N. 121 ORDINANZA 23 - 31 marzo 1994

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Coniugi  - Separazione legale - Modificabilita' dei provvedimenti del
 tribunale - Reclamo - Previsione di  un  procedimento  in  camera  di
 consiglio  - Questione gia' esaminata dalla Corte (cfr.  sentenze nn.
 543 e 573 del 1989) - Ricorrenza delle  medesime  rationes  decidendi
 anche   nella   riproposta   questione   -   Richiamo  alla  conforme
 giurisprudenza della Corte  di  cassazione  -  Configurazione  di  un
 procedimento    contenzioso    svolgentesi    nella    pienezza   del
 contraddittorio delle parti  e  concluso  con  provvedimento  che  ha
 natura sostanziale di sentenza - Manifesta infondatezza.
 
 (C.P.C.,  art. 710, come sostituito dall'art. 1 della legge 29 luglio
 1988, n. 331).
 
 (Cost., art. 24).
 
(GU n.16 del 13-4-1994 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
 Giudici: prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio
    BALDASSARRE,  prof.  Vincenzo  CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof.
    Luigi MENGONI, prof.  Enzo  CHELI,  dott.  Renato  GRANATA,  prof.
    Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI,
    prof.  Fernando  SANTOSUOSSO,  avv.  Massimo  VARI,  dott.  Cesare
    RUPERTO;
 ha pronunciato la seguente
                               ORDINANZA
 nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 710 del codice
 di procedura civile, come  sostituito  dall'art.  1  della  legge  29
 luglio  1988,  n.  331  (Modifica  dell'articolo  710  del  codice di
 procedura civile in materia di modificabilita' dei provvedimenti  del
 tribunale  nei  casi  di separazione personale dei coniugi), promosso
 con ordinanza emessa il 19 gennaio 1993 dalla  Corte  di  appello  di
 Torino  nel procedimento civile vertente tra Messina Giuseppa Rosaria
 e Mangano Paolo, iscritta al n. 460 del  registro  ordinanze  1993  e
 pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale  della Repubblica n. 36, prima
 serie speciale, dell'anno 1993;
    Visto l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio del 12 gennaio 1994 il Giudice
 relatore Vincenzo Caianiello;
    Ritenuto che, nel corso  di  un  giudizio  per  la  revisione  dei
 provvedimenti  conseguenti  alla  separazione  legale dei coniugi, la
 Corte di appello di Torino, con ordinanza del  19  gennaio  1993,  ha
 sollevato  questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 710
 codice di procedura civile, come sostituito dall'art. 1  della  legge
 29 luglio 1988 n. 331;
      che  nell'ordinanza di rimessione si precisa che uno dei coniugi
 aveva proposto reclamo contro il decreto del tribunale, con il  quale
 erano  stati  modificati i provvedimenti in materia economica nonche'
 le  modalita'  di  visita  della  prole,  e  che   l'altro   coniuge,
 costituitosi  in  giudizio,  aveva  eccepito  l'inammissibilita'  del
 reclamo perche' proposto oltre i dieci giorni previsti nell'art. 739,
 secondo comma, del codice di procedura  civile,  donde  la  rilevanza
 della questione di legittimita' costituzionale della norma denunciata
 (art.  710  del  codice  di  procedura  civile) che, nel prevedere il
 procedimento in  camera  di  consiglio,  implicitamente  richiama  la
 disciplina  dettata  per  esso,  quanto  ai  termini,  dall'art. 739,
 secondo comma, del codice di procedura civile;
      che nell'ordinanza si  premette  che  un  giudizio,  avente  per
 oggetto  diritti  e  status,  non  puo'  essere  strutturato in forme
 camerali,  ne'  assoggettato  ad  una  scarna  regolamentazione   del
 contraddittorio,  ad una "sorta di indeterminatezza istruttoria" e ad
 una disciplina dell'impugnativa "polarizzata nel reclamo e contornata
 dai rimedi della modifica o della revoca", potendo il  modello  della
 camera  di  consiglio essere riservato soltanto per talune materie di
 giurisdizione volontaria;
