N. 72 ORDINANZA (Atto di promovimento) 21 ottobre 1992
N. 72 Ordinanza emessa il 21 ottobre 1992 dal tribunale di sorveglianza di Firenze nel procedimento di sorveglianza per la revoca della misura alternativa della semiliberta' nei confronti di Buono Francesco Ordinamento penitenziario - Divieto di concessione di benefici (nella specie: semiliberta') per gli appartenenti alla criminalita' organizzata o per i condannati di determinati delitti - Revoca degli stessi a seguito di comunicazione dell'autorita' di polizia in assenza delle condizioni previste dall'art. 58-ter della legge n. 354/1975 (collaborazione con la giustizia) - Automaticita' della revoca rimessa alla "discrezionale" comunicazione da parte dell'autorita' di polizia - Prospettata violazione del diritto di difesa, del principio di irretroattivita' della legge penale sfavorevole, della funzione rieducativa della pena, nonche' dei principi di precostituzione del giudice e di soggezione del giudice solo alla legge. (Legge 26 luglio 1975, n. 354, art. 4-bis, primo comma, p.p., modificato dal d.l. 8 giugno 1992, n. 306, art. 15, convertito, con modificazione, nella legge 7 agosto 1992, n. 356). (Cost., artt. 24, 25, 27, 101 e 109).(GU n.9 del 24-2-1993 )
IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA A scioglimento della riserva espressa nell'udienza del 21 ottobre 1992; Visti ed esaminati gli atti della procedura di sorveglianza in materia di revoca semiliberta' nei confronti di Buono Francesco, nato il 16 agosto 1952 a Fucecchio, detenuto nella Casa circondariale di Lucca; Verificata la regolarita' degli atti sotto il profilo processuale; O S S E R V A Nella procedura suindicata si e' sollevata eccezione di incostituzionalita' per la quale si rimanda alla motivazione contenuta nei fogli allegati.
P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara non manifestamente infondate le questioni di legittimita' costituzionale cosi' come dettagliatamente indicate ed articolate al n. 6 della motivazione allegata; Sospende la procedura di sorveglianza in corso relativa alla eventuale revoca della misura alternativa della semiliberta' nei confronti di Buono Francesco; Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per la decisione in merito alle questioni sollevate; Manda alla cancelleria per le comunicazioni, le notificazioni e le forme di pubblicita' in genere previste dall'art. 23 citato della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dispone, a conferma di analoga precedente disposizione, la prosecuzione della misura alternativa della semiliberta' nei confronti del Buono. Firenze, addi' 21 ottobre 1992 Il presidente: MARGARA Il collaboratore di cancelleria: PETTINARI Depositato in cancelleria il 28 novembre 1992. ___ MOTIVI DELLA DECISIONE: 1. - Buono Francesco e' ammesso alla semiliberta' presso la Casa circondariale di Lucca, detenuto anche per il delitto di associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti. La Questura di Lucca, con nota del 10 giugno 1992, dava la comunicazione prevista dal secondo comma dell'art. 15 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, ora convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356. In effetti, il citato art. 15 del d.l. ora detto: nel primo comma, modificando il primo comma dell'art. 4- bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, dispone: " .. le misure alterna- tive previste dal capo sesto della legge 26 luglio 1975, n. 354, possono essere concesse ai detenuti .. per delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416- bis del c.p., ovvero al fine di agevolare le attivita' delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonche' per i delitti previsti dagli artt. 416- bis e 630 del codice penale e all'art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, solo nei casi in cui tali detenuti .. collaborano con la giustizia a norma dell'art. 58- ter"; nel secondo comma dell'art. 15, si dispone: "Nei confronti delle persone detenute .. per taluno dei delitti indicati nel primo periodo del primo comma (quelli sopra citati) che fruiscano, alla data di entrata in vigore del presente decreto, delle misure alternative alla detenzione .., l'autorita' di polizia comunica al giudice di sorveglianza competente che le persone medesime non si trovano nella condizione per l'applicazione dell'art. 58- ter della legge 26 luglio 1975, n. 354. In tal caso, accertata l'insussistenza della suddetta condizione, il tribunale di sorveglianza dispone la revoca della misura alternativa alla detenzione ..". La nota citata della questura di Lucca (che, in sostanza, riferisce di una mancata collaborazione dell'interessato, senza dare conclusioni definitive, come e' logico e doveroso) determina pertanto la necessita' di procedere per la eventuale revoca della misura alternativa della semiliberta', cui il Buono e' ammesso. Cio' e' stato fatto, ma con ordinanza 1½ luglio 1992, si provvide al rinvio della decisione in attesa della definizione, da parte della Corte costituzionale di eccezioni di incostituzionalita' sollevate da questo tribunale in procedura analoga. Anche in considerazione di alcune modifiche intervenute nella legge di conversione 7 agosto 1992, n. 356, al d.l. 8 giugno 1992, n. 306, appare necessaria, in questa sede, la riproposizione della questione di costituzionalita'. Questo tribunale, per gli aspetti e le considerazioni che seguono, ritiene non manifestamente infondato il rilievo di incostituzionalita' della normativa ora introdotta. 