N. 171 ORDINANZA (Atto di promovimento) 18 febbraio 1993

                                N. 171
 Ordinanza  emessa  il  18  febbraio  1993  dal  pretore di Genova nei
 procedimenti civili riuniti vertenti tra Miniati Marisa  ed  altre  e
 l'I.N.P.S.
 Previdenza e assistenza sociale - Lavoratori dipendenti -
    Prepensionamento  delle  lavoratrici di eta' superiore a cinquanta
    anni - Trattamento  di  quiescenza  sulla  base  della  anzianita'
    contributiva aumentata di un periodo pari a quello compreso tra la
    data  di  risoluzione  del  rapporto  e  quello  di compimento del
    cinquantacinquesimo  anno  di  eta'  -  Mancata   previsione   del
    riconoscimento  di anzianita' contributiva aumentata fino a cinque
    anni come per i lavoratori  di  sesso  maschile  -  Ingiustificato
    deteriore  trattamento  delle lavoratrici rispetto ai lavoratori -
    Riferimento alle sentenze della Corte costituzionale nn. 137/1986,
    498/1988, 371/1989 e 503/1991.
 (Legge 23 aprile 1981, n. 155, art. 16).
 (Cost., artt. 3 e 37).
(GU n.17 del 21-4-1993 )
                              IL PRETORE
    Ha pronunciato la  seguente  ordinanza  nella  causa  promossa  da
 Miniati Marisa + altri nei confronti dell'I.N.P.S.
                           PREMESSE IN FATTO
    Con  ricorsi separati depositati in cancelleria il 15 giugno 1992,
 il 22 giugno 1992, il 6 luglio 1992 e l'8 luglio 1992 Miniati  Marisa
 e  le  altre  ricorrenti  indicate  all'epigrafe,  premesso  di  aver
 lavorato alle dipendenze della Standa S.p.a. (la Miniati,  la  Torre,
 la  Olmi  e  la  Liverani) dell'Oleificio Costa S.p.a. (la Lottero) e
 della Erg (la Tasca) affermavano di aver presentato le dimissioni  ai
 sensi   dell'art.   16   della   legge  n.  155/1981  in  materia  di
 prepensionamenti.
    Lamentavano quindi che  l'I.N.P.S.,  nell'applicare  detta  norma,
 aveva  riconosciuto  loro  un  accredito contributivo pari al periodo
 mancante al compimento del  loro  cinquantacinquesimo  anno  di  eta'
 anziche'  nella  misura  massima  di cinque anni previsto dalla norma
 citata.
    A loro dire, cosi' facendo l'I.N.P.S. aveva violato  il  principio
 di   parita'   di   trattamento   tra   uomo   e  donna  in  tema  di
 prepensionamento piu' volte affermato dalla  Corte  costituzionale  e
 chiedeva  la  condanna dell'I.N.P.S. a corrispondere loro l'ulteriore
 accredito contributivo sino al  raggiungimento  dei  cinque  anni  di
 beneficio previsti dalla norma citata.
    A  tale  conclusione,  secondo  la  loro prospettazione, si poteva
 pervenire in via interpretativa  grazie  alle  numerose  sentenze  in
 materia  della Corte costituzionale e in particolare alla n. 371/1989
 concernente proprio l'art. 16 della legge n. 255/1981.
    Solo in via subordinata chiedevano la rimessione  della  questione
 al  giudice  delle  leggi per violazione degli artt. 3, 37 e 38 della
 Costituzione.
    L'I.N.P.S. si costituiva in giudizio e resisteva alle domande.
    All'udienza del 10  febbraio  1993  il  pretore  si  riservava  di
 decidere  sulla  questione  di  costituzionalita'  prospettata  dalle
 ricorrenti.
    Sciogliendo la riserva svolge le seguenti
                       CONSIDERAZIONI IN DIRITTO
    L'art.  16  della  legge  n.  155/1981  prevede  che agli operai e
 impiegati che abbiano compiuto i cinquantacinque anni se uomini  o  i
 cinquanta  se  donne  spetta,  in caso di risoluzione del rapporto di
 lavoro con imprese in crisi, un trattamento di  pensione  sulla  base
 dell'anzianita'  contributiva  aumentata  di un periodo pari a quello
 compreso tra la data  di  risoluzione  del  rapporto  e  la  data  di
 compimento  dei sessanta anni per gli uomini e cinquantacinque per le
 donne.
    La Corte costituzionale non si e' mai  occupata  di  questa  norma
 considerata singolarmente; con la sentenza n. 371
 del  6  luglio  1989  ha  dichiarato  incostituzionale  il  combinato
 disposto dell'art. 16 citato con l'art. 1 della legge 31 maggio 1984,
 n. 193, da cui risultava un accredito contributivo massimo minore per
 le donne che per gli uomini (l'art. 1 della legge n.  193/1984  aveva
 infatti  abbassato  il  requisito anagrafico d'accesso al beneficio a
 cinquanta  anni  per  tutti  i  lavoratori  lasciando  inalterato  il
 riconoscimento  dell'anzianita'  contributiva  fino a cinquantacinque
 anni per le donne e fino a sessanta per gli uomini).
    Le ricorrenti che al momento della  risoluzione  del  rapporto  di
 lavoro   avevano   tutte   un'eta'  compresa  tra  i  cinquanta  e  i
 cinquantacinque  anni  di  eta'  ritengono  ingiustificato   che   la
 concessione  del  beneficio  in  parola  debba  essere  limitato  nei
 confronti delle donne a causa della fissazione  dell'eta'  lavorativa
 in cinquantacinque anni.
