N. 120 ORDINANZA (Atto di promovimento) 21 dicembre 1993

                                N. 120
 Ordinanza emessa  il  21  dicembre  1993  dal  pretore  di  Asti  nel
 procedimento penale a carico di Garbarino Carlo
 Reato in genere - Sanzioni sostitutive alle pene detentive brevi -
    Ambito  di applicazione - Inapplicabilita' per espresso divieto ai
    reati  (nella  specie  contestati  all'imputato)  di  inquinamento
    idrico  previsti  dalla  legge n. 319/1976, diversamente da quanto
    stabilito per le analoghe ma piu' gravi figure criminose di cui ai
    decreti legislativi nn. 132 e 133 del 27 gennaio 1992 nonche'  per
    altri  diversi  e  piu' gravi reati - Ingiustificata disparita' di
    trattamento.
 (Legge 24 novembre 1981, n. 689, art. 60, secondo comma).
 (Cost., art. 3).
(GU n.13 del 23-3-1994 )
                              IL PRETORE
    Ha  pronunciato  la  seguente ordinanza all'udienza dibattimentale
 del 21 dicembre 1993, nel procedimento penale a carico  di  Garbarino
 Carlo  nato  a Belveglio, l'11 gennaio 1925 residente a Belveglio via
 Gabella n. 11, imputato:
       a) della contravvenzione di cui all'art. 21, primo comma, legge
 10 maggio 1976, n. 319, perche' senza aver richiesto l'autorizzazione
 effettuava  in  gognatura  comunale  lo  scarico  di   acque   reflue
 provenienti  dalla  cantina  sociale  di  Mombercelli, dal 10 gennaio
 1992;
       b) del reato di cui all'art. 21, terzo comma,  della  legge  10
 maggio  1976,  n.  319,  per  aver  effettuato lo scarico di acque di
 rifiuto della cantina sociale immesse nella  fognatura  comunale  che
 superavano i limiti di accettabilita' della tabella C) quanto, al COD
 (mgl  500/2040),  al  B.O.D.5 (mgl 250/912) e materiali sedimentabili
 (mll 2/24). In Mombercelli il 12 ottobre 1992;
    Rilevato che la difesa dell'imputato ha sollevato la questione  di
 costituzionalita'   dell'art.  60,  secondo  comma,  della  legge  24
 novembre 1981, n. 689 (nella parte  relativa  all'art.  21  legge  10
 maggio  1976,  n.  319)  in  riferimento  agli  artt.  3  e  24 della
 Costituzione;
    Visto il parere adesivo del pubblico ministero;
    1) Ai sensi dell'art. 60, secondo comma, della legge  24  novembre
 1981,  n. 689, non e' consentita la sostituzione delle pene detentive
 (previste dagli artt. 53 e seguenti della legge cit. come  modificata
 dall'art.  5  della  legge  12  agosto  1993, n. 296: sedimentazione,
 liberta' controllata, pena pecuniaria) per i reati di cui all'art. 21
 legge 10 maggio 1976, n. 319 (nel caso di specie  e'  contestato  (al
 capo b)) all'imputato il reato di cui al terzo comma del cit. art. 21
 per  aver  effettuato,  in  fognatura, scarichi produttivi con valori
 inquinanti superiori ai limiti della tabella C).
    La suddetta esclusione oggettiva e' stata evidentemente introdotta
 dal legislatore del 1981 per soddisfare l'esigenze  di  salvaguardare
 in maniera piu' efficace (cioe' con la comminatoria di pene detentive
 non  sostituibili)  le  acque  (e  gli  altri  corpi ricettori) dagli
 scarichi  inquinanti  provenienti  da  insediamenti  produttivi  (con
 l'art.  24-  ter  della legge n. 319/1976, introdotto dall'art. 2 del
 d.l. 15 novembre 1993, n. 454,  pare  definitivamente  chiarito  che
 l'art. 21, terzo comma, della legge Merli concerne esclusivamente gli
 scarichi  da insediamenti produttivi) ma si e' posta in irragionevole
 contraddizione con la  successiva  produzione  normativa  in  materia
 ambientale.
    Si  deve in particolare considerare che la sostituzione delle pene
 detentive era univocamente consentita per i reati previsti dall'ormai
 abrogato (v. infra) d.P.R. 24 maggio 1988, n. 217 emanato (v. art. 1)
 "per proteggere le acque dall'inquinamento  provocato  dallo  scarico
 delle  sostanze  pericolose e individuate nell'allegato III" (cadmio,
 mercurio etc.).