2. - Rilievo di incostituzionalita' della nuova normativa di cui alla prima parte del primo comma dell'art. 4- bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, cosi' come modificato dall'art. 15 del d.l. 8 giugno 1992, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, ed inoltre anche della previsione di cui al secondo comma dell'art. 15 citato, per contrasto con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione. 2- a. - Si ricorda quanto chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 204 del 1974 circa il senso e la portata del citato art. 27, terzo comma, della Costituzione. In detta sentenza si legge che, sulla base del precetto di cui alla norma ora citata "sorge il diritto per il condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione delle pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantita' di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo"; diritto questo - nota ancora la sentenza citata - che "deve trovare nella legge una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale". Questi precisi significato e portata della norma costituzionale sono richiamati anche in piu' recenti decisioni della Corte costituzionale: si veda la sentenza n. 343 del 1987 (motivazione in diritto, n. 7, infine); si veda ancora la sentenza n. 282 del 1989, che al n. 8 della motivazione in diritto riporta proprio i passi della sentenza n. 204/1974 sopra richiamatisi; si veda infine la recentissima sentenza n. 125/1992, che, al n. 4 della motivazione in diritto, torna a citare e a confermare i principi suindicati. 2- b. - Premesso quanto sopra non si puo' non ritenere che il diritto del condannato a vedere riesaminare se "la quantita' di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo" sia messo radicalmente in crisi e contesto quando viene subordinato al verificarsi di una condizione che prescinda dal percorso rieducativo-risocializzativo compiuto dall'interessato. Nel caso della nuova normativa di cui al citato art. 4-bis, senza la "collaborazione con la giustizia" ivi indicata, il percorso rieducativo-riabilitativo che si deve accompagnare alla esecuzione della pena e' reso irrilevante, frustrando pertanto quella finalita' della pena che l'art. 27 stabilisce e l'esercizio del diritto sopra indicato che ne deriva. Sara' bene chiarire due punti. Il primo. La "collaborazione con la giustizia" di cui all'art. 4- bis citato e' quella che si puo' chiamare "collaborazione processuale" e che viene esplicitamente descritta dall'art. 58-ter, cui l'art. 4- bis rinvia. Sono considerati "collaboratori" coloro che "si sono adoperati per evitare che l'attivita' delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l'autorita' giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l'individuazione o la cattura degli autori dei reati". Il secondo e conseguente. La sede naturale di questa collaborazione e' nel processo, prima della sentenza di condanna. E' vero che l'art. 58- ter prevede la ipotesi di condotta di collaborazione (con le stesse caratteristiche suindicate) prestata dopo la sentenza di condanna, ma l'attivita' in questione resta confinata nel momento dell'accertamento dei reati e dei vari interventi in ordine agli stessi e alle loro conseguenze. Un intervento dopo la condanna ha ancora queste caratteristiche ed evidentemente sara' possibile solo se non vi sia gia' stato l'intero chiarimento sullo svolgimento dei fatti e l'intero intervento sugli effetti degli stessi. Non sembra dubbio allora che la "collaborazione" in questione e' prestata di norma prima che inizi il processo di esecuzione della pena e, quando interviene a processo di esecuzione iniziato, si ricollega sempre alla situazione processuale di cognizione dei fatti e deriva la sua possibilita' (o impossibilita') dalle caratteristiche di quella situazione. Dunque: e' tale "collaborazione", posta di norma prima dell'esecuzione o, se e quando possibile, riferita a quel momento, che decide se la esecuzione della pena potra' essere finalizzata a costruire un percorso di rieducazione-riabilitazione, nell'ambito del quale il condannato potra' fare valere quel diritto al riesame degli effetti della esecuzione, di cui la citata sentenza costituzionale n. 204/1974 ha parlato. 2- c. - Sara' bene chiarire ulteriormente il contenuto sostanzialmente mistificatorio del collegamento che si vuole verosimilmente stabilire fra "collaborazione" e svolgimento del percorso rieducativo-riabilitativo di cui l'art. 27, terzo comma, parla. La "collaborazione" e' un opzione pratica che nasce dalla valutazione della convenienza processuale ed e' fortemente condizionata dall'andamento delle indagini e del processo. Il cammino della rieducazione-riabilitazione che deve caratterizzare il processo di esecuzione della pena corrisponde invece ad un percorso di rivisitazione dei propri valori, delle proprie condizioni di vita ed alla creazione, nella fase riabilitativa, di valori e condizioni che favoriscono un corretto reinserimento sociale. Chiariamo quindi che: si puo' "collaborare" senza interessarsi a compiere quel cammino di cui si e' ora detto: si puo' non essere nelle condizioni per collaborare per una serie di ragioni e situazioni, che ora si cerchera' di dettagliare: eppure, in tal caso, si puo' invece compiere correttamente il cammino di rieducazione-riabilitazione di cui si e' parlato. Chiariamo allora le situazioni relative alla possibilita' e alla praticabilita' della "collaborazione": a) non si puo' ignorare il caso di chi non sia responsabile del delitto per cui e' stato condannato: caso che si puo' anche considerare estremo, ma che non si pone fuori dal nostro sistema giuridico se viene previsto e regolato nelle sue conseguenze agli artt. 643 e 647 del c.p.p. E si puo' aggiungere che l'errore giudiziario regolato e' quello verificato processualmente con la revisione, mentre vi puo' anche essere un errore non verificato eppure egualmente sussistente. E' in questo caso, quando la revisione non cancella il giudicato e la pena sopravvive in base a questo, che si verifica una situazione in cui la "collaborazione" di cui si parla e' impossibile. Si puo' aggiungere, per vero, che, in tal caso, ci sarebbe da discutere anche sulla possibilita' del percorso di rieducazione-riabilitazione, di