N. 199 SENTENZA 19 - 27 aprile 1993

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Professionisti - Professione di geometra -  Abusivo  esercizio  della
 professione - Ipotesi di norma penale in bianco - Presunta violazione
 del  principio  di  riserva di legge in materia penale e di quello di
 tassativita' - Richiamo  alla  sentenza  n.  58/1975  della  Corte  -
 Autosufficienza  precettiva della fattispecie incriminatrice perfetta
 in tutti i suoi connotati tipizzanti - Questione fondata  su  erronei
 presupposti  interpretativi del giudice rimettente - Censura di norma
 regolamentare  -  Esclusione  dell'assoggettamento  a  controllo   di
 costituzionalita' - Non fondatezza - Inammissibilita'.
 
 (C.P., art. 348; r.d. 11 febbraio 1929, n. 274, art. 16).
 
 (Cost., artt. 25 e 27).
(GU n.19 del 5-5-1993 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
 Giudici: dott. Francesco GRECO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo
    SPAGNOLI,  prof.  Antonio  BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO,
    avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI,  prof.  Enzo  CHELI,  dott.
    Renato  GRANATA,  prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI,
    prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel giudizio di legittimita' costituzionale  del  combinato  disposto
 degli  artt. 348 del codice penale e 16 del regio decreto 11 febbraio
 1929, n. 274 (Regolamento per la professione di  geometra),  promosso
 con  ordinanza  emessa  l'8  maggio  1992  dal Pretore di Treviso nel
 procedimento penale a carico di Ruscica Sebastiano,  iscritta  al  n.
 658 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
 della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell'anno 1992;
    Visti gli atti di costituzione di Ruscica Sebastiano e dell'Ordine
 degli  Architetti  della  provincia  di  Treviso,  nonche'  l'atto di
 intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
    Udito nell'udienza  pubblica  del  23  febbraio  1993  il  Giudice
 relatore Giuliano Vassalli;
    Uditi gli avvocati Lorenzo Acquarone, Antonio Franchini e Vincenzo
 Colacino  per  Ruscica  Sebastiano,  Salvatore Di Mattia per l'Ordine
 degli Architetti della provincia di Treviso e l'Avvocato dello  Stato
 Nicola Bruni per il Presidente del Consiglio dei ministri;
                           Ritenuto in fatto
    1.  - Nel corso di un procedimento penale promosso per il reato di
 abusivo esercizio della professione "di ingegnere e/o architetto", il
 Pretore  di  Treviso   ha   sollevato   questione   di   legittimita'
 costituzionale  del  "combinato  disposto" degli artt. 348 del codice
 penale e 16 del regio decreto 11 febbraio 1929, n.  274  (Regolamento
 per la professione di geometra), assumendo a parametro gli artt. 25 e
 27  della  Costituzione  "per contrasto con i princip/' di riserva di
 legge in materia penale, di tassativita' della fattispecie  penale  e
 di personalita' della responsabilita' penale".
    Osserva  il  giudice  a  quo  che, costituendo l'art. 348 c.p. una
 ipotesi riconducibile alla categoria delle cosiddette norme penali in
 bianco, nel caso di specie il precetto del reato di esercizio abusivo
 della professione va rinvenuto nell'art.  16  del  regio  decreto  11
 febbraio  1929, n. 274 che, alle lettere l) ed m), individua le opere
 la cui progettazione e direzione rientra  nei  limiti  dell'esercizio
 professionale  di  geometra. Tenuto conto che quest'ultima disciplina
 e' contenuta in un atto privo di forza di legge e considerato che  la
 individuazione del precetto sanzionato dalla legge penale ad opera di
 fonti  normative  non  di  rango primario e' stata ritenuta da questa
 Corte compatibile con il principio della riserva di legge in  materia
 penale  allorche'  i  presupposti,  il  carattere,  il contenuto ed i
 limiti  dell'atto  amministrativo  contenente   il   precetto   siano
 prefissati  dalla  legge  in modo da assicurare un efficace controllo
 incidentale  di  legittimita',  il  rimettente  contesta  che  simili
 postulati possano ritenersi integrati nella ipotesi di specie.
    Posto,  infatti,  che il divieto sancito dall'art. 348 c.p. assume
 concretezza solo facendo riferimento alle disposizioni  dell'art.  16
 del  regio decreto n. 274 del 1929, finisce per risultare carente una
 "norma  di  legge  che  indichi  con  sufficiente  specificazione   i
 presupposti,  i  caratteri  ed  i  limiti  ai  quali  devesi attenere
 l'Autorita' Amministrativa nel  disciplinare  l'ambito  di  esercizio
 della professione di geometra (e cosi' nel vietare gli atti eccedenti
 tale ambito professionale)".
