N. 60 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 26 agosto 1994

                                 N. 60
 Ricorso  per  questione  di legittimita' costituzionale depositato in
 cancelleria il 26 agosto 1994 (della regione Emilia-Romagna)
 Edilizia e urbanistica - Riapertura e estensione agli immobili
    costruiti abusivamente sino  a  tutto  il  31  dicembre  1993  del
    condono  edilizio  introddo  come  misura  eccezionale dalla legge
    statale n. 47 del 1985 - Previsione  che,  quando  la  domanda  di
    condono  si  riferisce  ad opere su aree sottoposte a vincolo e il
    condono stesso sia subordinato al parere favorevole dell'autorita'
    di tutela, tale parere si intende reso in senso favorevole qualora
    non venga formulato entro centoventi giorni - Omessa previsione di
    una  categoria  di  contribuzione  per  le   opere   di   restauro
    conservativo,  quando  tali  opere  nel regime ordinario sarebbero
    soggette a concessione onerosa  in  quanto  non  rientranti  nelle
    ipotesi  previste  dall'art.  9  della  legge  n. 10/1977 (edifici
    unifamiliari e restauri convenzionati) e dall'art. 7 del d.l.  n.
    9/1982  (recupero  abitativo) - Affidamento al Ministro dei lavori
    pubblici  anziche'  alle  regioni:  a)  della  determinazione  dei
    criteri  di formazione e dei contenuti dei programmi di intervento
    per il rientro dell'abusivismo  di  necessita';  b)  di  eventuali
    poteri  sostitutivi  per i provvedimenti di competenza del sindaco
    mediante la nomina di commissari ad  acta;  c)  della  stipula  di
    accordi  con  il Ministero della difesa per la realizzazione delle
    strutture tecnico-operative del Ministero stesso per le  opere  di
    demolizione  -  Previsione  inoltre: a) dell'obbligo delle regioni
    che  volessero  derogare  alle  norme   di   contabilita',   nella
    procedura,  prevista dall'art. 6, di chiedere l'autorizzazione del
    Ministro e  della  facolta'  di  quest'ultimo  di  autorizzare  le
    amministrazioni  infraregionali ad utilizzare la procedura stessa;
    b)  della  cessazione  dell'efficacia  dell'ordine  del   sindaco,
    decorsi  sessanta  giorni  dall'ordine  di  sospensione dei lavori
    senza  ulteriori   provvedimenti;   c)   della   possibilita'   di
    "monetizzare"  gli  abusi  sui beni paesistici e storico-artistici
    compiuti mediante opere di  ristrutturazione  edilizia;  d)  della
    riduzione  della  sanzione  per  chi abbia costruito sulla base di
    concessioni annullate; e) della sanzione per il  caso  di  mancato
    ripristino  della  destinazione  d'uso illegittimamente mutata; f)
    della   liberalizzazione   delle   varianti   non   essenziali   e
    parzialmente     delle     stesse    varianti    essenziali;    g)
    dell'eliminazione dell'obbligo per i comuni della  predisposizione
    dei  programmi  pluriennali  di  attuazione;  h) dell'introduzione
    dell'istituto del silenzio-assenso per le concessioni edilizie  in
    caso di mancata comunicazione del diniego entro novanta giorni; i)
    dell'attribuzione  al  giudice  amministrativo della giurisdizione
    esclusiva in materia di responsabilita' per danni  del  sindaco  e
    del  responsabile  del  provvedimento  per  illegittimo diniego di
    concessione edilizia -  Incidenza  sui  principi  di  uguaglianza,
    nonche'   di   imparzialita'   e  buon  andamento  della  pubblica
    amministrazione e di tutela del paesaggio - Violazione della sfera
    di competenza regionale in materia di  edilizia  e  urbanistica  -
    Riferimenti  alle sentenze della Corte costituzionale nn. 369/1988
    e 393/1992.
 (D.L. 26 luglio 1994, n. 468, artt. 1, primo e decimo comma, 2,
    primo comma, 3, secondo comma, 4, primo comma, 6, decimo comma, 7,
    secondo, quarto, quinto e sesto comma, 8, primo, terzo  e  settimo
    comma).
 (Cost., artt. 3, 9, 24, 97, 113, 117, 118, 128 e 130).
(GU n.40 del 28-9-1994 )
   Ricorso  della  regione  Emilia-Romagna,  in persona del presidente
 della giunta regionale pro-tempore Pierluigi Bersani, autorizzato con
 deliberazione della giunta regionale n.  3698  del  29  luglio  1994,
 rappresentata   e  difesa,  come  da  mandato  a  margine,  dall'avv.
 Giandomenico Falcon di Padova, con domicilio eletto in  Roma,  presso
 l'avv.  Luigi  Manzi,  via  Confalonieri  5, contro il Presidente del
 Consiglio  dei  Ministri  per  la  dichiarazione  di   illegittimita'
 costituzionale  del  d.l.  26  luglio  1994, n. 468, recante "Misure
 urgenti  per  il  rilancio  economico  ed  occupazionale  dei  lavori
 pubblici   e   dell'edilizia   privata"  (pubblicato  nella  Gazzetta
 Ufficiale n. 175 del 28 luglio 1994), e precisamente:
      dell'art. 1, primo comma (in connessione con il secondo  comma),
 in  quanto,  in  violazione dell'art. 97, primo comma, dell'art. 117,
 primo comma, dell'art. 3 della  Costituzione,  nonche'  dei  principi
 fondamentali  dello  Stato di diritto riapre ed estende i termini del
 condono edilizio, vanificando l'azione  di  controllo  e  repressione
 delle   amministrazioni   e   in   particolare  delle  piu'  attente,
 privilegiando coloro che  hanno  trasgredito  le  leggi  rispetto  ai
 cittadini  comuni  e  ingenerando affidamenti di future impunita' per
 nuove illegalita';
      dell'art. 1, decimo comma, in quanto assimila il silenzio  delle
 amministrazioni  di  tutela  dei  vincoli ad un parere favorevole, in
 violazione  degli  artt.  3  e  9  della  Costituzione,  nonche'  del
 principio  del  buon  andamento  dell'amministrazione e del principio
 generale di ragionevolezza;
      dell'art. 2, primo comma, e della  connessa  tabella  in  quanto
 omette  di  prevedere  una categoria di contribuzione per le opere di
 restauro e risanamento conservativo, quando  tali  opere  nel  regime
 ordinario  sarebbero  soggette  a  concessione onerosa, in violazione
 degli artt. 3 e 97, primo comma della Costituzione;
      dell'art. 3, secondo comma, in quando  affida  al  Ministro  dei
 lavori  pubblici, anziche' alle competenti regioni, la determinazione
 dei criteri di formazione e dei contenuti dei programmi di intervento
 per il rientro dell'abusivismo di  necessita',  in  violazione  degli
 artt. 117, primo comma, e 118, primo comma, della Costituzione;
      dell'art.  4, primo comma, in quando attribuisce al Ministro dei
 lavori pubblici, anziche'  alle  competenti  regioni,  gli  eventuali
 poteri.  sostitutivi  per  i  provvedimenti di competenza del sindaco
 mediante la nomina di commissari ad acta, in violazione  degli  artt.
 117,  primo  comma,  e  118, primo comma, nonche' dell'art. 130 della
 Costituzione;
      dell'art. 4, primo comma, in quando attribuisce al Ministro  dei
 lavori  pubblici,  anziche'  alle  competenti  regioni, il compito di
 stipulare accordi con il Ministero della difesa  per  l'utilizzazione
 delle  strutture  tecnico-operative del Ministero stesso per le opere
 di  demolizione,  in  'violazione  dell'art.  118, primo comma, della
 Costituzione;
      dell'art. 6, decimo comma, in quanto costringe  le  regioni  che
 volessero  utilizzare  la  procedura prevista dallo stesso art. 6, di
 possibile deroga  alle  norme  di  "contabilita'",  a  "chiedere"  al
 Ministro  l'autorizzazione,  anziche'  direttamente  consentire  tale
 possibilita',   in   violazione   dell'autonomia   amministrativa   e
 legislativa  regionale,  nonche'  in quanto assegna al Ministro a non
 alle regioni competenti il compito di autorizzare le  amministrazioni
 infraregionali  ad  utilizzare  la procedura di cui all'art. 6 per le
 opere pubbliche di competenza regionale;
      dell'art. 7, secondo comma,  il  quale  dispone  che  decorsi  i
 sessanta giorni dall'ordine di sospensione dei lavori senza ulteriori
 provvedimenti, "I'ordine del sindaco perde efficacia", senza disporre
 o   consentire  nessuna  possibile  forma  di  tutela  dell'interesse
 pubblico, in violazione dell'art. 97,  primo  comma,  e  dell'art.  9
 della Costituzione.
      dell'art.  7,  quarto  comma,  che  introduce la possibilita' di
 "monetizzare" gli  abusi  sui  beni  paesistici  e  storico-artistici
 compiuti  mediante  opere  di  ristrutturazione  edilizia, "quando la
 restituzione in pristino non sia possibile o non consenta il recupero
 dei valori tutelati", in violazione dell'art. 9 della Costituzione;
      dell'art. 7, quinto comma, prima frase del nuovo testo dell'art.
 11, primo comma, legge 47/1985, in  quanto  drasticamente  riduce  la
 sanzione per chi abbia costruito sulla base di concessioni annullate,
 in violazione degli artt. 97, 24, e 9 della Costituzione;
      dell'art.  7,  quinto  comma,  seconda  frase  del  nuovo  testo
 dell'art. 11, primo comma, della legge 47/1985, in quanto prevede una
 sanzione assurdamente tenue e priva di congruenza con  lo  scopo,  in
 violazione dell'art. 97, primo comma, della Costituzione, nonche' del
 principio di proporzionalita' e ragionevolezza;
      dell'art.  7,  sesto  comma, in quanto liberalizza totalmente le
 varianti "non essenziali" ed in parte le stesse varianti  essenziali,
 in  violazione  degli  artt.  117, primo comma, 118, primo comma, 97,
 primo comma, e 9 della Costituzione;
      dell'art. 8,  primo  comma,  in  quanto  priva  i  comuni  della
 possibilita'  di disciplinare nel tempo l'espansione dell'abitato, in
 violazione degli artt. 97, primo comma, 128, 117, primo comma  e  118
 primo comma della Costituzione;
      dell'art.  8,  terzo  comma, in quanto, modificando l'art. 4 del
 d.l. n.  398  del  1193,  introduce  nell'ordinamento  il  principio
 generale  del  silenzio  assenso  per  le  concessioni  edilizie, per
 l'ipotesi  che   entro   novanta   giorni   "non   venga   comunicato
 all'interessato  il  provvedimento  di  diniego"  (primo comma, ed in
 connessione terzo comma, e quarto comma), senza disporre  le  cautele
 minime  necessarie  ad  assicurare  la  salvaguardia  degli interessi
 pubblici, in violazione degli artt. 97, primo  comma,  9,  128,  117,
 primo comma, 118, primo comma, della Costituzione;
      dell'art.  8,  terzo  comma, in quanto nel nuovo testo del terzo
 comma,   dell'art.   4   d.l.   n.   398/1993    si    fa    divieto
 all'amministrazione   in   termini   assoluti   di   richiedere,  ove
 necessarie,  "ulteriori  integrazioni  documentali",  in   violazione
 dell'art. 97, primo comma, della Costituzione;
      dell'art.   8,   settimo   comma,   in   quanto  attribuisce  la
 giurisdizione sulla responsabilita'  per  danno  del  sindaco  e  del
 responsabile  del procedimento per illegittimo diniego di concessioni
 edilizie alla  giurisdizione  esclusiva  del  giudice  amministrativo
 senza provvedere alle necessarie modifiche delle regole processuali e
 senza  il  necessario  coordinamento con la giurisdizione del giudice
 ordinario per la responsabilita' dell'amministrazione, in  violazione
 degli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione;
   Il  d.l.  26 luglio 1994, n. 468, qui impugnato, contiene numerose
 disposizioni, che concettualmente  conviene  distinguere  in  diverse
 categorie.  Da  una  parte,  esso  costituisce  una riapertura ed una
 estensione agli immobili costruiti abusivamente sino a  tutto  il  31
 dicembre 1993 del condono edilizio introdotto come misura eccezionale
 ed una tantum con la legge statale n. 47/1985. Dall'altra parte, esso
 introduce  alcune  innovazioni nella disciplina urbanistica generale.
