N. 265 SENTENZA 22 - 30 giugno 1994

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Processo  penale  - Procedimenti speciali - Applicazione della pena -
 Impossibilita' di richiederla  nel  dibattimento  anche  in  caso  di
 contestazione  di  fatto  diverso  o di reato concorrente concernente
 fattispecie gia' risultante  dagli  atti  al  momento  dell'esercizio
 della  azione  penale o quando l'imputato ne abbia fatto tempestiva e
 rituale richiesta in ordine alle originarie imputazioni - Lesione del
 diritto di difesa - Irragionevole discriminazione dipendente da fatto
 del   p.m.   (erroneita'   o   incompletezza   dell'imputazione)    -
 Illegittimita'   costituzionale  parziale  -  Assorbimento  di  altro
 profilo.
 
 (C.P.P., artt. 516 e 517).
 
 (Cost., artt. 3, 24 e 111).
 
 Processo   penale   -  Procedimenti  speciali  -  Rito  abbreviato  -
 Impossibilita' di richiederlo  nel  dibattimento  anche  in  caso  di
 erroneita'  o in incompletezza dell'imputazione gia' risultanti dagli
 atti al momento dell'esercizio dell'azione penale - Lamentata lesione
 del diritto di  difesa  -  Denunciata  irragionevole  discriminazione
 dell'imputato  ad  opera  del p.m. - Soluzione non costituzionalmente
 obbligata - Discrezionalita'  legislativa  -  Inammissibilita'  della
 questione.
 
 (C.P.P., artt. 520 e 516).
 
 (Cost., artt. 3, 24 e 111)
 
(GU n.28 del 6-7-1994 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Gabriele PESCATORE;
 Giudici: avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro
    FERRI,  prof.  Luigi  MENGONI,  prof.  Enzo  CHELI,  dott.  Renato
    GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof.  Francesco  GUIZZI,  prof.
    Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nei  giudizi  di  legittimita'  costituzionale degli artt. 446, primo
 comma, 516, 517, 519 e 520 del codice di procedura  penale,  promossi
 con ordinanze emesse il 23 ottobre 1992 dal Pretore di Paola, sezione
 distaccata  di  Scalea,  il  17 novembre 1992 dal Pretore di Venezia,
 sezione distaccata di Chioggia, il 18  maggio  1993  dal  Pretore  di
 Napoli,  sezione distaccata di Sorrento, l'11 giugno 1993 dal Pretore
 di Caltanissetta ed il 23  settembre  1993  dal  Pretore  di  Urbino,
 rispettivamente  iscritte ai nn.  37, 81, 435, 576 e 719 del registro
 ordinanze 1993 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
 nn. 7, 10, 35, 41 e 50, prima serie speciale, dell'anno 1993;
    Visti gli atti di intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri;
    Uditi  nella  camera  di  consiglio  dell'8  giugno 1994 i Giudici
 relatori Ugo Spagnoli per le cause di cui ai nn. 81, 576  e  719  del
 registro ordinanze 1993 e Mauro Ferri per le cause di cui ai nn. 37 e
 435 del registro ordinanze 1993;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Con  ordinanza  emessa  il  23 ottobre 1992 (r.o. n. 37 del
 1993),  il  Pretore  di  Paola,  sezione  distaccata  di  Scalea,  ha
 sollevato,  su  eccezione  della  difesa,  questione  di legittimita'
 costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della  Costituzione,
 degli artt. 446, primo comma, e 517 del codice di procedura penale.
    Il  giudice  a  quo  premette  in  fatto  che  gli imputati, prima
 dell'apertura del dibattimento, avevano chiesto  il  "patteggiamento"
 in  ordine  ai  due  reati contestati, ma il pubblico ministero aveva
 negato il consenso non risultando "allo stato degli  atti  (  ..)  la
 violazione  di  cui all'art. 20, lett. c), della legge n. 47/85". Nel
 corso del dibattimento, il pubblico ministero contestava ad uno degli
 imputati tale reato concorrente ai sensi dell'art. 517 del codice  di
 procedura  penale e, di fronte ad una nuova richiesta di applicazione
 di pena per i tre reati unificati nella  continuazione,  il  pubblico
 ministero  medesimo, pur concordando sulla determinazione della pena,
 negava il consenso rilevando l'inammissibilita' della  richiesta  per
 tardivita'.
    Cio'  posto,  il remittente, rilevato che l'art. 446, primo comma,
 del codice di procedura penale, nel fissare il  limite  dell'apertura
 del  dibattimento per la formulazione della richiesta di applicazione
 della pena, non ammette deroghe ne' lascia  spazi  interpretativi  in
 senso  diverso, osserva che i principi affermati nella giurisprudenza
 costituzionale, che ha riconosciuto la legittimita' della preclusione
 all'adozione  dei  riti  speciali  nelle  ipotesi  di   contestazioni
 suppletive  (sentenze  nn.  593 del 1990 e 316 del 1992; ordinanza n.
 213 del 1992) non appaiono applicabili al caso di specie.  Sottolinea
 in proposito il giudice a quo che la richiesta di applicazione  della
 pena  ai sensi dell'art. 444 del codice di procedura penale era stata
 tempestivamente avanzata, ma il pubblico ministero aveva  dissentito,
 non  contestando  la  determinazione  della pena, ma l'imputazione da
 egli stesso formulata, che non intendeva modificare in limine  litis.