cui si e' parlato, il quale potra' comunque consistere, al di la' di quanto avvenuto e commesso o non commesso dall'interessato, nella dimostrazione da parte sua della capacita' di rispettare le regole di convivenza generale e di sapersi correttemente reintegrare dal carcere nell'ambiente sociale. Si ripete, pero': non si puo' chiedere la "collaborazione" in questione a chi non e' autore dei fatti per cui e' stato condannato; b) ne' la collaborazione e', all'opposto, possibile quando le indagini hanno, fin dall'inizio, per la flagrante constatazione dei fatti o comunque per la loro rapida ricostruzione, chiarito le responsabilita' e rimosso le conseguenze dirette dei reati commessi; c) e' inoltre, rispetto alla "collaborazione" in parola, possono essere decisive, e ostative, le specifiche posizioni di singoli concorrenti, posizioni riferite ai fatti o al processo. E', infatti: il partecipe di secondo piano puo' non conoscere che il suo collegamento con il livello superiore: riconosciuto a questo collegamento delle indagini o dalla ammissione del partecipe di grado superiore, nessuna "collaborazione" e' possibile per quello di grado inferiore. Si entra insomma in ordine di concetti, che puo' anche essere accettabile sul piano della efficacia processuale, ma che diviene francamente inaccettabile quando e' in giuoco, diciamo cosi', il "merito penitenziario": l'ordine dei concetti e' che e' favorito, nel prestare la "collaborazione", il piu' responsabile rispetto al modesto secondario partecipe; e ancora: secondo l'andamento del processo, vi puo' essere chi e' raggiunto dallo stesso quando cio' che poteva dire o su cui poteva incidere e' gia' stato detto o fatto: anche qui, "collaborazione" impossibile. Se ci si stacca, poi, dalla osservazione relativa al momento dei fatti e si pensa a quali e quanti possono esserne gli sviluppi nel tempo (tanti di piu' quanto piu' lungo e' il tempo trascorso), ci si rende conto di come, in particolare, la richiesta oggi della "collaborazione processuale" che allora non ci fu puo' non trovare risposte possibili, attendibili, verificabili. Ci possono essere situazioni in cui qualcosa sia ancora possibile ma in molti, troppi casi cio' non accadra' ed e' verosimile che non possa accadere. A questo riguardo, sembra inevitabile una riflessione: se la norma, introdotta, nella sua genericita', si applica indifferentemente in tutte le situazioni, ignorando quelle in cui e' impraticabile, la norma stessa appare, cosi' com'e', inaccettabile. La stessa si risolve, nei fatti e ciecamente (per le diversita' della casistica), in una inammissibilita' pura e semplice al sistema di interventi penitenziari alternativi alla detenzione. Il che vuol dire: inammissibilita' al rilievo (e, in sostanza: allo svolgimento rilevante) del percorso rieducativo-riabilitativo essenziale alla esecuzione della pena; inammissibilita' al riesame dello sviluppo di quel percorso, finalizzato alla ricognizione che la pena abbia o meno raggiunto il fine che le e' proprio: riesame ricognizione che sono un "diritto" dell'interessato, secondo quanto indicato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 204/1974 e in quelle successive, sopra citate; diritto che viene, quindi, negato. Ed allora il contrasto della nuova normativa con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione puo' essere ragionevolmente ritenuto; ritenuta comunque, non manifestamente infondata la questione relativa. 2- d. - In margine alla conclusione su questo punto, si crede utile una ulteriore riflessione. La nuova normativa si basa sulla convinzione che particolari delitti sono commessi sovente da soggetti, strettamente inseriti in organizzazioni criminali, dalle quali e' improbabile il distacco. Se cio' e' vero in vari casi, non e' un valido sistema di individualizzazione di questi autori quello della tipizzazione basata sulla astratta previsione dei titoli di reato, sistema cui ha fatto ricorso la nuova normativa in esame. Infatti, la casistica, molto varia, che i delitti in questione presentano rileva che il legame degli autori con organizzazioni criminali, in molti casi, non era presente all'epoca dei fatti e tantomeno puo' essere dato automaticamente per esistente oggi. Cosi', vi sono casi di sequestro di persona, in cui vi e' stata una aggregazione occasionale e estemporanea di persone, che non sembrano affatto operare nel quadro di organizzazioni criminali. Del pari e' a dirsi per l'associazione finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, che e' stata, in vari casi, riconosciuta nei confronti di gruppi di persone legate dalla tossico-dipendenza, che gestivano in comune l'approvvigionamento delle sostanze, con contatti, verosimilmente, ma senza inserimenti in associazioni criminali, cosi' che la scoperta dei fatti e la celebrazione del processo hanno determinato il dissolversi della aggregazione del gruppo. E anche per il piu' significativo dei tipi di reato richiamati nella prima parte del nuovo testo dell'art. 4-bis, l'associazione a delinquere di cui all'art. 416- bis del c.p., se si vuole esaminare la situazione razionalmente e senza i condizionamenti indotti dalla gravita' degli attacchi attuali della criminalita' organizzata, si deve rilevare che, accanto a casi di permanente e incontestabile pericolosita', ve ne sono altri (tanto piu' frequenti quanto piu' si allontana nel tempo il periodo dell'aggregazione criminale), in cui la dissoluzione del gruppo particolare in cui il soggetto era inserito, la sua partecipazione di secondo piano, il distacco da persone e ambienti, che puo' essere stato agevolato da particolari storie personali; tutte queste circostanze, insomma, possono rendere possibile la dissociazione il distacco dal gruppo criminale di passata appartenenza. La tipizzazione per titoli di reato, operata dal nuovo testo dell'art. 4- bis, accomuna dunque situazioni