita  dalla  legge  e' pur sempre quella del procedimento nelle
 forme ordinarie; non si puo' infatti disconoscere che, se  sono  vere
 le  esigenze  di  speditezza menzionate dall'art. 518, secondo comma,
 del codice di  procedura  penale,  all'imputato  (quando  accetti  la
 contestazione)  non deve essere preclusa la possibilita' di avvalersi
 della facolta' prevista dall'art. 444 del codice di procedura penale.
 La soluzione, quale oggi e' cristallizzata nelle norme esaminate, non
 convince sotto un profilo  di  ragionevolezza  e  di  garanzia  della
 speditezza  processuale,  che  costituisce  uno dei cardini del nuovo
 processo.
    Sotto il profilo,  poi,  del  diritto  alla  difesa  il  Tribunale
 ravvisa, a conforto della tesi sostenuta, argomenti adottati in altro
 contesto  da questa Corte nella sentenza n. 593 del 1990, osservando,
 in conclusione, che la condotta dell'imputato che accetta in  udienza
 la contestazione del "fatto nuovo" viene penalizzata dalla esclusione
 del   patteggiamento,  quando  questo  permetterebbe  di  raggiungere
 quell'obbiettivo  di  rapida  definizione   del   processo   che   il
 legislatore  ha  inteso  perseguire  con  l'applicazione  di  pena su
 richiesta della parte.
    2. - E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri,   concludendo   per   l'infondatezza   della   questione  e
 richiamando, in proposito,  la  giurisprudenza  di  questa  Corte  in
 ordine  alla  legittimita'  del  limite  preclusivo alla formulazione
 della richiesta di patteggiamento fissato nella norma impugnata.
                        Considerato in diritto
    1. - Il Tribunale di Torino dubita, in riferimento agli artt. 3  e
 24,   secondo   comma,   della   Costituzione,   della   legittimita'
 costituzionale dell'art. 446, primo e  terzo  comma,  del  codice  di
 procedura  penale  "nella  parte  in  cui  non prevedono che le parti
 possano formulare la richiesta di cui all'art. 444, e  reciprocamente
 dare   il   consenso,   nella   situazione   di  autorizzazione  alla
 contestazione in udienza di un  fatto  nuovo  con  relativo  consenso
 dell'imputato  ex  art.  518,  secondo comma, del codice di procedura
 penale".
    L'argomentazione  del   Tribunale   remittente   si   basa   sulla
 comparazione  fra due situazioni ritenute estremamente simili, vale a
 dire quella dell'imputato che, di fronte alla  risultanza  nel  corso
 del  dibattimento di un fatto nuovo a proprio carico, presta consenso
 alla relativa contestazione nella medesima udienza (art. 518, secondo
 comma, del codice di procedura penale) e quella dell'imputato che, in
 identica  circostanza,  non   presta   il   proprio   consenso   alla
 contestazione,  con  la  conseguenza che il pubblico ministero dovra'
 procedere nelle forme ordinarie (art. 518, primo comma, del codice di
 procedura  penale).  Poiche'  in  questa  seconda  ipotesi l'imputato
 potra' chiedere l'applicazione della pena ai sensi dell'art. 444  del
 codice  di procedura penale, mentre tale possibilita' gli e' preclusa
 nella prima ipotesi per il disposto dell'art. 446, primo  comma,  del
 codice  medesimo,  si  verificherebbe - secondo il giudice a quo - un
 trattamento irragionevolmente "punitivo" dell'imputato che ha  tenuto
 un  atteggiamento  di  maggior  collaborazione  nei  confronti  della
 speditezza della giustizia in ordine  alla  sfera  di  esercizio  del
 diritto  di  difesa  (di  cui la richiesta di applicazione della pena
 costituisce una modalita').
    Inoltre, conclude il remittente, una volta che ci si  trova  nella
 situazione  in  esame,  la preclusione del "patteggiamento" impedisce
 irrazionalmente di raggiungere quell'obiettivo di rapida  definizione
 del  processo  che  il  legislatore ha inteso perseguire con il detto
 istituto.