      che nella stessa ordinanza si richiama la dottrina,  secondo  la
 quale per talune situazioni soggettive e per talune materie il rinvio
 al  procedimento  camerale  dovrebbe  intendersi limitato al richiamo
 delle regole concernenti la forma dell'atto introduttivo (ricorso, in
 luogo  dell'atto  di  citazione)   e   la   investitura   "integrale"
 dell'organo  giudicante,  senza  la sua scomposizione nelle due fasi,
 istruttoria e decisoria, mentre, viceversa, il "diritto  vivente"  si
 sarebbe  attestato  per  inerzia  su  di  un'interpretazione  tale da
 presupporre in quei casi il richiamo anche ad  "altri  e  piu'  gravi
 lineamenti    del   rito   camerale,   quelli   che   riguardano   il
 contraddittorio ed i rimedi del decreto";
      che il  giudice  a  quo  riconosce  che  gia'  questa  Corte  ha
 affrontato  il problema con le sentenze nn. 543 e 573 del 1989, ma le
 motivazioni usate per rigettare le  questioni  allora  sollevate  non
 sono  apparse  convincenti,  donde  la necessita' di un "ripensamento
 radicale   della  Corte  costituzionale  sul  ricorso  da  parte  del
 legislatore ordinario alla procedura camerale ex artt. 737  e  ss.  a
 tutela di diritti o status";
      che,  in particolare, nell'ordinanza si ricorda che questa Corte
 nelle richiamate sentenze ha affermato che, nella  specifica  materia
 ivi trattata, il termine per appellare e' quello previsto dagli artt.
 325  e 326 del codice di procedura civile per le sentenze, e che, ove
 si ritenga che la forma dell'appello debba essere quella del  ricorso
 e  non  dell'atto  di citazione, detto termine e' rispettato col solo
 deposito tempestivo  del  ricorso  in  cancelleria,  ben  potendo  la
 notifica  del ricorso medesimo e del pedissequo decreto presidenziale
 di fissazione dell'udienza avvenire oltre il  termine  ordinario  per
 l'appello,  purche'  entro il termine perentorio fissato dal giudice:
 ma in tal modo  verrebbe  rimesso  "all'interpretazione  dei  giudici
 ordinari l'individuazione della forma dell'atto di appello";
      che,  inoltre,  essendosi  dalla  Corte  ammesso  che  nel  rito
 camerale sia possibile acquisire ogni specie di prova precostituita o
 procedere alla formazione di qualsiasi  prova,  purche'  il  relativo
 modo  di  assunzione  sia  compatibile  con  la  natura  camerale del
 procedimento, il giudice  delle  leggi  avrebbe  eluso  "il  problema
 rappresentato  dall'essenzialita'  o  meno,  ai  fini  del diritto di
 difesa, del  rispetto  delle  modalita'  di  assunzione  delle  prove
 dettate  dagli  artt.  191-266  del  codice di procedura civile e dei
 limiti della incompatibilita' di tali modalita' con la  schematica  e
 rudimentale  procedura camerale ex artt. 737 e seguenti del codice di
 procedura civile  ..,  tutta  o  quasi  rimessa  alla  determinazione
 discrezionale del singolo giudice";
      che, ancora, essendosi ritenuto nelle precedenti decisioni della
 Corte  che,  in  mancanza  di  una norma la quale vieti la assistenza
 tecnica,  questa  sia  implicitamente  ammessa,  cio'   non   elimina
 "l'incongruenza  di  una  disciplina  che  comporta  per  le parti la
 necessita' della difesa tecnica solo nel corso del giudizio di  primo
 grado e non anche nel giudizio di appello";
      che,   infine,   in   relazione  alle  ulteriori  considerazioni
 contenute nelle  ricordate  sentenze,  nella  medesima  ordinanza  si
 sostiene:  a)  che la possibilita' dell'appellato di proporre appello
 incidentale - ritenuta dalla Corte  non  incompatibile  con  il  rito
 camerale - "mediante comparsa depositata direttamente nel corso della
 prima  udienza (art. 343, primo comma, del codice di procedura civile
 ..) e' incompatibile con quelle esigenze di celerita' che nella  spe-
 cie sarebbero alla base del richiamo al rito camerale in appello"; b)
 e  che  l'affermazione,  secondo  cui  il principio della pubblicita'
