N. 505 ORDINANZA (Atto di promovimento) 14 maggio 1993- 20 luglio 1994

                                N. 505
 Ordinanza  emessa  il  14   maggio   1993   (pervenuta   alla   Corte
 costituzionale  il  20  luglio  1994)  dal  tribunale  amministrativo
 regionale della Lombardia, sezione staccata di Brescia,  sui  ricorsi
 riuniti  proposti  da  Macaluso  Vincenzo  contro  il Ministero della
 pubblica istruzione ed altri.
 Impiego pubblico - Esclusione dall'accesso agli impieghi pubblici dei
    soggetti privati dell'elettorato  attivo  politico  -  Conseguente
    esclusione,   nella   specie,  dalla  graduatoria  privinciale  di
    supplenza  annuale  di  persona  nei  cui  confronti   sia   stato
    dichiarato  fallimento - Irrazionale automaticita' dell'esclusione
    dall'accesso  ai   pubblici   impieghi   in   contrasto   con   la
    giurisprudenza   della  Corte  costituzionale  che  ha  dichiarato
    l'illegittimita'  costituzionale  di  norme  che  prevedevano   la
    destituzione  automatica dall'impiego (sentenze nn. 917/1988, 40 e
    148/1990, 16/1991 e 197 del 1993)  -  Incidenza  sui  principi  di
    imparzialita' e buon andamento della p.a.
 (Legge 10 gennaio 1957, n. 3, art. 2, quinto comma).
 (Cost., artt. 3 e 97).
(GU n.38 del 14-9-1994 )
                 Il TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE
   Ha  pronunciato la seguente ordinanza sui ricorsi riuniti nn. 666 e
 975 r.g.r. 1992, proposti dal sig. Macaluso Vincenzo, rappresentato e
 difeso dall'avv. Mario Moneghini, ed elettivamente domiciliato presso
 lo studio di quest'ultimo, in Brescia, via F. Cavallotti n. 7, contro
 il Ministero della pubblica istruzione, in persona  del  Ministro  in
 carica;  il  provveditorato  agli  studi  di  Brescia, in persona del
 provveditore pro-tempore; l'istituto tecnico agrario "G. Pastori"  di
 Brescia,  in persona del legale rappresentante; tutti rappresentati e
 difesi dall'avvocatura dello Stato di Brescia, presso la cui sede  di
 via Solferino n. 20/c. risultano domiciliati ex lege; e nei confronti
 di   Ferrari   Donatella,   Zilioli   Sandro  e  Perrone  Alessandro,
 controinteressati, non costituitisi in giudizio, per  l'annullamento:
 quanto  al  primo ricorso (n. 666/1992), del decreto del provveditore
 agli studi di Brescia 8 maggio 1992  nonche'  per  l'accertamento  di
 ogni connesso diritto; quanto al secondo ricorso (n. 975/1992), della
 decisione 27 maggio 1992 di reiezione del relativo ricorso gerarchico
 proposto dal ricorrente;
    Visto il ricorso, con i relativi allegati;
    Visto  l'atto  di  costituzione  in  giudizio dell'amministrazione
 intimata e quello  di  rinuncia  al  mandato  dell'avvocato  Giuseppe
 Porqueddu, originario difensore del ricorrente;
    Viste  le  memorie  prodotte  dalle parti a sostegno delle proprie
 difese;
    Visti gli atti tutti della causa;
    Designato relatore, alla pubblica udienza del 14 maggio  1993,  il
 consigliere Mauro Springolo;
    Uditi,  l'avv. Vito Salvadori, per delega dell'avv. Moneghini, per
 il ricorrente, e  l'avv.  dello  Stato  Riccardo  Montagnoli  per  le
 resistenti amministrazioni;
    Ritenuto in fatto e in diritto quanto segue:
                               F A T T O
    Il  ricorrente,  sig.  Vincenzo Macaluso, aveva presentato domanda
 per  essere  inserito  nelle  graduatoria  provinciale  di  supplenza
 annuale  ATA,  ai  sensi  dell'ordinanza  ministeriale  n. 296 del 30
 ottobre 1990.