    2. - La questione non e' fondata.
    Invero, una corretta e  rigorosa  lettura  delle  disposizioni  in
 esame  dimostra  la  insussistenza  di qualsivoglia contrasto con gli
 invocati parametri costituzionali.
    Innanzitutto, non e' di per se' censurabile la disciplina prevista
 dal legislatore in ordine al  termine  entro  il  quale  puo'  essere
 esercitata  la  facolta'  di  chiedere  il cosiddetto patteggiamento:
 infatti, che  tale  facolta'  sussista  fino  alla  dichiarazione  di
 apertura   del   dibattimento   di  primo  grado  non  e'  certamente
 irragionevole, in  quanto  anzi  risponde  perfettamente  alla  ratio
 dell'istituto (cfr. sent. n. 101 del 1993).
    Cio'  posto,  non  e'  parimenti  per  nulla  irragionevole  ed e'
 rispettosa del diritto di difesa la soluzione adottata dall'art.  518
 del  codice  di  procedura  penale.  Invero,  quando  "nel  corso del
 dibattimento risulta  a  carico  dell'imputato  un  fatto  nuovo  non
 enunciato nel decreto che dispone il giudizio e per il quale si debba
 procedere di ufficio", la regola enunciata nel primo comma del citato
 art.  518 e' che il pubblico ministero proceda nelle forme ordinarie,
 inizi cioe' un nuovo procedimento relativo  alla  nuova  fattispecie:
 l'imputato  e'  quindi  garantito nell'esercizio pieno e completo del
 diritto di difesa, ivi compreso il ricorso eventuale all'applicazione
 della pena su richiesta.
    Soltanto se l'imputato e' presente e presta il  proprio  consenso,
 ed  e'  l'ipotesi  prevista  dal  secondo  comma,  il  presidente, su
 richiesta del pubblico ministero, puo' autorizzare  la  contestazione
 nella  medesima  udienza, sempre che non ne derivi pregiudizio per la
 speditezza dei procedimenti.
    Poiche' il consenso  dell'imputato  e'  condizione  indispensabile
 alla  contestazione  del fatto nuovo in udienza, il diritto di difesa
 e' pienamente salvaguardato.  Dipendera'  infatti  dalla  valutazione
 dell'imputato,   in  ordine  alla  soluzione  che  egli  reputi  piu'
 conveniente per la sua difesa, la scelta di un nuovo procedimento che
 gli consentira' la richiesta di "patteggiamento", ovvero la  rinuncia
 a  questa  possibilita'  e  l'accettazione  della  contestazione  nel
 dibattimento gia' in corso.
    Ne deriva, inoltre, chiaramente che nemmeno  si  puo'  configurare
 una  ingiustificata  disparita' di trattamento fra due situazioni che
 sono in effetti  diverse  e  soprattutto  discendono  da  una  libera
 opzione di linea difensiva operata dall'imputato.
    Per  le  medesime ragioni, infine, va escluso che la disciplina in
 esame sia  viziata  da  irrazionalita'  in  quanto  ostacolerebbe  la
 speditezza  dei  procedimenti, impedendo, nella seconda delle ipotesi
 dianzi esaminate, il ricorso al "patteggiamento": non puo',  infatti,
 ritenersi  di  per  se'  irragionevole  che il legislatore, una volta
 garantito il diritto di difesa, abbia ritenuto  di  non  derogare  al
 termine  stabilito  in  via  generale dall'art. 446, primo comma, del
 codice di procedura penale.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
    Dichiara non fondata la questione di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.  446,  primo e terzo comma, del codice di procedura penale,
 sollevata, in riferimento agli artt. 3 e  24,  secondo  comma,  della
 Costituzione, dal Tribunale di Torino con l'ordinanza in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 7 febbraio 1994.
                        Il Presidente: CASAVOLA
                          Il redattore: FERRI
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 17 febbraio 1994.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
 93C0154