N. 163 ORDINANZA (Atto di promovimento) 26 gennaio 1993
N. 163 Ordinanza emessa il 26 gennaio 1993 dalla pretura di Novara, sezione distaccata di Borgomanero, nel procedimento civile vertente tra Boriolo Piero ed altri e la U.S.S.L. n. 54 di Borgomanero Sanita' pubblica - Medici titolari nei confronti del S.S.N. di un rapporto di lavoro a tempo definito e, contemporaneamente, di un rapporto in regime convenzionale - Previsione della garanzia del passaggio anche in soprannumero al rapporto di lavoro a tempo pieno al personale medico a tempo definito in servizio alla data di entrata in vigore della legge impugnata che intenda far cessare in questo modo la situazione di incompatibilita' del doppio regime - Mancata previsione di corrispondente garanzia al personale medico che, provenendo dalla identica situazione di fatto, intenda optare invece per la conservazione del solo rapporto convenzionale - Disparita' di trattamento di situazioni omogenee con incidenza sul diritto al lavoro e sul principio della tutela del lavoro. (Legge 30 dicembre 1991, n. 412, art. 4, settimo comma). (Cost., artt. 3, 4 e 35).(GU n.15 del 7-4-1993 )
IL PRETORE Sciogliendo la riserva assunta in udienza nel procedimento n. 5065/92 introdotto da Boriolo Piero, Farina Fulvio e Colombo Paolo Pietro contro l'U.S.S.L. 54 di Borgomanero, ha pronunciato la seguente ordinanza; SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1. - Il 22 ottobre 1992 i ricorrenti (medici titolari nei confronti del Servizio sanitario nazionale di un rapporto di lavoro a tempo definito, e, contemporaneamente, di un rapporto in regime convenzionale) hanno depositato in cancelleria ricorso al pretore in funzione di giudice del lavoro, investendo quest'ultimo della tematica connessa all'applicazione dell'art. 4, settimo comma, della legge 30 dicembre 1991, n. 412. Essi hanno chiesto: a) la condanna dell'U.S.S.L. 54 al pagamento di somme di denaro che hanno ritenuto di loro spettanza in relazione al mancato adeguamento degli accordi collettivi vigenti; b) l'accertamento, tramite il giudizio della Corte costituzionale, della illegittimita' dell'art. 4, settimo comma, della legge n. 412/1991 e, quindi, la declaratoria di "nullita' di ogni atto presupposto o conseguente". 2. - Contestualmente al deposito al citato ricorso ex art. 414 del c.p.c. i ricorrenti hanno introdotto procedura di urgenza ex art. 700 del c.p.c. In quest'ultima procedura sono state richiamate le argomentazioni del ricorso relative al sospetto di illegittimita' costituzionale dal quale sarebbe affetto il citato art. 4 della legge n. 412/1991, ed e' stato richiesto al giudice del lavoro di "sospendere il termine del 31 dicembre 1992 stabilito dall'art. 4, settimo comma, della legge n. 412/1991, in attesa che venga deciso il presente giudizio e/o in attesa della eventuale decisione della Corte costituzionale o comunque fino alla entrata in vigore dello stipulando accordo convezionale imposto dall'art. 4, settimo comma, ultima parte, della legge 30 dicembre 1991, n. 412". 3. - Il pretore ha emesso decreto di fissazione dell'udienza di discussione nel procedimento ex art. 414 del c.p.c., e, con separato atto, ha fissato l'udienza per la trattazione del procedimento d'urgenza. 4. - L'U.S.S.L. si e' costituita ed ha chiesto il rigetto di tutte le domande, urgenti e non, avanzate dalle controparti. 5. - All'udienza del 3 dicembre 1992 le parti hanno chiesto ed ottenuto termine differenziato per il deposito di una memoria difensiva. Il 19 dicembre 1992 i ricorrenti hanno depositato la loro memoria in Cancelleria, ed in essa hanno dichiarato che, nelle more del giudizio, l'U.S.S.L. 54 ha loro notificato la deliberazione n. 865 adottata dall'amministratore straordinario. Con questo provvedimento l'U.S.S.L. 54 ha anticipato ai ricorrenti che, per il caso di mancata opzione - entro il 31 dicembre 1992 - per uno dei due rapporti di lavoro con il Servizio sanitario nazionale, si provvedera' a confermare il rapporto di dipendenza ed a risolvere quello convenzionale (per i ricorrenti Boriolo e Farina) nonche' a risolvere il rapporto convenzionale (per il ricorrente Colombo), in ogni caso a far tempo dal 31 gennaio 1993. I ricorrenti, richiamate le precedenti difese, hanno impugnato anche la citata deliberazione e ne hanno chiesto la disapplicazione da parte del Pretore, con ordine all'U.S.S.L. di mantenere i ricorrenti nella situazione quo ante sia per quanto attiene