N. 308 SENTENZA 6 - 15 luglio 1994

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Ordinamento penitenziario - Malati di AIDS - Mancata previsione della
 sospensione della misura di sicurezza detentiva - Divieto di custodia
 cautelare in carcere - Rinvio  obbligatorio  della  esecuzione  della
 pena - Disomogeneita' delle situazioni a raffronto - Discrezionalita'
 legislativa - Inammissibilita'.
 
 (C.P.P., artt. 146, 147 e 212).
 
 (Cost., artt. 3, 27 e 32).
 
(GU n.32 del 3-8-1994 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
 Giudici: prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Vincenzo
    CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI,  prof.  Luigi  MENGONI,  prof.  Enzo
    CHELI,  dott.  Renato  GRANATA,  prof.  Giuliano  VASSALLI,  prof.
    Francesco  GUIZZI,  prof.   Cesare   MIRABELLI,   prof.   Fernando
    SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel  giudizio  di  legittimita' costituzionale degli artt. 212, 147 e
 146 del codice penale, promosso con ordinanza emessa il  16  dicembre
 1992  dal  Tribunale  di  Sorveglianza  di  Roma  nel procedimento di
 sorveglianza nei confronti di Ulargiu Ruggero, iscritta al n. 202 del
 registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  della
 Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell'anno 1993;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri;
    Udito nella camera di consiglio del  25  maggio  1994  il  Giudice
 relatore Giuliano Vassalli;
                           Ritenuto in fatto
   1.  -  Il  Tribunale  di  Sorveglianza di Roma, chiamato a decidere
 sulla impugnazione proposta avverso un provvedimento  del  magistrato
 di  sorveglianza  con  il  quale, in considerazione dell'aggravamento
 della pericolosita' sociale del  soggetto,  e'  stata  sostituita  la
 misura  di  sicurezza  della  liberta'  vigilata con quella detentiva
 della casa di  lavoro  nei  confronti  di  persona  affetta  da  AIDS
 conclamata,  ha  osservato come la recente normativa introdotta per i
 portatori di tale malattia ha stabilito i  casi  di  incompatibilita'
 con  il  regime detentivo per gli imputati o i detenuti in espiazione
 di pena "nulla prevedendo, invece, per gli  internati  a  seguito  di
 misura di sicurezza detentiva". Considerato dunque, rileva il giudice
 a  quo,  che  nell'ordinamento non e' dato rinvenire alcuna norma che
 parifichi la condizione  dell'internato  a  quella  del  detenuto  in
 esecuzione  della  pena  e  che,  pertanto,  l'indicata lacuna non e'
 colmabile in via interpretativa, stante  la  tipicita'  dei  casi  di
 sospensione, trasformazione e revoca delle misure di sicurezza, viene
 a  generarsi,  secondo il rimettente, una non giustificata disparita'
 di trattamento tra internati e condannati che  presentino  la  stessa
 patologia,  tenuto  conto,  per un verso, della sostanziale identita'
 del   trattamento   sanitario   praticabile   nei   diversi  istituti
 penitenziari e, sotto altro profilo, dell'omologo  status  custodiale
 che caratterizza tanto l'esecuzione della pena che l'esecuzione delle
 misure di sicurezza detentive.
    Compromessi  sarebbero anche gli artt. 32 e 27 della Costituzione,
 in quanto, afferma il giudice a quo, la gerarchia di valori  che  sta
 al  fondo  della  recente  scelta  legislativa,  fa  si' che anche la
 pretesa di eseguire le misure di  sicurezza  detentive  debba  essere
 subordinata  alla tutela della salute e al senso di umanita' che deve
 ispirare l'esecuzione delle misure stesse.