    Il provveditore agli studi di  Brescia,  con  decreto  11  ottobre
 1991, n. 23245, ha pubblicato le relative graduatorie, nelle quali il
 ricorrente risulta inserito al posto 591, con punti 9,20.
    Con  atto 21 gennaio 1992, n. 20740, al Macaluso, veniva conferita
 la  supplenza  quale  collaboratore  tecnico  presso  l'I.T.A.S.  "G.
 Pastori" di Brescia.
    In   sede   di   presentazione  della  documentazione  necessaria,
 risultava  che  il  ricorrente  era  stato  depennato   dalle   liste
 elettorali perche' dichiarato fallito.
    Sulla base di questa circostanza, il Macaluso veniva escluso dalla
 graduatoria  di  cui  sopra  e veniva, altresi', respinto il relativo
 ricorso gerarchico.
    Nei   confronti   dei   provvedimenti   predetti,   nonche'    per
 l'accertamento  del relativo diritto, deduce il ricorrente i seguenti
 motivi di gravame, comuni ad entrambi  i  ricorsi:  violazione  degli
 artt.  2  del  t.u.  10  gennaio 1957, n. 3 e 2 della legge 7 ottobre
 1947, n. 1058; della legge 7 febbraio 1990, n. 19, in relazione  alla
 legge  29  ottobre  1984,  n.  732  ed agli artt. 3, 4, 25 e 97 della
 Costituzione. Eccesso di potere.
    Dopo la pronuncia della Corte costituzionale n. 971 del 14 ottobre
 1988 e l'adozione della legge n. 19 del 7 febbraio 1990, l'espulsione
 del pubblico dipendente non puo' essere considerato  come  un  evento
 che consegua a determinate circostanza in forza di un automatismo che
 va ritenuto espunto dal nostro ordinamento.
    Qualora   non  si  dovesse  ritenere  di  pervenire  ad  una  tale
 conclusione in via interpretativa, si  dovra'  concludere  nel  senso
 della incostituzionalita' della norma applicata nella fattispecie.
    Si  e'  costituita  in  giudizio, per le amministrazioni intimate,
 l'avvocatura dello Stato, che ha controdedotto in  termini  chiedendo
 la reiezione dei ricorsi.
    All'udienza, gli stessi sono stati trattenuti in decisione.
    Con  sentenza  parziale  n.  226/1994,  rilevata l'infondatezza di
 talune delle pretese prospettate in sede di  legittimita'  ordinaria;
 si  e'  ritenuta  rilevante e non manifestamente infondata la dedotta
 questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2 della  legge  10
 gennaio  1957,  n.  3,  per  contrasto  con  gli  artt.  3 e 97 della
 Costituzione.
    Di conseguenza si e' provveduto a sospendere il giudizio  relativo
 sino alla pronunzia della Corte costituzionale cui vengono sottoposte
 le osservazioni che seguono in diritto.
                             D I R I T T O
    Come premesso in fatto, con sentenza n. 226/1994 di data pari alla
 presente  ordinanza,  la  sezione,  nel  respingere taluni dei motivi
 dedotti coi ricorsi riuniti  nn.  666  e  975  r.g.r.  del  1992,  ha
 ritenuto  non  manifestamente  infondata,  e  rilevante ai fini della
 decisione sulla controversia all'esame, la questione di  legittimita'
 costituzionale  proposta con riguardo al mantenimento del meccanismo,
 per cosi' dire automatico, previsto dall'art. 2,  quinto  comma,  del
 d.P.R.  10  gennaio 1957, n. 3, in ordine all'esclusione dall'accesso
 ai pubblici impieghi dei cittadini dichiarati falliti.
    La norma in questione dispone, infatti, che: "Non possono accedere
 agli  impieghi  coloro  che  siano  esclusi  dall'elettorato   attivo
 politico .. (Omissis)".