al rapporto di dipendenza che per quello che riguarda il rapporto convenzionale. Nella corrispondente memoria autorizzata (depositata il 30 dicembre 1992) l'U.S.S.L. 54' pur accettando il contraddittorio sulla - nuova - domanda di disapplicazione della deliberazione n. 865 del 3 dicembre 1992, ha insistito per ottenere il rigetto di tutte le avverse pretese. Cio' premesso, il pretore - in parte accogliendo, in altra parte rigettando, ed in residua parte diversamente valutando le argomentazioni delle parti processuali - osserva: 6. - La questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4, settimo comma, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, non e' manifestamente infondata. Nel disporre che "con il Servizio sanitario nazionale puo' intercorrere un unico rapporto di lavoro", la norma di legge in oggetto impone ai medici che abbiano piu' di un rapporto, anche di natura convenzionale, con il Servizio sanitario di far cessare tale situazione (definita di "incompatibilita'") entro il 31 dicembre 1992. In particolare i medici che abbiano con il servizio sia un rapporto di dipendenza a tempo definito ex art. 47 della legge n. 833/1978 che, contestualmente, un rapporto convenzionale ex art. 48 della stessa legge, entro il 31 dicembre 1992 devono optare o per il primo oppure per il secondo di essi. Senonche', lo status giuridico-economico del medico che esprima l'opzione in favore del rapporto di dipendenza appare molto diverso, e migliore, rispetto a quello del professionista che invece intenda optare per il rapporto convenzionale. Dal momento che coloro che sono chiamati ad effettuare la scelta tra le due possibilita' sono nella identica condizione lavorativa di partenza, la marcata differenza sopra evidenziata sembra verosimilmente tradursi in irragionevole, e quindi sospetta, disparita' di trattamento; e questa vistosa disparita' costituisce a sua volta fonte di "coercizione" nella scelta, di talche' non appare rispettato il disposto degli artt. 4 e 35 della Costituzione, a proposito, oltretutto, di una professione che incide su un altro bene costituzionalmente protetto (art. 32 della Costituzione). Infatti: A) Il medico che esprime l'opzione in favore del rapporto di dipendenza gode della garanzia accordata dallo stesso art. 4, settimo comma, della legge n. 412/1991. Quest'ultimo reca: "A decorrere dal primo gennaio 1993, al personale medico con rapporto di lavoro a tempo definito, in servizio alla data di entrata in vigore della presente legge, e' garantito il passaggio, a domanda, anche in soprannumero, al rapporto di lavoro a tempo pieno". Questa garanzia (pur essendo affievolita dal fatto che la legge non impone un termine entro il quale il Servizio sanitario debba attuarla in favore del medico dipendente: ma si potrebbe sostenere che quod sine die debetur, statim debetur) comporta inevitabilmente dei riflessi sul piano del trattamento economico. Comparando, sotto quest'ultimo aspetto la situazione del medico titolare del rapporto di dipendenza a tempo definito nonche' del rapporto convenzionale con un massimo di cinquecento assistito, con la situazione del medico titolare soltanto del rapporto di dipendenza a tempo pieno, non si riscontrano delle differenze retributive di spessore tanto marcato da poter essere ritenuto rilevante ai fini in esame. Anche l'aspetto previdenziale, ad una analisi approfondita, non sembra raggiungere - nel passaggio dalla duplicita' dei rapporti, alla unicita' di dipendenza a tempo pieno - livelli di differenza tali da introdurre legittimamente l'esame del sospetto di incostituzionalita' della norma. I medici che optino per il tempo pieno, infatti, godrebbero dell'identico trattamento previdenziale previsto per i colleghi gia' collocati in precedenza in tale rapporto di dipendenza, sol che essi permangano in tale posizione per almeno cinque anni precedenti alla futura cessazione dal servizio (artt. 7 e 8 del d.l. 30 giugno 1972, n. 267). In piu', l'opzione in esame non inficierebbe il diritto, quali medici ( ex) convenzionati, o di ottenere la restituzione dei contributi versati, maggiorati degli interessi legali (primo comma dell'art. 8 del d.m. 4 aprile 1985), oppure di rimanere iscritti al fondo E.N.P.A.M. e fruire del trattamento pensionistico relativo, al maturare dei relativi requisiti (secondo comma del citato art. 8). Per quanto riguarda gli aspetti di progressione in carriera, e' ben vero che nel