    Ne'   maggiore  concretezza  e'  possibile  desumere  dalla  legge
 "delegante" 24 giugno 1923, n. 1395,  la  quale  ha  lasciato  libera
 l'autorita'  amministrativa  di  fissare  il  limite della competenza
 professionale del geometra e di modificarne la portata, risultando in
 tal modo violati i princip/' enunciati da questa Corte nella sentenza
 n. 282 del 1990.
    Il principio di determinatezza, inoltre, sarebbe  vulnerato  anche
 per la genericita' dei criteri che l'art. 16 del regio decreto n. 274
 del  1929 enuncia in tema di "modestia" della costruzione che rientra
 nelle  attribuzioni  professionali  del  geometra;  una  genericita',
 d'altra  parte,  che, rileva il giudice a quo, non ha consentito alla
 giurisprudenza di pervenire a risultati  univoci  circa  i  parametri
 (quantitativo,   economico   o  qualitativo)  alla  cui  stregua  una
 determinata costruzione possa o  meno  ritenersi  modesta.  Le  norme
 impugnate  contrasterebbero,  poi,  anche  con  il  principio  di cui
 all'art. 27, primo comma, della Costituzione, in quanto,  osserva  il
 rimettente,  e'  proprio  la  indeterminatezza  del  precetto  a  non
 consentire "alla norma  penale  di  esplicare  le  proprie  funzioni,
 sanzionatorie  di un atteggiamento riprovevole del reo, e rieducativa
 del condannato".
    Conclusivamente il giudice a quo rileva  che,  pur  avendo  questa
 Corte  dichiarato  inammissibile  con  ordinanza  n. 219 del 1983 una
 questione di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  16  del  regio
 decreto  n.  274 del 1929, trattandosi di un atto non avente forza di
 legge, e' tuttavia da ritenere che spetti alla Corte controllare tale
 norma regolamentare "ove quest'ultima costituisca - come nella specie
 - parte integrante di una norma di legge penale,  siccome  richiamata
 nell'art.  348  c.p.  per  effetto  del  noto meccanismo delle "norme
 penali in bianco".
    2. - E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
 rappresentato   e   difeso   dall'Avvocatura  Generale  dello  Stato,
 chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile.
    Osserva, infatti, l'Avvocatura che questa Corte ha gia' dichiarato
 inammissibile - con ordinanza n. 219  del  1983  -  la  questione  di
 legittimita' costituzionale dell'art. 16 del regio decreto n. 274 del
 1929  in  quanto  atto  non  avente  forza  di  legge,  ne' a diverse
 soluzioni puo' indurre il richiamo all'art. 348 c.p., trattandosi  di
 un  richiamo  "assolutamente  formale,  atteso  che i rilievi critici
 riguardano,   non   gia'   la   norma   incriminatrice   penale,   ma
 esclusivamente la norma regolamentare".
    3. - Con atto depositato il 20 ottobre 1992 si  e'  costituita  la
 difesa  dell'imputato  per  sostenere  la fondatezza della questione.
 Aderendo alle considerazioni svolte nella ordinanza di rimessione, la
 difesa dell'imputato ribadisce che la norma  regolamentare  enunciata
 nell'art.  16  del  regio decreto n. 274 del 1929 integra il precetto
 contenuto nell'art. 348 c.p.,  in  quanto  alla  prima  occorre  fare
 riferimento  per  verificare  se  la  condotta  sia o meno penalmente
 rilevante. Da qui la violazione del principio della riserva di legge,
 posto dall'art. 25, secondo comma,  della  Costituzione,  nonche'  la
 "violazione  del  principio  di legalita' (e cioe' della tassativita'
 della   previsione   normativa   in    materia    penale)",    stante
 l'indeterminatezza  del criterio in base al quale vengono individuati
 i  limiti  della  competenza  professionale  del  tecnico  diplomato.
 Osserva,  infine,  la  difesa  dell'imputato  che  una  questione  di
 costituzionalita' puo' porsi solo in quanto l'art. 348 c.p.  sanziona
 una condotta che si qualifica come illecita in relazione ad una norma
 regolamentare  assunta  ad  elemento  integrativo della norma penale:
 sicche',  "la  declaratoria  di  illegittimita'  dovrebbe   investire
 proprio  la  norma  regolamentare  in  questione, elevata al rango di
 norma primaria in virtu' della sua compenetrazione  con  il  precetto
 posto dalla legge penale".