 Infine, esso contiene talune disposizioni non riportabili  a  nessuna
 delle due categorie, e segnatamente talune disposizioni in materia di
 lavori pubblici.
    In  tutti  i  propri  ambiti  di intervento esso tuttavia contiene
 disposizioni costituzionalmente illegittime sia perche' costituiscono
 diretta violazione delle prerogative  costituzionali  delle  regioni,
 sia  perche'  costringono  l'attivita'  legislativa ed amministrativa
 delle regioni stesse  a  svolgersi  entro  un  quadro  normativo  per
 diversi   aspetti  costituzionalmente  illegittimo,  ed  ad  assumere
 percio' esse stesse contenuti illegittimi.
    L'illustrazione di quanto affermato deve necessariamente condursi,
 in ossequio  a  regole  logiche  e  processuali,  analiticamente  per
 singoli punti, all'interno dei profili sopra individuati.
    Sia  consentito  soltanto  in  termini  generali  di rilevare come
 l'intera disciplina statale qui impugnata, destinata a disciplinare -
 anche se in concreto a stravolgere -  una  materia  che  sia  per  il
 profilo urbanistico che per il profilo dei lavori pubblici pressoche'
 integralmente   spettante   alla   responsabilita'   delle   regioni,
 paradossalmente non contenga neppure una volta la  parola  "Regione",
 ed  in  realta'  neppure  indirettamente  si  riferisca mai ai poteri
 legislativi ed amministrativi regionali.
    Nella   "nuova"   disciplina   tutto   e'   concepito   come    se
 l'organizzazione   istituzionale  ed  amministrativa  italiana  fosse
 quella  precostituzionale,  con  i  comuni  quali  diretti  terminali
 periferici delle amministrazioni ministeriali.
    Ne'  la  rilevazione  di tale paradosso e' dovuta ad una egoistica
 percezione delle proprie prerogative costituzionali  da  parte  delle
 stesse e sole regioni interessate: sia consentito rilevare qui, nella
 narrativa  generale,  che  e'  in questi giorni proprio il presidente
 dell'Istituto nazionale di urbanistica - Istituto autorevole e  certo
 mai  pregiudizialmente  favorevole  alle  regioni  -  a ricordare che
 mentre "vari ministri  risultano  impegnati  alla  definizione  della
 riforma  federalistica  dello  Stato",  non  solo  la  "centralistica
 concezione" del d.l. qui impugnato "e' in netta contraddizione con i
 principi  di  tale  riforma",  ma  addirittura,  come  sopra  notato,
 "l'esistenza   delle   regioni  e'  ignorata  e  le  loro  competenze
 costituzionali in  materia  urbanistica  espropriate"  (cosi'  in  Il
 Sole-24 Ore del 3 agosto 1994).
    Cio' dicendo, non si vuole certo attribuire all'Istituto nazionale
 di   Urbanistica   improprie   competenze  o  autorita'  in  tema  di
 accertamento della legittimita' costituzionale delle leggi,  ma  solo
 segnalare   come   le   illegittimita'   del   decreto   siano  cosi'
 macroscopiche  e  palesi  da  essere  percepite  con   nitidezza   ed
 immediatezza, prima ancora che dai giuristi, dall'opinione pubblica e
 professionale piu' qualificata ed avvertita.
    1.  -  Illegittimita'  costituzionale dell'art. 1, primo comma, in
 connessione con il secondo comma), in quanto, in violazione dell'art.
 97, primo comma,  dell'art.  117,  primo  comma,  dell'art.  3  della
 Costituzione  nonche'  dei  principi  fondamentali  strutturali dello
 Stato di diritto riapre ed estende i termini del condono edilizio.
    L'art. 1, primo comma, del decreto impugnato  stabilisce  che  "le
 disposizioni  di  cui al capo IV e V della legge 28 febbraio 1985, n.
 47, e successive modificazioni  e  integrazioni,  come  ulteriormente
 modificate  dal presente decreto, si applicano alle opere abusive che
 risultano ultimate entro il 31 dicembre 1993".
    In concreto, la norma riapre ed  estende  i  termini  del  condono
 edilizio.  Da  una  parte,  esso  consente  una nuova possibilita' di
 condono a chi non  soltanto  avesse  compiuto  illeciti  edilizi,  ma
 avesse  anche  ritenuto  di  non sottoporsi al condono previsto dalla
 legge n. 47/1985, e fosse percio' ricaduto nelle specifiche  sanzioni
 comminate  dall'art.  40, primo comma: che vengono percio' vanificate
 nel loro unico possibile ambito di applicazione.   Dall'altra  parte,
 la  disposizione apre la possibilita' di condono a tutti coloro per i
 quali il precedente condono era stato non - come nella  logica  della
 norme  e nelle intenzioni del legislatore - il momento di chiudere la
 stagione delle illegalita', ma il momento di aprire una nuova  catena
 di  illegalita'  ed  abusi:  soggetti  i  quali, vista la prima falla
 aperta nel sistema della protezione dei beni e valori territoriali ed
 urbanistici dal condono del  1985,  si  sono  sentiti  autorizzati  a
 pensare  che anche il nuovo sistema di regole urbanistiche introdotte
 dalla stessa legge n. 47/1985 non fosse da prendere sul serio, e  che
 anche   il   nuovo  sistema  di  drastiche  sanzioni  introdotte  dal
 legislatore non fosse che una vuota minaccia utile soltanto a fermare
 i cittadini timorosi, e si  sono  sentiti  ugualmente  autorizzati  a
 sperare  che  il loro comportamento abusivo ed illegale, avrebbe alla
 fine meritato loro non la sanzione minacciata, ma  un  premio  ed  un
 privilegio,  consistente  nella  possibilita'  di  conservare il bene
 illecitamente ottenuto e di trarne ogni possibile  provento,  purche'
 accettino   di   pagare   una   somma   di  danaro  a  quella  stessa
 amministrazione  pubblica  che  avrebbe  dovuto  essere   invece   lo
 strumento  per  l'irrogazione  delle  sanzioni.   I cittadini comuni,
 invece, si vedono doppiamente puniti: da una parte per essere rimasti
 privi di quei beni edilizi che anch'essi avrebbero  potuto  e  voluto
 costruire,  ma  che  non  hanno  costruito  non  avendo  ottenuto  il
 necessario permesso; dall'altra per essere  costretti  ormai  in  via
 permanente  a  subire  il  degrado urbanistico ed ambientale prodotto
 dalle illegalita' edilizie altrui.  Ingiusto e discriminatore per  il
 passato,  il nuovo condono non lo e' di meno per il futuro. Una volta
 reiterato, infatti, ed uscito  percio'  da  quella  eccezionalita'  e
 singolarita'  che  caratterizzava  il  primo,  l'istituto del condono
 tende a farsi sistema. La stessa tecnica  legislativa  seguita  rende
 manifesto  cio':  non  e' stato piu' necessario scrivere la legge sul
 condono, e' bastato, salve talune integrazioni e modifiche,  richiare
 le  "classiche"  disposizioni  della  legge  n.  47/1985.  Il condono
 edilizio si e' fatto ormai istituto giuridico tra gli altri, anche se
 di applicazione  non  ordinaria  ma  "speciale",  nel  senso  tecnico
 giuridico di istituto applicabile soltanto quando sia previsto da una
 specifica  legge.    D'altronde,  se si ammette la reiterazione, e si
 esce percio' dalla logica della  eccezionalita'  e  singolarita'  che
 caratterizzava  il  primo  condono,  sullo  stesso piano dell'equita'
 sostanziale si tolgono le basi per una reale  applicazione  anche  in
 futuro delle severe sanzioni previste dalla legislazione urbanistica.
 Se  a  chi  ha  compiuto  abusi  entro  il  1985 e' stato concesso, a
 pagamento, il premio del godimento e mantenimento  dell'abuso,  e  se
 altrettanto  avviene  per  chi  abbia  commesso abusi sino a tutto il
 1993, in base a quale principio potrebbe  risultare  giusto  ed  equo
 sottoporre  a  gravose  sanzioni  chi  commetta  abusi equivalenti in
 futuro? Non si potra' neppure  rispondere,  a  chi  faccia  valere  i
 precedenti  per  reclamare  l'impunita', che ben si sapeva che non ci
 sarebbero stati altri condoni: perche' la stessa cosa era stata detta
 solennemente,  anche  se  oramai  vanamente,  all'atto   del   primo.
 D'altronde, per quale ragione le amministrazioni preposte alla tutela
 dovrebbero  in  futuro  mostrarsi  efficaci e diligenti nel reprimere
 l'illegalita' e l'abusivismo, dopo aver visto  ogni  loro  precedente
 sforzo  frustrato  e  vanificato,  si  vorrebbe  dire  irriso,  dalla
 reiterazione del condono, e con la piu' che fondata attesa che  anche
 i nuovi sforzi subirebbero la stessa ingloriosa fine?.
    Gli  evidenti  effetti  del  nuovo  condono  sono  esattamente  il
 contrario  degli  scopi  che  il  d.l.  impugnato   dichiara   nella
 "relazione"  di  accompagnamento di voler perseguire: come infatti si
 potra'  "evitare  che  riprendano  in  maniera  diffusa  fenomeni  di
 abusivismo  e  venga  portato  ad  ulteriori livelli inaccettabili lo
 scempio dell'ambiente e del patrimonio artistico e culturale"  se  in
 primo  luogo  si  consente  agli  autori  di  quegIi stessi lamentati
 misfatti di  goderne  il  premio?    Come  si  intende  rimediare  al
 risultato  dichiarato  del  condono  del 1985, cioe' al "risultato di
 paralizzare gli uffici tecnici locali" (tanto che, come pure si dice,
 per circa il novanta per cento dei  casi"  le  pratiche  relative  al
 condono  del  1985  sono  ancora  in  corso)  e di "incitare un nuovo
 abusivismo edilizio",  facendo  affluire  sugli  stessi  enti  locali
 ulteriori migliaia di nuove pratiche di condono?