eterogenee e prevede per tutte la stessa disciplina, impedendo ogni distinzione a seconda del loro rilievo e della loro pericolosita'. E' questo appunto l'aspetto negativo di una disciplina normativa che conduce ad una inaccettabile inammissibilita' ai benefici in tutti i casi, mentre, al contrario una disciplina flessibile potrebbe consentire di escludere i casi che siano espressione di permanente pericolosita', ammettendo, invece, gli altri ad un esame nel merito. Disciplina, questa, che potrebbe essere compatibile con il precetto dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione cosi' come interpretato dalla Corte Costituzionale, secondo quanto precisato in precedenza. Il che, per quanto si e' detto, non avviene con l'attuale previsione normativa del ripetuto art. 4-bis. 2- e. - La questione di costituzionalita' non viene meno dinanzi alle modifiche introdotte al d.l. 8 giugno 1992, n. 356, dalla legge di conversione 7 agosto 1992, n. 356. Questa ha aggiunto al nuovo testo dell'art. 4-bis, dopo la indicazione dei delitti per i quali sono inammissibili, salva la ipotesi di collaborazione, le misure al- ternative, questa ulteriore proposizione: "Quando si tratta di detenuti o internati per uno dei predetti delitti, ai quali sia praticata una delle circostanze attenuanti previste dagli artt. 62, n. 6, anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, o 114 del codice penale, ovvero la disposizione dell'art. 116, secondo comma, dello stesso codice, i benefici suddetti possono essere concessi anche se la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante, purche' siano acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l'attualita' dei collegamenti con la criminalita' organizzata". Con riferimento a quanto gia' detto nelle pagine precedenti, si possono svolgere queste osservazioni: a) la normativa introdotta con la legge di conversione non fa che dare, in situazioni, particolari, un regime speciale di applicazione della stessa regola stabilita, con il d.l. 8 giugno 1992, n. 306, nella prima parte dell'art. 4- bis. La modifica introdotta con la legge di conversione lascia inalterata la situazione che si era rilevata sub 2- d), dove si osservava: "La tipizzazione per titoli di reato, operata dal nuovo testo dell'art. 4-bis, accomuna situazioni eterogenee e prevede per tutte la stessa disciplina, impedendo ogni distinzione a seconda del loro rilievo e della loro pericolosita' ..". Il che "conduce - si diceva subito dopo - ad una inaccettabile inammissibilita' ai benefici in tutti i casi ..". Come si puo' rilevare agevolmente la modifica apportata dalla legge di conversione non fa che prevedere, per casi particolari e ristretti, la necessita' di una collaborazione attenuata, compensata, pero', dalla dimostrazione "in maniera certa" di un dato negativo quale e' la mancanza di attuali "collegamenti con la criminalita' organizzata". La regola, di cui si e' contestata la costituzionalita', resta quindi ferma; b) si puo' aggiungere che, proprio perche' il nuovo testo fa pur sempre riferimento ad una collaborazione, sia pure attenuata, restano ferme tutte le obiezioni al sistema fatte sul punto della impossibilita' o della impraticabilita' della collaborazione in alcune situazioni (v. sub 2-c); c) e si aggiunge, a quanto detto, il rilievo che la necessita' di provare "in maniera certa" la mancanza di attuali "collegamenti con la criminalita' organizzata" impone l'onere della prova di un dato negativo, tanto piu' irraggiungibile quanto piu' l'interessato non abbia mai avuto collegamenti del genere, come accade nei casi ricordati in precedenza sub 2-d); d) con queste gravi riserve di fondo, si puo' anche rilevare come le modifiche introdotte con la legge di conversione siano limitate nonche' scarsamente logiche e coerenti: in una parola: scarsamente razionali. Infatti: intanto, l'art. 62, n. 6, e 116 del c.p. interessano solo alcuni dei tipi di reato cui la prima proposizione dell'art. 4- bis - come modificato dal d.l. n. 306/1992 - si riferisce: possono riguardare, infatti, le prime due ipotesi, legate all'art. 416-bis, e quella di cui all'art. 630 del c.p., non le altre: c'e' da chiedersi se vi fosse la consapevolezza e comunque se ci sia una razionalita' in queste distinzioni fra tipi di reato rispetto allo stesso regime; il riferimento all'art. 116 del c.p. introduce un ulteriore elemento di possibile irrazionalita': se vi sia una rapina per cui e' stata ritenuta l'aggravante del collegamento con una associazione di stampo mafioso (art. 628, terzo comma, n. 3) in occasione della quale e' stato commesso un omicidio, potra' rendersi applicabile l'art. 116, inapplicabile invece quando la rapina non sia accompagnata dall'omicidio; se e' possibile parlare di art. 116 per un sequestro di persona, aggravato dalla morte dell'ostaggio, non se ne potra' parlare nel caso in cui non si sia verificato questo evento. Dunque: un regime di minor sfavore (se cosi' si voglia chiamare quello che si sta esaminando) vale in casi di maggiore gravita' e non e' invece proponibile in casi di minore gravita'; la previsione della ipotesi del risarcimento del danno, anche successivo alla sentenza di condanna, prende in considerazione coloro che hanno una certa disponibilita' patrimoniale, non sempre e' chiaro i meno colpevoli; anche l'ipotesi di applicazione dell'art. 114 del c.p. e' molto limitata specie in riferimento alla previsione del secondo comma di tale articolo che esclude l'applicabilita' della norma "nei casi indicati dall'art. 112": questo prevede al n. 1 il caso del concorso nel reato di 5 o piu' persone, caso molto frequente, anzi di gran lunga prevalente, nella casistica che ci interessa. E una ulteriore precisazione alla previsione di questa particolare attenuante: sub 2- d) si era rilevato come la nuova normativa di inammissibilita' ai benefici colpiva indistintamente i partecipi