    4.  -  Si  e'  altresi' costituito l'Ordine degli Architetti della
 Provincia di Treviso per dedurre la non  fondatezza  della  questione
 oggetto  del  presente  giudizio. L'interveniente osserva, anzitutto,
 come non sia del  tutto  certa  la  natura  regolamentare  del  regio
 decreto  n.  274  del 1929, giacche', ove non si ritenga che l'art. 1
 della legge n. 144 del 1949 abbia attribuito al primo atto natura  di
 fonte  primaria,  resta  il  fatto  che  la legge n. 100 del 1926 era
 attributiva al Governo  della  potesta'  legislativa  ordinaria.  Nel
 merito  si  rileva  che, attraverso una lettura "combinata" del regio
 decreto n. 274 del 1929 con la legge n. 144 del 1949 e tenendo  conto
 delle  disposizioni  "contigue"  che  riguardano la professione degli
 ingegneri e degli architetti,  puo'  pervenirsi  ad  una  definizione
 sufficientemente  circoscritta  dell'area  riservata  ai geometri che
 consente di ritenere infondata  la  questione,  richiamandosi  a  tal
 riguardo  i  princip/'  che,  in tema di interpretazione delle norme,
 questa Corte ha avuto modo di affermare nella  sentenza  n.  280  del
 1992.
    Con   memoria   dell'8   febbraio   1993,  il  medesimo  Consiglio
 dell'Ordine  degli  Architetti,  dopo  aver  richiamato  i  princip/'
 affermati  da  questa  Corte  in tema di "classi professionali" nella
 sentenza n. 380 del 1992, ha osservato che la competenza dei geometri
 assume carattere residuale  rispetto  a  quella  degli  ingegneri  ed
 architetti.  Essendo  quest'ultima  regolata  dalla legge n. 1395 del
 1923, la disciplina dettata dal regio decreto n.   274  del  1929  si
 pone dunque come fonte residuale, avendo la materia rinvenuto una sua
 delimitazione "in positivo" nella citata legge del 1923.
                        Considerato in diritto
    1.  - Il Pretore di Treviso dubita, in riferimento agli artt. 25 e
 27 della Costituzione, della legittimita'  del  "combinato  disposto"
 degli  artt. 348 del codice penale e 16 del regio decreto 11 febbraio
 1929, n. 274 (Regolamento per la professione di geometra).
    Il quadro normativo cosi' complessivamente devoluto al giudizio di
 questa  Corte  e' investito da tre distinte censure, che a loro volta
 consentono di scomporre il petitum che il giudice a quo fa mostra  di
 perseguire,  malgrado  l'impugnativa risulti essere formalmente volta
 alla  caducazione  non  delle  distinte  ed  eterogenee  disposizioni
 oggetto  di  cumulativa  doglianza, ma della risultante normativa che
 scaturisce  dal  reciproco  combinarsi  tra   loro.   Viene   infatti
 denunciata,  anzitutto,  la  violazione  del  principio di riserva di
 legge in materia penale, in quanto,  posto  che  per  fare  acquisire
 concretezza  al  divieto contenuto nell'art. 348 del codice penale e'
 necessario riferirsi alle disposizioni dettate dall'art. 16 del regio
 decreto n. 274  del  1929,  vale  a  dire  ad  una  fonte  di  "rango
 secondario", mancherebbe nella specie una "norma di legge che indichi
 con sufficiente specificazione i presupposti, i caratteri ed i limiti
 ai  quali devesi attenere l'autorita' amministrativa nel disciplinare
 l'a'mbito di esercizio della professione di  geometra  (e  cosi'  nel
 vietare gli atti eccedenti tale ambito professionale)".
    La  disciplina  impugnata contrasterebbe, poi, con il principio di
 tassativita' sancito dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione,
 in quanto l'espressione "modesta costruzione", che individua i limiti
 professionali del geometra a norma dell'art. 16 del regio decreto  n.
 274   del   1929,   e'  ritenuta  dal  giudice  a  quo  "generica  ed
 indeterminata", al  punto  da  aver  impedito,  secondo  il  medesimo
 giudice, il conseguimento di univoci responsi giurisprudenziali circa
 i  criteri  alla  cui stregua assegnare "concretezza" al concetto che
 quella locuzione ha inteso esprimere. Da cio' il  rimettente  desume,
 quale  ultimo  profilo di illegittimita', la violazione dell'art. 27,
 primo comma, della Costituzione, giacche'  l'integrazione  del  reato
 previsto   dall'art.   348   del  codice  penale  con  il  "parametro
 indeterminato" contenuto nell'art. 16 del regio decreto  n.  274  del
 1929,  non  consentirebbe  "alla norma penale di esplicare le proprie
 funzioni, sanzionatorie di un atteggiamento riprovevole  del  reo,  e
 rieducativa del condannato".