    E'  evidente  invece  che  la reiterazione del condono scardina il
 sistema della  legalita',  viola  il  principio  di  uguaglianza  dei
 cittadini,   persino   privilegia   l'illegalita'   sulla  legalita',
 impedisce  il  normale  ed  ordinario  funzionamento  della  pubblica
 amministrazione,  produce  le  condizioni  per  un  ulteriore degrado
 ambientale ed amministrativo.   In termini giuridici  definitori,  il
 primo  e sinora unico condono edilizio era stato fatto autorevolmente
 rientrare tra i provvedimenti espressione del  "potere  di  clemenza"
 dalla  stessa  Corte  costituzionale con la sentenza n. 369/1988. Sia
 consentito osservare che per la verita' e' lecito  dubitare,  se  non
 dell'esattezza,  almeno  della esaustivita' di tale rappresentazione.
 Nella stessa sentenza ora citata autorevolmente si osservava come  il
 "legislatore  moderno,  repentinamente  destando  la  dottrina  e  la
 giurisprudenza" avesse mostrato come la "punibilita'"  possa  "essere
 usata  per  ottenere  dall'autore dell'illecito prestazioni 'utili' a
 fini spesso estranei  alla  tutela  del  bene  'offeso'  dal  reato":
 sicche'   "facendo   balenare   all'autore   dell'illecito  punibile,
 l'esclusione  o  attenuazione  della  punibilita',   il   legislatore
 'orienta',  'dirige'  la  condotta  del  reo  susseguente al reato al
 raggiungimento  di  fini  dallo  stesso  legislatore   'desiderati'".
 Risulta  evidente  percio'  che  la  "clemenza"  non e' la vera causa
 dell'estinzione della punibilita' (non importa qui  se  penale,  come
 nel  testo  citato,  o  amministrativa,  come  piu'  rileva  per  gli
 interessi della ricorrente regione), e che al di  la'  dell'apparente
 clemenza  appare  una "causa di scambio" in termini piu' semplici, ma
 realistici, "clemenza" contro danaro.
    D'altronde, che la  causa  del  decreto  qui  impugnato  sia  tale
 risulta  dalla stessa relazione ufficiale, la quale, dopo le inesatte
 e  improprie  dichiarazioni   di   scopo   sopra   illustrate,   piu'
 concretamente  illustra  come  dal provvedimento sia da attendersi un
 gettito   definito   appunto   "rilevante",   e   piu'   precisamente
 qualificato,  per  la  sola  parte  di oblazione, in oltre undicimila
 miliardi.  Piu' che ad un puro provvedimento di clemenza, il  condono
 assomiglia  dunque, salvo che per l'oggetto profano, a quelle vendite
 di  indulgenze  che  nella  prima  eta'  moderna  risultarono   cosi'
 rilevanti  per  la  storia  civile e religiosa.   Ora, che il sistema
 della finanza pubblica si trovi attualmente nella situazione dolorosa
 e deplorevole che viene spesso segnalata, e' un fatto certo;  ma  che
 tale fatto autorizzi lo Stato allo "scambio" tra illegalita' edilizia
 e  pre'stazioni  in  danaro  non  puo'  altrettanto  certamente dirsi
 ammesso dalla Carta costituzionale, e corrispondente alla  tutela  di
 quei  valori  irrinunciabili  che  la  stessa  carta  protegge.    Al
 contrario, proprio la condizione disastrosa  della  finanza  pubblica
 non  puo' non avvisare della circostanza che, se tale scambio dovesse
 essere riconosciuto come costituzionalmente legittimo  e  consentito,
 ad  esso fatalmente ed inevitabilmente si tornerebbe a ricorrere ogni
 volta   che   le   stime   di   probabile   gettito   lo   rendessero
 "consigliabile".    Ma  basta  enunciare tale prospettiva per rendere
 evidente come essa drasticamente ripugni  ai  valori  costituzionali,
 trasformi  l'imperativo  della legalita' in una mera facolta' per chi
 voglia semplicemente vivere tranquillo,  trasformi  la  tutela  degli
 interessi  pubblici  e  dei  valori  costituzionali  cui  lo Stato e'
 chiamato in un termine meramente economico, rimpiazzabile per veri  o
 presunti  equivalenti  monetari, secondo la necessita' dei governanti
 di trarre fondi dai governati  senza  loro  troppo  dispiacere.    La
 stessa  sentenza costituzionale n. 369/1988, sopra richiamata, poneva
 il problema dei "vincoli costituzionali al potere di clemenza".  Essa
 lo  poneva  con  riferimento soprattutto al profilo della punibilita'
 penale,  mentre  la  ricorrente   regione,   nella   sua   veste   di
 rappresentante  degli  interessi  urbanistici della propria comunita'
 territoriale, oltre che di titolare di poteri e funzioni in  materia,
 e'  interessata  maggiormente al profilo della salvaguardia, appunto,
 di tali interessi urbanistici e territoriali.
    Non pare dubbio tuttavia che i limiti  enunciati  in  quella  sede
 rimangano  comunque  validi,  ed  anzi,  si  consenta di soggiungere,
 vadano intesi ancor piu' restrittivamente quando si ponga il problema
 non della clemenza in astratto, ma della legittimita'  costituzionale
 dello  scambio  tra accettazione del comportamento illegale e danaro,
 quando il comportamento illegale si sia  tradotto  in  compromissioni
 dell'assetto  edilizio ed urbanistico, e quando dunque l'accettazione
 dell'illegalita'  si  traduca  nella  definitiva  accettazione  della
 degradazione di tali valori.
    Da questo punto di vista, occorre  sottolineare  come  il  condono
 edilizio  non  sia  in  nessun modo assimilabile ad altri condoni che
 pure comportino "clemenza" penale, quali i condoni fiscali.  Infatti,
 se anche per questi si pone indubbiamente il problema del complessivo
 sovvertimento  della  legalita',  e  dell'incoraggiamento che da essi
 deriva a nuove illegalita',  va  pero'  osservato  che,  nell'oggetto
 specifico,  si  tratta  di  una  rinuncia ad una pretesa economica in
 vista di una diversa, e sia pure piu' ridotta, pretesa economica.  In
 altre parole, sia la pretesa  originaria  che  quella  derivante  dal
 condono  si  riferiscono  sempre  a somme di danaro: di modo che, pur
 ferma ogni riserva ed ogni limite, la  questione  acquista,  nel  suo
 oggetto  specifico,  un  connotato  quasi di transazione ordinaria in
 relazione ad una  lite  patrimoniale.    Il  condono  edilizio  opera
 invece,  anche  nel  suo  oggetto  specifico,  su  beni  e  interessi
 indisponibili e costituzionalmente  tutelati  della  comunita'.  Tali
 beni,  costituzionalmente protetti sia direttamente in se stessi, sia
 indirettamente mediante un  equilibrato  riparto  di  competenze  tra
 diversi  livelli  di  responsabilita' territoriale, appartengono alla
 comunita' e non possono in linea di principio  essere  scambiati  con
 "denaro"  da  nessun  livello  di  governo,  senza contraddire quella
 "gerarchia  di  valori"  sottolineata  proprio  nella  giurisprudenza
 costituzionale.
    Ed  e'  percio',  ad  avviso della ricorrente regione, che occorre
 partire da una valutazione costituzionale tendenzialmente negativa, e
 valutare con rigore se ed in che misura possano esistere  presupposti
 legittimanti   che   conducano   a  superare,  in  singoli  casi,  la
 illegittimita' di principio.
    Ma  sembra  chiaro  che  nel  caso  in  esame   tali   presupposti
 ostituzionali  legittimanti devono essere drasticamente esclusi.  Non
 solo,  infatti,  nella  citata  sentenza,  la  Corte   costituzionale
 osserva,  in  termini  generali,  che "la 'non punibilita'' e la 'non
 procedibilita'', di cui ai  moderni  condoni  penali,  specie  quando
 'cancellano'  reati  lesivi  di beni fondamentali della comunita', va
 usata negli stretti limiti consentiti dal sistema costituzionale", ma
 piu' specificamente rileva che il  fenomeno  puo'  giustificarsi,  in
 sostanza,  in  circostanze eccezionali, quando il legislatore intenda
 imprimere un nuovo orientamento alla disciplina di una materia, e sia
 percio' quasi necessitato, nel 'cancellare' il passato,  ad  incidere
 sulle   sanzioni   penali   poste   a  rafforzamento  delle  sanzioni
 extrapenali" (punto 5 in diritto).  Ma nel nostro caso nulla di tutto
 cio' si verifica, dato  che,  salvi  gli  aggiustamenti  procedurali,
 rimangono   immutati   i   cardini   fondamentali   della  disciplina
 urbanistica, immutati i comportamenti leciti o illeciti, immutate  le
 sanzioni.    Se  poi si considera la ratio della citata sente'nza con
 riferimento specifico al condono edilizio, risulta  evidente  che  la
 ragione  per  la  quale  la  Corte  costituzionale  ne ha ritenuto la
 legittimita' sta appunto nei concetti di eccezionalita' e soprattutto
 di singolarita', nella natura assegnata al  condono  di  irripetibile
 punto  di cesura tra un passato da sistemare con le misure di condono
 ed un futuro posto su basi ormai certe e sicure, nella natura percio'
 del condono di punto di partenza di una nuova legalita'.
    Ma e' evidente che tutto cio' non si puo' reiterare, quando ancora
 il primo condono non e' sostanzialmente concluso (la stessa relazione
 ricorda  che  il  novanta  per  cento  delle  pratiche  non e' ancora
 definita in via amministrativa; per non dire di  tutta  l'inevitabile
 fase contenziosa) senza ridicolo, e soprattutto senza naufragio degli
 irrinunciabili valori costituzionali.
    Cosi'  la  legge  del  1985  e'  stata  ritenuta  non  contraria a
 costituzione proprio in quanto  essa  poneva  (punto  6  in  diritto)
 "'sicure'  basi  normative  per  la  repressione  futura  di atti che
 violano fondamentali esigenze sottese al governo del territorio, come
 la sicurezza dell'esercizio dell'iniziativa economica  privata  (art.