    La  difesa  del ricorrente argomenta sul punto facendo riferimento
 innanzitutto alla giurisprudenza della stessa Corte costituzionale in
 tema di automatica espulsione del pubblico  dipendente  dall'impiego,
 in relazione a determinate fattispecie.
    Essa   ritiene,   infatti,   costituzionalmente  improponibile  un
 medesimo automatismo in relazione all'accesso agli  impieghi  stessi,
 avuto riguardo, per un verso, all'eterogeneita' delle fattispecie che
 hanno  come  effetto  la  perdita  dei  diritti  politici,  ai  sensi
 dell'art. 2 della  legge  7  ottobre  1947,  n.  1058,  e  successive
 modificazioni,  e,  per un altro, all'espunzione dall'ordinamento del
 requisito della cosi' detta buona condotta, previsto dalla  legge  29
 ottobre 1984, n. 732.
    Appare,  dunque, opportuno richiamare, in primo luogo, sia pure in
 forma concisa, le argomentazioni, contenute in diverse decisioni, che
 hanno indotto il giudice delle leggi  ad  espungere  dall'ordinamento
 ogni forma di automatismo, in tema di decadenza dall'impiego, tale da
 escludere  la  capacita'  dell'amministrazione  stessa di formarsi un
 autonomo convincimento, attraverso l'instaurazione di un procedimento
 disciplinare,  sull'opportunita'   dell'adozione   di   un   siffatto
 provvedimento.
    In particolare vanno ricordate:
      1)  la  sentenza  n. 270 del 1986, con la quale la Corte, pur in
 sede di pronuncia di inammissibilita', ebbe modo  di  affermare  che,
 anche  nel campo della potesta' disciplinare, come nell'area punitiva
 penale, sussiste l'esigenza dell'esclusione di sanzioni rigide,  vale
 a   dire   della   "adozione   di   criteri   normativi  idonei  alla
 commisurazione   delle   misure   sanzionatorie   conseguenti    alla
 irrevocabile  condanna  penale"  quale  esigenza,  ex  art.  3  della
 Costituzione, "di adeguatezza tra illecito e irroganda sanzione";
      2) la sentenza, citata in ricorso, n. 971 del 1988, con la quale
 la Corte dispose la  declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale
 dell'art. 85, lett. a), del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, nella parte
 in  cui  non prevedeva, in luogo del provvedimento di destituzione di
 diritto, l'apertura e lo svolgimento del  procedimento  disciplinare.
 La  petizione  di  principio desumibile da quest'ultima decisione, ai
 fini  che  qui  interessano, appare ancora quella rappresentata dalla
 necessita'  di  individuare  una  procedura  atta  a  garantire   una
 "indispensabile  gradualita'  sanzionatoria",  che, in relazione alla
 misura, ivi considerata,  della  destituzione,  andava  rivenuta  nel
 procedimento disciplinare;
      3)  le  sentenze  nn.  40 e 158 del 1990 e 16 del 1991, che, pur
 relative ad altre categorie di impiegati e di  professionisti,  hanno
 ribadito  il  profilo  di  fondamentale  contrasto con l'art. 3 della
 Costituzione di tutte  quelle  disposizioni  che  avevano  introdotto
 nell'ordinamento  forme di automatismo nell'irrogazione della massima
 sanzione disciplinare per difformi  comportamenti,  senza  che  fosse
 individuato un procedimento per ricondurre a razionalita', attraverso
 il principio della giusta proporzione, tale eterogeneita'.
    Il collegio ritiene che un medesimo ordine di considerazioni possa
 essere  svolto  in relazione ad una altrettanto automatica esclusione
 dall'ammissione ai pubblici impieghi, tanto piu' quando questa misura
 risulti adottata  in  forma  indifferenziata  nei  confronti  di  una
 pluralita'  di  fattispecie  fra  loro  fortemente  disomogenee, come
 quelle prefiguarate dal legislatore all'art. 2 della citata legge  n.
 1058 del 1947 e successive modificazioni.