    2.  -  La  difesa  dello  Stato,  prescindendo  da valutazioni sul
 merito, si e' limitata a contestare  pregiudizialmente,  nel  proprio
 atto di intervento, l'ammissibilita' della questione.
    Rileva infatti l'Avvocatura che questa Corte ha gia' avuto modo di
 dichiarare   con   l'ordinanza   n.   219   del  1983,  la  manifesta
 inammissibilita'  della  questione  di  legittimita'   costituzionale
 dell'art.  16  del regio decreto n. 274 del 1929, in quanto norma non
 contenuta in un atto avente forza di legge; ne' a diverse conclusioni
 - osserva l'interveniente - e'  possibile  pervenire  in  virtu'  del
 richiamo  che  l'ordinanza  remissiva  opera  all'art. 348 del codice
 penale, trattandosi di un richiamo "assolutamente formale",  giacche'
 le  censure  mosse  dal  giudice  a quo riguardano "non gia' la norma
 incriminatrice penale, ma esclusivamente la norma regolamentare".
    3.  -  Ai  fini  della   delibazione   della   pregiudiziale   che
 l'Avvocatura  dello Stato solleva in punto di ammissibilita', occorre
 pertanto esaminare se la questione che  forma  oggetto  del  presente
 giudizio  possa  ritenersi  effettivamente circoscritta ai profili di
 illegittimita'  costituzionale  che  affliggerebbero  il  piu'  volte
 richiamato  regio  decreto  n.  274  del 1929, o se, invece, il thema
 decidendum che il giudice a  quo  ha  inteso  tracciare  e  devolvere
 all'esame  di  questa Corte comporti la necessita' di scandire, nelle
 singole componenti normative, il dubbio di costituzionalita'  che  il
 rimettente  profila in rapporto alle diverse disposizioni "combinate"
 fra loro. L'analisi del petitum  e  la  conseguente  possibilita'  di
 enucleare    distinti   quesiti   che   prendono   autonomamente   in
 considerazione tanto l'art. 348 del codice penale che l'art.  16  del
 regio  decreto  n.  274  del  1929, svela pero' subito l'infondatezza
 della eccezione di inammissibilita', che  l'Avvocatura  al  contrario
 sostiene  proprio  sul presupposto del rilievo esclusivo che la fonte
 regolamentare assumerebbe nel quadro delle  censure  prospettate  dal
 giudice a quo.
    Il  rimettente  pone  infatti  a  fondamento  dei  propri dubbi di
 legittimita' costituzionale la circostanza che, rappresentando l'art.
 348 del codice penale una ipotesi  di  norma  penale  in  bianco,  il
 relativo precetto resterebbe integrato dall'art. 16 del regio decreto
 n.  274  del  1929,  vale a dire da una fonte non primaria inidonea a
 soddisfare il principio di legalita' in materia penale. A  differenza
 di   quanto  opina  l'Avvocatura,  dunque,  il  vizio  denunciato  si
 riferisce direttamente alla disposizione penale, ancorche' la censura
 sia prospettata come conseguenza della correlazione  che  tale  norma
 presenta  con  la  disposizione regolamentare, la quale, a sua volta,
 fungerebbe da elemento integrativo della fattispecie.  Dalla premessa
 di cui si e' detto il rimettente trae, poi,  l'ulteriore  censura  di
 indeterminatezza  che  vizierebbe,  nell'ipotesi  di specie, il reato
 previsto dall'art. 348 del codice penale: posto, infatti, che  e'  la
 stessa  fonte  regolamentare  a  stabilire i limiti professionali del
 geometra e poiche'  tali  limiti  sono  individuati  solo  attraverso
 espressioni  generiche quali "modeste costruzioni civili", sarebbe lo
 stesso precetto penale a non potersi dire, secondo il giudice a  quo,
 adeguatamente  definito  nei  suoi  elementi  tipizzanti.  Ancora una
 volta, pertanto, la questione che il rimettente  sottopone  all'esame
 di  questa Corte non e' intesa a travolgere il solo art. 16 del regio
 decreto n. 274 del 1929, ma anche il reato di esercizio abusivo della
 professione, sia pure nel circoscritto ambito di cui  innanzi  si  e'
 detto.