    L'art. 15 del decreto in esame delineava una  tipologia  di  reati
 ricalcata  su  quella  stabilita  dagli  artt. 21 e segg. della legge
 Merli ed in particolare, al  quinto  comma,  assoggettava  alla  pena
 dell'arresto  fino  a  3  anni  (minimo edittale inferiore ma massimo
 edittale superiore a quelli previsti dall'art. 21, terzo comma, della
 legge n. 319/1976) il fatto di chi, nell'effettuazione di uno scarico
 nelle  acque  o  in  fognature, superi il valori limite stabiliti dal
 decreto stesso.
    Il d.P.R. n. 217/1988 e' stato successivamente abrogato dal D.Lgs.
 27 gennaio 1992, n. 133, con cui e' stata  data  attuazione  numerose
 direttive  CEE  "in  materia  di  scarichi  industriali  di  sostanze
 pericolose nelle acque".
    Questo decreto mira in particolare a  salvaguardare  (art.  1)  le
 acque  interne  superficiali,  le acque marine territoriali, le acque
 interne del litorale e le fognature pubbliche dagli scarichi (diretti
 e indiretti) di "sostanze o energia le cui conseguenze siano tali  da
 mettere  in  pericolo la salute umana, nuocere alle risorse viventi e
 al sistema ecologico idrico, compromettere le attrattive o ostacolare
 altri usi legittimi delle acque".
    Sul piano sanzionatorio l'art. 18  contemplava  varie  ipotesi  di
 reato:  quelle  correlative  alla  fattispecie  incriminatrice di cui
 all'art. 21, terzo comma, della legge Merli sono previste dal  quarto
 e quinto comma.
   Il primo punisce con l'arresto fino a 2 anni l'effettuazione di uno
 scarico   con   valori   inquinanti   superiori   ai  limiti  fissati
 dall'allegato B per le varie sostanze pericolose oggetto del  decreto
 (mercurio,  cadmio, esaclorocicloesano etc.); il secondo sanziona con
 l'arresto da tre mesi a tre anni la violazione del  divieto  assoluto
 (art.  12)  di  scarichi  (nelle  acque  sotterranee, sul suolo e nel
 sottosuolo) contenenti le sostanze di  cui  all'allegato  A  (ad  es.
 sostanze di cui e' provato il potere cancerogeno in ambiente idrico).
    Ebbene per entrambe queste fattispecie contravvenzionali non opera
 (per  difetto  di  qualsivoglia  richiamo  o  rinvio  e  per evidente
 impossibilita' di ricorso  ad  interpretazioni  analogiche  in  malam
 partem)  il  divieto  di  sostituzione  della pena detentiva previsto
 dall'art. 60 della legge n. 689/1981 (cio'  non  vale  invece  per  i
 reati previsti dall'art. 18, primo comma, del D.Lgs. 27 gennaio 1992,
 n.   132,   concernente   la   protezione   delle  acque  sotterranee
 dall'inquinamento provocato da certe sostanze pericolose: detta norma
 infatti richiama puramente e semplicemente il  sistema  sanzionatorio
 stabilito   dalla  legge  n.  319/1976  "e  successive  modifiche  ed
 integrazioni", con la  conseguenza  che  il  richiamo  non  puo'  non
 riguardare  anche  il  cit.  art.  60,  secondo comma, della legge n.
 689/1981 che ha appunto integrato, con l'introduzione del divieto  di
 costituzione  della pena detentiva, il regime sanzionatorio delineato
 dalla legge Merli).
    2)   Pare   evidente   allora   la   disparita'   di   trattamento
 sanzionatorio,  in  ordine  alla  possibilita'  di applicazione delle
 sanzioni sostitutive, tra  il  reato  previsto  dall'art.  21,  terzo
 comma, della legge n. 319/1976 e quelli puniti dall'art. 18, quarto e
 quinto  comma, della legge n. 133/1992; disparita' di trattamento che
 non puo' trovare giustificazione alcuna atteso che le norme  poste  a
 confronto  tutelano  lo  stesso  bene (il sistema ecologico idrico o,
 piu' in generale, l'ambiente) e che e' proprio in  funzione  di  tale
 tutela  che  la  legge  n.  689/1981  aveva  introdotto  l'esclusione
 oggettiva di cui all'art. 60, secondo comma. Anzi, a ben  vedere,  le
 incriminazioni previste all'art. 18 del D.Lgs. n. 133/1992 riguardano
 comportamenti  inquinanti  piu'  pericolosi  (in relazione al tipo di
 sostanze presenti negli scarichi) di quelli incriminati dall'art. 21,
 terzo   comma,  della  legge  n.  319/1976,  come  dimostrato  anche,
 limitatamente alla violazione del divieto di scarico di cui  all'art.