    Invero, quest'ultima disposizione, sotto la tacitiana formula "Non
 sono elettori" elencava tutta una serie di fattispecie che sono state
 successivamente modificate dal legislatore.
    Innanzitutto,   col  d.P.R.  20  marzo  1967,  n.  223,  e'  stata
 riordinata la materia, mantenendo ferma, peraltro, la fattispecie che
 qui interessa, relativa agli effetti dello stato di fallimento.
    Successivamente, per quanto riguarda singoli aspetti, con la legge
 13 maggio 1978, n. 180, in materia di incapacita' ed  inabilitazione,
 e'  stato modificato il punto 1), con la legge 3 agosto 1988, n. 327,
 in materia di misure di prevenzione, e' stato modificato il punto 3),
 ed infine con la legge 22 maggio 1980, n. 193, e' stato  abrogato  il
 punto 7) della norma sopra citata, vale a dire quello che comprendeva
 le  ipotesi  di  delitto  aventi  un  contenuto  tale da suscitare un
 maggiore allarme sociale.
    Permaneva, peralto, come gia' detto l'ipotesi di cui al punto  due
 della  citata  legge che riguardava: "i commercianti falliti, finche'
 dura lo stato di fallimento, ma non  oltre  cinque  anni  dalla  data
 della sentenza dichiarativa del fallimento".
    Appariva,   quindi,  di  sempre  maggior  rilievo  l'incongruita',
 all'interno dell'ordinamento, fra fattispecie di obbiettiva  gravita'
 e  rilevanza  sociale  ma  non piu' idonee a determinare ex se la non
 ammissione agli impieghi, e l'ipotesi dello status  di  fallito,  che
 presenta connotati che, in una dimensione maggiormente dinamica della
 vita economica, quale quella attuale, non configurano piu' un'ipotesi
 di   pericolo  sociale  anche  astrattamente  equiparabile  a  quello
 ipotizzabile in relazione ai delitti elencati al sopra  citato  punto
 7), art. 1, della legge n. 1058 del 1947.
    Invero,  tale  ipotesi  puo',  tuttalpiu', considerarsi contigua a
 quella relativa alla mancanza del  requisito  della  buona  condotta,
 atteso  che  lo  stato  di fallito non corrisponde necessariamente ad
 un'ipotesi delittuosa.
    In questo contesto normativo e' intervenuta la  legge  29  ottobre
 1984,  n.  732, che ha espunto dalla serie di condizioni previste per
 l'accesso al pubblico impiego il requisito della buona  condotta,  di
 cui all'art. 2 del t.u. 10 gennaio 1957, n. 3.
    Questa sezione, con la sentenza 30 maggio 1991, n. 431, confermata
 puntualmente  dal  Consiglio di Stato - Vedi quinta sez. sent. n. 105
 del 29  gennaio  1993  -  ha  ritenuto  tale  intervento  legislativo
 circoscritto  al cosi' detto certificato di buona condotta rilasciato
 dal  sindaco,  escludendo  che  potesse  ipotizzarsi,  per  tale  via
 interpretativa,  l'abrogazione  di  tutta la norma dianzi citata, ivi
 compreso  il  quinto  comma,  che,  appunto,  ricollega  l'esclusione
 dall'elettorato attivo politico la non ammissione agli impieghi.
    La  legge n. 732/1984 si poneva, comunque, quale ulteriore indizio
 di una volonta' legislativa volta a favorire  l'accesso  ai  pubblici
 impieghi  piuttosto  che  a  tutelare  l'amministrazione  da ingressi
 indesiderati, sul presupposto, peraltro, di  una  idonea  valutazione
 del caso singolo.
    In  effetti,  le sentenze dianzi richiamate esprimevano, altresi',
 la necessita' di rifuggire da ogni forma di automatismo anche in sede
 di accesso ai pubblici impieghi, quantomeno in riferimento ad ipotesi
 delittuose affini a quelle di cui alla legge n. 1058/1947, in  ordine
 alle quali, al momento della redazione della sentenza di primo grado,
 non   erano   rinvenibili,   nell'ordinamento   positivo,  specifiche
 disposizioni atte a valorizzare automatiche esclusioni dall'accesso.