sistema concorsuale disegnato dagli artt. 28 e 32 del d.m. 30 gennaio 1982 i medici a tempo pieno beneficiano di una maggiorazione, riferita ai titoli di carriera, che incide per il 35% sul punteggio attribuibile in un concorso, rispetto ai colleghi a tempo definito. E pertanto, e' ben vero che i medici che transitano dal tempo definito a quello pieno si trovano in una situazione di svantaggio. Ma, oltre a potersi affermare che la diversita' di punteggio corrisponde ad una differente continuita' di collaborazione negli enti ospedalieri, c'e' da rilevare che il recentissimo decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 50, ha completamente ridisegnato la "carriera" del medico ospedaliero, ed ha anche previsto (art. 18, primo comma) la modifica dell'attuale normativa concorsuale: di talche' e' ragionevole ipotizzare che eventuali disparita' possano trovare la sede opportuna per i necessari correttivi. B) Se questo e', per linee essenziali, lo status di cui godrebbe il medico che scelga il rapporto di dipendenza a tempo pieno, molto diversa, e ben deteriore, e' la condizione del professionista che intenda, invece, esprimere l'opzione in favore del solo rapporto di medico convenzionato. Questi subirebbe un'immediata decurtazione di piu' del cinquanta per cento del trattamento retributivo complesso fino ad oggi ricevuto, di talche' l'invito fatto dal legislatore, alla scelta tra due opportunita', appare in realta' una sorta di "costrizione" di fatto a transitare dai rapporti a tempo definito e convenzionale, al rapporto a tempo pieno. Tutto questo e' conseguenza del fatto che, mentre si assicura al medico il "passaggio anche in soprannumero al rapporto di lavoro a tempo pieno" la legge non esprime alcuna garanzia di mantenimento del rapporto convenzionale, e ancor meno assicura - a chi opti per il mantenimento del solo rapporto convenzionale - l'attribuzione di un numero di assistiti tale da compensare quel notevole minor introito retributivo, che sarebbe sicura conseguenza della cessazione del rapporto dipendente del rapporto a tempo definito. Risulta dagli atti di questa procedura, per esempio, che l'attuale trattamento retributivo complessivo del ricorrente Boriolo e' mediamente di L. 4.742.000 nette mensili, quello del ricorrente Farina e' mediamente di L. 5.575.000, e quello di Colombo ammonta a L. 3.911.000. Se i ricorrenti optassero per il rapporto convenzionale, essi percepirebbero, rispettivamente, la somma netta media mensile di circa L. 1.716.000, L. 2.039.000 e L. 1.852.000 L'incremento della loro retribuzione sarebbe condizionata unicamente all'incremento del numero di cittadini assistiti che decidessero di avvalersi delle loro prestazioni: senonche' i fattori contingenti notoriamente sussistenti rendono tale incremento puramente teorico, e, comunque, possibile soltanto in tempi medio- lunghi (e' nota la tendenza dell'assistito a continuare nel rapporto di fiducia gia' stabilito con un altro medico; ed e' altresi' noto che il numero di professionisti che lavorano nel settore medico e' esorbitante rispetto alla domanda). A parte ogni altra considerazione sotto i profili previdenziali, ritiene il pretore che l'aspetto strettamente economico della nuova situazione nella quale repentinamente i ricorrenti si troverebbero conduce da sola a rimettere la questione alla Corte costituzionale, posto che l'unico accenno a possibili variazioni del quadro retributivo appena evidenziato si rinviene in termini generici nell'ultima parte dell'art. 4, settimo comma, della legge n. 412/1991, laddove il testo reca: "In sede di definizione degli accordi convenzionali di cui all'art. 48 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, e' definito il campo di applicazione del principio di unicita' del rapporto di lavoro a valere tra i diversi accordi convenzionali". In sostanza, viene rinviata alla contrattazione collettiva la definizione del nuovo rapporto convenzionale, ma la legge non impone che tale definizione avvenga entro il 31 dicembre 1992, ne' stabilisce un collegamento temporale tra l'avvenuta contrattazione collettiva e la scadenza del termine per effettuare la scelta: la legge, quindi, non rende possibile alcuna valutazione sugli effetti concreti che conseguirebbero all'opzione espressa in favore del rapporto convenzionale. C) Le considerazioni che precedono consentono di ritenere, in termini conclusivi e sintetici che non e' manifestamente infondato