 12  (sanzionata  dal  quinto  comma  dell'art.  18),  dalla  maggiore
 gravita' (tanto nel minimo, quanto nel massimo) della pena edittale.
    Sembra  dunque  non  manifestamente  infondato  il   sospetto   di
 incostituzionalita'  dell'art.  60,  secondo  comma,  della  legge n.
 689/1981, essendo privo di ragionevolezza, e dunque contrastante  con
 il  principio  di uguaglianza sancito dall'art. 3, primo comma, della
 Costituzione, il  differente  trattamento  sanzionatorio,  in  oridne
 all'applicabilita'  delle  pene  sostitutive, da detta norma previsto
 per le fattispecie contravvenzionali sopra  poste  a  confronto.  Nel
 caso di specie possono infatti utilmente invocarsi, mutatis mutandis,
 le  argomentazioni  addotte  dalla  Corte costituzionale (sentenza n.
 249/1993) per dichiarare incostituzionale l'art. 60 cit. nella  parte
 in  cui  non  consente la sostituibilita' della pena detentiva per il
 reato  di  lesioni  colpose,  mentre   la   consente   (per   effetto
 dell'allargamento   dei   reati   di  competenza  pretorile  disposto
 dall'art. 7 del nuovo codice di procedura penale)  per  il  reato  di
 omicidio  colposo, nell'ipotesi in cui entrtambe le fattispecie siano
 state realizzate con violazione delle norme in  tema  di  prevenzione
 infortuni e igiene del lavoro.
    Secondo  i  giudici  costituzionali infatti "finisce per risultare
 ictu oculi carente di ragionevolezza e si presenta  per  cio'  stesso
 fortemente   lesivo   del  principio  di  uguaglianza,  un  complesso
 normativo che consente di beneficiare delle  sanzioni  sostitutive  a
 chi  ha  posto  in  essere,  fra  due  condotte  gradatamente  lesive
 dell'identico  bene,   quella   connotata   di   maggiore   gravita',
 discriminando, invece, chi ha realizzato il fatto che meno offende lo
 stesso  valore  giuridico" (gia' nella sentenza n. 175/1971 la Corte,
 occupandosi dell'esclusione di un determinato reato dall'amnistia, ha
 affermato non sussistente la violazione del principio di  uguaglainza
 in  quanto  la  discriminazione  tra  reati  amnistiabili e reati non
 amnistiabili non e' necessariamente legata all'entita' della pena, ma
 puo' dipendere anche a considerazioni di diverso  ordine,  precisando
 pero' - ed e' questo il punto che ha attinenza con il caso sottoposto
 all'esame  di  questo  giudice  - che "un'irrazionalita' potrebbe, se
 mai, prospettarsi ..  quando  la  differente  disciplina  riguardasse
 reati lesivi dello stesso bene voluto proteggere".
    3)  Non  ignora  il  pretore  l'atteggiamento  di  self  restraint
 frequentemente assunto dalla Corte  in  ordine  all'applicazione  del
 principio  di  uguaglianza in materia penale (particolarmente in sede
 di  controllo   di   ragionevolezza   sulla   misura   delle   pene),
 atteggiamento  certamente  comprensibile alla luce della complessita'
 dell'ordinamento,  della  frammentarieta'  e  stratificazione   degli
 interventi  legislativi  (e'  noto  il  carattere "alluvionale" della
 produzione normativa in campo penale  e  specificamente  nel  settore
 della  tutela  mabientale  attraverso  il  recepimento delle diretive
 CEE), delle esigenze di "tenuta" del sistema e di  non  interferenza,
 da  parte dei giudici costituzionali, nell'ambito di scelte politiche
 del  legislatore  (espressive  di  quest'ultima  esigenza  sono,   ad
 esempio, le pronuncie nn. 45/1967, 109/1968, 15/1971, 168/1982, 122 e
 270 del 1993).