 L'imputato,  pertanto, si vede privato della possibilita' di accedere
 al  rito  speciale,  con   riferimento   al   reato   oggetto   della
 contestazione  suppletiva, non dalla propria libera determinazione in
 ordine al rito da adottare, ma dall'anomala condotta  dell'organo  di
 accusa,  che,  se  puo'  essere  sindacata  dal giudice all'esito del
 dibattimento ex art. 448, primo comma, del codice di procedura penale
 ai fini della eventuale applicazione della pena richiesta  in  ordine
 alle  primitive  imputazioni,  determina  ineluttabilmente  l'effetto
 preclusivo  della   procedura   pattizia   relativamente   al   reato
 concorrente  scaturito  dalla nuova contestazione.  Di qui, ad avviso
 del giudice a quo, la violazione sia del  principio  di  uguaglianza,
 essendo  una  valutazione discrezionale ed insindacabile del pubblico
 ministero  a  condizionare  il  rito  da  applicare  ed   a   privare
 l'interessato dei benefici connessi ai procedimenti speciali, sia del
 diritto   di   difesa,  in  quanto  tale  determinazione  unilaterale
 dell'organo dell'accusa espropria l'imputato di una  delle  possibili
 opzioni processuali.
    1.1.  - E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
 ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato,   che   ha   concluso   per  l'infondatezza  della  questione.
 L'Avvocatura  richiama  a  tal   fine   le   pronunce   della   Corte
 costituzionale  gia'  citate  nell'ordinanza di rimessione ed osserva
 che la peculiarita' del caso in esame non ha alcuna  incidenza  sulle
 argomentazioni svolte in dette decisioni, in quanto gli interessi che
 sollecitano  le  parti  ad  effettuare le scelte processuali ritenute
 piu' opportune rappresentano un fenomeno normativamente indifferente,
 inidoneo  dunque  ad  incidere  sui  rispettivi  diritti   o   poteri
 processuali.  Non  si  vede,  in  conclusione,  osserva la difesa del
 Governo, come le norme  denunciate  possano  violare  il  diritto  di
 difesa,  che  resta  inalterato sia nel caso in cui venga adottato un
 rito alternativo sia nell'ipotesi in cui  occorra  procedere  con  il
 rito ordinario.
    2.  -  A  seguito  di  modifica  dibattimentale della imputazione,
 operata dal pubblico ministero ex art. 516 del  codice  di  procedura
 penale,  il  Pretore  di Venezia, sezione distaccata di Chioggia, con
 ordinanza del 17 novembre 1992 (r.o. n.  81  del  1993),  considerato
 che,  mancando  nel  processo  pretorile  il  filtro  giurisdizionale
 rappresentato dall'udienza preliminare e non avendo d'altro canto  il
 giudice del dibattimento accesso agli atti delle indagini preliminari
 in  base  ai  quali  il  pubblico  ministero  ha emesso il decreto di
 citazione a giudizio, il medesimo giudice non ha la  possibilita'  di
 apprezzare se da tali atti emergano gia' gli elementi per una diversa
 imputazione,    essendo    cosi'    rimessa    alla   incontrollabile
 determinazione del pubblico ministero la scelta di quando operare  la
 nuova  contestazione,  ha  ravvisato,  su  eccezione della difesa, il
 possibile contrasto degli artt. 520 e 516  del  codice  di  procedura
 penale  con  gli  artt.  3,  24 e 111 della Costituzione.   Rileva il
 giudice a quo che il pubblico ministero potrebbe, per errore o  anche
 volutamente,  tralasciare  di  adeguare l'imputazione alle risultanze
 delle indagini nel momento in cui  esercita  l'azione  penale,  tanto
 che,  una  volta  modificata  l'imputazione  in  sede dibattimentale,
 l'imputato si vede preclusa in ordine alla nuova contestazione la via
 dei  procedimenti  speciali,  attivabili  solo  entro  le  perentorie
 cadenze  stabilite  dal  codice (entro quindici giorni dalla notifica
 del decreto di citazione a giudizio, quanto al rito  abbreviato;  non
 oltre  la  dichiarazione  di  apertura  del  dibattimento,  quanto al
 patteggiamento). Ne deriverebbe, quindi, una irragionevole disparita'
 di  trattamento, in relazione all'esercizio del diritto di difesa, e,
 stante l'impossibilita' per il giudice di  verificare  i  presupposti
 per  la  modifica  della  imputazione,  la vanificazione del precetto
 costituzionale di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali.
    2.1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri,  rappresentato  e
 difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  ha  chiesto  che le
 censure  mosse  all'art.  516  cod.  proc.  pen.   siano   dichiarate
 infondate.    La preclusione temporale posta dall'art. 560 cod. proc.
 pen.     all'instaurazione  del   giudizio   abbreviato   -   osserva
 l'Avvocatura  -  dipende  dalla  peculiarita' di questo, che consiste
 nella utilizzabilita' degli atti di indagine gia'  compiuti  e  nella
 riduzione di un terzo di pena quale corrispettivo della rinuncia alla
 formazione  della  prova in dibattimento.  D'altra parte, l'evenienza
 che, in  ragione  delle  risultanze  dell'istruzione  dibattimentale,
 l'imputazione  debba  essere  modificata  e'  del tutto fisiologica e
 riconducibile  ad  un  sistema  processuale  che  riserva  alla  fase
 dibattimentale  la  formazione della prova: onde essa non puo' essere
 considerata imprevedibile e non suscettibile di valutazione  ai  fini
 della  individuazione  delle  strategie di difesa.  Il richiamo, poi,
 all'art. 111 Cost., non sarebbe pertinente perche' la doglianza verte
 sull'impossibilita' di controllo e non sulla mancata  motivazione  di
 un  provvedimento.  Quanto alla censura mossa all'art. 520 cod. proc.
 pen., essa sarebbe inammissibile, perche' la norma  riguarda  ipotesi
 (nuove  contestazioni  ad  imputato  contumace  od assente) del tutto
 diversa da quella che deve applicare il giudice remittente.
    3. - Con ordinanza emessa il 18  maggio  1993  (r.o.  n.  435  del
 1993),  il  Pretore  di  Napoli,  sezione  distaccata di Sorrento, ha
 sollevato, in riferimento agli artt. 3 e  24,  secondo  comma,  della
 Costituzione,  questione di legittimita' costituzionale dell'art. 519
 del codice di procedura penale,  nella  parte  in  cui  non  prevede,
 quanto al rito pretorile, che nel caso di contestazione suppletiva ai
 sensi dell'art. 517 del codice di procedura penale, "l'imputato possa
 essere  rimesso in termini per proporre richiesta di pena patteggiata
 quando la contestazione suppletiva abbia ad oggetto fatti  integranti
 reato e circostanze gia' noti al Pubblico Ministero, ma per errore di
 questi non contestati nel decreto di citazione a giudizio".