il sospetto che l'art. 4, settimo comma, della citata legge 30 dicembre 1991, n. 412: I) sia in contrasto con il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione, perche' - non prevedendo garanzie di sorta per il rapporto "convenzionato" - riserva trattamenti irragionevolmente differenziati ad esercenti la professione sanitaria che, essendo nella pari condizione di titolari degli stessi due rapporti di collaborazione lavorativa con il Servizio sanitario nazionale, optino, in forza della medesima legge, gli uni per il rapporto dipendente e gli altri per il rapporto "convenzionato"; II) sia in contrasto con gli artt. 4 e 35 della Costituzione, perche', generando di fatto una grave e repentina disarmonia di trattamento normativo e retributivo tra le due categorie di medici di cui al precedente punto I, toglie in concreto - pur formalmente attribuendola - ogni possibilita' di scelta ai medici che, in forza della legge 23 dicembre 1978, n. 833, sono titolari dei citati due rapporti di collaborazione lavorativa con il Servizio sanitario nazionale. Stabilito dunque che l'assetto dei rapporti di collaborazione lavorativa esistenti tra i ricorrenti ed il Servizio sanitario nazionale dovrebbe - dal 31 gennaio 1993 (come da deliberazione dell'U.S.S.L. 54 qui impugnata) - modellarsi su legge fondatamente sospetta di illegittimita' costituzionale, si apre la tematica relativa al se il giudice possa accordare tutela - seppur provvisoria ed urgente - attraverso quel particolare meccanismo che comporta in sostanza una sorta di "esonero", per le parti processuali, dal tener conto di quella specifica legge. Il dibattito in materia e' di grande attualita', ed e' peraltro in corso da tempo, come testimoniano le varie decisioni che, l'una in contrasto con l'altra, si sono susseguite soprattutto nell'ultimo decennio (cfr., per tutte, Cass., sez. lav., sentenza 9 febbraio 1991, n. 1365, in Foro it., 1991, I, 3399 con ampia nota di richiami; cfr. altresi' Cass., sez. lav. 12 dicembre 1991, n. 13415, in Giust. civ., 1992, I, 1819 e 2757). Il pretore osserva che, secondo l'orientamento della Corte di cassazione e di diversi giudici di merito, una legge deve comunque essere osservata e non puo' essere "congelata" da un provvedimento pretorile basato sul sospetto di incostituzionalita', perche' cosi' e' imposto dal "sistema accentrato del controllo delle leggi in capo alla Corte costituzionale". Di conseguenza, in presenza di una legge che disponesse - per esempio - l'espulsione dai luoghi di lavoro di tutti i lavoratori di sesso femminile, di tutti gli ebrei e di tutti coloro che hanno la pelle nera, sia i cittadini lavoratori che i cittadini datori di lavoro, e sia anche i giudici della Repubblica, dovrebbero fare soltanto atto di ossequio al "sistema accentrato del controllo delle leggi", e, per intanto, sottostare alla plateale violazione di una delle piu' significative e caratterizzanti regole che scolpicono la fisionomia del vigente assetto costituzionale. Questo pretore ritiene sommessamente, ma decisamente, di dover dissentire da tale orientamento: e non per innovare rispetto al diritto vigente, ma al contrario, per affermare che l'interpretazione delle norme in vigore deve essere affrontata liberandosi di quella anche incolpevole, ma tuttavia evidente, tradizione culturale secondo la quale la persona in quanto tale, ed il cittadino in quanto tale, hanno "valenza" comunque inferiore a quella che viene riconosciuta alle "Istituzioni" (Governo, Parlamento, magistratura che siano). Pur a fronte di dichiarazioni di principio secondo le quali il cittadino "e' titolare di una frazione di sovranita'" e non piu' "suddito", c'e poi di fatto sempre un timore di "scardinare" l'ordinamento, ogni volta che al cittadino, e non alle rappresentanze o alle espressioni dell'autorita' costituita deve essere accordata la prevalenza in specifiche fattispecie concrete. Quasi che esistesse, in modo invisibile ma palpabile, una Costituzione che riguarda i diritti dei cittadini, ed una seconda "piu nobile" e gerarchicamente sovraordinata Costituzione, che riguarda tutta l'organizzazione, le prerogative ed i poteri dell'autorita'. E' ovvio invece che la Carta costituzionale e soltanto una; ed e' evidente - secondo la legge vigente, non secondo astratti canoni di filosofia del diritto - che Parlamento, Governo, Capo dello Stato, magistratura e quant'altro, ricevono ragion d'essere e ragion d'agire