senza distinguere i loro ruoli, principali o subalterni, informati di tutto, perche' al centro dell'azione criminale, o a conoscenza solo di parte della stessa. Si deve ora chiarire che la previsione dell'art. 114 del c.p. nella legge di conversione che qui si esamina, non coglie affatto la preoccupazione che si era avanzata: anche se il ruolo di un partecipe e' subalterno, non si arriva che in casi eccezionali alla possibilita' di applicazione dell'art. 114, esclusa, comunque, come si e' accennato, quando il numero dei concorrenti (come sara' quasi sempre) e' di 5 o piu'. Concludendo: la legge di conversione, con la modifica che si e' esaminata, non ha modificato la sostanza della normativa introdotta con il d.l. n. 306/1992: restano pertanto ferme le riserve di costituzionalita' avanzate sulla normativa stessa, anche cosi' come ora vigente per effetto della legge di conversione. 2- f. - Si e' valutata sinora la incostituzionalita' del nuovo testo dell'art. 4- bis (prima parte del primo comma), norma che sta alla base della situazione in cui si trova l'interessato. Egli e' stato gia' ammesso alla semiliberta' e ne fruiva regolarmente. Tale misura alternativa dovrebbe ora essere revocata per il disposto dell'art. 15, secondo comma, del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, che prevede esplicitamente la revoca delle misure alternative in corso nei confronti di coloro che sono stati condannati per uno dei delitti di cui alla prima parte del primo comma dell'art. 4- bis e che "non si trovano nella condizione per l'applicazione dell'art. 58- ter della legge 26 luglio 1975, n. 354". Due premesse: si esaminera' piu' oltre, al n. 5, il problema di come sia introdotta la procedura di revoca e del ruolo in essa della autorita' di polizia rispetto all'organo giudiziario decidente; il testo del secondo comma dell'art. 15 in discussione non e' del tutto perspicuo. La portata applicativa dell'art. 58- ter e' per vero limitata, in quanto tale norma stabilisce che i piu' lunghi termini di ammissione ai benefici previsti dal d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito nella legge 12 luglio 1991, n. 203, non si applicano nei confronti di coloro che collaborano con la giustizia. E' verosimile pero' l'ipotesi che la norma abbia voluto fare riferimento all'art. 58- ter solo per descrivere le caratteristiche della collaborazione con la giustizia, prevista dall'art. 4-bis, a cui probabilmente era piu' logico rinviare. In tal senso si interpreta pertanto il disposto dell'art. 15, secondo comma, in esame e quindi si apre nel caso, per effetto della comunicazione dell'organo di polizia (che si e' gia' riferita), il procedimento di revoca della misura alternativa, procedimento in cui, se si dovra' escludere la collaborazione ex art. 58-ter, si dovra' senz'altro revocare il beneficio gia' concesso. Rispetto alla situazione generale di inammissibilita' ai benefici se non vi sia collaborazione, la normativa e la situazione che ora si esaminano ha una caratteristica in piu'. Qui il riesame che la pena ha raggiunto le sue finalita', che un percorso di riabilitazione si e' sviluppato e che, in esito a questo, si e' concessa una misura alternativa alla detenzione; tutto questo e' gia' acquisito. L'interessato ha gia' esercitato il suo diritto a fare valutare se la pena ha raggiunto il suo fine e questa valutazione si e' conclusa favorevolmente per lui. Si tratta ora quindi di invertire, diciamo cosi', la marcia, gia' avviata, della pena, di fare cambiare alla stessa natura e finalita'. Nessun diritto al riesame che le finalita' rieducative sono state raggiunte, azzeramento del passato e gia' operato riconoscimento di quel diritto: la pena resta soltanto afflittiva. La violazione dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione, sembra ancora piu' plateale e stridente di quanto non sia nella parte della normativa esaminata nelle pagine precedenti, quella parte in cui si limita la ammissibilita' ai benefici penitenziari. Ed allora: la violazione della norma costituzionale ora detta si realizza: sia nella prima parte del primo comma dell'art. 4-bis, come modificato dalla nuova e ripetuta normativa, che stabilisce la inammissibilita' ai benefici penitenziari, salva l'ipotesi della collaborazione, per i condannati e detenuti per determinati delitti; sia nell'ultima parte dell'art. 15 della nuova normativa (d.l. 8 giugno 1992, n. 306, e legge di conversione 7 agosto 1992, n. 356), che prevede, nei casi indicati, di cui alla prima parte del primo comma dell'art. 4-bis, la revoca dei benefici penitenziari gia' concessi. Sembra, pertanto, tutt'altro che manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale sui punti indicati. 3. - Rilievo di incostituzionalita' della nuova normativa di cui alla prima parte del primo comma dell'art. 4- bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, cosi' come modificato dall'art. 15 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, nonche' del secondo comma dello stesso art. 15, per contrasto con l'art. 24, secondo comma, della Costituzione. 