    2. - Nel giudizio e' intervenuto il Presidente del  Consiglio  dei
 ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  Generale  dello
 Stato, chiedendo che la questione  sia  dichiarata  non  fondata.  Ad
 avviso  della  difesa  dello  Stato  non sussisterebbe, anzitutto, la
 prospettata violazione  degli  artt.  27  e  32  della  Costituzione,
 giacche'  la  misura  di sicurezza della casa di lavoro non contrasta
 con il  senso  di  umanita'  che  deve  caratterizzare  "la  sanzione
 afflittiva  da  scontare", ne' puo' dirsi confliggente con il diritto
 alla salute, attese le forme di assistenza generali e specifiche  che
 possono essere praticate.  Quanto alla dedotta violazione dell'art. 3
 della Costituzione, l'Avvocatura osserva che le norme dettate in tema
 di  malati di AIDS costituiscono una deroga alla disciplina generale,
 sicche' le stesse non possono  essere  assunte  a  parametro  per  la
 valutazione  di  situazioni  analoghe.  Accanto  a cio' - sostiene la
 difesa dello Stato - occorre  considerare,  a  giustificazione  della
 difformita' di disciplina, "l'ulteriore requisito della pericolosita'
 sociale  richiesto  per  l'applicazione  della  misura  di  sicurezza
 rispetto a quelli necessari per l'irrogazione della pena". Da ultimo,
 e contrariamente a quanto  mostra  di  ritenere  il  giudice  a  quo,
 l'Avvocatura  ritiene  che  l'art.  286-  bis del codice di procedura
 penale, cosi' come  introdotto  dall'art.  11  del  decreto-legge  12
 gennaio  1993, n. 3, all'epoca vigente, possa essere interpretato nel
 senso che la disposizione ivi enunciata non riguardi solo la custodia
 cautelare,  ma  "tutte  le  forme  di  limitazione   della   liberta'
 personale,  ivi  compresa quindi anche quella relativa agli internati
 per  effetto  di  applicazione  di  una  misura  di  sicurezza".  Una
 interpretazione,  questa, che - conclude l'Avvocatura - permetterebbe
 di ritenere dissolti i dubbi di legittimita' costituzionale sollevati
 dal rimettente.
                        Considerato in diritto
   1. - Il Tribunale di Sorveglianza  di  Roma  solleva  questione  di
 legittimita'  costituzionale  degli  artt.  212, 147 e 146 del codice
 penale nella parte in cui non prevedono la sospensione  della  misura
 di  sicurezza  detentiva  nei  confronti  di soggetti affetti da AIDS
 conclamata o da grave deficienza immunitaria "o da  gravi  infermita'
 che  ne  rendono  incompatibile l'esecuzione". Tenuto conto, infatti,
 dei recenti interventi normativi che hanno stabilito  il  divieto  di
 custodia  cautelare  in  carcere  ed  il  rinvio  obbligatorio  della
 esecuzione della  pena  nei  casi  di  AIDS  conclamata  o  di  grave
 deficienza  immunitaria,  e considerata l'impossibilita' di estendere
 in via interpretativa tale regime alla applicazione delle  misure  di
 sicurezza   detentive,  il  giudice  a  quo  ravvisa  una  "evidente"
 disparita' di trattamento tra internati e condannati "colpiti in pari
 grado  dalla  stessa  patologia",  senza  che  il  differente  regime
 stabilito  per  le  due  situazioni poste a raffronto possa rinvenire
 adeguata  giustificazione  "ne'  in  una  sostanziale  diversita'  di
 trattamento  sanitario"  praticato  nei diversi istituti, "ne' in una
 sostanziale diversita' del momento custodiale".
    Accanto alla violazione del principio di uguaglianza, il giudice a
 quo ravvisa, poi, altri due profili di illegittimita' costituzionale.
 Partendo  infatti  dalla  premessa  che  la  pretesa  punitiva  resta
 subordinata  alla tutela della salute e al senso di umanita', ove de-
 terminate patologie si pongano in termini di non  compatibilita'  con
 la  esecuzione della pena, la mancata estensione agli internati delle
 previsioni dettate per i condannati  viene  a  compromettere,  da  un
 lato, il fondamentale diritto dell'individuo alla tutela della salute
 e, dall'altro, il senso di umanita' "che deve informare ogni forma di
 esecuzione  restrittiva,  prescindendo dall'esser sottoposto a pena o
 misura di sicurezza".