    Alle  medesime conclusioni e' infine possibile pervenire anche per
 cio'  che  concerne  il  terzo  profilo  di  illegittimita'  che   il
 rimettente   desume   sempre   dalla  asserita  indeterminatezza  del
 parametro  che  integrerebbe  la  fattispecie  sanzionatoria,  e  che
 impedirebbe  alla  norma  penale  di  svolgere  la  propria  funzione
 sanzionatoria  e  rieducativa.  Se  l'indeterminatezza,  infatti,  e'
 dedotta  con  specifico  riferimento  alla  norma  che  disciplina il
 contenuto e i limiti della professione del geometra, il contrasto con
 l'art. 27 della Costituzione non  puo'  che  riguardare,  secondo  la
 prospettiva del giudice a quo, il precetto penale e, quindi, la norma
 che, per essere "in bianco", a quella disciplina deve necessariamente
 riferirsi per assumere effettiva concretezza.
    4.   -   L'esame   del   quesito,  dunque,  comporta  la  verifica
 differenziata delle singole censure, in  rapporto  a  ciascuna  delle
 componenti  normative  che il giudice rimettente ha, invece, composto
 come  oggetto  unitario  della  questione.  Sicche',   dovendosi   il
 controllo di costituzionalita' volgere all'esame separato della norma
 penale  e  di  quella  regolamentare  che  della  prima costituirebbe
 elemento integrativo, occorrera' necessariamente  prendere  le  mosse
 dalla  prima,  potendosi  solo  su  questa profilare, per quel che si
 dira', un apprezzamento del merito.
    Al  nucleo  della  tesi  sostenuta  dal  Pretore  di  Treviso  sta
 l'assunto  che  il  delitto  di  esercizio abusivo della professione,
 previsto dall'art. 348 del codice  penale,  integra  una  ipotesi  di
 norma  penale  in  bianco  la quale, postulando per sua stessa natura
 l'esistenza di una diversa fonte normativa destinata  a  riempire  di
 contenuto  precettivo  la  fattispecie  incriminatrice,  finisce  per
 operare alla stregua di una previsione "di rinvio" che in tanto  puo'
 ritenersi  rispettosa  del principio di legalita', in quanto la fonte
 extrapenale che disciplina  l'esercizio  della  professione  rinvenga
 anch'essa  nella  legge  sufficiente  specificazione circa i relativi
 presupposti, caratteri e limiti.
    Dovendosi ancora una volta  "prescindere  dal  problema  dogmatico
 sulla  natura giuridica della norma penale in bianco" (v. sentenza n.
 58 del 1975), e fermi  restando  i  princip/'  che  questa  Corte  ha
 reiteratamente  avuto modo di affermare in ordine alla natura ed alla
 portata  del  principio  di  legalita'  sancito  dall'art.  25  della
 Costituzione,  occorrera'  allora verificare preliminarmente se sia o
 meno corretto l'assunto che configura l'art. 348  del  codice  penale
 quale  norma priva di qualsivoglia autonomia precettiva e, come tale,
 destinata ad operare nell'ordinamento in "simbiotica" concorrenza con
 le disposizioni extrapenali che disciplinano le  professioni  il  cui
 abusivo  esercizio  "esaurisce"  il precetto, assoggettando a pena la
 relativa  condotta.  Solo  se  tale  premessa  fosse   condivisibile,
 infatti,  si  porrebbe  un  problema  di  "legalita'" della fonte del
 potere amministrativo quando incide sulla disciplina  di  determinate
 professioni,  giacche'  soltanto  in quel caso potrebbe correttamente
 affermarsi che e'  la  stessa  configurazione  del  fatto  penalmente
 determinato   a  dipendere,  nella  sua  concreta  tipizzazione,  dal
 mutevole atteggiarsi di un potere diverso da quello  legislativo.  Ma
 e'  proprio  sulla  fondatezza  di  una  simile premessa, che pure il
 giudice a quo deduce come assiomatica, che debbono formularsi le piu'
 ampie  riserve.  L'art.  348  del  codice  penale,   infatti,   lungi
 dall'operare  un  meccanico  rinvio  ad  altre fonti dell'ordinamento
 quali elementi strutturali del precetto, delinea  esaurientemente  la
 fattispecie   in   tutte  le  sue  componenti  essenziali.  Il  fatto
 costitutivo  del   reato,   infatti,   assume   i   connotati   della
 antigiuridicita'  attraverso  la realizzazione dell'atto o degli atti
 mediante i quali  "abusivamente"  viene  esercitata  una  determinata
 professione per la quale e' richiesta una speciale abilitazione dello
 Stato.  Cio'  significa che il provvedimento abilitativo non integra,
 in se' e per se', un elemento che "positivamente"  si  iscrive  nella
 struttura  della  fattispecie,  la quale, dunque, non potrebbe vivere
 senza di esso, ma rappresenta, al contrario, il presupposto  che  "in
 negativo"  condiziona  la  capacita' giuridica del soggetto in ordine
 all'esercizio di  quella  specifica  professione,  qualificandone  la
 condotta  come  abusiva  e, percio' stesso, illecita. L'abilitazione,
 quindi,  piu'  che  fungere  da  elemento  scriminante  che   esclude
 l'antigiuridicita'   di  una  condotta  formalmente  sussumibile  nel
 modello legale delineato  dalla  norma  incriminatrice,  opera  quale
 condizione  negativa  che impedisce di ricondurre il fatto, nella sua
 stessa materialita', alla figura astratta delineata dal  legislatore.