 41,  secondo  e terzo comma, della Costituzione), la funzione sociale
 della proprieta' (art. 42,  secondo  comma,  della  Costituzione)  la
 tutela  del  paesaggio  e  del  patrimonio storico artistico (art. 9,
 secondo comma, della Costiuzione) ecc." (punto 6 in diritto). Ancora,
 la Corte ha rilevato come andasse "nettamente distinto,  nella  legge
 in  esame,  cio' che attiene al futuro, nel quale il legislatore, nel
 riordinare la materia, non ammette in alcun  modo  sanatorie  per  le
 opere  contrastanti  con  gli  strumenti  urbanistici,  da  cio'  che
 riguarda il passato".  Ne' la legge e' minimamente mutata  sul  punto
 di cio' che, nel regime ordinario, e' sanabile.  Insomma, il, condono
 della  legge  n.  47  poteva  e  pote' considerarsi legittimo solo in
 quanto considerato eccezionale  e  singolare,  pegno  definitivo  del
 superamento  di  una fase passata e di apertura di una nuova fase del
 diritto urbanistico, ormai certo ed irretrattabile.  Se  si  pone  in
 discussione,  in  diritto  o  in fatto, questo assetto di interessi e
 valori, si pone semmai in forse (smentendo in fatto  l'argomentazione
 della  Corte)  la  sostanziale  legittimita'  ed  efficacia di quello
 passato,  ma  non  si  giunge  certo  a   fondare   la   legittimita'
 costituzionale  di un nuovo condono.  In questo contesto non sia fuor
 di luogo notare che dunque il nuovo  condono  edilizio  drasticamente
 contraddice, senza minimamente mutarli sul piano generale, i principi
 ed i valori della normativa urbanistica: il principio per cui si puo'
 costruire  solo  nel  rispetto  della  regole,  e si puo' ottenere la
 sanatoria ordinaria solo a rigide e precise condizioni (art. 13 della
 legge  n.  47/1985),  il  principio  per  cui  le  illegalita'  vanno
 combattute e represse, il principio cardine per cui l'illegalita' non
 deve  comunque andare a beneficio di chi l'ha commessa, principio nel
 quale  sta  il  fondamento  razionale  dell'acquisizione  alla   mano
 pubblica  degli  immobili  abusivi.    Tali  principi sono quelli che
 secondo la Costituzione vincolano le  regioni  nella  propria  azione
 legislativa  ed  amministrativa.  Ma  cio' che la Costituzione impone
 alle regioni si impone ugualmente allo Stato: libero esso di innovare
 e dettare nuovi principi, non puo' tuttavia stracciare tali  principi
 in  singoli  casi  o per singoli periodi di tempo, senza violare ogni
 complessivo quadro di  riferimento  della  legalita'  costituzionale,
 dettando  "norme"  derogatorie  per classi di casi gia' conclusi, che
 non possono che qualificarsi come norme di ingiustificato privilegio.
 Tali norme illegittimamente spogliano i pubblici  poteri  delle  loro
 facolta'  di  reprimere  gli  abusi,  ed  addirittura assicurano agli
 autori beni che secondo le regole sanzionatorie ordinarie  sono  gia'
 entrati  nel  patrimonio pubblico.  Sotto ognuno dei profili indicati
 emerge   la   complessiva   illegittimita'    costituzionale    della
 reiterazione ed estensione del condono edilizio.
    2.  -  Illegittimita' costituzionale dell'art. 1, decimo comma, in
 quanto assimila il  silenzio  delle  amministrazioni  di  tutela  dei
 vincoli  ad  un  parere  favorevole,  in violazione deqli artt. 3 e 9
 della   Costituzione,    del    principio    del    buon    andamento
 dell'amministrazione e del principio generale di ragionevolezza.
    Il comma 10 dell'art. 1, dispone (integrando l'art. 32 della legge
 n. 47/1985) che quando la domanda di condono si riferisca ad opere su
 aree sottoposte a vincolo, ivi comprese quelle realizzate nei parchi,
 ed  il  condono  stesso  sia percio' subordinato al parere favorevole
 dell'autorita' di tutela, tale  parere  "si  intende  reso  in  senso
 favorevole" qualora esso non venga formulato entro centoventi giorni.
 E' evidente che la contestazione della legittimita' costituzionale di
 tale   disposizione   si  pone  su  un  piano  diverso  e  del  tutto
 subordinato, rispetto a quanto  sopra  argomentato.  Tuttavia,  anche
 tale  specifica  illegittimita'  e'  per  se'  grave  ed  agevolmente
 rilevabile.   Va rilevato intanto che  attualmente,  diversamente  da
 quanto avveniva nel 1985, la posizione dei pareri nel procedimento ha
 trovato,   proprio   per  l'aspetto  che  qui  interessa,  disciplina
 generale. Dispone infatti l'art. 16,  primo  comma,  della  legge  n.
 241/1990  che  "ove  debba essere obbligatoriamente sentito un organo
 consultivo, questo deve emettere il proprio parere entro  il  termine
 prefissato" o, in mancanza, entro novanta giorni; ed il secondo comma
 specifica  che "in caso di decorrenza del termine senza che sia stato
 comunicato  il  parere  ..  e'   in   facolta'   dell'amministrazione
 richiedente  di  procedere  indipendentemente  dall'acquisizione  del
 parere".  Il terzo comma precisa tuttavia che le disposizioni di  cui
 ai  primi  due  commi "non si applicano in caso di pareri che debbano
 essere rilasciati da amministrazioni preposte alla tutela ambientale,
 paesaggistico territoriale e della salute dei cittadini".  Dunque, in
 via ordinaria e' dettata una disciplina generale  che  privilegia  la
 speditezza  dei  procedimenti, consentendo all'amministrazione attiva
 di procedere anche in caso di inerzia dell'organo consultivo; ma tale
 principio non si applica in caso di' pareri finalizzati  alla  tutela
 di  una  serie  di  valori,  che  il legislatore, in ossequio al loro
 particolare valore costituzionale e alla rilevanza per  i  cittadini,
 privilegia rispetto alla stessa speditezza del procedimento.  Ora, se
 cio'  vale  per  la  procedura ordinaria, a maggiore ragione dovrebbe
 valere in una procedura come quella  relativa  al  condono  edilizio:
 nella  quale  colui che richiede la sanatoria si trova per sua stessa
 ammissione in una condizione di illegalita', nella quale  non  si  e'
 verosimilmente  curato  dei  valori  ambientali  o  di  altri  valori
 privilegiati.   Sembra  anche  troppo  ovvio  che  da  una  parte  la
 disposizione  in esame rende del tutto eventuale la tutela dei valori
 costituzionalmente  protetti,  dall'altra  che  tale   soluzione   e'
 altresi'  irragionevole,  costituendo  un  privilegio  favorevole per
 l'autore di un abuso, rispetto a colui  che  versi  nella  situazione
 ordinaria di legalita' e di controllo preventivo.
    Inoltre,  la  disposizione e' anche intrinsecamente irragionevole.
 Infatti, se un parere richiesto dalla  legge  tarda,  il  legislatore
 potra',  se  lo  ritiene  opportuno, e salvi i limiti ora illustrati,
 consentire all'autorita'  che  deve  provvedere  di  farlo  anche  in
 assenza  del  parere:  con  il  risultato che l'autorita' provvedente
 riassorbira'  in   se'   e   decidera'   anche   esercitando   quella
 discezionalita' che il parere avrebbe trattato.
    Ma  non  puo'  il  legislatore,  senza far violenza alla realta' e
 ledere la tutela dei valori costituzionali, trasformare  il  silenzio
 in  un presunto "parere favorevole": assegnando dunque al silenzio il
 compito di orientare positivamente la  decisione  dell'autorita'  che
 provvede, che si troverebbe praticamente vincolata ad una valutazione
 positiva  che  non  esiste  e non e' stata resa. Di qui un profilo di
 ulteriore irragionevolezza e di contrasto con il  principio  di  buon
 andamento dell'amministrazione.
    3.  -  Illegittimita'  costituzionale  dell'art. 2, primo comma, e
 della connessa tabella, in quanto omette di prevedere  una  categoria
 di contribuzione per la opere di restauro e risanamento conservativo,
 quando   tali   opere  nel  regime  ordinario  sarebbero  soggette  a
 concessione onerosa in quanto non rientranti nelle  ipotesi  previste
 dall'art.  9  della legge n. 10/1977 (edifici unifamiliari e restauri
 convenzionati)  e  dall'art.  7  del  d.l.   n.   9/1982   (recupero
 abitativo),  in  violazione  dell'art.  3  e  97,  primo comma, della
 Costituzione.  Sempre in via subordinata  alla  questione  principale
 relativa  al  condono,  va  osservato che il decreto impugnato sembra
 omettere di prevedere una categoria di contribuzione per talune opere
 abusive,  e  precisamente   per   le   opere   costituenti   restauro
 conservativo, quando queste siano soggette a concessione onerosa.  E'
 probabile  che  l'omissione  sia  dovuta all'opinione che il restauro
 conservativo non sia soggetto a concessione onerosa.  Tuttavia,  cio'
 non  appare  esatto,  dato  che  il  legislatore sottrae al principio
 generale della soggezione  a  concessione  e  della  onerosita'  solo
 talune  fattispecie di restauro, indicate in epigrafe.  Se il rilievo
 e' fondato, la mancata previsione di una apposita  contribuzione  per
 le  altre  fattispecie  discrimina  in  modo favorevole gli autori di
 certi abusi, in violazione dell'art. 3 della Costituzione.
    4. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, secondo comma,  in
 quando   affida  al  Ministro  dei  lavori  pubblici,  anziche'  alle
 competenti regioni, la determinazione dei criteri di formazione e dei
 contenuti dei programmi di intervento per il rientro  dell'abusivismo
 di  necessita',  in  violazione  degli artt. 117, primo comma, e 118,
 primo comma, della Costituzione.
    L'art. 3, primo comma,  prevede  che  "i  comuni,  ai  fini  della
 realizzazione  di  programmi  di  intervento  ..  individuano le zone
 maggiormente interessate dall'abusivismo, con particolare riferimento
 agli immobili utilizzati come abitazione primaria".  Il secondo comma
 prevede che sia il Ministro dei lavori pubblici  a  determinare  "con
 proprio  decreto, i criteri di formazione e i contenuti dei programmi
 di   intervento,   nonche'   le   modalita'   di   concessione    dei
 finanziamenti".   A parte il carattere intrinsecamente criticabile di
 una disciplina  che  non  definisce  neppure  ad  un  livello  minimo
 l'oggetto  ed  i  contenuti  dei  programmi  comunali  di intervento,
 lasciando  solo  supporre  che  si  tratti  di  programmi  di  lavori
 pubblici, non potrebbe essere piu' evidente la lesione dell'autonomia
 legislativa  ed  amministrativa delle regioni.   Qui semplicemente il
 legislatore attribuisce al Ministro dei lavori pubblici i compiti che
 la Costituzione assegna alle regioni.  Ad esse spetta di  definire  i
 programmi  di  intervento  nei  loro  contenuti  e nelle modalita' di
 formazione, ad esse spetta di finanziare le relative spese,  ad  esse
 spetta  di  acquisire  e  destinare le risorse necessarie, qualora si
 tratti di interventi non rientranti  nella  finanza  ordinaria  delle
 regioni.    In  particolare,  lo  sviluppo  e la specificazione delle
 disposizioni  di  principio  statali  e'  il  compito  proprio  della
 potesta' legislativa regionale.  Ma  ugualmente  deve  dirsi  per  la
 potesta'  amministrativa  in materia di programmi di lavori pubblici,
 secondo  il  riparto  di  competenze  fissato,  in  attuazione  della
 Costituzione,  dagli  artt.  87 e 88 del d.P.R.  n. 616/1977.  Ne' si
 puo' invocare per un diverso riparto qualunque  interesse  nazionale.
 Il  fatto  e', come detto in premessa, che il legislatore del decreto
 n. 468 ha ragionato come se  l'articolazione  istituzionale  italiana
 fosse   oggi   ancora  quella  precostituzionale,  nella  quale  ogni
 incombenza di una certa rilevanza in materia di urbanistica e  lavori
 pubblici  era  in  sostanza  cogestita  tra i comuni interessati e il
 Ministero.  Che l'articolazione precostituzionale delle competenze  e
 degli  interventi  risulti,  se  riproposta  oggi,  incostituzionale,
 sembra   davvero   troppo   evidente   per    richiedere    ulteriore
 illustrazione.