3- a. - La norma costituzionale ora citata cosi' dispone: "La difesa e' diritto inviolabile in ogni stato o grado del procedimento". La Corte costituzionale ha chiarito (sentenza 27 novembre 1979, n. 267) che la garanzia costituzionale del diritto di difesa va riferita ai procedimenti giurisdizionali che abbiano contenuto decisorio. Tale e' il procedimento di sorveglianza in cui e' sollevata questa eccezione, secondo la giurisprudenza per la quale il provvedimento conclusivo di tale procedimento ha natura di sentenza e produce il normale effetto del giudicato (v. Cass. 24 ottobre 1979, in Foro it., 1980, II, 164, nonche' Cass. 21 febbraio 1983 in Cass. pen. 1984, 2054). E' utile un altro chiarimento che viene dalla giurisdizione costituzionale. Nella stessa si precisa (v. per tutte: sentenza 8 giugno 1983, n. 149) che il diritto di difesa comporta, in primo luogo, la garanzia di contraddittorio: il che e' quanto dire che quel diritto e' assicurato nella misura in cui si dara' all'interessato la possibilita' di partecipare ad una effettiva dialettica processuale. Sembra chiaro pertanto che il diritto di difesa non concerne soltanto la disponibilita' degli strumenti con cui la difesa si realizza, ma anche, per cosi' dire, il merito della difesa, la scelta, cioe', di una linea difensiva piuttosto di un'altra. Nessuna linea di difesa puo' essere imposta, anche se e' pacifico che una certa linea difensiva puo' comportare, attraverso altri riscontri processuali, valutazioni particolari (ed anche sfavorevoli) nei confronti del soggetto interessato. Il che, pero', deve essere anche detto senza dimenticare che si deve distinguere fra verita' processuale e verita' reale e che una certa linea difensiva puo' non essere in regola con la prima, ma esserlo con la seconda, mentre la valutazione giudiziale di tale linea puo' essere, al contrario, in regola con la prima, ma non con la seconda. Orbene: la normativa in esame, condizionando un vero e proprio diritto del soggetto (cosi' come chiarito nelle pagine precedenti: il diritto, cioe', al riesame degli effetti rieducativi-riabilitativi prodotti dalla esecuzione della pena) alla c.d. "collaborazione", vincola il soggetto medesimo ad una linea difensiva, negandogli pertanto la liberta' di scelta garantita costituzionalmente. E' chiaro che stabilire che, per coloro che sono detenuti per particolari reati, nessun beneficio e' possibile se non nei casi in cui "tali detenuti collaborano con la giustizia ..", equivale puramente e semplicemente a costringere gli interessati alla "collaborazione processuale" e, quindi, ad una particolare linea di difesa (equivalente alla confessione piena e incondizionata) per essere ammissibili (ammissibili in astratto e non ammessi) ai benefici penitenziari. Due precisazioni. La prima. E' chiaro che qui non si fa derivare da un particolare atteggiamento difensivo una valutazione di merito sul soggetto: gli si preclude, a causa della mancata collaborazione, l'accesso alla fruizione di un diritto (quale si e' sopra precisato). E si ricordi cio' che si e' rilevato sub 2- c) che in molti casi la "collaborazione processuale" richiesta dalla legge non e' possibile (in tali casi pertanto vi e' la preclusione pura e semplice alla fruizione del diritto stesso). Seconda precisazione. Per quanto gia' detto e ora ricordato, quella "collaborazione" non va confusa con il percorso rieducativo- riabilitativo richiesto dalla legge per la concessione dei benefici penitenziari, essendo la "collaborazione" un dato ben distinto e diverso e, in molti casi (come si e' detto poche righe sopra), del tutto impraticabile (v. sempre le gia' citate considerazioni sub 2- c circa la impossibilita' della collaborazione in molte situazioni), anche in presenza di un percorso rieducativo completo. Quindi si puo' verificare la preclusione alla fruizione di un diritto costituzionalmente garantito in casi dei quali esistono tutte le condizioni per la fruizione dello stesso. 3- b. - Una riflessione va fatta. Cio' che si chiede con la normativa in discussione e' la "collaborazione processuale", come si e' piu' volte ripetuto: cioe', una certa condotta difensiva, riferita alla sede del processo di cognizione. Qui siamo pero' in un procedimento diverso: e' rilevabile allora, in questa sede il sacrificio del diritto di difesa che si e' individuato? Una prima considerazione e' possibile. Se noi consideriamo la normativa in esame (come e' inevitabile fare) come quella che ha stabilmente modificato il regime penitenziario per coloro che vengono condannati per determinati reati, deriva da essa il sacrificio del diritto di difesa proprio nell'ambito del procedimento di cognizione: nel quale, l'imputato sapra' che solo una certa linea difensiva (e nessun'altra) gli dara' una prospettiva in sede di esecuzione della pena. E' pero' da ritenere che, in sede di procedimento di cognizione, non sia possibile sottoporre ad esame di costituzionalita' una normativa che non regola quel procedimento, ma una fase successiva, se si vuole, futura ed incerta. Ma, se quella fase si realizza, proprio questa, proprio il momento della esecuzione, e quel suo particolare aspetto che e' la procedura di sorveglianza, diviene quello in cui il sacrificio del diritto di difesa in sede di cognizione puo' essere fatto valere. E cio' potra' essere fatto non solo da coloro che scelsero di non collaborare, ma anche e soprattutto da coloro che non avrebbero potuto collaborare pur se lo avessero voluto (v. i casi di cui sub 2- c) e che oggi vedono sanzionata la mancata prestazione di una collaborazione che non avrebbero potuto prestare. Comunque - ed e' questa la seconda considerazione - esiste anche un diritto di difesa nella fase di esecuzione e in particolare in questa procedura di sorveglianza. Anche in questa fase, l'interessato ha diritto a mantenere un certo atteggiamento rispetto ai fatti giudicati e a scegliere una linea difensiva piuttosto che un'altra. Ed anche questo diritto di difesa e' colpito dalla normativa in discussione: ed e' particolarmente colpito in quei casi in cui nessuna collaborazione e' ormai piu' possibile. In questi casi ogni dialettica processuale si chiude e l'interessato e' consegnato, senza potere fare nulla, alla passiva esclusione da ogni beneficio. 3- c. - Si sono svolte le considerazioni precedenti, pensando soprattutto alla situazione del primo comma dell'art. 4-bis: di inammissibilita' ai benefici quando non vi sia collaborazione. E' chiaro che il discorso vale egualmente e ha piu' forte ragione per coloro che, gia' ammessi ai benefici penitenziari, possono soltanto fornire la collaborazione se non vogliono vedere revocati i benefici gia' concessi. Anche qui la linea difensiva e' obbligata se si vogliono mantenere le conseguenze favorevoli di quel riesame (del raggiungimento delle finalita' rieducative della pena), a cui l'interessato aveva diritto e che gli vengono ora negate dopo che erano state invece riconosciute. 