    In tale contesto giuridico-normativo sono intervenute la legge  16
 gennaio  1992,  n.  15  e  la  legge 18 gennaio 1992, n. 16, entrambe
 pubblicate nella medesima Gazzetta Ufficiale n. 17 del 22 gennaio.
    La prima ha introdotto "Modificazioni al testo unico  delle  leggi
 per  la  disciplina  dell'elettorato  attivo  e  per  la  tenuta e la
 revisione  delle  liste  elettorali,  approvato   con   decreto   del
 Presidente  della  Repubblica  20  marzo  1967,  n.  223", mantenendo
 peraltro immutata, per  il  fallito,  la  formula  originaria,  sopra
 riportata, dalla legge n. 1058 del 1947.
    La seconda, invece, con l'art. 4-septies, ha individuato tutta una
 serie  di  fattispecie  per  le  quali, in forza del rinvio di cui al
 successivo art. 4-opties all'art.  4-quinquies,  viene  evidentemente
 reintrodotta  un'ipotesi  di  decadenza  automatica  dal  rapporto di
 pubblico impiego per fatto delittuoso che appariva, in primo luogo al
 legislatore stesso, espunta dall'ordinamento.
    Peraltro, con la sentenza n. 197 del 19-27 aprile 1993,  la  Corte
 costituzionale  e'  addivenuta  ad una declaratoria di illegittimita'
 dell'art. 15, quarto  comma,  della  legge  19  marzo  1990,  n.  55,
 introdotto  dall'art.  1  della  legge  18 gennaio 1992, n. 16, nella
 parte  in  cui  prevede  la  decadenza  dall'impiego   dei   pubblici
 dipendenti  condannati  con sentenza passata in giudicato per uno dei
 reati previsti dalla legislazione sulla prevenzione della delinquenza
 di tipo mafioso. Anche in questa fattispecie, il giudice delle  leggi
 aveva  ritenuto,  quindi,  non  conforme  a  Costituzione,  in specie
 all'art. 3, il  ricorso  all'espulsione  automatica,  attraverso  una
 reintroduzione  nell'ordinamento  dell'istituto della destituzione di
 diritto  del  pubblico  dipendente,  in  assenza  di   una   corretta
 ponderazione, attraverso l'istituto del procedimento disciplinare, di
 ogni  singolo  caso e avuto riguardo alla "numerosa e variegata serie
 di fattispecie delittuose,  di  diversa  natura  e  gravita',  e  con
 possibilita', quindi, di irrogazione in concreto di pene notevolmente
 differenziate".
    Pare,  dunque,  al  collegio, che in forza dell'intervento, teste'
 citato, del giudice delle leggi, il  quadro  giuridico-normativo  sia
 rimasto  immutato,  cosi'  che  a  fronte di un diniego di accesso ai
 pubblici  impieghi  che  prevede  tale  effetto  sul  presupposto  di
 fattispecie  fra  loro  assai  disomogenee  e, soprattutto, capaci di
 generare un ben  diverso  allarme  sociale,  si  colloca  un  divieto
 all'automatica   espulsione   del  pubblico  dipendente  per  ipotesi
 delittuose assai piu' rilevanti ed addirittura  connesse  a  fenomeni
 devastanti  di  criminalita'  organizzata. (La citata legge n. 16 del
 1992 si colloca, nel  suo  complesso,  nel  filone  della  cosiddetta
 legislazione antimafla).
    Ritiene  il  collegio, che un siffatto contrasto esuli dall'ambito
 della  discrezionalita'  legislativa  per  investire   quello   della
 razionalita'  e  dell'equilibrio  di  tale  funzione  statuale, avuto
 riguardo al "principio di proporzione", che nel caso di specie appare
 violato sia in relazione all'ipotesi dell'accesso  sia  in  confronto
 alla  diversa  considerazione  operata  in  tema  di  espulsione. Per
 inciso, inoltre, non potra' non rilevarsi come l'ipotesi  del  quinto
 comma  dell'art.  2  del  d.P.R. n. 3 del 1957, riguardando controlli
 successivi all'assunzione del soggetto, si configuri, di fatto,  come
 un'esplusione vera e propria dello stesso.
