N. 220 ORDINANZA (Atto di promovimento) 24 gennaio 1994
N. 220 Ordinanza emessa il 24 gennaio 1994 dal tribunale di sorveglianza per il distretto della corte di appello di Bari nel procedimento di sorveglianza nei confronti di Favia Matteo Ordinamento penitenziario - Condannati per gravi motivi (nel caso di specie: associazione a delinquere di stampo mafioso) - Divieto di concessione dei benefici, in assenza delle condizioni di cui all'art. 58-ter della legge n. 354/1975 (collaborazione con la giustizia), anche nel caso in cui la partecipazione al sodalizio crimonoso sia di scarsa importanza - Lamentata disparita' di trattamento rispetto a quei condannati che, pur a fronte di una collaborazione con la giustizia del tutto irrilevante, possono godere dei benefici, per l'avvenuto riconoscimento dell'attenuante del risarcimento del danno - Prospettata violazione del diritto di difesa e dei principi di irretroattivita' della legge penale e della funzione rieducativa della pena. (Legge 26 luglio 1975, n. 354, art. 4-bis, primo comma). (Cost., artt. 3, 24, 25 e 27).(GU n.17 del 20-4-1994 )
IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA Ha emesso la seguente ordinanza nel procedimento di sorveglianza relativo a Favia Matteo, nato ad Acquaviva delle Fonti il 18 luglio 1952, avente ad oggetto: affidamento ss./semiliberta'. O S S E R V A Favia Matteo, come sopra generalizzato, condannato con sentenza della corte di appello di Bari del 20 dicembre 1991 a due anni e sei mesi di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso nonche' detenzione illecita di sostanza stupefacente, ha presentato istanza a questo t.s. per essere affidato in prova a servizio sociale o, in alternativa per essere ammesso alla semiliberta'. Poiche' la condanna attiene a reato c.d. preclusivo ai sensi dell'art. 4-bis della legge n. 354/1975, cosi' come novellato dall'art. 15, primo comma, della legge n. 356/1992, non risultando essere state applicate al Favia neppure le circostanze attenuanti esplicitamente previste dalla norma (per cui sarebbe comunque occorsa la collaborazione con la giustizia, se pure "oggettivamente irrilevante"), si e' acquisita notizia sulla eventuale collaborazione prestata alla giustizia (che avrebbe dovuto, nel suo caso, invece, essere rilevante) e, ovviamente, sull'attivita' dei collegamenti con la criminalita' organizzata (requisito indispensabile comunque, per poter fruire della misura). Quanto alla collaborazione, non risulta che il Favia l'abbia mai prestata perche' (v. nota inviata dalla proc. gen. Bari e sottoscritta dal consigliere estensore della sentenza) ha "assunto un comportamento processuale costantemente negatorio" della sua responsabilita' (v. anche dichiarazioni dello stesso condannato, in atti). Quanto alla attualita' dei collegamenti, vi sono due notizie contrastanti: la prima, piuttosto vaga e imprecisa sui tempi, della prefettura di Bari che, evidentemente, basandosi solo sulla condanna, da' il Favia per facente parte dell'organizzazione criminale denominata "La Rosa" - quella che, per l'appunto colpita dalla citata sentenza della corte di appello di Bari, dovrebbe essere stata smantellata -; la seconda, dei carabinieri di Acquaviva (luogo di nascita e residenza dell'istante), che esclude, invece, proprio quanto interessa, cioe' il collegamento attuale con la criminalita' organizzata, molto piu' attendibile perche' motivata, probabilmente, dal comportamento tenuto dal reo - che collabora con la moglie nella conduzione di un'azienda di mobili, e si occupa di due figli gemelli nati prematuramente - successivamente alla condanna. Il tribunale ritiene, per l'appunto, degna di considerazione quest'ultima notizia dal momento che il Favia, vivendo e operando in Acquaviva, anche a causa della condanna riportata e' certamente sottoposto dall'Arma a continua sorveglianza. Dati anche gli scarsi precedenti penali, l'attivita' commerciale avviata e la complessa situazione familiare appare molto verosimile che l'istante, contrariamente all'opinione del prefetto, non abbia piu' mantenuto alcun collegamento con l'organizzazione criminale. Del resto la notizia pervenuta dalla prefettura pecca di eccessiva cautela e appare piuttosto datata, atteso che si riporta in modo pedissequo alla situazione per la quale l'istante e' stato gia' definitivamente condannato nel 1991. La mancanza di collegamenti attuali con la criminalita' organizzata, quindi, unita alla particolare tenuita' della pena, elevata di sei mesi per aver il giudice ritenuto la continuazione con il reato di detenzione di sostanza stupefacente, la levita' dei precedenti penali (emissione di assegni a vuoto) fa ritenere a questo t.s. ingiustificata la inammissibilita' della