    La  questione  e'  gia' stata affrontata da questo pretore che con
 sentenza  del  26  marzo  1990  (causa  Giuri/I.N.P.S.)  ha  ritenuto
 accoglibile  la  pretesa  della  ricorrente in via interpretativa. La
 sentenza e' stata confermata in appello  (sentenza  trib.  Genova  n.
 253/1991);  successivamente pero' il tribunale in una causa avente lo
 stesso oggetto ha mutato avviso respingendo  la  richiesta  di  altra
 lavoratrice (trib. Genova n. 174/1993).
    In  questa  seconda  sentenza  il  tribunale  afferma  che nessuna
 disparita' di trattamento vi sarebbe nella  disciplina  dell'art.  16
 citato  in  quanto  "fosse  stato uomo anziche' donna ( ..) la nostra
 lavoratrice avrebbe dovuto attendere i  cinquantacinque  anni,  e  se
 avesse,  per  ipotesi,  gia'  compiuto  cinquantacinque anni, avrebbe
 beneficiato, simmetricamente, di un incremento  uguale  a  quello  di
 lavoratore  di  sesso  femminile  (periodo variabile, a seconda della
 data di risoluzione del rapporto, fino al limite  massimo  di  cinque
 anni)".
    Cosi'  argomentando  il  tribunale  non  considera che nel sistema
 delineato dall'art. 16 citato la lavoratrice si vede costretta  -  se
 non  vuol  perdere il beneficio -, ad abbandonare il lavoro prima dei
 cinquantacinque anni mentre per l'uomo vale il  limite  dei  sessanta
 anni.
    La  norma  ripropone cioe', sia pur indirettamente, una disparita'
 di  trattamento  in  ragione  alla  diversita'  di  sesso   incidente
 sull'eta'  lavorativa  "che  e'  identica  sia  per l'uomo che per la
 donna, potendo entrambi lavorare fino a sessant'anni" (sentenze Corte
 costituzionale nn. 137/1986, 489/1988 e 503/1991).
    Tale disparita' non puo' considerarsi per  cosi'  dire  compensata
 (come  sembra  ritenere  il tribunale) dalla circostanza che la donna
 puo'  fruire  del  prepensionamento  a  un'eta'  inferiore   rispetto
 all'uomo (cinquanta anni contro i cinquantacinque dell'uomo).
    Tale  facolta'  infatti,  essendo  solo  il  riflesso  della norma
 generale  per  cui  alle   donne   e'   possibile   optare   gia'   a
 cinquantacinque   anni   per  la  pensione  di  vecchiaia,  non  puo'
 comportare la perdita di altri benefici  o  giustificare  trattamenti
 deteriori per le lavoratrici.
    Il  suo  esercizio  e'  riservato  alla donna e deve da lei essere
 esercitato in piena liberta' in considerazione solo  delle  finalita'
 per le quali e' previsto (v. Corte costituzionale n. 371/1989).
    La  Corte  costituzionale  ha  del  resto  gia'  preso in esame un
 problema analogo a quello in considerazione occupandosi dell'art.  2,
 secondo  comma,  del  d.l.  1½ aprile 1989, n. 120, che prevedeva un
 aumento contributivo pari al periodo mancante al  raggiungimento  dei
 cinquantacinque  anni per la donna e i sessanta per l'uomo nel limite
 massimo di dieci anni.
    Dopo aver affermato che la sancita disparita' di  trattamento  tra
 lavoratore  e  lavoratrice  si  fondava  sull'erroneo presupposto che
 l'eta' pensionabile per la donna fosse fissata al cinquantacinquesimo
 anno di eta' e per l'uomo al sessantesimo, la Corte  osserva  che  la
 stessa  disparita'  non  viene  meno  in considerazione del fatto che
 l'art. 5 del d.l. n. 536/1987 convertito in legge n. 48/1988 prevede
 che la donna puo' andare  in  prepensionamento  al  quarantasettesimo
 anno.
    Afferma  la  Corte:  "siffatta previsione importa solo che da tale
 eta' inizia il periodo di  anzianita'  contributiva  da  riconoscersi
 alla  stessa,  il  quale  deve  essere  di  dieci  anni  come  per il
 lavoratore" (sentenza n. 503/1991).
    Applicando  tali  principi  alla  fattispecie  in  esame  potrebbe
 riconoscersi   in   via   interpretativa  il  diritto  vantato  dalle
 ricorrenti.
    Tuttavia, tenuto conto dell'opposto orientamento del  tribunale  e
 considerato   che  l'art.  16  piu'  volte  citato  non  ha,  neppure
 indirettamente (se non in riferimento al richiamo contenuto nell'art.
 1 della legge n. 193/1984 con cui dava luogo a  una  norma  diversa),
 formato  oggetto  di  giudizio della Corte costituzionale, il pretore
 ritiene preferibile, stante l'evidente rilevanza della questione  che
 ove accolta consentirebbe di riconoscere alle ricorrenti un ulteriore
 accredito  contributivo sino al massimo dei cinque anni, rimettere la
 questione al giudice delle leggi.
                               P. Q. M.
    Visti gli artt. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1941, n. 1
 e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara rilevante e non  manifestamente  infondata  in  relazione
 agli  artt.  3  e  37 della Costituzione la questione di legittimita'
 costituzionale dell'art. 16 della legge 23 aprile 1981, n. 155, nella
 parte in  cui  non  consente  alle  lavoratrici  di  eta'  anagrafica
 superiore ai cinquanta anni di fruire di un accredito contributivo di
 cinque anni;
    Dispone la remissione degli atti alla Corte costituzionale;
    Sospende il giudizio.
      Genova, addi' 18 febbraio 1993
                    Il pretore: (firma illeggibile)

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