    Quanto  ora  affermato  appare tanto piu' rilevante avuto riguardo
 all'ipotesi, che qui in particolare interessa, del  fallimento,  che,
 come  gia'  detto,  appare, nella coscienza comune attuale, un evento
 non esponenziale di un particolare allarme sociale  e,  comunque,  di
 rilievo  grandemente  inferiore alle altre ipotesi, sia di esclusione
 dall'accesso, sia di non automatica espulsione dai pubblici impieghi.
    Si  consideri,  inoltre,  che  laddove  tale  fatto  dia  luogo  a
 fattispecie  delittuose,  queste  finiscono per essere sanzionate, in
 relazione al quadro normativo che qui interessa, per  altra  via,  in
 ragione appunto della loro rilevanza penale.
    Tirando,  dunque,  le  fila  di  quanto  fin qui affermato, appare
 evidente la discrasia fra situazioni soggettive estremamente  diverse
 che vengono ricondotte, secondo criteri evidentemente irrazionali, ad
 omogeneita' in relazione ai loro effetti.
    Cio'  posto,  ritiene  in  conclusione  il collegio che il sistema
 possa essere ricondotto a razionalita' esclusivamente attraverso  una
 modifica del quinto comma dell'art. 2 del citato testo unico n. 3 del
 1957,  che  consenta attraverso una valutazione del caso singolo, sia
 di attenuare  un'evidente  disparita'  di  trattamento  di  posizioni
 soggettive,  per  cui  a  quelle  esponenziali  di  un minore allarme
 sociale  vengono  attribuiti  i  medesimi  effetti  di  comportamenti
 delittuosi,  sia di consentire all'amministrazione una valutazione di
 opportunita' in ordine  all'accoglimento  nei  pubblici  impieghi  di
 aspiranti non coinvolti in tali fattispecie.
    Ad  avviso  del  collegio  va,  dunque,  verificata  la intrinseca
 razionalita' e logicita' della norma  suddetta,  con  riferimento  ai
 precetti  emergenti  dagli  artt.  3 e 97 della Costituzione, onde la
 questione va sottoposta all'esame di codesta Corte costituzionale.
    La  rilevanza  della  questione  appare  evidente,  in  quanto   i
 provvedimenti impugnati con i ricorsi all'esame risultano assunti sul
 presupposto  dell'automatica  applicazione dei ricordato quinto comma
 dell'art. 2 del t.u. 10 marzo 1957, n. 3.
                               P. Q. M.
    Rimette  alla  Corte  costituzionale  la questione di legittimita'
 dell'art. 2, quinto comma, della legge 10 gennaio 1957, n.  3,  nella
 parte in cui applica l'automatica esclusione dall'accesso ai pubblici
 impieghi  di  quei soggetti esclusi dall'elettorato attivo in ragione
 del loro stato di fallimento, per contrasto con  gli  artt.  3  e  97
 della Costituzione;
    Sospeso a tal fine il giudizio sui ricorsi di cui in epigrafe sino
 alla pronuncia della Corte costituzionale;
    Ordina  alla  segreteria  della  sezione di curare che la presente
 ordinanza venga trasmessa, insieme agli atti di causa, (ric.si 666  e
 975  r.g.r.  1992), in copia certificata conforme, a' sensi dell'art.
 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, alla Corte  costituzionale,  ed,
 altresi',  notificata  alle  parti  in  causa  ed  al  Presidente del
 Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti  della  Camera  dei
 deputati e del Senato della Repubblica.
    Cosi'  deciso  in Brescia, nella camera di consiglio del 14 maggio
 1993.
                        Il presidente f.f.: CONTI
   Il consigliere estensore: SPRINGOLO
                                            Il referendario: BURICELLI
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