    5.  -  Illegittimita'  costituzionale dell'art. 4, primo comma, in
 quando attribuisce al Ministro dei  lavori  pubblici.  anziche'  alle
 competenti   regioni,   gli   eventuali   poteri  sostitutivi  per  i
 provvedimenti  di  competenza  del  sindaco  mediante  la  nomina  di
 commissari  ad  acta,  in  violazione degli artt. 117, primo comma, e
 118, primo comma, nonche' dell'art. 130 della Costituzione.    L'art.
 4,  primo comma, dispone che "in caso di inadempienze il Ministro dei
 lavori pubblici, ai  fini  dell'attuazione  di  quanto  previsto  dal
 presente decreto, su richiesta del sindaco, del comitato regionale di
 controllo,  ai  sensi dell'art. 48 della legge 8 giugno 1990, n. 142,
 ovvero su segnalazione del prefetto competente per territorio, nomina
 un commissario ad acta per l'adozione di provvedimenti di  competenza
 del sindaco".  A parte l'apparente assurdita' della norma che prevede
 che il sindaco chieda al Ministro la nomina di un commissario ad acta
 per  adottare provvedimenti che lo stesso sindaco potrebbe e dovrebbe
 adottare (altrimenti infatti  non  ci  sarebbe  inadempienza),  e  la
 stravaganza  solo  leggermente  inferiore  di  quella  che assegna al
 comitato regionale di controllo il compito di chiedere al Ministro la
 nomina di un commissario che secondo le regole ordinarie dell'art. 48
 della legge 142/1990 dovrebbe nominare esso stesso,  la  disposizione
 risulta platealmente incostituzionale.  L'art. 130 della Costituzione
 dispone  che  il  controllo  sugli  atti  dei  comuni  e  province e'
 esercitato da un organo regionale, identificato dal  legislatore  nel
 Comitato  regionale di controllo.  Come sembra pacifico in dottrina e
 in giurisprudenza, l'attribuzione costituzionale si riferisce sia  al
 controllo  preventivo che a quello sostitutivo, ove se ne verifichino
 gli estremi.   La regola costituzionale e'  d'altronde  codificata  a
 livello  di legislazione ordinaria proprio dall'art. 48, primo comma,
 della legge n. 142/1990, cosi' impropriamente richiamato dal  decreto
 impugnato,  secondo il quale "qualora i comuni e le province, sebbene
 invitati a provvedere  ..  ritardino  o  omettano  di  compiere  atti
 obbligatori  per legge, il comitato regionale di controllo provvede a
 mezzo di un commissario". Il secondo comma  assegna  poi  alla  legge
 regionale  il  compito  di  disciplinare le modalita' di esercizio di
 tale potere.  Dunque, sia che la disposizione venga  intesa  come  un
 potere  aggiuntivo  a quello del comitato regionale di controllo, sia
 che  venga  intesa  come  un  potere  sostitutivo   di   questo,   la
 disposizione   risulta  incostituzionale.    Ugualmente  risulterebbe
 incostituzionale se si volesse considerare  il  potere  in  questione
 come potere di amministrazione attiva, anziche' di controllo, perche'
 esso  spetterebbe comunque all'autonomia amministrativa e legislativa
 delle regioni in relazione alla materia di intervento.
    6. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, secondo comma,  in
 quanto  attribuisce  al  Ministro  dei lavori pubblici, anziche' alle
 competenti regioni, il compito di stipulare accordi con il  Ministero
 della  difesa  per  l'utilizzazione delle strutture tecnico-operative
 del Ministero stesso per  le  opere  di  demolizione,  in  violazione
 dell'art.  118,  primo  comma, della Costituzione.   In ragione della
 materia (lavori pubblici e urbanistica) spetta alle regioni e non  al
 Ministro  dei  lavori pubblici, ed ancor meno ad organi periferici di
 esso,  di  stipulare  intese   relative   all'uso   delle   strutture
 tecnico-operative   del  Ministero  della  difesa  per  le  opere  di
 demolizione di edifici abusivi.   Il legislatore del  decreto  sembra
 credere  che,  poiche' si tratta di questioni coinvolgenti la difesa,
 la competenza regionale deve essere esclusa. Ma  qui  la  difesa  non
 c'entra  per  nulla,  e  il  problema  sta  tutto  nel  concordare le
 modalita'  per  l'attivita'  di  demolizione,  a  tutela  dei  valori
 urbanistici,  edilizi,  paesistici,  ambientali,  ecc.    L'attivita'
 amministrativa in relazione ad essi e' assegnata dalla Costituzione e
 dalle leggi alle regioni, ed esse possono svolgerla in collaborazione
 con altre amministrazioni, anche statali, secondo le regole generali,
 codificate ad esempio dall'art. 15 della legge n.  241/1990.  La sola
 cosa  che  richiede  intervento  dello  Stato   e'   l'autorizzazione
 legislativa  al Ministero della difesa di occuparsi di cio': infatti,
 la tutela dei valori sopra detti non  rientra  nei  compiti  ordinari
 delle  strutture  tecnico-operative  di  tale  Ministero,  e richiede
 percio' apposita previsione statale.  Su tale base, tuttavia,  rimane
 intatta  la  competenza regionale a tradurre anche tale intervento in
 attivita' operativa, stipulando con l'amministrazione della difesa le
 necessarie convenzioni sul piano locale.
    Al piu', potrebbe  ammettersi,  se  il  legislatore  lo  ritenesse
 necessario,  che  le  convenzioni  locali possano trovare un punto di
 riferimento in  convenzioni  quadro  a  livello  nazionale:  ma  ogni
 previsione  eccedente  questa  risulta  contraria  alle  attribuzioni
 costituzionali di competenza.
    7. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 6, decimo  comma,  in
 quanto  costringe  le  regioni  che volessero utilizzare la procedura
 prevista dallo stesso art. 6,  di  possibile  deroga  alle  norme  di
 "contabilita'",  a  "chiedere" al Ministro l'autorizzazione, anziche'
 direttamente   consentire   tale    possibilita',    in    violazione
 dell'autonomia  amministrativa  e legislativa regionale, e, in quanto
 assegna al Ministro a non  alle  regioni  competenti  il  compito  di
 autorizzare   le  amministrazioni  infraregionali  ad  utilizzare  la
 procedura di cui all'art. 6 per  le  opere  pubbliche  di  competenza
 regionale.
    L'art. 6 del decreto, sotto il titolo "definizione del contenzioso
 in   materia   di   opere   pubbliche"  individua  una  procedura  di
 riattivazione di opere di competenza statale  per  qualunque  ragione
 sospese,  anche di fatto.  Tale procedura e' avviata da una "istanza"
 del "ricorrente",  della  quale  si  dice  (ottavo  comma)  che  essa
 comporta rinuncia irrevocabile ad ogni possibile azione connessa alla
 sospensione, nonche' ad ogni pretesa, compresi i danni, gli interessi
 e  le  revisioni  prezzi  se dovute per il periodo dalla sospensione.
 Poiche'   tale  rinuncia  sembra  operare  a  prescindere  dall'esito
 dell'istanza  (sembra  cioe'  valere  anche  in  caso  di   suo   non
 accoglimento),  la disposizione si direbbe incostituzionale.  In ogni
 modo, sulla base dell'istanza  una  apposita  commissione  valuta  la
 situazione, formulando al Ministro le proposte conseguenti; e qualora
 "la  valutazione  si  concluda  con  esito  positivo  la procedura di
 affidamento  o  di  esecuzione  deve  essere  ripresa  e  portata   a
 conclusione,  anche in deroga alle norme di contabilita' dello Stato"
 (settimo comma). La disposizione  appare  oscura  e  la  possibilita'
 cosi'  indeterminata di deroga alle norme di contabilita' appare essa
 stessa di dubbia costituzionalita'.  Tale procedura riguarda in primo
 luogo, come detto, opere di competenza statale. Tuttavia,  il  decimo
 comma,  dello stesso art. 6 dispone che "le pubbliche amministrazioni
 .. possono chiedere al Ministro dei  lavori  pubblici  l'applicazione
 delle  disposizioni  di  cui  al  presente articolo alle procedure di
 affidamento e di realizzazione di lavori  di  rispettiva  competenza,
 ove ricorrano le condizioni indicate nel presente articolo". In altre
 parole,  e'  il  Ministro  a  decidere, in tali casi, se debba essere
 applicata la legislazione ordinaria (anche eventualmente regionale) o
 le regole derogatorie dell'art. 6.
    Tale disposizione si rivela illegittima sotto un duplice profilo.
    Da una parte, ed a prescindere da ogni valutazione specifica della
 procedura prevista dall'art. 6 in se'  considerata,  la  disposizione
 del  decimo  comma costringe le regioni che volessero utilizzare tale
 procedura, anziche' quelle previste in via ordinaria a "chiedere"  al
 Ministro l'autorizzazione, rendendo oltretutto il Ministro arbitro di
 decidere  se  vadano  o  meno applicate le stesse leggi regionali che
 disciplinano la materia dei  lavori  pubblici  e  della  contabilita'
 regionale.      E'  evidente  che  tale  potere  ministeriale,  e  la
 corrispondente soggezione regionale, sono abnormi, privi di ragione e
 di corrispondenza nelle regole costituzionali.  Se il principio della
 legislazione statale e' che per le opere sospese puo' essere  seguita
 una  speciale  procedura  derogatoria, per quanto riguarda le regioni
 ogni decisione al riguardo, qualora il legislatore statale non voglia
 stabilire direttamente tale possibilita' anche  per  esse,  non  puo'
 spettare   che   alle  stesse  regioni,  nel  rispetto  delle  regole
 costituzionali e statutarie.  Ma il decimo comma dell'art. 6 viola le
 prerogative regionali anche sotto un secondo  e  non  meno  rilevante
 profilo.  Esso in pratica attribuisce al Ministro dei lavori pubblici
 ogni  decisione  non  solo sulle regioni stesse, ma anche su tutte le
 amministrazioni che rientrano,  ai  fini  dei  lavori  pubblici,  nel
 "sistema regionale". In realta', sono tutte le amministrazioni locali
 interne  alla  regione  ad  essere  soggette  alle leggi regionali in
 materia di opere pubbliche. E' chiaro dunque che, una  volta  ammessa
 dal  legislatore  statale  la  possibilita' astratta di una procedura
 derogatoria, ogni decisione sull'applicazione di tale  procedura  nei
 singoli   ambiti   locali,  soggetti  alla  potesta'  legislativa  ed
 amministrativa regionale, non puo' spettare che alla stessa  regione,
 e  che ogni diversa statuizione si traduce in una grave lesione delle
 prerogative  costituzionali  della  regione.    8.  -  Illegittimita'
 costituzionale dell'art. 7, secondo comma, in quanto dispone, decorsi
 i  sessanta  qiorni  dall'ordine  di  sospensione  dei  lavori  senza
 ulteriori provvedimenti, la cessazione dell'efficacia dell'ordine del
 sindaco, senza disporre  o  consentire  nessuna  possibile  forma  di
 tutela  dell'interesse  pubblico,  in  violazione dell'art. 97, primo
 comma, e dell'art. 9 della Costituzione.   L'art. 7,  secondo  comma,
 del  decreto  impugnato  dispone, modificando ed integrando l'art. 4,
 terzo comma, della legge n.  47/1985, che decorsi i  sessanta  giorni
 dall'ordine  di sospensione dei lavori senza ulteriori provvedimenti,
 "l'ordine del sindaco perde  efficacia".    Cosi'  facendo  la  legge
 privilegia  in  modo  assoluto,  tra  i  due  interessi confliggenti,
 l'interesse  del  privato  ad  una  celere  definizione   della   sua
 posizione,  subordinando  completamente  ad esso l'interesse pubblico
 alla tutela dei valori urbanistici.