 delle udienze puo' subire  eccezioni  giustificate  dall'esigenza  di
 assicurare  il  migliore e piu' rapido funzionamento del processo, e'
 contraddetta dall'orientamento della Corte inaugurato dalla  sentenza
 n.  212  del  1986  relativamente ai giudizi innanzi alle commissioni
 tributarie;
      che,  in  relazione  alle  indicazioni  di  questa  Corte  circa
 l'applicabilita'  al  giudizio  camerale  di  principi  e  regole del
 giudizio ordinario per assicurare le garanzie proprie di un processo,
 si  sostiene  dal  giudice  a  quo  che  cio'  darebbe  luogo  ad  un
 "procedimento  praeter  legem"  che "non risulta accettabile" perche'
 rimetterebbe, "nell'adozione di talune  forme",  alle  determinazioni
 "discrezionali" del singolo giudice la relativa disciplina, mentre la
 norma processuale e' "di ordine pubblico" e, dovendo essere uniforme,
 va   riservata   al  legislatore  ordinario;  rilievo,  quest'ultimo,
 sostenuto anche dalla considerazione che "le sentenze  interpretative
 di  rigetto della Corte costituzionale, mentre possono avere una loro
 giustificazione nel diritto sostanziale, mal  si  adattano  al  campo
 processuale,  che  costituisce un sistema di garanzie che puo' essere
 disciplinato solo dal legislatore e non ( ..) rimesso all'arbitrio di
 altri organi privi di poteri normativi";
      che e' intervenuto in giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
 Ministri,  per  il  tramite  dell'Avvocatura  generale  dello  Stato,
 sostenendo la infondatezza della questione alla luce  della  costante
 giurisprudenza  della  Corte in relazione alle norme che disciplinano
 il procedimento camerale;
    Considerato  che  l'ordinanza  di  rimessione  affronta  nel   suo
 complesso  il  problema  dell'applicabilita'  del  rito  camerale  in
 materia di diritti soggettivi e di status e  quello  del  potere  del
 giudice  di determinare le forme del procedimento, in quanto le norme
 (come, nella specie, l'impugnato art. 710  del  codice  di  procedura
 civile,  in  materia  di  modifica dei provvedimenti conseguenti alla
 separazione dei coniugi) disciplinerebbero il  relativo  procedimento
 in modo insufficiente a garantire il diritto di difesa;
      che,   nel   formulare   le   censure,  il  giudice  rimettente,
 riproducendo  taluni  orientamenti  critici  espressi   in   dottrina
 relativamente  alle sentenze di questa Corte nn. 543 e 573 del 1989 -
 che hanno rigettato analoghe questioni di legittimita' costituzionale
 della norma (art. 8 della legge 6 marzo 1987 n. 74) la quale  prevede
 che l'appello avverso le sentenze di separazione personale sia deciso
 in  camera  di  consiglio  - non prospetta elementi tali da indurre a
 mutare opinione rispetto alle precedenti pronunce che  pur  investono
 altra  disciplina,  ma  le cui rationes decidendi ricorrono anche con
 riguardo alla questione ora proposta;
      che, difatti, molte delle considerazioni  svolte  nell'ordinanza
 di  rimessione  o sono meramente assertive (come quelle relative alla
 "scarna    regolamentazione    del    contraddittorio"     o     alla
 "indeterminatezza  istruttoria",  e  quelle  in materia di assunzione
 delle prove,  di  difesa  tecnica,  di  appello  incidentale)  ovvero
 ribadiscono  le  tesi  che sono gia' state disattese nelle richiamate
 sentenze  di  questa  Corte  che,  sia  pur  relativamente  ad  altra
 disciplina ed anche, in particolare, per quel che concerne il diritto
 di   prova   (sent.  n.  543  del  1989),  ha  fornito  di  essa  una
 interpretazione adeguatrice dalla quale e' possibile  desumere  utili
 indicazioni per ogni sorta di rito camerale in merito all'adozione di
 forme  e  di modalita' tali da soddisfare i principi fondamentali del
 processo, in particolare a garanzia di diritto di azione e di difesa;
      che devono in proposito ancora ribadirsi  i  principi  affermati
 dalla  costante  giurisprudenza di questa Corte, la quale esclude che