    Premesso  in  fatto  che  nel  corso  del dibattimento il pubblico
 ministero aveva provveduto, ai sensi  dell'art.  517  del  codice  di
 procedura  penale,  a contestare all'imputato ulteriori reati (aventi
 ad oggetto violazioni alla legge urbanistica e  a  quella  di  tutela
 paesaggistica)  connessi a quelli indicati nel decreto di citazione a
 giudizio, e che il medesimo pubblico ministero  si  era  poi  opposto
 alla  richiesta  di  "patteggiamento"  per  la  sua  intempestivita',
 osserva   il   remittente   che   la   giurisprudenza   della   Corte
 costituzionale  (sentenze  nn. 593 del 1990 e 316 del 1992; ordinanza
 n. 213 del 1992) non si attaglia al caso in esame, in cui ci si trova
 di fronte non gia' alla evenienza  di  una  contestazione  suppletiva
 originata    dall'istruttoria    dibattimentale,    bensi'   ad   una
 contestazione originata da un errore dell'organo dell'accusa,  ovvero
 da una scelta del pubblico ministero circa la delimitazione dell'area
 dei fatti per i quali ha inteso esercitare l'azione penale attraverso
 l'emissione  del  decreto  di  citazione.    Risulta,  qui, pertanto,
 esclusa la possibilita' di addossare all'imputato il "rischio"  della
 scelta  dibattimentale,  in  quanto  tale  scelta,  lungi dall'essere
 informata alla concreta situazione processuale, si  rileva  piuttosto
 obbligata,   o  quantomeno  modellata  sulla  iniziativa  dell'organo
 dell'accusa  che  ha  manifestato,  esercitando  l'azione  penale  in
 maniera  incompleta,  una  situazione difforme da quella reale.  Cio'
 posto,  il   remittente   osserva   che   appare   irragionevole   la
 differenziazione  che  emerge  rispetto al diverso governo che, sulla
 scorta della denunciata normativa,  pubblico  ministero  ed  imputato
 hanno circa la scelta del rito. Invero, attraverso la formulazione di
 un capo di imputazione incompleto rispetto alle risultanze degli atti
 raccolti  nella  fase delle indagini, il pubblico ministero influenza
 la scelta del rito; tale potere unilaterale di influenzare  l'opzione
 del  rito  -  senza  alcuna possibilita' di tempestivo recupero della
 completezza  della  contestazione  (mediante  il  meccanismo  di  cui
 all'art.  423  cod.  proc.  pen.)  trattandosi di imputazione gestita
 autarchicamente, senza filtro  giurisdizionale  preliminare,  assente
 nel  rito pretorile -, sia pure in buona fede, comporta il rischio di
 un patologico aggiramento del diritto di difesa, inteso non solo come
 interesse  costituzionalmente  assistito  a   contraddire   l'ipotesi
 accusatoria,  ma  come  facolta'  di  scegliere  il quomodo difensivo
 previa   valutazione   informata   e   consapevole.   Consentire   la
 contestazione  suppletiva  di  fatti  di  reato  gia'  conosciuti dal
 pubblico ministero ma non contestati con il decreto  di  citazione  a
 giudizio, equivarrebbe a legittimare la situazione in cui volutamente
 l'organo  dell'accusa  lascia  incomplete  le  indagini  al  fine  di
 impedire  l'accesso  al  rito  abbreviato,  ipotesi  di  cui  si   e'
 interessata  la  Corte  costituzionale  nella sentenza n. 92 del 1992
 escludendone la compatibilita' con il sistema.
    Del resto, conclude il remittente,  alcune  recentissime  pronunce
 della Corte costituzionale appaiono muoversi inequivocabilmente nella
 direzione  innanzi  indicata  (sentenze  nn.  76  e 101 del 1993). In
 particolare nella sentenza n. 101  del  1993  la  Corte  ha  rinviato
 all'istituto  della  restituzione  in termini di cui all'art. 175 del
 codice di procedura penale, norma generale  e  applicabile  anche  in
 occasioni del tipo di quella qui in esame.
    3.1.  - E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
 ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato,  che ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile,
 per  difetto  di  motivazione  sulla  rilevanza,  o,  in   subordine,
 infondata sulla base delle argomentazioni svolte nelle sentenze della
 Corte costituzionale richiamate dallo stesso remittente.