concessione, in via di principio, della misura alternativa al caso in esame, a causa delle preclusioni statuite dall'art. 4-bis, primo comma, l.p. - introdotto (con l'art. 15 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito in legge n. 356 del 7 agosto 1992) in un momento successivo alla condanna - per cui, data la rilevanza della applicazione della norma nel procedimento de quo, questo giudice reputa non manifestamente infondate le questioni di illegittimita' costituzionale del citato articolo, proposte dall'istante e ritenute anche dal giudicante sotto numerosi profili, che si vanno ad elencare. a) Contrasto dell'art. 4-bis, primo comma, secondo periodo, della legge n. 354/1975 con il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione. La norma sospettata di incostituzionalita' riserva un trattamento difforme a situazioni che sono analoghe laddove stabilisce che i benefici possono essere concessi anche a coloro la cui collaborazione sia stata oggettivamente irrilevante - sempre che si possano escludere collegamenti attuali con la criminalita' organizzata - purche' siano state riconosciute circostanze attenuanti previste agli artt. 62, n. 6, 114 o 116, del c.p., e non anche a quei soggetti condannati a una pena particolarmente bassa, come, per l'appunto il Favia, nei riguardi dei quali, mediante l'applicazine di diverse circostanze attenuanti, si possano individuare partecipazioni all'associazione criminosa di scarsissima entita' o estremamente marginali, comunque tali da non consentire, anche in questo caso, alcuna possibilita' di collaborazione, a causa della irrilevanza della posizione del soggetto nell'organizzazione. Ancora piu' iniqua appare la disposizione quando consente, se ricorra la circostanza attenuante dell'art. 62 del c.p., n. 6, rapportabile, si pensi, alla mera situazione economica personale del reo, che criminali incalliti, - con certificati penali costellati di reati gravissimi (e non di sole emissioni di assegni a vuoto) nei quali e' abbastanza probabile intuire un particolare tipo di subcultura criminale (che comunque potrebbe continuare a mantenerli in logiche devianti) solo per aver risarcito il danno (magari proprio in virtu' di arricchimenti illeciti derivanti dallo stesso reato) -, possano proporre domande astrattamente ammissibili. Un soggetto, invece, che, per i suoi precedenti, appare di irrilevante pericolosita' sociale, puo' vedere preclusa sul nascere la possibilita' di ottenere la misura alternativa solo per non essere (stato) in condizioni di appagare le pretese derivanti dal grave danno cagionato dalla potente organizzazione, magari proprio a causa della sua posizione, all'interno della stessa, ininfluente o meramente occasionale (che non gli abbia permesso l'accumulo degli idonei mezzi economici). Sarebbe quindi opportuno, per rispettare il principio di uguaglianza di fatto, che fosse data la possibilita' al giudice del trattamento penitenziario - sempre che manchino, come nella specie, collegamenti attuali dell'interessato con la criminalita' organizzata - di valutare la posizione del reo sotto ogni angolazione, soprattutto, si ripete, riguardo a quelle pene particolarmente lievi - addirittura, come nella specie, inferiori al minimo edittale - che lascino trasparire situazioni al limite delle attenuanti degli artt. 114 e 116 del c.p., anche quando non vi sia stata alcuna collaborazione con la giustizia, ne' alcuna forma di risarcimento del danno. La stessa corte, sia pure in modo sfumato, nella sentenza n. 306/1993, penultimo alinea del paragrafo undicesimo, ha prospettato una possibilita' nel senso indicato, evidenziando come nessuna delle ordinanze di rimessione avesse, in quella occasione, mosso specifiche censure in tal senso. b) Contrassto dell'art. 4-bis, primo comma, primo periodo, della legge n. 354/1975 con il diritto di difesa stabilito nell'art. 24 della Costituzione, nonche' dei principii di uguaglianza e ragionevolezza stabiliti nell'art. 3 della Costituzione. La previsione dell'art. 4-bis, primo comma, primo periodo, nel consentire l'ammissibilita' dei benefici solo per coloro che abbiano collaborato o collaborino con la giustizia, intacca il principio di difesa in giudizio, costringendo anche l'imputato innocente che intende tutelare il suo diritto al riconoscimento della verita', in fase cognitoria, a funambolismi difensivi nella preoccupazione di un possibile errore giudiziario, che possa dichiararlo colpevole. E' certamento vero che il passaggio in giudicato della sentenza, salvo il procedimento di revisione, conferisce certezza giuridica alle situazioni dedotte nel processo, ma e' anche vero che - poiche' non sempre e' possibile di fatto accedere al processo di revisione - il condannato innocente impossibilitato a prestare la collaborazione necessaria al futuro ottenimento di benefici penitenziari, viene a trovarsi doppiamente e irragionevolmente punito rispetto a chi, realmente criminale, si sia offerto di collaborare, nella prospettiva di tutti i numerosi vantaggi che la legge gli concede. In pratica, l'innocente, nel giudizio di cognizione, dovrebbe, per premunirsi dall'incorrere nei rigori della disposizione penitenziaria, dichiararsi colpevole, intralciando il cammino della giustizia e rischiando - con il depistaggio dell'indagine a mezzo false collaborazioni - di incorrere nel reato di autocalunnia, nella prospettiva di poter ottenere, in futuro, se non il riconoscimento della sua innocenza, almeno la liberta', intera o parziale, con l'ammissione alle misure alternative alla detenzione. La situazione creata dall'art. 4-bis appare, oltre che sospetta di incostituzionalita', una vera assurdita' giuridica, perche' condiziona irragionevolmente le scelte difensive, imponendo di non tutelare i diritti attuali nel giudizio di cognizione, gia' concatenandoli a quelli che insorgono nella fase esecutiva: in altre parole, l'innocente sa che, in caso di errore giudiziario, non potra' neppure beneficiare "mai" di misure alternative e permessi, a differenza del vero reo. Nel caso in esame, la situazione e' ancora piu' drammatica perche' la norma, intervenendo con efficacia retroattiva, ha precluso al Favia' l'opzione difensiva sopra indicata, pertanto vi e' anche c) Contrasto dell'art. 4-bis, primo comma, della legge n. 354/1975 con il principio di irretroattivita' della legge penale sancito dall'art. 25 della Costituzione. Non vi sono dubbi che le norme che disciplinano l'ordinamento penitenziario abbiano natura sostanziale. Nel momento in cui il codice penale stabilisce il tipo di punizione per un qualsiasi reato, infatti, non determina, se non in modo generale, il contenuto della pena. Nessuna norma, p. es., "descrive" che cosa debba intendersi per reclusione, e dal codice sappiamo solo che questa e' la sanzione di tipo restrittivo prevista per i delitti: nulla ci viene detto riguardo al suo contenuto, alla sua natura, in particolare, in cosa detta pena si diversifichi dall'arresto. Ancora maggiormente si rileva questa indeterminatezza se pensiamo alle due specie di pena pecuniaria stabilite dal c.p. L'ordinamento penitenziario, invece, e' la normativa che specifica il contenuto delle norme del c.p. sulle pene quando, p. es., individua le condizioni generali della detenzione, le modalita' del trattamento, il regime penitenziario, ecc. Anche le norme sulle misure alternative determinano il contenuto della pena detentiva, e in particolare ne connotano l'afflittivita': si veda, per tutti l'art. 50 della legge n. 354/1975, quando consente al condannato all'arresto di qualsiasi durata e a quello alla reclusione per un massimo di sei mesi di espiare direttamente la pena in semiliberta' senza averne scontato a regime pieno almeno la meta' (salvo che non vi siano di gia' gli esiti dell'osservazione condotta in carcere). Va poi osservato che, per essere le misure previste dall'ordinamento penitenziario "alternative" alla detenzione, ed essendo questa, nella specie della reclusione e dell'arresto, disciplinata da norme penali sostanziali, stessa natura hanno certamente le norme che regolano le pene alternative. Riconosciuta, percio', natura sostanziale alle dette disposizioni, integrative di quelle codicistiche, l'art. 4-bis (nel testo novellato dall'art. 15, primo comma, della legge n. 356/1992) non puo' non essere sospettato di incostituzionalita' quando incide retroattivamente anche sulla liberta' personale di coloro che abbiano commesso il reato prima della sua entrata in vigore, precludendo, in assenza di determinati presupposti, non previsti al momento del fatto, l'ammissione ai benefici di legge. Per quanto gia' esaminato al punto b), la norma assolve funzione preventiva perche', si ripete, aggrava la posizione esecutiva di coloro che, non solo sono riconosciuti responsabili dei reati di cui agli artt. 416-bis, 630 del c.p. e 74 del d.P.R. n. 309/1990, ma non hanno collaborato (anche involontariamente, per essere i fatti stati precedentemente acclarati) con la giustizia. Questo stato di cose deve poter essere conoscibile, come tutte le norme penali, "prima" della consumazione del reato, secondo il disposto del secondo comma dell'art. 25 della Costituzione, perche' rappresenta una ulteriore restrizione alla liberta' personale oltre che un'altro deterrente alla commissione del fatto. Nel caso di specie, poiche' al momento della consumazione del reato (1989), non era necessario, pr l'ammissione alla misura