 soltanto il rito ordinario sia conforme alla  Costituzione  e  quindi
 l'unico  rito idoneo a soddisfare il diritto di difesa, e precisa che
 la scelta del procedimento camerale per ragioni di celerita'  sarebbe
 illegittima solo se, in relazione alle peculiari esigenze dei diversi
 processi,  tale scelta apparisse inidonea ad assicurare lo scopo e la
 funzione del processo, e, quindi, in primo luogo  il  contraddittorio
 (v.  sent.  n.  543  del  1989  e  altre  ivi  richiamate), dovendosi
 considerare  che,  in  difetto di esplicite previsioni limitatrici di
 siffatte forme e modalita', anche quel  procedimento  "e'  idoneo  ad
 assicurare  tutte  le  garanzie  processuali  necessarie a rendere il
 sistema conforme alle esigenze del diritto di difesa" (sent. 573  del
 1989);
      che,  d'altronde,  la giurisprudenza piu' recente della Corte di
 cassazione e' nel senso  che  il  giudizio  per  la  revisione  delle
 disposizioni  relative  ai  coniugi  e alla prole - nonostante che la
 legge 29 luglio 1988 n. 331, modificando l'art.  710  del  codice  di
 procedura  civile,  abbia  stabilito  per  esso  il  rito  camerale -
 configura pur sempre un procedimento contenzioso, che si  svolge  nel
 pieno  contraddittorio  delle  parti titolari di confliggenti diritti
 soggettivi  e  si  conclude  con  un  provvedimento  che  ha   natura
 sostanziale di sentenza;
      che  tale  giurisprudenza  ritiene altresi' che il provvedimento
 reso  dalla  Corte  di  appello  in  sede  di   reclamo   contro   il
 provvedimento  del  tribunale,  data  la  sua  natura  decisoria,  e'
 impugnabile con ricorso per cassazione, superando cosi', in relazione
 a talune materie concernenti diritti, possibili limiti che  dovessero
 ritenersi  derivare  dall'art.  739,  ultimo  comma,  del  codice  di
 procedura civile, compreso nella disciplina codicistica  relativa  ai
 procedimenti camerali;
      che,  anche  a seguirsi l'opinione del giudice a quo secondo cui
 nel rito camerale, disciplinato dalla norma impugnata, il termine per
 l'appello non e' quello di  30  giorni  previsto  dall'art.  325  del
 codice  di  procedura  civile,  bensi'  quello di 10 giorni stabilito
 dall'art. 739  del  codice  stesso,  quest'ultimo  termine  non  puo'
 ragionevolmente  ritenersi  ostativo del diritto di difesa, apparendo
 adeguato in relazione all'interesse reciproco delle parti alla rapida
 conclusione del giudizio e dovendosi anche tener conto che la domanda
 puo' essere, nei congrui casi, riproposta al tribunale;
      che,  quanto  all'assunto  secondo  cui  il  rito  camerale  non
 garantirebbe  la  pubblicita',  deve  rilevarsi che non solo a questo
 principio e' estraneo l'invocato parametro  costituzionale,  ma  esso
 non   e'  assoluto,  ben  potendo  conoscere  deroghe  dettate  dalla
 specialita' delle controversie (sent.  n.  235  del  1993)  ed  avere
 differenti modalita' di attuazione;
      che,  nella  specie, si e' in presenza di un rito caratterizzato
 dalla pubblicita' degli atti depositati  nel  fascicolo  di  causa  e
 accessibili  a  chiunque  vi  abbia interesse; dalla ammissione delle
 parti ad esporre le rispettive ragioni oralmente, di  persona  o  con
 l'assistenza  tecnica di un difensore (sent. n. 151 del 1971), oppure
 di farsi rappresentare da altri al fine di  tale  trattazione  orale;
 dal  controllo  delle parti medesime sulle fasi del procedimento; dal
 contenuto della  decisione  che,  come  tale,  deve  essere  motivata
 nell'osservanza del canone di congruita' argomentativa, resa pubblica
 con  il  deposito  e  comunicata alle parti costituite, essendo cosi'
 assoggettata al successivo controllo di opinione, che appare idoneo a
 metterla al riparo da rischi di arbitrarieta';
      che in tal modo e' anche  assicurato  il  pieno  rispetto  delle
 regole  del  contraddittorio (sentenza n. 543 del 1989; ordinanze nn.