    4.  -  In un giudizio dibattimentale nel quale, essendo emerso che
 il fatto consisteva non nella contestata alterazione del contatore di
 energia ma nell'allacciamento abusivo a linee elettriche esterne,  il
 pubblico  ministero  aveva  modificato  -  ex  art. 516 del codice di
 procedura penale - l'originaria imputazione (da  truffa  aggravata  a
 furto  aggravato),  il Pretore di Caltanissetta, con ordinanza emessa
 l'11 giugno 1993 (r.o. n. 576 del 1993), premesso che la modifica era
 ascrivibile ad errore del pubblico ministero perche' il fatto era fin
 dall'origine definibile come furto, ha sollevato, in riferimento agli
 artt. 3 e  24  della  Costituzione,  una  questione  di  legittimita'
 costituzionale  degli  artt. 516 e 519 del codice di procedura penale
 "nella parte in cui non prevedono tra i  diritti  dell'imputato,  una
 volta  modificata  l'imputazione,  quello  di  essere ammesso ai riti
 alternativi  ed,  in particolare, allo speciale procedimento previsto
 dagli artt. 444 e segg. del c.p.p.".  Malgrado che analoga  questione
 sia  stata  risolta  negativamente  dalla  Corte  costituzionale  con
 l'ordinanza n. 213 del 1992, il giudice a quo ritiene che essa  possa
 riproporsi  alla luce delle argomentazioni contenute nella successiva
 sentenza n. 76 del 1993, dato che nel  caso  di  specie  la  modifica
 dell'imputazione  non potrebbe definirsi come "un'evenienza per cosi'
 dire  fisiologica  del  procedimento",  bensi'  come  "una  patologia
 processuale  che,  proprio  perche'  tale,  non puo' risolversi in un
 pregiudizio per l'imputato di essa non responsabile". A  suo  avviso,
 infatti,  poiche'  le  valutazioni dell'imputato circa la convenienza
 del rito speciale vengono  a  dipendere,  anzitutto,  dalla  concreta
 impostazione  data  al  processo  dal  pubblico  ministero, impedendo
 all'imputato di modificare l'originaria scelta difensiva si viene non
 solo a comprimere illegittimamente il diritto previsto dall'art.  24,
 secondo  comma,  della  Costituzione, ma anche a violare il principio
 d'uguaglianza, giacche' rispetto a  situazioni  omogenee  vengono  ad
 avere   un   ruolo   ingiustificato   elementi  esterni  legati  alla
 scrupolosita'  con  cui  il  pubblico  ministero  assume  le  proprie
 determinazioni in ordine all'esercizio dell'azione penale.
    4.1.  -  Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
 difeso dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  ha  chiesto  che  la
 questione  sia  dichiarata  infondata,  richiamando  integralmente le
 deduzioni svolte nel giudizio definito con la predetta  ordinanza  n.
 213 del 1992.
    5.  -  Con  ordinanza emessa il 23 settembre 1993 (r.o. n. 719 del
 1993), il Pretore di Urbino ha sollevato  questione  di  legittimita'
 costituzionale,  in  riferimento  agli  artt.  3,  primo comma, e 24,
 secondo comma, della Costituzione, degli artt. 446, primo comma,  516
 e  519  del  codice  di  procedura  penale,  come  richiamati  per il
 procedimento pretorile dagli artt. 549,  563,  primo  comma,  e  567,
 primo  comma, del codice di procedura penale, "nella parte in cui non
 prevedono,  per  l'imputato  che  abbia,  prima   dell'apertura   del
 dibattimento  di primo grado, formulato richiesta d'applicazione pena
 a norma degli artt. 444 e seguenti c.p.p., sulla  quale  il  Pubblico
 Ministero  non abbia espresso il proprio consenso, la possibilita' di
 richiedere,  in  caso  di   modifica   dell'imputazione   nel   corso
 dell'istruttoria  dibattimentale,  l'applicazione  della  pena per il
 reato risultante dalla nuova contestazione del  Pubblico  Ministero".
 Il  giudice a quo riferisce che l'imputato, prima della dichiarazione
 di apertura del dibattimento, aveva fatto richiesta  di  applicazione
 di pena in ordine al contestato reato di cui all'art.  726 del codice
 penale,  sulla  quale  il  pubblico  ministero  non aveva espresso il
 proprio consenso, dichiarando che all'esito del dibattimento il reato
 avrebbe potuto essere qualificato diversamente (art. 527  del  codice
 penale).   Nel   corso   del  dibattimento,  all'esito  di  un  esame
 testimoniale, il pubblico  ministero  procedeva  effettivamente  alla
 nuova  contestazione, modificando l'imputazione a norma dell'art. 516
 del codice di procedura penale nei termini sopra indicati. L'imputato
 reiterava a tal punto la richiesta di applicazione di pena in  ordine
 alla imputazione cosi' modificata, ricevendo il consenso del pubblico
 ministero.   Osservato che il combinato disposto degli artt. 446, 516
 e 519 del codice di procedura penale, richiamati nel  rito  pretorile
 dal  primo  comma  dell'art.  567,  non consentono nel caso di specie
 l'accoglimento  della  richiesta  di  applicazione di pena, atteso il
 superamento  del  termine  della  dichiarazione   di   apertura   del
 dibattimento,  il  Pretore  ha ritenuto che tali disposizioni possano
 considerarsi  in  contrasto  con  i  precetti  costituzionali   sopra
 indicati.
    Rileva  al  riguardo il giudice a quo che non risolve il dubbio di
 costituzionalita' l'ordinanza n. 213 del 1992, con la quale la  Corte
 aveva   dichiarato   manifestamente   infondata   una   questione  di
 costituzionalita' delle medesime disposizioni, poiche', nel  caso  in
 esame,  diversamente  da  quello  considerato dalla citata decisione,
 l'imputato aveva gia' presentato tempestiva richiesta di applicazione
 di pena, alla quale il pubblico ministero non aveva aderito.
    Tale circostanza, secondo  il  Pretore,  rende  irragionevole  una
 disciplina  che,  impedendo all'imputato di formulare nuova richiesta
 di applicazione di pena per il reato contestatogli a norma  dell'art.
 516  del  codice  di procedura penale, addossa al medesimo il rischio
 della  nuova  contestazione,   atteso   che   la   celebrazione   del
 dibattimento non e' dipesa dalle scelte processuali dell'imputato, ma
 dal mancato consenso del pubblico ministero.
    Inoltre    detto    sistema   normativo   regolerebbe   "in   modo
 arbitrariamente diverso situazioni del tutto omogenee,  imponendo  di
 diversificare  il  trattamento  di imputati per i quali non sia stato
 aperto   il   dibattimento,   e   di   imputati   che   chiedano   il
 "patteggiamento"    per    il   reato   risultante   dalla   modifica
 dell'imputazione fatta a  norma  dell'art.  516  c.p.p.,  qualora  in
 precedenza,   prima   dell'apertura  del  dibattimento,  il  Pubblico
 Ministero non abbia consentito all'applicazione di pena per il  reato
 originariamente contestato".