dallo stesso tracciato nel quale e' scolpita con termini chiari la dignita' ed il diritto di ogni cittadino, e la sovranita' dei cittadini nel loro complesso. Orbene, un ordinamento nel quale fosse inibito al giudice (che e', per legge fondamentale, "ago della bilancia", garante imparziale, "terzo" tra potere costituito e singolo cittadino) di accordare immediata tutela contro leggi che - con la ponderatezza che ogni giudice deve possedere -, siano ritenute sospette di illegittimita' costituzionale, potrebbe fondarsi soltanto sulla certezza che il legislatore non violi mai le regole del mandato ricevuto dal popolo. Un legislatore, cioe', che non travalichi mai i limiti posti dalla legge fondamentale dello Stato dalla quale egli trae il suo potere d'imperio ed il cittadino il suo obbligo di sottostare: oppure un legislatore che attui sempre e comunque una tal garanzia quantomeno in quella produzione normativa che, inserendosi in basilari condizioni di vita delle persone, non rischi, anche con un'applicazione soltanto provvisoria, di compromettere definitivamente i diritti dei soggetti tenuti all'osservanza delle leggi. Senonche' questa garanzia non esiste, come e' storicamente provato dell'enorme numero di pronunce della Corte costituzionale che hanno dichiarato l'illegittimita' di leggi o di atti aventi forza di legge; e questa garanzia e' forse chimerico pretendere, posto che le maggioranze parlamentari e governative che producono le leggi sono per loro stessa genesi espressione (legittima, beninteso) di una parte, e non di tutto il popolo, e possono pertanto, in singole contingenze storiche, ben essere portate a violare o quantomeno a "soffocare" i limiti imprescindibili tracciati nella Carta costituzionale. Al punto che, un'analisi attenta, imparziale, fantasiosa e non soggiogata dal timore del presunto disordine istituzionale, potrebbe condurre a verificare che le leggi che hanno storicamente violato la Costituzione sono state causa ed occasione di "disarticolazione" dell'ordinamento molto piu' di quanto non lo siano stati provvedimenti d'urgenza ex art. 700 accordati dai giudici a singoli cittadini, in specifiche fattispecie concrete. D'altra parte, e' implicito nel potere-dovere di sospendere il processo in corso (per rimettere gli atti alla Corte costituzionale) la "moratoria" nella quale una legge viene posta. Quando in un procedimento civile, per esempio, il giudice non attua in concreto il diritto di una parte a fare, o a dare oppure a ricevere un qualunque bene, allegando la norma in forza della quale egli dovrebbe attuare quel diritto e' sospetta di illegittimita', il giudice altro non fa che "paralizzare" in concreto la vigenza di quella specifica legge. E quando in un procedimento penale sorge analogo sospetto, e' addirittura la pretesa punitiva dello Stato (ricavata da una legge in vigore) che viene posta in moratoria, quale conseguenza della paralisi effettuale provvisoria nella quale il giudice pone la legge penale, che pur dovrebbe essere subito applicata. Non appare esistere alcuna sostanziale (non libresca, non d'alchimia giuridica) differenza tra questo agire del giudice nel corso di un procedimento civile a cognizione ordinaria, o di un procedimento penale, e l'agire del giudice nell'ambito di una procedura d'urgenza ex art. 700 del c.p.c.: in ogni caso una norma di legge viene provvisoriamente paralizzata, ed in tutti i casi soltanto alla Corte costituzionale, come per legge, viene demandato il giudizio sull'avvenuto o mancato rispetto della Carta fondamentale della Repubblica. Per tutte le considerazioni che precedono, e' conforme ai principi vigenti nell'ordinamento che il pretore adito ex art. 700 del c.p.c. modelli il provvedimento di tutela urgente del quale sia richiesto, sul ritenuto, e rilevante nel giudizio, sospetto di illegittimita' di una norma di legge o di un atto avente forza di legge. Verificato che il sospetto di illegittimita' costituzionale non e' manifestamente infondato, e che il pretore puo' modellare il provvedimento urgente proprio su questo presupposto, resta da dire che la rilevanza della questione di costituzionalita' in questa procedura (come nel susseguente giudizio di merito) appare evidente, sol che si pensi che l'infondatezza della questione avrebbe condotto alla reiezione del ricorso d'urgenza e condurrebbe al rigetto di una della domande che, con ricorso ex art. 414 del c.p.c., i ricorrenti hanno