    La ricorrente regione Emilia-Romagna non nega che  ciascuno  degli
 interessi  in  gioco  sia degno di tutela, e non contesta in assoluto
 che sia possibile per il legislatore statale definire  un  equilibrio
 diverso  da quello fissato dal diritto sin qui vigente: ma dovra' pur
 sempre  trattarsi  di   un   equilibrio,   e   non   delle   semplice
 subordinazione dell'interesse pubblico a quello privato.
    D'altronde,  se  una  attenuazione  dell'efficacia  dell'ordine di
 sospensione dei lavori potrebbe  essere  comprensibile  qualora  essa
 venisse  riferita a violazioni urbanistiche minori, la sua estensione
 a   qualunque   trasgressione   di   regole    urbanistiche    appare
 ingiustificata  ed  abnorme: si pensi alle opere costruite in assenza
 di concessione o  in  totale  difformita',  o  addirittura  ad  opere
 costruite su aree assoggettate a vincoli di totale inedificabilita' o
 destinate  a  spazi  pubblici.    Sembra  assurdo,  in  tali ipotesi,
 consentire a chi ha intrapreso una costruzione radicalmente  illecita
 di  proseguire nella sua attivita', soltanto perche' il comune non ha
 provveduto  a  completare  l'iter  istruttorio  per  i  provvedimenti
 definitivi.  In effetti, le opere realizzate, a stare alla disciplina
 urbanistica,  dovrebbero  comunque  alla  fine  essere  demolite:  il
 vantaggio  di  poter  continuare nell'abuso e' tale dunque solo se si
 pensi che, una volta fatta  l'opera,  in  qualche  modo  essa  verra'
 "sanata", e dunque in una logica di condono permanente. Diversamente,
 infatti,  si  tratta  solo  di un costo sia per il privato che per la
 comunita'.  Inoltre, il legislatore non subordina la possibilita'  di
 continuare   nell'opera   intrapresa,   ed   oggetto  dell'ordine  di
 sospensione,  a  nessuna  tra  le  molte  possibili  cautele:   dalla
 costituzione  di  cauzioni,  a poteri sindacali di reiterare l'ordine
 per  gravi   motivi,   alla   presentazione   di   asseverazioni   di
 professionisti  terzi  attestanti,  sotto la loro responsabilita', la
 conformita'  dei  lavori  alle  previsioni  urbanistiche  e  la  loro
 regolarita'  sotto  il  profilo  dei permessi edilizi, ecc.  Insomma,
 mentre  sarebbe  altamente   utile   uno   strumento   di   effettivo
 contemperamento degli interessi, che consentisse, in certi casi e con
 determinate    modalita',    di   sottrarsi   all'eventuale   inerzia
 dell'amministrazione, la pura e semplice dichiarazione  di  decadenza
 dell'ordinanza  sindacale  di sospensione compromette gravissimamente
 l'interesse pubblico, senza giovare nella sostanza a quello  privato.
 Di  qui  l'illegittimita' costituzionale per violazione dell'art. 97,
 primo comma, della Costituzione, e dei principi di proporzionalita' e
 di ragionevolezza.
    8. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 7, quarto  comma,  in
 quanto  introduce la possibilita' di "monetizzare" gli abusi sui beni
 paesistici   e   storico-artistici   compiuti   mediante   opere   di
 ristrutturazione   edilizia,   in   violazione   dell'art.   9  della
 Costituzione.
    L'art.  7, quarto comma, del decreto impugnato, modificando l'art.
 9 della legge n. 47/1985, introduce la possibilita' di  "monetizzare"
 gli  abusi  sui beni paesistici e storico-artistici compiuti mediante
 opere  di  ristrutturazione  edilizia,  "quando  la  restituzione  in
 pristino  non  sia  possibile  o  non consenta il recupero dei valori
 tutelati".  Va ricordato che l'art. 9 della legge n.  47/1985,  prima
 della  modifica,  disponeva  norme  speciali  per  gli  interventi di
 ristrutturazione edilizia che  interessassero  i  beni  di  interesse
 storico-artistico  ovvero  di  interesse  paesistico  ambientale gia'
 tutelati dalle leggi del 1939 n. 1089 e n. 1497, prescrivendo che  in
 ogni caso l'autorita', oltre ad irrogare una sanzione pecuniaria fino
 a  dieci  milioni, ordinasse "la riduzione in pristino a cura e spese
 del responsabile dell'abuso, indicando criteri e modalita' diretti  a
 ricostituire  l'originario  organismo edilizio".  In altre parole, la
 legge considerava l'intervento abusivo di  ristrutturazione  edilizia
 come un intervento sempre reversibile: nel senso che anche in caso di
 distruzione   dovesse   sempre   essere   ricostituito  "l'originario
 organismo  edilizio".  Cio'  da  una  parte  tutelava  la   comunita'
 minimizzando  il  danno,  d'altra parte scoraggiava la produzione del
 danno stesso, dato che l'autore non avrebbe mai potuto conservare  il
 prodotto del proprio abuso.
    Sotto  questo aspetto, la disciplina dei beni storico-artistici si
 differenziava  e  si  contrapponeva  alla  tutela   "ordinaria":   in
 relazione  alla quale lo stesso art. 9 disponeva si', al primo comma,
 la rimessione in pristino, precisando  pero'  al  secondo  comma  che
 "qualora, sulla base di motivato accertamento comunale, il ripristino
 dello  stato  dei  luoghi"  si  rivelasse  "impossibile",  il sindaco
 avrebbe irrogato una sanzione pecuniaria pari al doppio  dell'aumento
 di valore realizzato.
    Si  aveva  cosi',  per  la  tutela  ordinaria  la  restituzione in
 pristino o, in caso di impossibilita', la  sanzione  del  doppio  del
 valore;  per  la  tutela  rafforzata  dei  beni  storico-artistici  e
 paesistici, la riduzione in  pristino  "secca"  oltre  alla  sanzione
 assoluta fino a 10 milioni.  La disciplina ora descritta non impediva
 affatto  che,  nel caso nel corso dei lavori venissero prodotti danni
 irrimediabili  a  beni  storico-artistici,   tali   danni   venissero
 addossati  al  loro  autore ai sensi dell'art. 59, terzo comma, della
 legge n.  1089/1939.    La  nuova  disciplina  recata  dall'impugnato
 decreto  introduce  e  disciplina  l'ipotesi  che "la restituzione in
 pristino non sia possibile o non  consenta  il  recupero  dei  valori
 tutelati",  e  per  essa prevede, accanto alla sanzione pecuniaria di
 cui s'e' detto, "il pagamento di una  indennita'  determinata  con  i
 criteri  e le modalita' previste dalle citate leggi 1 giugno 1939, n.
 1089, e 29  giugno  1939,  n.  1497".    Dunque,  mentre  nel  regime
 precedente,   la   tutela   delle  bellezze  protette  era  assoluta,
 richiedendosi in ogni caso la rimessione in  pristino,  ora  essa  e'
 "relativizzata",  dato che tale rimessione in pristino e' esclusa non
 in caso di "impossibilita'" (come gia' prima per le opere su beni non
 soggetti a speciale tutela) ma anche per il caso che la rimessione in
 pristino,  pur  possibile,  "non  consenta  il  recupero  dei  valori
 tutelati".
    Ne  consegue  che  oggi  la  tutela specifica dei beni protetti e'
 inferiore alla tutela ordinaria: perche' nei casi normali si evitera'
 la riduzione in pristino soltanto nei  casi  di  impossibilita',  nei
 casi  di  speciale  protezione anche quando la rimessione in pristino
 non consentirebbe il recupero dei valori tutelati. Gia' sotto  questo
 profilo  e'  evidente  la  contraddittorieta'  e l'assurdita' di tale
 normativa.
    Ma va in  aggiunta  considerato  che,  al  di  la'  dell'apparente
 neutralita',  il  concetto  di  "impossibilita'"  della rimessione in
 pristino e' un concetto che la stessa  esperienza  mostra  largamente
 opinabile: la giurisprudenza amministrativa ha in passato ammesso che
 nella  valutazione  di  tale "impossibilita'" entri la considerazione
 degli interessi in gioco (Cons. Stato, V, 19  gennaio  1979,  n.  29;
 Cons.  St.,  V,  18  novembre  1982,  n. 782, rispetto all'essere gli
 immobili gia' abitati; Cons. St., V, 15 aprile 1983, n. 127, rispetto
 all'esigenza di conservare il patrimonio  immobiliare  esistente),  e
 piu'  in  generale  ha  ammesso l'esistenza di una "discrezionalita'"
 (Cons. St., V, 27 marzo 1981, n. 113).   Sembra  dunque  chiaro  che,
 nella  realta'  del  diritto vivente, l'introduzione anche per i beni
 oggetto di speciale tutela della nozione  di  "impossibilita'"  della
 rimessione  in  pristino apre la strada a valutazioni che in concreto
 rappresentano una diminuzione di tutela. E cio' va  detto  a  maggior
 ragione  se all'ipotesi dell'impossibilita' di aggiunge quella, ancor
 piu' opinabile, di "recuperabilita'" dei  valori  tutelati.    Ma  la
 tutela  dei  beni  specialmente  protetti  rischia di rivelarsi ormai
 inferiore a quella ordinaria anche sotto il  profilo  della  sanzione
 pecuniaria.      Prima   della  modifica,  infatti,  era  chiaro  che
 nell'ipotesi di ristrutturazione edilizia abusiva su beni oggetto  di
 tutela  speciale non si applicava la sanzione del doppio dell'aumento
 di valore dell'immobile:  dato  che  tale  sanzione  presupponeva  la
 conservazione   delle  opere  realizzate,  esclusa  invece  nel  caso
 specifico dal terzo comma dell'art. 9.  In altre parole, il  richiamo
 alle "altre misure e sanzioni previste da norme vigenti" non sembrava
 nella  sua  formulazione  e  non  poteva  in  sostanza riferirsi alle
 sanzioni pecuniarie del comma precedente.
    Nella nuova  formulazione,  il  legislatore  mantiene  "ferme"  le
 sanzioni di cui al periodo precedente: cioe' quelle del vecchio terzo
 comma.  Ma  tali  sanzioni, come detto, non comprendevano la sanzione
 del secondo comma, ovvero il doppio dell'aumento di valore. E' dunque
 da ritenere, o da temere, che anche nella formulazione integrata  dal
 decreto  impugnato  le  sanzioni per i beni specialmente protetti non
 comprendano la sanzione prevista dal secondo comma.    Se  cosi'  e',
 anche  sotto  questo profilo la tutela dei beni specialmente protetti
 potrebbe rivelarsi complessivamente inferiore a quella  ordinaria,  e
 consentire  la  realizzazione  di  plusvalori  di notevole dimensione
 attraverso l'abuso, con la sola sanzione di dieci milioni nel massimo
 e del pagamento di una indennita'  commisurata  al  valore  del  bene
 distrutto.     Sembra  alla  ricorrente  regione  che  la  situazione
 descritta non corrisponda al principio di  uguaglianza,  tradotto  in
 questo  caso ne' al principio di una giusta proporzione delle tutele,
 ne' al principio di protezione del  patrimonio  storico  artistico  e
 paesistico,  che  trova  il  suo  punto  di  riferimento nell'art. 9,
 secondo comma, della Costituzione.