    Appare tuttavia certo, a un esame complessivo della giurisprudenza
 costituzionale  sull'art.  3,  che  non esite alcun valido motivo per
 affermare  che  il  controllo  di  ragionevolezza  debba  avere,   in
 relazione  alle  norme  penali, caratteristiche diverse da quelle che
 esso ha in relazione alle altre norme, con il solo limite  (derivante
 dal principio di legalita' sancito dall'art. 25, secondo comma, della
 Costituzione)  rappresentato dall'impossibilita' di ampliare in malem
 partem l'ambito di applicazione di una norma penale (v. le  pronuncie
 nn.  44/1977,  316 e 334/1983, 2 e 11 del 1984; in base a tale limite
 e' evidente che, nel caso di specie, non potrebbe la Corte  estendere
 ai  reati  di  cui  all'art.  18 del D.Lgs. n. 133/1992 il divieto di
 sostituzione della pena  detentiva  previsto  dall'art.  60,  secondo
 comma,  della  legge  n.    689/1981 per il reato di cui all'art. 21,
 terzo comma, della legge n.  319/1976).
    Da  tempo  infatti  la  Corte  ha  riconosciuto  al  principio  di
 uguaglianza  un  valore  amplissimo,  quasi  di  sfondo e di chiusura
 rispetto a tutte le altre  norme  della  Costituzione  qualificandolo
 come  un  criterio generale di logicita' dell'attivita' discrezionale
 del legislatore, utilizzabile per  controllare  qualsiasi  situazione
 nella   quale   sia  ravvisabile  una  ingiustificata  differenza  di
 trattamento od una irrazionale equiparazione  di  situazioni  diverse
 (v.  ad  es.  la  sentenza  n. 204/1982 secondo cui valore essenziale
 dell'ordinamento giuridico di un Paese civile e' la coerenza  tra  le
 parti  di  cui  si  compone,  coerenza  che  nel campo del diritto e'
 l'espressione  del  principio  di  uguaglianza  di  trattamento   tra
 posizioni uguali sancito dall'art. 3).
    Va  anche  detto che, con riguardo al caso di specie, il controllo
 di ragionevolezza sulla norma di  cui  all'art.  60,  secondo  comma,
 della   legge   n.   689/1981   non  puo'  essere  escluso  invocando
 l'affermazione (contenuta in alcune decisioni della Corte: v. ad  es.
 sentenza  n.  297/1986)  secondo  cui  la violazione del principio di
 uguaglainza sarebbe riscontrabile solo quando la discriminazione  tra
 situazioni  assurga a lesione qualificata e percio' diretta dell'art.
 3, primo comma, in quanto dovuta a ragioni di sesso,  razza,  lingua,
 religione, opinioni politiche, condizioni personali o sociali.
    Siffatta   affermazione   contrasta   infatti  con  l'indirizzo  -
 reiteratamente ribadito  dalla  Corte  -  secondo  cui  l'elenco  dei
 criteri  di  discriminazione  contenuto  nell'art.  3  ha  un  valore
 meramente esemplificativo, nel senso che il  riferimento  ad  uno  di
 essi    non   e'   piu'   considerato   sufficiente   a   determinare
 l'illegittimita'  della   norma,   se   sussiste   una   sua   valida
 giustificazione,  mentre,  per contro, il controllo di ragionevolezza
 puo' estendersi anche alle discriminazioni fondate su criteri diversi
 da quelli specificamnte indicati  o  a  quelle  caratterizzate  dalla
 totale  assenza di motivi che valgano a giustificare la disparita' di
 trattamento.
    Quest'ultima eventualita' e' appunto quella riscontrabile nel caso
 di  specie  (la  differenza  di  trattamento  sanzionatorio,   quanto
 all'applicazione delle pene sostitutive, tra il reato di cui all'art.
 21,  terzo comma, della legge n. 319/1976 e quelli previsti dall'art.
 18, quarto e quinto comma, del D.Lgs. n. 133/1992  -  tutti  posti  a
 tutela  dello  stesso  bene  giuridico  -  non  ha  alcuna  razionale
 giustificazione) ed in quello, del tutto analogo, oggetto della  cit.
 sentenza n. 249/1993 (v. anche la sentenza n. 1/1992).