    2. - Questa Corte ha gia' avuto modo di  affrontare  i  non  pochi
 aspetti  problematici  scaturiti dalla normativa da ultimo introdotta
 ad opera del decreto-legge 14 maggio 1993,  n.  39,  convertito,  con
 modificazioni,  dalla  legge  14 luglio 1993, n. 222, con la quale e'
 stato fra l'altro stabilito il divieto di applicare la  misura  della
 custodia cautelare in carcere e l'obbligo di disporre il rinvio della
 esecuzione della pena nei confronti delle persone malate di AIDS. Sui
 profili  che  hanno  in particolare riguardato le modifiche apportate
 all'art. 146 del codice penale, disposizione, questa, che  assume  un
 rilievo  assorbente  in questa sede, avuto riguardo al petitum che il
 rimettente dimostra di perseguire in rapporto alla  specificita'  del
 caso  che  forma oggetto del procedimento a quo, nella sentenza n. 70
 del 1994 sono state poste in risalto le ragioni,  affatto  peculiari,
 che hanno sostenuto la scelta normativa.
    A fronte, infatti, dei connotati di estrema gravita' che il triste
 fenomeno  dei  malati  di AIDS gia' presenta in se' e per se', questa
 Corte ha osservato come  al  fondo  della  nuova  ipotesi  di  rinvio
 obbligatorio  della  esecuzione  della  pena  fosse  rinvenibile  una
 esigenza del tutto eccezionale, avendo il  legislatore  inteso  porre
 rimedio  a  "situazioni  di estrema drammaticita'", quali sono quelle
 che scaturiscono dalla particolare rilevanza che  il  problema  della
 infezione  da  HIV  riveste all'interno della popolazione carceraria,
 "essendo il carcere un luogo in cui  si  trova  concentrato  un  alto
 numero di soggetti a rischio" (XI Legislatura, Atto Senato, n. 1240).
 Considerata, dunque, la finalita' che la norma e' chiamata a svolgere
 nel  sistema, si e' osservato come non sia tanto il bene della salute
 del singolo condannato a venire in discorso,  quanto,  piuttosto,  la
 salvaguardia   della   sanita'  pubblica  nel  particolare  consorzio
 carcerario, cosicche', e di  riflesso,  l'incompatibilita'  normativa
 con  la  condizione  di  detenuto,  che  la novella ha introdotto per
 coloro che risultino portatori di quella specifica malattia,  non  si
 fonda "sulla presunzione ex lege che l'esecuzione della pena realizzi
 un  trattamento  contrario  al  senso di umanita', ma si proietta sul
 diverso versante della tutela di quanti potrebbero patire pregiudizio
 ove la pena venisse immediatamente eseguita".
   Il nucleo delle recenti disposizioni che il giudice a quo  evoca  a
 modello,   e   sulla   cui   base   fonda   le   dedotte  censure  di
 incostituzionalita'  per  "omissione",  viene  quindi  a   coagularsi
 attorno  ad  un  binomio  costituito in via esclusiva dai due termini
 "carcere-malati  di  AIDS'; un binomio, questo, che il legislatore ha
 inteso scindere in forza di  una  opzione  che,  a  sua  volta,  trae
 alimento  da un presupposto di fatto non valutabile in astratto: vale
 a dire l'eccezionale situazione di pericolo per  la  salute  pubblica
 nel  contesto delle carceri dovuta a due fenomeni di "concentrazione"
 fra loro interagenti, quali  sono,  da  un  lato,  l'alto  numero  di
 detenuti  all'interno  degli  istituti  e,  dall'altro,  la massiccia
 presenza, fra questi, di soggetti a rischio. E' evidente, allora, che
 una disciplina che assume i connotati sostanziali  di  ius  singulare
 non  possa  fungere da adeguato termine di raffronto per omologare ad
 essa situazioni che non presentino gli identici presupposti di fatto,
 perche',  cosi'  operando,   la   fattispecie   omologata   finirebbe
 ineluttabilmente  per  svolgere  nel  sistema una funzione diversa da
 quella propria della norma cui essa si sovrappone. Il  che,  se  puo'
 ritenersi  non  incompatibile  con  la  sfera  della discrezionalita'
 legislativa, fuoriesce con certezza dai  poteri  spettanti  a  questa
 Corte, posto che una eventuale pronuncia additiva che determinasse le
 conseguenze  di  cui  si  e'  detto  non  si  limiterebbe ad adeguare
 l'ordinamento secundum Constitutionem,  ma  creerebbe  un  novum  con
 effetti  invasivi rispetto alle scelta che soltanto il legislatore e'
 abilitato a compiere.