    9.  -  Illegittimita'  costituzionale  dell'art.  7, quinto comma,
 prima frase del nuovo testo dell'art. 11, primo comma, della legge n.
 47/1985, in quanto drasticamente riduce la  sanzione  per  chi  abbia
 costruito  sulla  base di concessioni annulllate, in violazione degli
 artt. 97, 24 e 9 della Costituzione.
    Il nuovo testo dell'art. 11 della legge n. 47/1985 dispone che  in
 caso  di annullamento della concessione, qualora non sia possibile la
 rimozione dei  vizi  di  legittimita'  della  procedura,  il  sindaco
 dispone  la riduzione in pristino e, qualora questa non sia possibile
 "una sanzione pecuniaria pari al triplo degli oneri di urbanizzazione
 relativi alle opere o loro parti abusivamente eseguite".
    Il testo precedente disponeva che, nello stesso caso,  il  sindaco
 avrebbe  applicato  una  sanzione  pecuniaria  "pari al valore venale
 delle opere o loro parti abusivamente eseguite".    E'  di  immediata
 evidenza  la  drastica  riduzione della sanzione, ormai ridotta a ben
 poco e del tutto slegata dal vantaggio economico che  il  costruttore
 tragga  dall'abuso.    Va  ricordato che la sanzione non si riferisce
 alle ipotesi di  illegittimita'  formale  (per  le  quali  opera  con
 evidenza  la rimozione dei vizi di legittimita'), ma ai veri e propri
 abusi  sostanziali,  commessi  dietro  lo  schermo   di   concessioni
 illegittime,  in  seguito  annullate proprio per tale illegittimita'.
 Una  prima  illegittimita'  della  nuova  disciplina  e'  agevolmente
 individuabile  nell'ingiusto vantaggio di cui gode il proprietario di
 un immobile per  il  quale  non  sia  possibile  la  restituzione  in
 pristino,  rispetto  al proprietario di un immobile per la quale tale
 restituzione sia possibile, come di norma  accade.    Se  infatti  e'
 possibile  la  restituzione  in  pristino,  il proprietario perde per
 intero il bene; se invece questa non e'  possibile  -  e  l'abuso  e'
 dunque  tanto  piu' grave per il fatto che risulta irrimediabile - il
 proprietario conserva il bene, ed e' soggetto soltanto alla  sanzione
 pari al triplo degli oneri di urbanizzazione.
    E'   ovvio  che  tale  assurda  situazione  costituisce  anche  un
 ulteriore  incentivo  a  rendere  "impossibile"  la  restituzione  in
 pristino,  o comunque un potente interesse a vedere riconosciuta tale
 impossibilita': mentre prima, giustamente, la legge  si  sforzava  di
 mantenere  la  parita'  delle  situazioni,  e  percio'  di  rendere i
 proprietari, nei limiti del possibile, "indifferenti"  rispetto  alla
 sanzione  demolitoria ovvero pecuniaria.  Ma e' in assoluto la stessa
 esiguita' della nuova sanzione a renderla  uno  strumento  del  tutto
 inidoneo  a  combattere  il rilascio di concessioni illegittime, e ad
 aumentare invece la  pressione  degli  interessati  ad  ottenere  con
 qualunque  mezzo una concessione purchessia, la cui sola esistenza di
 fatto elimina per il costruttore il rischio di dover subire rilevanti
 conseguenze per l'abuso. Non a caso la modifica di  cui  parliamo  e'
 stata  definita  a  livello  giornalistico  "un  vero  regalo per gli
 abusivi, in quanto la sanzione si riduce sino ad un  decimo  rispetto
 alle  precedenti  norme"  (Lunghini,  in  Il Sole - 24 Ore, 29 luglio
 1994, Guida al condono edilizio, Documenti 1).  Anche in questo  caso
 la   ricorrente  regione  non  contesta  la  possibilita'  e  persino
 l'opportunita' di migliorare la precedente disciplina, mitigandola ad
 esempio in caso  di  evidente  buona  fede  di  chi  ha  ottenuto  la
 concessione,  ed  in  caso non siano coinvolti gli interessi di altri
 soggetti che abbiano ottenuto l'annullamento in sede  giurisdizionale
 (soggetti  per  i  quali  la  nuova  disciplina  costituisce una vera
 lesione dei diritti  stessi  di  azione,  rendendola  nella  sostanza
 inutile e vana).
    Cio'  che  non  puo'  costituzionalmente  ammettersi  invece e' il
 sostanziale venir meno della portata sanzionatoria della disposizione
 in modo generale ed indifferenziato, senza riguardo ne' per la tutela
 degli interessi pubblici, ne' alla posizione di uguaglianza  per  chi
 invece  nella  stessa  situazione subisca la demolizione, ne' per gli
 interessi di altri privati, ne' per la situazione  di  buona  o  mala
 fede del costruttore.
    La  disposizione  si preoccupa invece dell'eventuale "dolo o colpa
 grave"  dell'amministratore  che  abbia  rilasciato  la   concessione
 illegittima,  per  ammettere  verso di esso una cosiddetta "azione di
 rivalsa" da parte del  costruttore  che  abbia  subito  la  sanzione:
 persino,  a  quel  che  sembra,  se  nello  stesso dolo o colpa grave
 versasse anche il costruttore.  10. -  Illegittimita'  costituzionale
 dell'art.  7,  quinto  comma, seconda frase del nuovo testo dell'art.
 11, primo comma, della legge n. 47/1985, concernente la sanzione  per
 il    caso   di   mancato   ripristino   della   destinazione   d'uso
 illegittimamente mutata, in violazione  dell'art.  97,  primo  comma,
 della  Costituzione,  nonche'  del  principio  di  proporzionalita' e
 ragionevolezza.  La seconda frase del nuovo  testo  del  primo  comma
 dell'art. 11 della legge n. 47/1985 dispone che "in caso di mutamenti
 di  destinazione  d'uso  in  contrasto  con  le norme degli strumenti
 urbanistici vigenti  ai  sensi  dell'art.  25,  ferma  l'applicazione
 dell'art.  9,  terzo  comma,  nei  casi  in  cui  il ripristino della
 destinazione  d'uso  non  trovi  luogo,  e'  irrogata   la   sanzione
 pecuniaria   pari  al  triplo  della  differenza  tra  gli  oneri  di
 urbanizzazione   relativi   all'immobile   secondo   le    previsioni
 urbanistiche   violate  e  quelli  corrispondenti  alla  destinazione
 dell'immobile realizzato in forza della concessione  e  comunque  per
 l'importo  non  inferiore a 2.000.000".   Va in primo luogo rilevato,
 per chiarezza, che il riferimento all'applicazione dell'art. 9, terzo
 comma, che rimarrebbe "ferma", sembra in realta'  privo  di  oggetto,
 dato  che  l'art. 25 della stessa legge n. 47/1985, la cui violazione
 la  presente  disposizione  sanziona,  si  riferisce  soltanto,  come
 esattamente  rilevato  dalla  Corte  costituzionale nella sentenza n.
 73/1991, al mutamento di destinazione d'uso senza  opere  (mentre  il
 terzo   comma   dell'art.  9  si  occupa,  come  sopra  visto,  delle
 ristrutturazioni edilizie su beni specialmente protetti).
    A prescindere  da  cio',  ed  anche  a  prescindere  dalla  scarsa
 chiarezza  del  testo legislativo nel descrivere la sanzione, risulta
 tuttavia evidente che il  tipo  di  sanzione  prescelto  vanifica  il
 principio stesso del controllo, in ambiti particolari del territorio,
 delle  destinazioni d'uso, consentendo in sostanza all'interessato di
 mantenere indefinitamente  una  destinazione  d'uso  urbanisticamente
 incompatibile   al  solo  "prezzo"  di  un  onere  di  urbanizzazione
 economicamente piu' impegnativo.  Ora, se lo scopo  della  disciplina
 urbanistica  fosse  il ristoro della finanza comunale rimarrebbe solo
 da discutere se il prezzo pagato  sia  o  meno  remunerativo  per  il
 comune  e  sia  o  meno conveniente anche per il privato; ma se, come
 sembra, la disciplina  urbanistica  ha  principalmente  lo  scopo  di
 mantenere  lo sviluppo dei centri urbani e del territorio in generale
 in termini di ordinata vivibilita',  allora  occorre  constatare  che
 tale   sanzione  contrasta  con  il  perseguimento  dei  fini  propri
 dell'urbanistica, ed anzi lo rende impossibile.  Se in  certi  ambiti
 determinati   usi   degli   immobili   e   determinati  mutamenti  di
 destinazione sono vietati, allora la  sanzione  pecuniaria  non  puo'
 concepirsi come una sanatoria dell'uso non ammesso, ma piuttosto come
 una  contravvenzione  rivolta a sanzionare un comportamento illegale,
 una sanzione che, come in generale le contravvenzioni, non potra' che
 essere ripetibile sin tanto che il comportamento si mantenga (nessuno
 infatti si stupisce di essere  multato  piu'  volte  se  per  diversi
 giorni contravviene alle regole stradali, ad esempio sulla sosta).
    Cio'  si  dice,  naturalmente, per il tipo di sanzione necessario,
 mentre l'importo delle sanzioni  per  le  singole  violazioni  dovra'
 essere prudentemente stabilito dal legislatore.  11. - Illegittimita'
 costituzionale  dell'art.  7,  sesto  comma,  in  quanto  liberalizza
 totalmente le varianti "non  essenziali"  e  parzialmente  le  stesse
 varianti  essenziali,  rendendo meramente facoltativa ed opzionale la
 realizzazione del progetto cui la concessione si riferisce  o  di  un
 altro  simile, in violazione degli artt. 117, primo comma, 118, primo
 comma, 97, primo comma, e 9 della Costituzione.
    Prima della modifica, l'art.  15,  primo  comma,  della  legge  n.
 47/1985   prevedeva  un  regime  particolarmente  favorevole  per  le
 varianti aventi certe  caratteristiche  (conformita'  agli  strumenti
 urbanistici  ed  alla normativa edilizia, non modifica della sagoma o
 delle superfici utili, non modifica delle  destinazioni  d'uso  delle
 singole unita' immobiliari e del numero di queste).
    Si  trattava,  pacificamente,  delle varianti di minore rilevanza,
 per le quali veniva esclusa in assoluto la sanzionabilita' penale,  e
 veniva  esclusa altresi' la sanzionabilita' amministrativa purche' la
 relativa richiesta avvenisse prima della dichiarazione di ultimazione
 dei lavori. Qualora invece non ci fosse la richiesta, si riteneva che
 esse, data la loro natura, ricadessero nelle previsioni dell'art.  10
 (opere  senza autorizzazione).   L'art. 7, sesto comma, inserisce nel
 testo del primo comma dell'art. 15 le parole "varianti non essenziali
 nonche' di varianti" tra le parole "realizzazione di"  e  "varianti".