 D'altra  parte,  che  lo Stato prescriva, in funzione della tutela di
 interessi  generali, una speciale abilitazione per l'esercizio di de-
 terminate professioni, e'  fenomeno  che,  a  ben  guardare,  non  si
 discosta  da  quell'ampia gamma di situazioni in cui provvedimenti di
 natura abilitativa od autorizzatoria incidono su posizioni soggettive
 qualificate, determinando l'applicabilita' di sanzioni  penali  nelle
 ipotesi  in  cui  i  limiti propri di quelle posizioni soggettive non
 siano stati rispettati.  Ma  se  la  condotta  non  abilitata  o  non
 autorizzata ben puo' essere ritenuta illecita in quanto tale, essendo
 a tal fine sufficiente il contenuto prescrittivo offerto dal precetto
 penale, non v'e' ragione per dubitare che anche l'art. 348 del codice
 penale  descriva  una  fattispecie perfetta in tutti i suoi connotati
 tipizzanti, senza doversi necessariamente  evocare,  quale  ulteriore
 elemento  descrittivo  del  fatto, l'esatta natura, il contenuto ed i
 limiti dello specifico provvedimento con  il  quale  una  determinata
 persona  e'  abilitata  ad esercitare una certa professione. Non puo'
 quindi  condividersi  la  tesi  del  rimettente  secondo   la   quale
 occorrerebbe  assegnare  valore  precettivo alle disposizioni dettate
 dall'art. 16 del regio decreto 274 del 1929 in quanto  indispensabili
 "al  fine di far acquisire concretezza al divieto contenuto nell'art.
 348" del codice penale, giacche' cio' che la norma  penale  individua
 come  elemento  necessario  e  sufficiente  per  l'integrazione della
 fattispecie e' l'assenza di quella speciale abilitazione che lo Stato
 richiede per l'esercizio della professione, mentre il contenuto ed  i
 limiti  propri  di  ciascuna  abilitazione,  non  rifluiscono  - come
 ritiene il giudice a quo -  all'interno  della  struttura  del  fatto
 tipico,  ma  costituiscono null'altro che un presupposto di fatto che
 il giudice e' chiamato a valutare caso per caso.
    Una  volta  riconosciuta  "l'autosufficienza   precettiva"   della
 fattispecie incriminatrice delineata dall'art. 348 del codice penale,
 ne consegue, quindi, l'infondatezza del dubbio di legittimita' che il
 Pretore di Treviso ha sollevato deducendo la violazione del principio
 di  "riserva  di  legge"  in materia penale. Per le medesime ragioni,
 d'altra parte, non  fondati  devono  ritenersi  anche  gli  ulteriori
 profili  di illegittimita' che il giudice a quo solleva lamentando la
 violazione del principio "di tassativita' della fattispecie penale  e
 di  personalita'  della responsabilita' penale", giacche' entrambe le
 censure  si  fondano  sull'erroneo  presupposto  di  ritenere  che  i
 parametri  non  sufficientemente  precisi  che  e' possibile desumere
 dall'art.  16  del  regio  decreto  n.  274  del  1929  inciderebbero
 negativamente  sulla  determinatezza  del  precetto, per essere, essi
 stessi, elementi normativi  della  fattispecie.  Una  volta  esclusa,
 infatti,   l'immediata   interferenza   di   quei   parametri   sulla
 conformazione  del  modello  legale   tracciato   dalla   fattispecie
 incriminatrice, neppure una loro eventuale genericita' puo' ritenersi
 un  fattore  in  se' idoneo ad incrinare la determinatezza del fatto-
 reato descritto dall'art. 348  del  codice  penale,  considerato  fra
 l'altro  che  la  portata  precettiva della norma e' tale che, ove il
 soggetto attivo sia privo di qualsiasi abilitazione professionale,  i
 parametri  che  tracciano  i  confini  tra  le  diverse  abilitazioni
 finiscono per non rivestire rilievo alcuno ai fini  dell'accertamento
 della antigiuridicita' della condotta.