 587 e 105 del 1989) e garantite le posizioni delle parti  dotate  del
 potere di impulso processuale;
      che,  quanto all'ultima argomentazione dell'ordinanza di rinvio,
 circa   l'inaccettabilita'   di   un   sistema    che    rimetterebbe
 all'interpretazione dei giudici ordinari l'individuazione della forma
 dell'atto  di  appello  e  quindi all'"arbitrio" dei singoli giudici,
 "organi privi di poteri normativi", la disciplina processuale cui mal
 si adatterebbero le sentenze  interpretative  di  rigetto  di  questa
 Corte, va rilevato che, da un canto, rispetto a quest'ultimo profilo,
 l'interpretazione  adeguatrice  non  incontra  tale  asserito  limite
 rispetto alle norme processuali (v., ad es.:, per il processo penale,
 sentt. nn. 430, 266 e 142 del 1992, 401, 353 e 311 del 1991, 346  del
 1990, e, per il processo civile, sentt. n. 477 e 429 del 1991, 80 del
 1967),  che,  dall'altro,  compito  dei  giudici e' proprio quello di
 interpretare le norme di cui devono fare applicazione e che,  infine,
 di  fronte  a piu' possibili interpretazioni di un sistema normativo,
 essi sono  tenuti  a  scegliere  quella  che  risulti  conforme  alla
 Costituzione;   con   la   conseguenza   che   la   dichiarazione  di
 illegittimita' costituzionale costituisce  soluzione  obbligata  solo
 nell'ipotesi  in  cui  tutte le possibili interpretazioni delle norme
 denunciate, inquadrate nel rimanente sistema, dovessero risultare, in
 sede  di  concreta  applicazione,  in  contrasto   con   i   principi
 costituzionali;
      che,  pertanto, le richiamate sentenze della Corte non intendono
 rimettere  all'"arbitrio"   del   singolo   giudice   la   disciplina
 processuale,  ma  indicare  le  linee  interpretative possibili al di
 fuori delle quali essa contrasterebbe con la Costituzione, il che  e'
 sufficiente  a  realizzare  quella tendenziale uniformita', pur nella
 inevitabile diversita', propria  della  dialettica  giurisprudenziale
 che  puo' verificarsi non solo per la disciplina in esame, rientrando
 nella normalita' del sistema giudiziario l'eventualita' di  pronuncie
 che  possono variare a ragione della multiforme casistica giudiziaria
 e della pluralita' dei giudici;
      che la questione  e'  pertanto  manifestamente  infondata  sotto
 tutti i profili prospettati;
    Visti  gli  artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n.
 87 e 9, secondo comma, delle Norme integrative per i giudizi  davanti
 alla Corte costituzionale;
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
    Dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimita'
 costituzionale  dell'art.  710  del  codice di procedura civile, come
 sostituito dall'art. 1 della legge 29 luglio 1988 n. 331,  sollevata,
 in riferimento all'art. 24 della Costituzione, dalla Corte di appello
 di Torino con l'ordinanza indicata in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, 23 marzo 1994.
                        Il Presidente: CASAVOLA
                       Il redattore: CAIANIELLO
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 31 marzo 1994.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
 94C0374