    Risultando,  quindi,  fra  loro  eterogenei  i  presupposti  e  le
 finalita'   che   sostengono,  da  un  lato,  l'istituto  del  rinvio
 obbligatorio della esecuzione della pena nei confronti degli ammalati
 di AIDS e, dall'altro, l'identica disciplina che il  rimettente  mira
 ad estendere nei confronti degli internati che versino nella medesima
 situazione,  il  petitum  perseguito  dal  giudice  a quo finisce per
 ammettere  una  pluralita'  di  soluzioni,   tutte   rispettose   dei
 fondamentali    valori    coinvolti,    ma    nessuna   delle   quali
 costituzionalmenteimposta. La tutela  della  salute  collettiva  che,
 come  si  e'  detto,  costituisce il fulcro attorno al quale ruota il
 recente intervento normativo, si opacizza, infatti, nel  ben  diverso
 contesto  in cui si realizza l'applicazione delle misure di sicurezza
 detentive,  ove  assume,  invece,  risalto  esclusivo  l'esigenza  di
 salvaguardare  appieno  il bene della salute del singolo internato e,
 per esso e di riflesso, i princip/' di uguaglianza e di umanita'  del
 trattamento penitenziario.
    Allo  stesso  modo,  la  necessita' di assegnare il dovuto risalto
 alle esigenze di sicurezza collettiva, per  le  quali,  anzi,  questa
 Corte  non  ha  mancato  di  formulare,  nella  richiamata  sentenza,
 l'auspicio di un  pronto  intervento  del  legislatore,  assumono  un
 rilievo  del  tutto peculiare in sede di applicazione delle misure di
 sicurezza,  postulando  le   stesse   un   perdurante   giudizio   di
 pericolosita'  che  non  puo'  certo  essere  svilito  nel quadro del
 doveroso bilanciamento dei valori che la problematica  sollevata  dal
 giudice a quo indubbiamente coinvolge.
    Come  gia' posto in risalto nella sentenza n. 70 del 1994, dunque,
 l'alternativa   tra   "immediata   esecuzione"   o   sua   temporanea
 "inesigibilita'"  a  causa di condizioni di salute che siano ritenute
 con essa incompatibili, non comporta soluzioni  a  "rime  obbligate",
 cosi'  come,  sotto  un  diverso  versante, neppure e' a dirsi che il
 rinvio della  esecuzione  rappresenti  lo  strumento  che,  sempre  e
 comunque, sia il solo idoneo a soddisfare le esigenze che vengono qui
 in  discorso.  Diverse  essendo,  quindi, le possibili opzioni che il
 legislatore e' chiamato a individuare e prescegliere per soddisfare i
 vari e delicati profili di cui innanzi si e' detto, non  v'e'  spazio
 per  ritenere  alla stregua di scelta costituzionalmente obbligata la
 soluzione meramente additiva che il  giudice  a  quo  sollecita,  con
 l'ovvia   conseguenza   di   ritenere  inammissibile  il  quesito  di
 legittimita' che il Tribunale rimettente ha inteso sollevare  davanti
 a questa Corte.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  inammissibile la questione di legittimita' costituzionale
 degli  artt.  212,  147  e  146  del  codice  penale,  sollevata,  in
 riferimento  agli  artt. 3, 32 e 27 della Costituzione, dal Tribunale
 di Sorveglianza di Roma con l'ordinanza in epigrafe.
    Cosi' deciso in  Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 6 luglio 1994.
                        Il Presidente: CASAVOLA
                        Il redattore: VASSALLI
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 15 luglio 1994.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
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