    Infine,  conclude il Pretore, le norme impugnate possono ritenersi
 contrastanti  anche  con  l'art.  24  della   Costituzione,   ponendo
 ingiustificati  limiti  al  diritto  di  difesa,  "di cui costituisce
 esplicazione diretta quella di potersi avvalere dei benefici connessi
 al rito disciplinato dagli artt. 444 e seguenti c.p.p.".
    5.1. - E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio  dei
 ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato,  che  ha  concluso   per   l'infondatezza   della   questione,
 riportandosi  integralmente  all'atto di intervento relativo ad altro
 giudizio di legittimita' costituzionale (r.o. n. 37 del 1993).
                        Considerato in diritto
    1. - Pur nella diversita' delle vicende processuali e,  in  parte,
 delle  disposizioni  impugnate,  le ordinanze attengono tutte al tema
 del  diritto  dell'imputato  ai  riti  speciali  in  relazione   alla
 evenienza   di   nuove   contestazioni  dibattimentali.  Richiedendo,
 pertanto, una valutazione congiunta, i relativi giudizi vanno riuniti
 per essere decisi con un'unica sentenza.
    2. - I giudici a  quibus  ritengono  che,  in  base  ai  princi'pi
 costituzionali   richiamati,   non   possa   non   essere  assicurata
 all'imputato la  facolta'  di  optare  per  i  procedimenti  speciali
 (applicazione  di  pena  su richiesta e giudizio abbreviato) per ogni
 imputazione ascrittagli,  a  prescindere  dai  "tempi"  di  esercizio
 dell'azione   penale.   La   disciplina  sottoposta  a  scrutinio  di
 costituzionalita',  invece,  stante  la  previsione  di   precisi   e
 invalicabili   limiti   temporali   entro   i   quali   e'  possibile
 l'instaurazione  di  tali  procedimenti,   non   soddisferebbe   tale
 esigenza:  e cio' sia nei casi in cui l'imputazione e' il prodotto di
 nuove contestazioni dibattimentali che, in realta', - risultando gia'
 dall'attivita' di indagine preliminare  -  avrebbero  dovuto  formare
 oggetto  di enunciazione nel decreto di citazione a giudizio; sia nel
 caso in cui l'imputato ha tempestivamente richiesto l'applicazione di
 pena ex art. 444 cod. proc. pen. (preclusa dal dissenso del  pubblico
 ministero)  in  ordine  a  una  imputazione superata dalla successiva
 contestazione dibattimentale  del  fatto  diverso  ex  art.  516  del
 medesimo  codice.  Piu' precisamente, tre delle quattro ordinanze che
 si fondano sulla  "tardivita'"  della  contestazione  dibattimentale,
 come  anche  l'ordinanza  che  si  fonda  sulla  tempestivita'  della
 richiesta di applicazione di pena, deducono unicamente la preclusione
 all'instaurabilita'   del    "patteggiamento":    il    Pretore    di
 Caltanissetta,  in  ordine  alla  contestazione  del  fatto  diverso,
 impugnando gli artt. 516 e 519 cod. proc. pen.  in  riferimento  agli
 artt. 24, secondo comma, e 3 Cost. (r.o. n. 576 del 1993); il Pretore
 di  Paola,  in  ordine  alla  contestazione  del  reato  concorrente,
 impugnando gli artt 446, primo comma, e  517  cod.  proc.    pen.  in
 riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. (r.o. n. 37 del 1993); il Pretore
 di Napoli, sempre in ordine alla contestazione del reato concorrente,
 impugnando  l'art.  519 cod. proc. pen. in riferimento agli artt. 3 e
 24, secondo comma, Cost. (r.o.  n.  435  del  1993);  il  Pretore  di
 Urbino,  in  ordine  alla contestazione del fatto diverso, impugnando
 gli artt. 446, primo comma, 516 e 519 cod. proc. pen. in  riferimento
 agli  artt.  3, primo comma, e 24, secondo comma, Cost.  (r.o. n. 719
 del 1993). Solo il Pretore di Venezia deduce espressamente, in ordine
 alla  "tardiva"  contestazione  del  fatto  diverso,  la  preclusione
 all'instaurabilita'   sia   del  "patteggiamento"  sia  del  giudizio
 abbreviato, impugnando gli artt. 520  e  516  cod.    proc.  pen.  in
 riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost. (r.o. n. 81 del 1993).
    3.   -   Vanno   preliminarmente   rigettate   le   eccezioni   di
 inammissibilita'  sollevate  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato;
 quanto  a  quella  che  si fonda sulla inconferenza della impugnativa
 dell'art. 520 cod. proc. pen., risultante dall'ordinanza del  Pretore
 di  Venezia,  perche'  tale  riferimento  normativo va coordinato con
 quello, pure contenuto  nell'ordinanza,  all'art.  516  del  medesimo
 codice,   ed   e'   giustificato   dalla   peculiare  situazione  del
 procedimento a quo, in cui la  nuova  contestazione,  trattandosi  di
 imputato  contumace,  si  e'  dovuta  necessariamente  effettuare con
 l'osservanza della predetta disposizione; quanto  a  quella  relativa
 alla  carenza  di  motivazione, che caratterizzerebbe l'ordinanza del
 Pretore di Napoli, perche', ai fini della valutazione sulla rilevanza
 della specifica questione sollevata, la vicenda  processuale  risulta
 nell'ordinanza sufficientemente delineata.
