N. 324 ORDINANZA 7 - 20 luglio 1994
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Processo penale - Reiezione di richiesta di applicazione di misura cautelare coercitiva - Appello del P.M. - Accoglimento - Sospensione della misura fino al passaggio in giudicato della decisione - Insussistenza di "novita'" della norma impugnata - Coerenza con il meccanismo dell'impugnazione in generale - Manifesta infondatezza. (C.P.P., art. 310, terzo comma). (Cost., artt. 3, 13 e 76).(GU n.33 del 10-8-1994 )
LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: prof. Gabriele PESCATORE; Giudici: avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI;
ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 310, comma 3, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 16 marzo 1993 dal Tribunale della liberta' di Reggio Calabria sull'appello proposto dal pubblico ministero presso il Tribunale di Reggio Calabria avverso l'ordinanza del giudice per le indagini preliminari nei confronti di Pannuti Luigi, iscritta al n. 808 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell'anno 1994; Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri; Udito nella camera di consiglio dell'8 giugno 1994 il Giudice relatore Vincenzo Caianiello; Ritenuto che il Tribunale di Reggio Calabria, in sede di appello proposto dal pubblico ministero avverso un'ordinanza del giudice per le indagini preliminari con la quale era stata rigettata la richiesta di applicazione di una misura cautelare coercitiva nei confronti di un indagato, ha sollevato, con ordinanza del 16 marzo 1993 (pervenuta a questa Corte il 27 dicembre 1993), questione di legittimita' costituzionale dell'art. 310, comma 3, del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3, 13 e 76 della Costituzione; che ad avviso del rimettente la norma impugnata, la quale stabilisce che "l'esecuzione della decisione con la quale il tribunale, accogliendo l'appello del pubblico ministero, dispone una misura cautelare e' sospesa fino a che la decisione non sia divenuta definitiva", sarebbe in contrasto: a) con l'art. 76 della Costituzione, per violazione della delega quanto al principio della equiparazione delle posizioni tra accusa e difesa (art. 2, direttiva 3) della legge-delega n. 81 del 1987), nel raffronto con l'opposta eseguibilita' immediata dei provvedimenti che pongono in liberta' l'imputato (o indagato); b) con l'art. 76 della Costituzione, per violazione della delega quanto alla direttiva 59) della legge n. 81 del 1987 citata, che, prevedendo solo il principio dell'esecuzione immediata dei provvedimenti liberatori, non avrebbe autorizzato il legislatore delegato a introdurre l'opposta norma impugnata quanto ai provvedimenti restrittivi, ed anzi lo avrebbe implicitamente escluso, avuto riguardo alla novita' di simile previsione nel sistema processuale e alla sua notevole incidenza sulle esigenze fondamentali di acquisizione probatoria e sviluppo delle indagini sottese alla cautela, la cui finalita' verrebbe ad essere di fatto vanificata da un provvedimento inutile e addirittura incentivante la fuga o l'inquinamento dell'indagine; c) con l'art. 3 della Costituzione, perche' "si registra un'assurda disparita' di poteri tra il giudice per le indagini preliminari ed il tribunale della liberta'" accordandosi l'esecutivita' alla misura disposta dal giudice per le indagini preliminari (giudice monocratico), senza previo contraddittorio, e viceversa negandola alla misura disposta dall'organo collegiale in sede di appello, all'esito di contraddittorio; d) con l'art. 13 della Costituzione, per la distorsione che la norma impugnata, con la riferita prospettiva di vanificazione del provvedimento, puo' indurre, nell'ambito delle determinazioni del giudice d'appello, che devono essere correlate alla complessiva valutazione del quadro delle esigenze cautelari da effettuarsi al momento della decisione medesima, pena l'adozione di una misura svincolata dai criteri (adeguatezza, proporzionalita') legali e dunque di una restrizione di liberta' non giustificata; che e' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per una declaratoria di infondatezza delle questioni; Considerato che, in relazione all'asserito contrasto con l'art. 76 della Costituzione per violazione della legge-delega, la norma impugnata rappresenta un adeguato elemento di riempimento e di completamento delle scelte del legislatore delegante (sentenze n. 237/1993, n. 4/1992) costituendo espressione del principio generale del processo penale, tradizionalmente definito come effetto sospensivo dell'impugnazione (art. 588, comma 1, del nuovo codice di procedura penale); che l'esplicitazione di detta regola in apposita norma all'interno della disciplina dell'appello de libertate risulta, nel nuovo codice, necessitata in ragione della formulazione dell'antitetica previsione di cui all'art. 588, comma 2, del codice medesimo; norma, quest'ultima, del tutto nuova ed originata dall'opportuno intento di concentrare in un principio e ricondurre ad unita' il frammentario quadro della precedente disciplina delle impugnazioni dei provvedimenti in materia di liberta' personale; che, in questa prospettiva, la norma del nuovo codice impugnata non risulta innovativa, nel senso dedotto dal giudice a quo, giacche' l'impostazione di sintesi delle norme sopra richiamate, in termini di regola (effetto sospensivo dell'impugnazione), eccezione (art. 588, comma 2) e ritorno alla regola (art. 310, comma 3), non differisce, per questo aspetto, dal precedente sistema: in questo, infatti, la giurisprudenza, cosi' anteriore come successiva alla legge n. 532 del 1982 istitutiva del tribunale della liberta' e del rimedio del riesame, ha pressoche' costantemente affermato