gia' introdotto depositando l'atto in cancelleria. Quanto al periculum in mora sara' sufficiente evidenziare che, in assenza di un diverso ordine del giudice, l'U.S.S.L. a decorrere dal 3l gennaio p.v. riterra' effettuata l'opzione che la legge impone ai ricorrenti, e saranno quindi irrimediabilmente travolte le, eventualmente diverse, volonta' dei singoli ricorrenti. In particolare, tutti i cittadini assistiti che si avvalgano attualmente delle prestazioni professionali dei ricorrenti Boriolo e Farina sarebbero "dispersi" in breve lasso di tempo verso altri medici convenzionati, con possibilita' di ripristino della situazione precedente soltanto teorica. Per converso (e per quanto possa occorrere sotto i marginali profili di opportunita') l'U.S.S.L. 54 potrebbe facilmente, e senza danno, assegnare ai ricorrenti il posto a tempo pieno che la legge riserva ai ricorrenti, oppure conservare loro il rapporto convenzionato che e' in atto. Rimessa al giudice del merito ogni piu' approfondita motivazione, ed ogni altro provvedimento, il pretore osserva che in questo caso il giudizio di merito appartiene alla competenza funzionale di questo stesso giudice, presso il quale il relativo processo risulta gia' pendente; e che, pertanto, unitamente alla pronuncia del provvedimento cautelare ed urgente, si deve disporre la rimessione degli atti alla Corte costituzionale, e la sospensione del giudizio di merito gia' fissato per l'udienza di discussione del 17 marzo 1993.
P. Q. M. Il pretore accogliendo nei sensi di cui in motivazione il ricorso ex art. 700 del c.p.c.: dichiara che non e manifestamente infondata, ed e' rilevante nel presente processo, la questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 4, settimo comma della legge 30 dicembre 1991, n. 412, in relazione all'art. 3 della Costituzione, nella parte di cui la citata legge, - nel mentre accorda la garanzia del passaggio anche in soprannumero al rapporto di lavoro a tempo pieno al personale medico a tempo definito in servizio alla data di entrata in vigore della legge che intenda far cessare in questo modo la situazione di incompatibilita' del doppio rapporto di lavoro con il Servizio sanitario nazionale, - non appresta alcuna corrispondente garanzia al personale medico che, provenendo dalla identica situazione di fatto, intenda optare invece per la conservazione del solo rapporto convenzionale; dichiara altresi' che non e' manifestamente infondata, ed e' rilevante nel presente processo, la questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 4, settimo comma, della legge 30 dicembre 1991 n. 412, in relazione agli artt. 4 e 35 della Costituzione, nella parte in cui la citata legge - prevedendo la garanzia del passagio anche in soprannumero al rapporto di lavoro a tempo pieno, e, quindi, garantendo una sostanziale intangibilita' dello status giuridico- economico gia' maturato dal medico che opti per questa modalita' di cessazione dell'incompatibilita' stabilita dalla legge - e, per converso, - trascurando ogni analoga garanzia per il medico che intenda optare per la conservazione del solo rapporto convenzionale con il Servizio sanitario nazionale, e provocando in tal modo una marcata e repentina regressione nel trattamento retributivo complessivo - condiziona gravemente, fino ad annullarla nei fatti, la libera scelta formalmente accordata ai medici che abbiano con il Servizio sia un rapporto di lavoro a tempo definito che un rapporto basato su convenzione; ordina all'U.S.S.L. 54 di Borgomanero, in persona del legale rappresentante pro-tempore, di astenersi fino alla conclusione del giudizio in corso, e comunque fino a diverso ordine del giudice - nonostante il disposto della deliberazione n. 865 del 3 dicembre 1992 - da qualsiasi modificazione del rapporto di lavoro a tempo definito nonche' del rapporto convenzionale che intercorreva con i ricorrenti alla data di presentazione del ricorso (22 ottobre 1992), salvo che le modificazioni prescindano totalmente dal disposto dell'art. 4, settimo comma, della legge 30 dicembre 1991 n. 412. dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il processo introdotto con ricorso ex art. 414 c.p.c.; ordina che la cancelleria notifichi la presente ordinanza alle parti ed al Presidente del Consiglio dei Ministri; e che ne dia comunicazione al Presidente della Camera dei deputati e al Presidente del Senato. Borgomanero, addi' 26 gennaio 1993 Il pretore: LOMBARDI 93C0344