    5.  -  Enucleati dal quesito sollevato dal giudice a quo i profili
 di legittimita' costituzionale  riguardanti  l'art.  348  del  codice
 penale e dissolti i relativi dubbi per le ragioni di cui si e' detto,
 non resta, dunque, che affrontare i vizi che il rimettente denuncia a
 margine  dell'art.  16 del piu' volte citato regio decreto n. 274 del
 1929. A tal riguardo, il Pretore rimettente fa mostra di  essere  ben
 consapevole  della  giurisprudenza  di  questa  Corte  che ha in piu'
 occasioni  escluso  la  possibilita'  di  sottoporre  a  giudizio  di
 costituzionalita'  le  disposizioni del menzionato regio decreto, per
 essere le stesse contenute in un atto non avente forza di  legge  (v.
 sentenza  n.  16  del  1975  e ordinanze n. 219 del 1983 e n. 326 del
 1992); ed e', anzi, proprio per superare una simile  pregiudiziale  -
 puntualmente eccepita dall'Avvocatura - che il giudice a quo, come si
 e'  detto,  ha  censurato  il  "combinato disposto" dell'art. 348 del
 codice penale e della  norma  regolamentare  piu'  volte  richiamata,
 facendo  leva  sul  presupposto che quest'ultima norma costituirebbe,
 nella specie, "parte integrante di una norma  di  legge  penale",  in
 quanto  richiamata  dall'art.  348  c.p.  per effetto del "meccanismo
 delle norme penali in bianco". Affermazioni, queste, che trovano  eco
 anche  nella  tesi  sostenuta  dalla  difesa  dell'imputato, la quale
 finisce  per  ammettere,  nella  memoria  di  costituzione,  che   la
 possibilita' di sindacare in sede di giudizio di costituzionalita' la
 norma  regolamentare  di  cui si e' detto sussiste solo nei limiti in
 cui si ritenga che tale norma sia "elevata al rango di norma primaria
 in virtu' della sua compenetrazione con il precetto posto dalla legge
 penale".
    Dovendosi pero' scomporre nelle singole  previsioni  normative  il
 "combinato  disposto" che il rimettente cumulativamente devolve quale
 oggetto del presente giudizio,  l'epilogo  della  questione  relativa
 all'art.  16  del  regio  decreto n. 274 del 1929 non puo' che essere
 quello della inammissibilita', difettando qualsiasi valido  argomento
 per  discostarsi  dalle precedenti pronunce che questa Corte ha avuto
 modo di adottare sull'argomento.  Caduta,  infatti,  la  premessa  di
 ritenere  norma  penale  e  disposizione  regolamentare  come aspetti
 interagenti  di  un  fenomeno  normativo  unitario,  e  svelata,   di
 conseguenza,    l'infondatezza    della   tesi   secondo   la   quale
 l'integrazione  del  precetto  ad  opera  della  norma  regolamentare
 consentirebbe  a  quest'ultima  di  assurgere ad un livello superiore
 nella gerarchia delle fonti, residua l'ormai  "isolata"  disposizione
 dettata  dall'art.  16  del  citato  regio decreto, la quale non puo'
 essere  per  sua  stessa   natura   assoggettata   a   controllo   di
 costituzionalita'  in  questa  sede,  in quanto, al pari di qualsiasi
 norma regolamentare e come per ogni  altro  atto  amministrativo,  il
 riscontro  della  sua  legittimita'  costituzionale  e'  riservato  a
 qualsiasi giudice chiamato ad applicarla e  puo'  condurre  alla  sua
 disapplicazione  (art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, allegato
 E) o all'eventuale annullamento in sede amministrativa  (v.  sentenza
 n. 16 del 1975).
    Neppure  puo'  essere accolta la tesi, sostenuta dall'ordine degli
 Architetti della Provincia di Treviso, secondo la quale i richiami al
 regio decreto n. 274 del 1929, contenuti nella legge 2 marzo 1949, n.
 144 (Approvazione della tariffa  degli  onorari  per  le  prestazioni
 professionali dei geometri) varrebbero ad attribuire al regio decreto
 stesso natura di fonte primaria.