4. - Rilievo di incostituzionalita' della nuova normativa di cui alla prima parte del primo comma dell'art. 4- bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, cosi' come modificato dall'art. 15 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, nonche' del secondo comma dello stesso articolo, per contrasto con l'art. 25, secondo comma, della Costituzione. La norma costituzionale ora citata stabilisce: "Nessuno puo' essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". L'irretroattivita' della legge (art. 11 preleggi) costituisce un principio generale del nostro ordinamento (sentenza Corte costituzionale 4 aprile 1990, n. 155), che nella materia penale e' stato garantito costituzionalmente (v. la giurisprudenza uniforme della Corte costituzionale in proposito). Tale principio, nella materia penale, riguarda sia la previsione della fattispecie di reato, sia la previsione legale della pena. Ora, nella situazione in discussione, come si e' cercato di chiarire nel rilievo di incostituzionalita' ex art. 27 (vedi sub 2- a e segg.), e' un nuovo e profondamente incisivo regime della pena che viene introdotto. Si e' chiarito, in sostanza, che condizionare alla c.d. "collaborazione" l'ammissibilita' ai benefici penitenziari (e farlo, in particolare, in modo generale, cosi' da intervenire in tutte le situazioni, ignorando anche quelle in cui la "collaborazione" non e' praticabile) equivale a determinare: inammissibilita' al rilievo (e, in sostanza; allo svolgimento) del percorso rieducativo-riabilitativo, essenziale alla esecuzione della pena; inammissibilita' al riesame dello sviluppo di quel percorso, finalizzato alla ricognizione che la pena abbia o meno raggiunto il fine che le e' proprio: riesame e ricognizione che sono un diritto dell'interessato, secondo quanto indicato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 204/1974 e in quelle successive sopra citate. Se e' cosi', l'intervento normativo in discussione cambia profondamente il regime della pena nei confronti di coloro che vi sono gia' sottoposti. Tale normativa opera in modo retroattivo, cosi' profondamente da prevedere, nel secondo comma dell'art. 15 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, addirittura la revoca dei benefici gia' in corso da tempo. Non solo, pertanto, non contiene alcuna clausola che escluda l'effetto retroattivo, ma lo afferma e lo dichiara in modo esplicito fino alle estreme conseguenze. Non sembra davvero manifestamente infondato affermare che la normativa in questione viola quella costituzionale indicata all'inizio di questo numero. 4- b. - La specifica norma ora ricordata, quella del secondo comma dell'art. 15 del d.l. n. 306/1992, che prevede la revoca delle misure alternative gia' concesse, e' specificamente applicata nel caso qui in esame. Sotto tale profilo, la norma costituzionale, che vieta la retroattivita' in materia penale, sembra ancora piu' disinvoltamente ignorata e violata. 5. - Rilievo di incostituzionalita' del seconco domma dell'art. 15 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 8 giugno 1992, n. 356, per contrasto con gli artt. 25, primo comma, 101, secondo comma, e 109 della Costituzione. 5- a. - Rileggiamo la norma in discussione di cui al secondo comma dell'art. 15. "Nei confronti delle persone detenute .. - vi si legge - per taluno dei delitti indicati nel primo periodo del primo comma (dell'art. 4- bis) che fruiscano, alla data di entrata in vigore del presente decreto, delle misure alternative alla detenzione .. l'autorita' di polizia comunica al giudice di sorveglianza competente che le persone medesime non si trovano nella condizione per l'applicazione dell'art. 58- ter della legge 26 luglio 1975, n. 354. In tal caso, accertata la insussistenza della suddetta condizione, il tribunale di sorveglianza dispone la revoca della misura alternativa alla detenzione ..". La norma in questione, di cui abbiamo esaminato la incostituzionalita' per altri aspetti, avrebbe potuto articolarsi come segue: enunciare che le misure alternative per i detenuti per determinati delitti dovevano essere revocate se non risultava la collaborazione con la giustizia degli stessi; stabilire che il tribunale di sorveglianza, per verificare la ricorrenza della collaborazione con la giustizia, seguiva i criteri e i modi di accertamento di cui all'art. 58-ter, primo e secondo comma. La norma in questione invece, pur dopo le modifiche introdotte con la legge di conversione, prevede come necessario l'intervento dell'autorita' di polizia: e' questa che comunica al giudice di sorveglianza la situazione ed indica che le persone interessate non si trovano nelle condizioni per l'applicazione dell'art. 58- ter della legge 26 luglio 1975, n. 354. Alla previsione di questa comunicazione dell'autorita' di polizia non si puo' che dare il significato di iniziativa necessaria perche' si proceda alla revoca. Senza quella comunicazione il procedimento di revoca non puo' nascere. Che poi l'organo giudiziario decida previe ulteriori verifiche e' un altro discorso: quelle verifiche verranno in un procedimento di revoca, che pero' non sorgera' senza la comunicazione dell'autorita' di polizia. E' indiscutibile che il senso non puo' essere diverso e che la norma non puo' significare che e' l'organo di sorveglianza ad informarsi, nei modi gia' previsti dall'art. 58-ter, presso l'organo di polizia della ricorrenza o meno della collaborazione. Se questo era il senso del discorso, bastava ripetere, con le variazioni del caso, una previsione analoga a quella dei commi secondo e terzo dell'art. 4-bis, previsione che rispetta, sia