    4)  Per la verita' la lacunosita' e l'irrazionalita' della attuale
 disciplina in materia di sanzioni sostitutive e' di portata ben  piu'
 grave e piu' ampia rispetto al profilo di irragionevolezza denunciato
 da  questo  giudice  con  specifico riferimento alla comparazione dei
 differenti trattamenti sanzionatori previsti  per  il  reato  di  cui
 all'art. 21, terzo comma, della legge n. 319/1976 e per quelli di cui
 all'art.  18,  quarto  e quinto comma del D.Lgs. n. 133/1992. Si deve
 considerare  infatti  che  a   seguito   dell'abrogazione   (disposta
 dall'art.  5,  comma  1-  bis  della  legge  12  agosto 1993, n. 296)
 dell'art. 54 della legge n. 689/1981  e  dell'allargamento  (disposto
 dal  primo  comma  dell'art. 5 della legge n. 296/1993) dei limiti di
 applicazione delle sanzioni sostitutive, la sostituzione  delle  pene
 detentive  e'  oggi,  in  astratto,  consentita  (per  effetto  delle
 diminuzioni  di  pena  connesse  alla  concessione  delle  attenuanti
 generiche  e  all'applicazione  dei riti alternativi al dibattimento)
 per una serie di reati, di competenza del tribunale, connotati da una
 gravita' sicuramente  maggiore  (ad  es.  la  partecipazione  ad  una
 associazione  per  delinquere di cui all'art. 416, secondo comma, del
 cod. penale  o  per  la  corruzione  per  atto  contrario  ai  doveri
 d'ufficio  di cui all'art. 319 del cod. penale) di quella afferente i
 reati previsti dalla legge Merli.
    Non ritiene pero' il pretore di poter sollevare  la  questione  di
 legittimita'  costituzionale  dell'art.  60  della  legge n. 689/1981
 sotto questo  piu'  ampio  profilo  in  quanto  cio'  significherebbe
 sollecitare  alla  Corte  un  intervento  caducatorio  comportante la
 complessiva ridefinizione del quadro normativo in materia di sanzioni
 sostitutive, intervento, questo, che fuoriesce dalle attribuzioni  di
 legittimita'    della    Corte,   appartenendo   alla   sfera   della
 discrezionalita' legislativa la scelta (di  merito)  in  ordine  alla
 fissazione  di  un  nuovo  catalogo  delle  fatispecie oggettivamente
 escluse a norma dell'art. 60 della legge n.  689/1981  (v.  ord.  nn.
 230/1990 e 247/1993).
    Viceversa   dallo  specifico  angolo  visuale  qui  prospettto  la
 declaratoria di illegittimita' dell'art.  60,  secondo  comma,  nella
 parte in cui non consente la sostituzione della pena detentiva per il
 reato  di  cui  all'art.  21,  terzo comma, della legge Merli (mentre
 questa e' ammessa per i reati di cui all'art.  18,  quarto  e  quinto
 comma,   del   D.Lgs.   n.   133/1992)   costituisce   la   soluzione
 costituzionalmente  obbligata  per  eliminare   una   disparita'   di
 trattamento  assolutamente irragionevole e come tale contrastante con
 il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione.
    5)  In  punto  rilevanza   della   questione,   si   osserva   che
 dall'accoglimento   o   dal   rigetto   della   stessa   dipende   la
 concedibilita' o meno, in caso  di  condanna  dell'imputato,  di  una
 delle  sanzioni  sostitutive  previste  dagli artt. 53 e segg.  della
 legge n. 689/1981. E' appena il caso di dire che  l'accusa  formulata
 dal  p.m.  e'  sorretta  da  fumus  boni  iuris  essendo  aquisiti al
 fascicolo del dibattimento i certificati  di  analisi  attestanti  il
 superamento del limiti tabellari.
    Non  ha  ritenuto invece il pretore di sollevare analoga questione
 di costituzionalita' con riguardo al reato di cui all'art. 21,  primo
 comma,  della  legge  Merli  (contestato  al capo a) in quanto, da un
 sommario esame degli atti, pare irrogabile nella specie (in  caso  di
 candanna)  la pena dell'ammende (prevista in alternativa all'arresto)
 onde detta questione difetta di rilevanza.
                               P. Q. M.
    Visti  gli  artt.  134  della  Costituzione  e  23  della legge n.
 87/1953;
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione  di
 legittimita'  costituzionale dell'art. 60, secondo comma, della legge
 24 novembre 1981, n. 689, in relazione all'art. 3 della Costituzione,
 nella parte in cui non consente l'applicazione delle pene sostitutive
 al reati di cui all'art. 21, terzo comma, della legge 10 maggio 1976,
 n. 319;
    Dichiara sospeso il presente  procedimento  e  ordina  l'immediata
 trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
    Manda  alla  cancelleria  per  gli  adempimenti  di competenza nei
 riguardi delle parti e perche' copia  della  presente  ordinanza  sia
 notifiata  al  Presiente  del  Consiglio dei Ministri e comunicata ai
 Presidenti delle due Camere del Parlamento.
      Asti, addi' 21 dicembre 1993
                           Il pretore: CORBO

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