alternativa alcun requisito particolare se non quelli relativi alla durata della pena, alle prospettive di reinserimento, ecc., disciplinati espressamente negli artt. 47 e ss. della l.p. e, tanto meno, era prevista la necessita' della collaborazione, il Favia e' stato del tutto impossibilitato a effettuare scelte conseguenziali. La previsione legislativa appare ancora piu' incongrua e irragionevole ove si pensi che altre norme aggravanti il regime penitenziario, introdotte con il d.l. 13 maggio 1991, n. 152 (art. 30-ter, quarto comma, lettera c); 58-quater) sono state espressamente dichiarate irretroattive dal legislatore (disponendo l'applicabilita', con riguardo al giorno della commissione del reato, limitatamente a chi abbia commesso il fatto successivamente al 13 maggio 1991) il quale ha, quindi, con questa determinazione, implicitamente riconosciuto la riferibilita' del contenuto dell'art. 25 della Costituzione alle disposizioni che regolamentano l'esecuzione della pena. d) Contrasto dell'art. 4-bis, primo comma, primo periodo, della legge n. 354/1975 con il principio per cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato stabilito dall'art. 27 della Costituzione. La norma dell'art. 4-bis, primo comma, primo periodo, della l.p. snatura, per i reati in essa elencati e sopra ricordati, le disposizioni contenute nei successivi artt. 47 e ss. che riguardano le misure alternative, individuando come base del cammino rieducativo la collaborazione con la giustizia e la mancanza di attuali collegamenti con la criminalita' organizzata. La disposizione prescinde, quindi da quale che sia ulteriore manifestazione di reinserimento nel tessuto sociale e di partecipazione all'opera di rieducazione che il reo abbia compiuto dopo la condanna. Mentre la mancanza di attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata e' una disposizione tanto congrua - perche' indica effettivamente la volonta' del reo di allontanarsi da logiche devianti - da apparire addirittura superflua (perche' nessun giudice ammetterebbe ad una misura alternativa un soggetto ancora a pieno titolo inserito in sodalizi criminosi), decisamente contrario alla Costituzione e' il requisito della collaborazione. Anche se il disposto dell'art. 27 parla solo di "tendenza" alla rieducazione del condannato, neppure tale "modesta" esigenza viene salvaguardata per colui il quale abbia chiaramente manifestato, come il Favia, volonta' di recuperarsi, mantenendo per un lungo tempo in liberta' regolare condotta, lavorando, badando alla famiglia, perche' sara' poi costretto a sopportare, senza alcuna speranza di ottenimento di benefici futuri, una detenzione che puo' per lui essere solo deleteria (specie se si tratti della prima che debba subire). In piu' v'e' da considerare che ai soggetti non collaboratori e' preclusa anche l'esperienza - riconosciuta, si badi, come una vera e propria parte integrante (art. 30-ter della l.p., terzo comma) del trattamento rieducativo - dei permessi premio, sicche' l'eventuale beneficio in termini di risocializzazione che il condannato (non collaboratore di giustizia) per gli artt. 416-bis, 630 del c.p. e 74 del d.P.R. n. 309/1990 tragga dal trattamento penitenziario non potrebbe arricchirsi, e nel contempo sperimentarsi, con quale che sia misura in esternato: questo, in chiaro contrasto con lo spirito del precetto costituzionale, che ha trovato dapprima attuazione con la legge n. 354/1975, e, successivamente, piu' ampio riconoscimento con la novella del 1986. Tutte le considerazioni anzidette non consentono di definire il procedimento n. 1193/93, instaurato da Favia Matteo per essere ammesso all'affidamento ss/semiliberta', senza che siano risolte le questioni di costituzionalita' sopra elencate che si reputano da questo t.s., per tutte le ragioni precedentemente esposte, non manifestamente infondate in relazione al giudizio de quo agitur, che va, pertanto sospeso in attesa della decisione della Corte costituzionale alla quale si rimettono gli atti.
P. Q. M. Dichiara non manifestamente infondate le censure di incostituzionalita' mosse all'art. 4-bis, primo comma, della legge n. 354/1975, cosi' come indicate nella parte motiva di questa ordinanza, in relazione al procedimento n. 1193/1993 per l'affidamento ss/semiliberta', promosso da Favia Matteo; Visto l'art. 23 della legge n. 87/1953, sospende il citato procedimento e dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per la decisione in merito alle dette censure; Manda alla cancelleria per le comunicazioni, notificazioni e gli adempimenti di rito nonche' per la comunicazione di questa ordinanza agli interessati e alla procura generale in sede. Bari, addi' 24 gennaio 1994 Il presidente: MIGNOLO 94C0429