    4.  -  Passando  al merito, va per prima esaminata la questione di
 costituzionalita' degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. sollevata, in
 riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, da tutti i  giudici
 a quibus, sia pure con riguardo ora all'uno ora all'altro articolo in
 relazione alla specifica fattispecie processuale. Cio' vale anche per
 l'ordinanza  del  Pretore  di  Napoli,  che  ha formalmente impugnato
 l'art. 519  del  medesimo  codice,  ma  riferendosi  a  un  "caso  di
 contestazione  suppletiva  ai  sensi  dell'art. 517".   Come e' stato
 ricordato in gran parte delle ordinanze, la Corte ha gia' avuto  modo
 di  pronunciarsi  sul  tema  delle nuove contestazioni dibattimentali
 (artt.   516-522   cod.   proc.  pen.)  in  rapporto  all'aspettativa
 dell'imputato di accedere ai riti speciali. Con la  sentenza  n.  593
 del   1990,  e'  stato  affermato  che  l'interesse  dell'imputato  a
 beneficiare dei riti speciali puo' trovare tutela "solo in quanto  la
 sua   condotta   consenta   l'effettiva   adozione  di  una  sequenza
 procedimentale,  che,  evitando  il  dibattimento  e  contraendo   la
 possibilita'  di  appello, permette di raggiungere quell'obiettivo di
 rapida  definizione  del  processo  che  il  legislatore  ha   inteso
 perseguire  con  l'introduzione  del  giudizio  abbreviato  e piu' in
 generale dei riti speciali". D'altra parte, ha  osservato  ancora  la
 Corte  in  successive  pronunce,  "rientra  nelle  valutazioni che lo
 stesso imputato deve compiere  ai  fini  della  determinazione  della
 scelta  del  rito la evenienza della modificazione dell'imputazione a
 seguito dell'istruttoria dibattimentale, non infrequente nell'attuale
 sistema processuale  penale  il  quale  riserva  al  dibattimento  la
 formazione  della  prova, mentre nella fase preliminare si raccolgono
 solo gli elementi sufficienti per la formulazione  dell'accusa  e  il
 rinvio  a  giudizio" (ordinanza n. 213 del 1992); di conseguenza, "il
 relativo rischio rientra naturalmente nel calcolo in  base  al  quale
 l'imputato si determina a chiedere o meno tale rito, onde egli non ha
 che  da addebitare a se medesimo le conseguenze della propria scelta"
 (sentenza n. 316 del 1992; cfr. anche ordinanza n. 107 e sentenza  n.
 129 del 1993).  Tuttavia, come e' stato precisato in altra occasione,
 qualora  non possa rinvenirsi "alcun profilo di inerzia dell'imputato
 e quindi di "addebitabilita'" al  medesimo  delle  conseguenze  della
 mancata  instaurazione  del  rito  differenziato  ( ..) sarebbe molto
 difficile  negare  che  la  impossibilita'  di  ottenere  i  relativi
 benefici  concreti  una  ingiustificata  compressione  del diritto di
 difesa"  (sentenza  n.    101  del  1993).    Ora,  nelle  situazioni
 rappresentate dalle ordinanze che si fondano sulla "tardivita'" della
 contestazione,  la  libera  determinazione dell'imputato verso i riti
 speciali risulta sviata da aspetti di "anomalia"  caratterizzanti  la
 condotta  processuale  del pubblico ministero. Tale anomalia deriva o
 dalla erroneita' della imputazione (il fatto e' diverso) o dalla  sua
 incompletezza  (manca l'imputazione relativa a un reato connesso). La
 erroneita' o la incompletezza della imputazione non e'  qui  un  dato
 emergente  dall'attivita' dibattimentale: esso viene apprezzato sulla
 base degli stessi atti di indagine (in un caso rivelato dallo  stesso
 pubblico  ministero del predibattimento). In una ordinanza si adombra
 addirittura, in via di  ipotesi,  la  possibilita'  di  comportamenti
 maliziosi  del pubblico ministero, tendenti ad impedire o comunque ad
 ostacolare il ricorso ai riti speciali da parte dell'imputato.    Non
 puo' dunque parlarsi, in simili vicende, di una libera assunzione del
 rischio  del  dibattimento  da  parte  dell'imputato.    Sia pure con
 riferimento ad altro istituto, la Corte ha avuto modo di sottolineare
 che "le valutazioni  dell'imputato  circa  la  convenienza  del  rito
 speciale  vengono  a  dipendere anzitutto dalla concreta impostazione
 data al processo  dal  pubblico  ministero",  ditalche',  quando,  in
 presenza  di  una  evenienza  patologica  del  procedimento, quale e'
 quella derivante dall'errore sulla individuazione  del  fatto  e  del
 titolo   del   reato   in  cui  e'  incorso  il  pubblico  ministero,
 l'imputazione subisce una variazione sostanziale, risulta lesivo  del
 diritto  di difesa precludere all'imputato l'accesso ai riti speciali
 (sentenza n. 76 del 1993; cfr. anche sentenza n. 214 del 1993).  Tale
 affermazione  e'  in  linea  con la configurazione che i procedimenti
 speciali hanno assunto a seguito dei noti interventi di questa Corte.
 In particolare, con la sentenza n. 92 del 1992, e' stato ribadito  in
 termini  generali,  nel  solco  tracciato  dalle precedenti decisioni
 (sentenze nn. 66 e 183 del 1990, 81  del  1991,  23  del  1992),  che
 "l'introduzione,  o  meno, di un rito avente automatici effetti sulla
 determinazione  della  pena  non  puo'  farsi  dipendere  da   scelte
 discrezionali  del  pubblico  ministero".    Il  principio, affermato
 relativamente  al  giudizio  abbreviato,  non  puo'  non   estendersi
 all'altra   procedura   pattizia.   Premesso   che  la  richiesta  di
 applicazione di una pena da parte dell'imputato esprime una modalita'
 di  esercizio  del  diritto  di  difesa,  che  si  estrinseca   nella
 possibilita' offerta a tale soggetto di acquisire, con libera scelta,
 un  trattamento sanzionatorio predefinito (cfr. sentenze nn.  313 del
 1990 e 101 del 1993; ordinanza n. 116 del 1992), e' di tutta evidenza
 come   in   questo   rito   la    valutazione    dell'imputato    sia
 indissolubilmente  legata,  ancor  piu'  che nel giudizio abbreviato,
 alla natura  dell'addebito,  trattandosi  non  solo  di  avviare  una
 procedura che permette di definire il merito del processo al di fuori
 e prima del dibattimento, ma di determinare lo stesso contenuto della
 decisione,  il  che non puo' avvenire se non in riferimento a una ben
 individuata fattispecie penale.