pure in modo discutibile e discusso, i ruoli dell'organo giudiziario, con funzione procedente e decidente, e dell'organo di polizia, con esclusiva funzione informativa. No, nella disposizione in questione, alla funzione informativa si aggiunge e si sovrappone quella di iniziativa, senza l'esercizio della quale, come si e' detto, il procedimento di revoca non sorge. Due considerazioni confermano questa lettura. La prima si ricava dall'impianto complessivo dell'art. 4-bis, alla fine del quale va in sostanza collocato questo secondo comma dell'art. 15 del d.l. in questione. Lo stesso (art. 4- bis), nei primi tre commi, introdotti con la legge 12 luglio 1991, n. 203, e modificati in parte dalla nuova normativa, che si e' esaminata ai numeri precedenti, stabilisce determinati limiti alla concessione dei benefici penitenziari e prevede accertamenti particolari, che devono essere compiuti dagli organi di sorveglianza decidenti. Si possono muovere riserve sui modi previsti dalla legge per questi accertamenti, ma, in linea generale, come si e' detto, i ruoli dell'autorita' giudiziaria e di quella di polizia sono rispettati. A questi tre commi segue pero' il comma 3-bis, che si inserisce, anche formalmente, nell'art. 4-bis, e quindi l'ulteriore comma in esame, non formalmente inserito nell'art. 4-bis, ma conclusivo dell'art. 15 del citato d.l. n. 306/1992 e da esaminare in stretta connessione con i vari commi dell'art. 4-bis. Orbene: questi due nuovi commi prevedono entrambi queste forme di "comunicazione" all'organo dedicente di sorveglianza, che condizionano e limitano gli spazi decisionali dello stesso. Nello specifico caso del comma finale dell'art. 15 del d.l. n. 306/1992, cosi' definito dalla legge di conversione n. 356/1992, la "comunicazione" dell'organo di polizia e' la condizione perche' la procedura di revoca inizi. La seconda considerazione si spiega meglio alla luce della prima. Queste "comunicazioni" presuppongono, in sostanza, un'attivita' di polizia che verifica o la specifica pericolosita' del caso o/e anche la inutilita' della gestione dello stesso a fini informativi. Cio' che e' significativo e', dunque, che queste "comunicazioni" ci possono anche non essere: e cio' avverra' nei casi che possono, appunto, essere utili a fini informativi. Il che significa, conclusivamente, che queste "comunicazioni" hanno come base la discrezionalita' dell'organo di polizia, strettamente legata alla gestione dei casi a fini informativi. Come si e' gia' osservato, non cambia poi la sostanza del discorso la circostanza che il tribunale decide non automaticamente, ma "accertata la insussistenza" della collaborazione. Cio' che qui si rileva non e' una limitazione nel momento decisionale, ma una limitazione che sta a monte dello stesso, nella iniziativa della procedura, e che impedisce di giungere al momento decisionale nei casi in cui l'organo di polizia decidera' di non fare alcuna comunicazione. 5- b. - Una normativa siffatta viola le varie norme costituzionali citate: l'art. 25 della Costituzione perche' l'iniziativa discrezionale dell'autorita' di polizia e, quindi, la possibilita' della stessa di dare o meno la "comunicazione", puo' sottrarre al giudice naturale precostituito per legge, che e' il tribunale di sorveglianza, la revoca di una misura alternativa: si ripete: questa ci sara' o non ci sara' perche' l'autorita' di polizia decide di dare o meno la comunicazione, data la quale, all'organo di sorveglianza non restera' che la valutazione sulla prestata (o meno) collaborazione; l'art. 101, secondo comma, della Costituzione, che afferma che il giudice e' soggetto soltanto alla legge, mentre, con la normativa in esame, e' la scelta discrezionale dell'autorita' di polizia, che consente di aprire la procedura di revoca e di pervenire alla pronuncia relativa, rovesciando cosi' il rapporto che dovrebbe intercorrere fra organo giudiziario decidente e organo informativo di polizia. Anche secondo l'indicazione dell'art. 109 della Costituzione, che, se e' scritto con riferimento ad un aspetto organizzativo del procedimento di cognizione, presuppone ovviamente ed esprime chiaramente la relazione necessaria che deve intercorrere fra funzione informativa e funzione decisionale e fra gli organi che, anche fuori del procedimento di cognizione, gestiscono le funzioni stesse. Non e' pertanto manifestamente infondata la questione di incostituzionalita' sopra indicata. 6. - Nella procedura di sorveglianza per revoca della ammissione alla semiliberta' nei confronti dell'interessato, si ravvisano, quindi, come non manifestamente infondate le seguenti questioni di incostituzionalita': a) incostituzionalita' della nuova normativa di cui alla prima parte del primo comma dell'art. 4- bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, cosi' come modificato dall'art. 15 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, ed inoltre e in particolare anche della previsione di cui al secondo comma dell'art. 15 citato, per contrasto con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione; b) incostituzionalita' della nuova normativa di cui alla prima parte del primo comma dell'art. 4- bis sopra citato, cosi' come modificato dall'art. 15 del d.l. n. 306/1992, convertito nella legge n. 356/1992, per contrasto con l'art. 24, secondo comma, della Costituzione; c) incostituzionalita' della nuova normativa di cui alla prima parte del primo comma dell'art. 4- bis citato, come modificato dall'art. 15 del d.l. n. 306/1992, convertito nella legge n. 356/1992, ed inoltre e in particolare anche della disposizione di cui al secondo comma dello stesso art. 15, per contrasto con l'art. 25, secondo comma, della Costituzione; d) incostituzionalita' della nuova normativa di cui al citato secondo comma del ripetuto art. 15, per contrasto con gli artt. 25, primo comma, 101, secondo comma, e 109 della Costituzione. 93C0174