    Se,  infatti,  puo'  essere  senz'altro condiviso l'assunto che la
 legge n. 144 del 1949 rappresenti un indubbio ausilio per contribuire
 ulteriormente a precisare le competenze professionali dei geometri  e
 che,  quindi,  sotto  tale  profilo  ben  possa fungere da disciplina
 "integrativa"  delle  previsioni  dettate  dal  regolamento, non puo'
 tuttavia ammettersi che il generico richiamo  enunciato  nell'art.  1
 della  legge  n. 144 del 1949 a talune norme del regio decreto n. 274
 del 1929, operato al  solo  fine  di  individuare  "l'oggetto"  della
 tariffa  professionale,  valga  di per se' ad assegnare veste e forza
 legislativa  al  medesimo  regio  decreto.  A  cio'  e'  di  evidente
 ostacolo,  infatti,  non solo e non tanto la specifica e circoscritta
 funzione del richiamo che la legge ha operato al regolamento, quanto,
 soprattutto, la mancanza di univoci elementi alla stregua  dei  quali
 ipotizzare  che  la legge n. 144 del 1949 abbia effettivamente inteso
 "trasfondere" nel corpo dello  stesso  provvedimento  legislativo  il
 regolamento professionale del 1929, tuttora vigente.
    D'altra  parte,  la censura che, alla stregua delle prospettazioni
 del rimettente e  degli  stessi  interventori,  costituisce  il  vero
 nucleo  della  questione,  vale  a  dire la genericita' del parametro
 della modestia della costruzione quale criterio di discrimine tra  la
 competenza  professionale  del  geometra  e  quelle  "finitime" degli
 ingegneri e degli  architetti,  finisce  per  rivelarsi  collegata  a
 premesse erronee.
    Da un lato, infatti, non puo' certo ritenersi scelta irragionevole
 quella  di  ragguagliare a presupposti "flessibili" la determinazione
 di competenze che postulano cognizioni necessariamente  variabili  in
 rapporto  ai progressi tecnico-scientifici che la materia puo' subire
 nel tempo. Sotto  altro  profilo,  poi,  i  criteri  enunciati  nelle
 lettere  l)  ed m) dell'art. 16 del regio decreto n. 274 del 1929 non
 si discostano  da  quelle  nozioni  di  comune  esperienza  che  "non
 impongono  al  giudice alcun onere esorbitante dal normale compito di
 interpretazione" (v., tra le  tante,  ordinanza  n.  72  del  1984  e
 sentenza  n.  49  del  1980), specie ove si consideri l'ausilio che -
 come si e' accennato - puo' a tal fine essere  offerto  dalla  intera
 normativa  di settore. A corollario di quanto appena rilevato e quale
 conclusivo aspetto idoneo a svelare come le doglianze del  rimettente
 finiscano  per  evocare  un  falso problema, sta, infine, una nutrita
 elaborazione giurisprudenziale ormai concorde nel ritenere  che,  per
 accertare  se  una costruzione sia da considerare "modesta" e rientri
 nella competenza professionale dei geometri ai sensi dell'art. 16 del
 regio decreto n. 274 del 1929, il criterio basilare cui fare  appello
 e'  quello  tecnico  -  qualitativo  fondato  sulla valutazione della
 struttura dell'edificio e delle relative modalita'  costruttive,  che
 non  devono  implicare  la soluzione di problemi particolari devoluti
 esclusivamente  ai  professionisti  di  rango  superiore,  mentre  il
 criterio  quantitativo  e  quello  economico possono soccorrere quali
 elementi complementari di valutazione,  in  quanto  indicativi  delle
 caratteristiche  costruttive  e  delle  difficolta' tecniche presenti
 nella  realizzazione  dell'opera.  Un  quadro,  dunque,   del   tutto
 antitetico   rispetto   alla  pretesa  "genericita'"  di  criteri  ed
 ambiguita' di responsi giurisprudenziali sui quali il giudice  a  quo
 ha fondato in larga misura i propri rilievi di incostituzionalita'.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  non  fondata  la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art. 348 del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt.
 25 e 27 della Costituzione, dal Pretore di Treviso con l'ordinanza in
 epigrafe;
    Dichiara inammissibile la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art.  16 del regio decreto 11 febbraio 1929, n. 274 (Regolamento
 per la professione di geometra), sollevata, in riferimento agli artt.
 25 e 27 della Costituzione, dal Pretore di Treviso con l'ordinanza in
 epigrafe.
    Cosi' deciso in  Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 19 aprile 1993.
                        Il Presidente: CASAVOLA
                        Il redattore: VASSALLI
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 27 aprile 1993.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
 93C0453