    La disciplina in esame risulta inoltre censurabile in  riferimento
 all'art.  3  della Costituzione, venendo l'imputato irragionevolmente
 discriminato, ai  fini  dell'accesso  ai  procedimenti  speciali,  in
 dipendenza  dalla  maggiore  o  minore  esattezza o completezza della
 discrezionale valutazione delle risultanze delle indagini preliminari
 operata dal pubblico ministero nell'esercitare l'azione  penale  alla
 chiusura  delle  indagini  stesse.    E' bene precisare che sul thema
 decidendum non esplica influenza l'esistenza o meno di  una  fase  di
 controllo  giurisdizionale  predibattimentale  (udienza  preliminare)
 sull'oggetto dell'azione penale. E' vero che, se si  da'  ingresso  a
 tale  controllo, e' possibile utilizzare il meccanismo di adeguamento
 delle imputazioni previsto dall'art. 423  cod.  proc.  pen.;  ma  se,
 nonostante  tale  istituto, l'oggettiva erroneita' o la incompletezza
 del quadro accusatorio non viene sanata (perche' l'art. 423 non e' in
 concreto  applicato  o  perche'  nemmeno   la   nuova   contestazione
 risultera'  poi aderente agli elementi che scaturiscono dagli atti di
 indagine), la successiva "variazione" dibattimentale ex artt.  516  e
 517   ripropone   comunque,   negli   stessi  termini,  il  vizio  di
 costituzionalita' sopra evidenziato.
    5. - Al di la' delle ipotesi di contestazione "tardiva",  analoghe
 considerazioni  valgono per il caso in cui l'imputato abbia formulato
 tempestivamente e ritualmente la richiesta di  procedimento  speciale
 in ordine alla originaria imputazione.
    Di  norma,  in  tale situazione, ove il procedimento richiesto sia
 stato ingiustificatamente  o  erroneamente  negato,  all'imputato  e'
 assicurato  lo  stesso trattamento penale che egli avrebbe conseguito
 ove  al  rito  si  fosse   addivenuti.   Cio'   deriva,   quanto   al
 "patteggiamento",  dal  disposto  dell'art.  448, primo comma, ultimo
 periodo, cod. proc. pen., secondo cui, all'esito del dibattimento, il
 giudice applica la pena richiesta dall'imputato,  previa  valutazione
 della  congruita'  di  essa e dell'ingiustificatezza del dissenso del
 pubblico ministero; e, quanto al giudizio abbreviato, dalle  sentenze
 di questa Corte nn. 66 e 183 del 1990, 81 del 1991 e 23 del 1992, con
 le  quali  risulta  affidata  al giudice del dibattimento la verifica
 della eventuale lesione delle aspettative dell'imputato in  ordine  a
 tale  rito,  che,  ove  accertata, fa conseguire la diminuzione della
 pena nel caso di condanna.   Ma, relativamente  al  "patteggiamento",
 non e' considerata l'evenienza in cui la pena richiesta dall'imputato
 risulti   inevitabilmente   incongrua,   in   quanto   formulata  con
 riferimento a  una  imputazione  poi  modificatasi  nel  corso  della
 istruzione dibattimentale (come e' il caso evidenziato nell'ordinanza
 del Pretore di Urbino, ove si tratta di una contravvenzione tramutata
 in   delitto),  con  la  conseguente  inapplicabilita'  della  regola
 contenuta nel citato primo comma dell'art. 448; mentre,  sia  per  il
 "patteggiamento" che per il giudizio abbreviato, l'attuale disciplina
 non  consente all'imputato di esprimere l'opzione per i suddetti riti
 speciali relativamente a imputazioni che, nel corso del dibattimento,
 si vengono ad "aggiungere" ( ex art. 517 cod. proc.  pen.)  a  quelle
 originariamente contestate.  Anche in tali situazioni, non dipendendo
 la  preclusione  al rito da una consapevole scelta dell'imputato, che
 anzi ha posto in  essere  tutto  quello  che  la  legge  prevede  per
 favorire  la  definizione del procedimento in sede predibattimentale,
 e' da  ravvisare  una  lesione  dei  princi'pi  costituzionali  sopra
 richiamati.
    6. - Per valutare quale sia la soluzione per ricondurre il sistema
 delle  nuove contestazioni in sintonia con i princi'pi costituzionali
 e' necessario separare la tematica del "patteggiamento" da quella del
 giudizio abbreviato.  Il primo, piu' che essere un rito speciale,  e'
 una  forma  di  definizione pattizia del contenuto della sentenza che
 non richiede particolari procedure e che pertanto, proprio  per  tali
 sue  caratteristiche,  si presta ad essere adottata in qualsiasi fase
 del procedimento, compreso il dibattimento.  Con la sentenza  n.  101
 del  1993,  la Corte ha affermato che nei casi in cui la inosservanza
 del termine per formulare la richiesta  di  applicazione  della  pena
 "sia  stata  determinata da un evento non evitabile dall'interessato"
 e' possibile fare applicazione dell'istituto della  restituzione  nel
 termine;  e  che,  in  tale  ipotesi,  "nulla  impedisce  che il rito
 speciale  in  esame  (  ..)  trovi   collocazione   nel   corso   del
 dibattimento",   subendo,   tuttavia,  "un  inevitabile  adattamento,
 ricavabile dal sistema", nel senso che "sia il consenso delle  parti,
 sia  il  controllo del giudice ( ..) dovranno avvenire sulla base del
 complesso degli atti fino allora compiuti",  che  restano  pienamente
 validi  e  utilizzabili.    Ora,  deve  riconoscersi  che anche nelle
 situazioni qui  considerate  non  sussistono  ostacoli  di  carattere
 logico-sistematico a che il giudice, eventualmente anche alla ripresa
 del  dibattimento  dopo  la  sospensione  connessa  al termine per la
 difesa  previsto  dall'art.  519  cod.  proc.   pen.,   accertati   i
 presupposti  di  cui  si  e'  detto,  si pronunci, se del caso previa
 separazione  dei   procedimenti,   sulla   eventuale   richiesta   di
 applicazione  di  pena  concordata  che  le  parti  abbiano  avanzato
 relativamente alla nuova contestazione.