l'operativita' dell'effetto sospensivo dell'appello in caso di accoglimento del gravame del pubblico ministero avverso un provvedimento - del giudice istruttore - di contenuto favorevole all'imputato (revoca del titolo detentivo; scarcerazione per qualsiasi motivo; concessione della liberta' provvisoria o remissione in liberta'), in applicazione dell'art. 205 del codice di procedura penale abrogato, corrispondente all'art. 588, comma 1, del codice vigente; che i rilievi che precedono, indicativi di una continuita' di disciplina sugli effetti sostanziali dell'impugnazione di un provvedimento sullo status libertatis, fanno venir meno la premessa da cui muove l'ordinanza di rinvio, circa l'asserita "novita'" della norma impugnata, per sostenere la violazione del divieto desumibile dal silenzio del legislatore delegante nella direttiva n. 59) della legge n. 81 del 1987; difatti la norma impugnata si atteggia come coerente con il meccanismo delle impugnazioni in generale e altresi' come funzionalmente orientata nella stessa direzione della norma alla quale fa eccezione (art. 588, comma 2), poiche' entrambe si fondano sul principio del favor libertatis e sull'eccezionalita' del ricorso agli strumenti di restrizione della liberta' personale (sentenza n. 349/1993), desumibile proprio dalla direttiva n. 59) citata; che le considerazioni da ultimo formulate orientano altresi' nel senso della esclusione del profilo di contrasto con il principio di parita' delle parti nel processo penale, poiche', diversamente da quanto sostiene il giudice rimettente, l'accordato rilievo al favor libertatis costituisce motivo idoneo e sufficiente alla diversificazione di disciplina quanto alla eseguibilita' immediata o meno dei provvedimenti di contenuto rispettivamente liberatorio o restrittivo adottati in sede di appello; non e' invero imposta, dal principio di parita' fra le parti invocato, l'assoluta identita' di poteri e posizioni del pubblico ministero e dell'imputato (o indagato), ed anzi sono consentite quelle alterazioni della parita' necessarie a dare completo sviluppo a esigenze o finalita' anch'esse costituzionalmente rilevanti (sentenze n. 98/1994, n. 363/1991, n. 110/1986); che, per quanto concerne il riferimento all'art. 3 della Costituzione, l'ordinanza, sia pur con formulazione incerta, sembra prospettare due profili, entrambi infondati, e cioe' uno di disparita' di trattamento ed uno di irragionevolezza; che, sotto il primo profilo, va rilevato che tra organi giurisdizionali non sono configurabili problemi di disparita' di trattamento costituzionalmente rilevanti perche' l'art. 3 della Costituzione concerne l'eguaglianza fra soggetti, un aspetto cioe' non apprezzabile nel confronto tra organi giurisdizionali i cui poteri sono determinati dalle scelte del legislatore, sindacabili in riferimento all'art. 3 della Costituzione solo sotto il profilo della ragionevolezza; che, sotto questo profilo, va rilevato che il diverso regime di eseguibilita' dei provvedimenti cautelari concernenti la liberta' personale non si basa su una arbitraria determinazione del legislatore nel connotare i provvedimenti adottati dal giudice per le indagini preliminari (a quo) in modo difforme da quelli di competenza del tribunale della liberta' (ad quem) in sede di appello, bensi' trova ragionevole spiegazione nella ontologica diversita' che sussiste tra il momento genetico della cautela ed il momento - necessariamente successivo - del controllo sul suo diniego; che, infatti, diversa risulta nei due casi l'intensita' dell'urgenza della esecuzione del provvedimento, in ragione della presenza solo nel primo caso, e non nel secondo, dell'elemento della c.d. "sorpresa", cui consegue coerentemente un diverso atteggiarsi delle regole del contraddittorio (sentenza n. 219/1994) ed una differenziata scansione temporale del procedimento (i termini ex artt. 310 e 311 c.p.p. essendo di carattere ordinatorio); che, quindi, in modo non irragionevole il legislatore delegato, in presenza di questa divaricazione di fondo, ha valorizzato - a differenza che nel provvedimento del giudice per le indagini preliminari - la ratio di favore per l'indagato o imputato, ritenendola prevalente, non sussistendo l'esistenza di quella "sorpresa" che costituisce la ragione fondante l'esecuzione immediata, ed esercitando cosi' una opzione, non censurabile in sede di sindacato di costituzionalita', nel bilanciamento tra - ormai affievolite - esigenze di operativita' della cautela e ragioni di garanzia, sottolineate, queste ultime, dal dato non indifferente di una preesistente pronuncia di un organo giurisdizionale reiettiva della "domanda cautelare" sollecitata dal pubblico ministero; che, infine, il richiamo del parametro di cui all'art. 13 della Costituzione risulta inconferente, una volta rispettato - come nella specie - il canone di riserva alla legge dei presupposti e delle condizioni di restrizione della liberta' personale, non potendo venire in rilievo, per questo parametro, se non come patologie di fatto, considerazioni soggettive dell'organo giudicante dissonanti rispetto a detti presupposti e condizioni; Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, secondo comma, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE Dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 310, comma 3, del codice di procedura penale, sollevata dal Tribunale della liberta' di Reggio Calabria, con ordinanza del 16 marzo 1993, in riferimento agli artt. 3, 13 e 76 della Costituzione. Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, 7 luglio 1994. Il Presidente: PESCATORE Il redattore: CAIANIELLO Il cancelliere: DI PAOLA Depositata in cancelleria il 20 luglio 1994. Il direttore della cancelleria: DI PAOLA 94C0940