    Con  riferimento  alla  ipotesi  della  contestazione   "tardiva",
 comportante   una   valutazione   contenutistica   degli   atti   del
 procedimento, non e' neppure di ostacolo, ai fini della verifica  dei
 presupposti  di tale meccanismo, la limitata conoscenza degli atti di
 indagine da parte del giudice del dibattimento. E cio' in quanto  nel
 vigente  ordinamento  processuale  e'  in  via  ordinaria onere delle
 parti, ove ne abbiano interesse, fornire elementi  di  conoscenza  al
 giudice,  sia che la decisione riguardi il merito del processo ovvero
 fatti dai quali dipende l'applicazione delle norme processuali (artt.
 187 e 190 cod. proc. pen.).
    7. - Va pertanto dichiarata, in riferimento  agli  artt.  3  e  24
 Cost.,  l'illegittimita'  costituzionale  degli  artt. 516 e 517 cod.
 proc.  pen.,  nella  parte  in  cui   non   prevedono   la   facolta'
 dell'imputato    di    richiedere   al   giudice   del   dibattimento
 l'applicazione di  pena  a  norma  dell'art.  444  cod.  proc.  pen.,
 relativamente  al  fatto diverso o al reato concorrente contestato in
 dibattimento, quando la nuova contestazione  concerne  un  fatto  che
 gia'  risultava  dagli  atti  di  indagine  al momento dell'esercizio
 dell'azione penale ovvero  quando  l'imputato  ha  tempestivamente  e
 ritualmente  proposto  la richiesta di applicazione di pena in ordine
 alle originarie imputazioni.
    Resta naturalmente  salva,  quanto  alle  originarie  imputazioni,
 l'applicabilita'  dell'art.  448,  primo  comma, ultimo periodo, cod.
 proc. pen., alle condizioni e nei termini da  esso  previsti.    Deve
 peraltro  essere  avvertito che tale conclusione rimane rigorosamente
 circoscritta alle specifiche situazioni dedotte dai giudici a quibus,
 che riguardano, come precisato, le contestazioni  dibattimentali  del
 fatto diverso e del reato concorrente (in quanto connesso ex art. 12,
 primo comma, lettera b), cod. proc. pen.). In particolare, e' ad essa
 estranea  la  diversa evenienza della contestazione delle circostanze
 aggravanti, non devoluta all'esame di questa Corte.
    8.  -  Resta  assorbito  l'ulteriore  profilo  di   illegittimita'
 prospettato dal Pretore di Venezia in riferimento all'art. 111 Cost.
    Una  volta  dichiarata l'illegittimita' costituzionale degli artt.
 516 e 517 cod. proc. pen., nella  parte  sopra  precisata,  risultano
 superate  le  questioni  relative  agli  artt.  519, 520 e 446, primo
 comma, del medesimo codice.
    9. - Quanto  al  giudizio  abbreviato,  cui  fa  riferimento  solo
 l'ordinanza  del  Pretore di Venezia, esso si realizza attraverso una
 vera e propria "procedura", inconciliabile con quella dibattimentale.
 Non potrebbe, quindi, ritenersi scelta costituzionalmente  obbligata,
 allo  stato  dell'ordinamento  processuale,  un  simile meccanismo di
 trasformazione del rito.  A parte l'opinabilita' di tale soluzione da
 un punto di  vista  tecnico-sistematico,  essa  si  pone  in  termini
 alternativi  ad  altre  possibili opzioni, attinenti alla sfera della
 discrezionalita' legislativa, come ad esempio quella di attribuire al
 giudice,  all'esito  del  dibattimento,  il  compito  di   verificare
 l'esistenza  dei  presupposti  di  cui  si  e'  detto al solo fine di
 applicare, nel caso di condanna, la riduzione della pena di un terzo;
 o quella di una preclusione, in tali casi, della nuova contestazione,
 con  conseguente  trasmissione  degli  atti  al  pubblico   ministero
 relativamente ad essa.
    La  questione, per la parte concernente la preclusione al giudizio
 abbreviato, va pertanto dichiarata inammissibile, non diversamente da
 quanto  deciso  da  questa  Corte  con  sentenza  n.  129  del  1993,
 riguardante un caso analogo.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Riuniti i giudizi:
      dichiara  l'illegittimita'  costituzionale degli artt. 516 e 517
 del codice di procedura penale nella parte in cui  non  prevedono  la
 facolta'  dell'imputato  di  richiedere  al  giudice del dibattimento
 l'applicazione di pena a norma dell'art. 444 del codice di  procedura
 penale,  relativamente  al  fatto  diverso  o  al  reato  concorrente
 contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un
 fatto  che  gia'  risultava  dagli  atti  di  indagine   al   momento
 dell'esercizio   dell'azione   penale  ovvero  quando  l'imputato  ha
 tempestivamente e ritualmente proposto la richiesta  di  applicazione
 di pena in ordine alle originarie imputazioni;
      dichiara    inammissibile    la    questione   di   legittimita'
 costituzionale degli artt. 520 e 516 del codice di procedura  penale,
 relativamente  alla preclusione al giudizio abbreviato in ordine alle
 nuove contestazioni dibattimentali, sollevata,  in  riferimento  agli
 artt.  3,  24  e  111  della  Costituzione,  dal Pretore di Venezia -
 sezione distaccata di Chioggia - con l'ordinanza in epigrafe.
    Cosi' deciso in  Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 22 giugno 1994.
                       Il Presidente: PESCATORE
                     I redattori: SPAGNOLI - FERRI
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 30 giugno 1994.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
 94C0790