 In  conseguenza di questa operazione, risulta soggetta al particolare
 regime sopra descritto "la realizzazione di varianti non  essenziali,
 nonche'  di varianti" aventi le caratteristiche sopra indicate.  Ora,
 pur non essendo certamente il testo  cosi'  ottenuto  un  modello  di
 chiarezza,  se  occorre  dare un senso alle parole e alla presumibile
 intenzione del legislatore, se ne dovrebbe dedurre che in primo luogo
 risultano  completamente  sottratte  al   regime   sanzionatorio   le
 "varianti non essenziali". Che cosa esse siano, non appare chiaro, ed
 in  particolare  non  appare chiaro se debbano considerarsi "varianti
 non essenziali"  tutte  quelle  che  alla  stregua  dell'art.  8  non
 costituirebbero,    ove    abusivamente    realizzate,    "variazioni
 essenziali".
    In ogni modo, se davvero il testo deve essere inteso, come sembra,
 nel senso di una  totale  liberalizzazione  di  tali  varianti  cosi'
 definite  "non  essenziali"  si  renderebbe  meramente facoltativa ed
 opzionale  la  realizzazione  del  progetto  cui  la  concessione  si
 riferisce o di un altro simile.
    Il  testo  della  disposizione,  nella  nuova  versione,  prosegue
 estendendo il regime piu' favorevole, oltre che alle  varianti  dette
 "non  essenziali", anche alle "varianti", purche' corrispondenti alle
 caratteristiche sopra dette. Poiche'  le  varianti  "non  essenziali"
 sono  gia'  liberalizzate  a  parte,  queste  ulteriori  varianti non
 potrebbero  essere, a quel che sembra, che varianti "essenziali".  Se
 cosi' fosse, non potrebbe non porsi il problema del coordinamento con
 le "variazioni essenziali" di cui agli artt. 7 e  8  della  legge  n.
 47/1985,  la  cui  realizzazione  e' peraltro assimilata dagli stessi
 articoli alla costruzione in assenza di concessione edilizia: sicche'
 non si comprenderebbe poi come  talune  di  queste  varianti  possano
 godere  del  particolare  regime dell'art. 15.   12. - Illegittimita'
 costituzionale dell'art. 8,  primo  comma,  in  quanto,  produce  una
 situazione  di  incertezza giuridica, e in quanto rivolto a privare i
 comuni della possibilita'  di  disciplinare  nel  tempo  l'espansione
 dell'abitato,  in  violazione  degli artt. 97, primo comma, 128, 117,
 primo comma, e 118, primo comma, della Costituzione.  L'art. 8, primo
 comma, del d.l. n. 468/1994 lapidariamente dispone  che  "l'art.  13
 della legge 28 gennaio 1977, n. 10, e' abrogato".  Ma la lapidarieta'
 non   si   addice   forse   alla   complessita'  del  nostro  sistema
 istituzionale, e cio' che ne deriva e' in primo luogo una  situazione
 di  incertezza  giuridica.    Converra' ricordare che l'art. 13 della
 legge n. 10/1977, ora abrogato, disciplinava l'istituto del programma
 pluriennale di attuazione. Era  infatti  stabilito  che  l'attuazione
 degli   strumenti  urbanistici  avvenisse,  appunto,  sulla  base  di
 programmi di attuazione, volti a scadenzare nel tempo l'edificazione.
 La  ragione,  facilmente   comprensibile,   stava   nel   fatto   che
 l'edificazione  di  nuove  aree  e  zone comporta scelte rilevanti ed
 investimenti ingenti per il comune, che a  seguito  dell'edificazione
 deve garantire le opere di urbanizzazione e l'intera rete dei servizi
 pubblici,    dai    trasporti,   all'acquedotto,   all'illuminazione,
 all'asporto rifiuti, alla manutenzione delle strade, per limitarsi ad
 alcuni esempi.
    Dall'obbligo del piano pluriennale di attuazione  potevano  essere
 esonerati  soltanto  taluni comuni minori, e interventi edilizi al di
 fuori del piano potevano essere  realizzati  soltanto  in  zone  gia'
 urbanizzate o in zone di completamento.
    Sulla  base dell'art. 13 della legge statale n. 10/1977 le regioni
 avevano legiferato. Per la ricorrente regione, il  piano  pluriennale
 di  attuazione  e'  disciplinato  dalla  l.r. 12 gennaio 1978, n. 2 e
 dall'art. 19 della l.r. n. 47/1978.  Ora, l'abrogazione dell'art.  13
 della  legge  n.  10/1977  produce  in  primo luogo una situazione di
 incertezza   giuridica.   Infatti,   venuto   meno    il    principio
 dell'obbligatorieta'   del   piano  pluriennale  di  attuazione  come
 principio statale, non sembra tuttavia che  la  semplice  abrogazione
 della   disposizione  statale  che  lo  prevedeva  possa  determinare
 l'automatica abrogazione  di  tutte  le  disposizioni  regionali  che
 ugualmente  lo  prevedono  e  lo  disciplinano.  In altre parole, non
 sembra che la semplice abrogazione di un istituto possa essere intesa
 come divieto di una legislazione regionale che continui ad  ispirarsi
 all'istituto  stesso.  Venuto  meno  come  principio obbligatorio, la
 "temporalizzazione" degli  interventi  urbanistici  ed  edilizi  puo'
 sopravvivere sulla base della autonomia regionale.
    Ma  a  parte  cio',  e'  evidente  che  il  piano  pluriennale  di
 attuazione   e'   lo   strumento   per   contemperare   la    liberta
 dell'iniziativa privata con le esigenze della comunita'.
    Anche  in questo caso, la ricorrente regione non intende sostenere
 che l'istituto non potesse essere modificato o migliorato, ma  rileva
 che  l'esigenza  cui  esso  corrispondeva era quella di garantire che
 l'iniziativa privata non si svolgesse  in  contrasto  con  l'utilita'
 sociale,   esigenza   imposta  dall'art.  41,  secondo  comma,  della
 Costituzione.    E  questo  necessario   contemperamento   non   puo'
 legittimamente  essere  "abrogato", con un colpo di penna, tornando a
 costringere  i  comuni,  come  nell'ancien  re'gime  urbanistico,   a
 "inseguire"  le  scelte  edificatorie  dei  privati,  sopportandone i
 pesanti costi in termini meramente consequenziali.   Nel  momento  in
 cui   il   valore   dell'elemento  "tempo"  e'  acquisito  all'azione
 amministrativa (se ne veda soltanto un esempio in tutta la disciplina
 del procedimento recata  dalla  legge  n.  241/1990),  come  elemento
 essenziale  del  buon andamento e dell'economicita' di essa, non puo'
 essere senza contraddizione tolto al comune lo  strumento  essenziale
 per scadenzare e programmare nel tempo i propri interventi, correlati
 all'iniziativa privata.
    13.  -  Illegittimita' costituzionale dell'art. 8, terzo comma, in
 quanto,  modificando  l'art.  4  del  d.l.  n.  398/1193,  introduce
 nell'ordinamento  il  principio  generale del silenzio assenso per le
 concessioni edilizie, per l'ipotesi che  entro  novanta  giorni  "non
 venga  comunicato all'interessato il provvedimento di diniego" (primo
 comma, ed in connessione terzo comma, e quarto comma), in  violazione
 degli  artt.  97,  primo  comma, 9, 128, 117, primo comma, 118, primo
 comma, della Costituzione.  Converra' in primo  luogo  ricordare  che
 l'istituto  del  silenzio-assenso  era  gia'  previsto  sia  per  gli
 interventi edilizi minori, soggetti a  semplice  autorizzazione,  sia
 (prima  in  via  provvisoria,  poi  definitivamente)  per  le  stesse
 concessioni edilizia quando si riferissero ad "interventi di edilizia
 residenziale diretti alla costruzione di abitazioni  od  al  recupero
 del  patrimonio  edilizio  esistente"  (art. 8, primo comma, d.l. 23
 gennaio 1982, n. 9).
    In questo caso, tuttavia, chi si avvalesse  del  silenzio  assenso
 costruiva  a  suo  rischio.  Stabiliva  infatti il sesto comma, dello
 stesso articolo che "le sanzioni contemplate  dagli  artt.  15  e  17
 della  legge  28 gennaio 1977, n. 10, si applicano anche ai soggetti"
 che abbiano ottenuto il silenzio-assenso qualora le  opere  assentite
 "siano  state  assentite e risultino in contrasto con norme di legge,
 di regolamenti edilizi, di strumenti urbanistici generali ovvero  con
 i  vincoli posti a tutela dei bene ambientali ed architettonici".  In
 modo diverso funziona il meccanismo introdotto ora  dal  d.l.    qui
 impugnato,  che  riprende  (con l'eliminazione di alcune garanzie per
 l'interesse pubblico) in sostanza il testo dell'art. 5 del d.l.    8
 aprile  1993,  n. 101 (primo di una catena di decreti non convertiti,
 che avevano infine  portato  alla  legge  n.  493/1993,  nella  quale
 peraltro  il  meccanismo del silenzio assenso era stato correttamente
 eliminato).   Si prevede infatti  semplicemente  che  la  concessione
 venga  tacitamente  assentita,  senza  piu'  prevedere  non  solo  la
 salvaguardia degli  interessi  pubblici  disposta  dal  sesto  comma,
 dell'art.  8  del  d.l.  n.  9/1982  sopra  citato (permanenza delle
 sanzioni in caso di violazione delle norme urbanistiche e  di  tutela
 speciale),  ma  neppure  (come  prevedeva  invece  ancora  il comma 7
 dell'art.  5  del  d.l.  n.    101/1993)  che  le  disposizioni  sul
 silenzio-assenso  si  applicano  "quando  la  concessione deve essere
 rilasciata  in  forza  degli   strumenti   urbanistici   vigenti   ed
 approvati".   In altre parole, la regolarita' urbanistica sostanziale
 della costruzione non  e'  piu',  nel  d.l.  impugnato,  presupposto
 giuridico e condizione del silenzio-assenso.  La regolarita' edilizia
 e generale della costruzione dovrebbe invece essere assicurata da una
 asseverazione  del  progettista,  che  dichiara "la conformita' degli
 interventi da realizzare alle prescrizioni urbanistiche ed  edilizie,
 nonche'  il  rispetto  delle norme di sicurezza e sanitarie" (art. 8,
 secondo comma). Ma tale garanzia, intrinsecamente molto  modesta,  e'
 ulteriormente   sminuita   dal  fatto  che  il  progettista  in  tale
 asseverazione non assume nessuna responsabilita' particolare, neppure
 quella dell'art. 373 del codice penale (per il reato di falsa perizia
 o interpretazione).
    Dunque nella nuova versione il silenzio-assenso si forma anche nel
 caso del piu'  totale  contrasto  con  le  normative  urbanistiche  e
 persino di tutela storica e paesistica vigenti. Anche in questi caso,
 trascorsi  novanta  giorni, la concessione si forma tacitamente, e il
 richiedente ha pieno diritto di costruire.
    La gravita' della situazione che cosi' si determina  e'  evidente.
 Ma  essa  diviene ancor piu' palese se si collegano le previsioni sul
 silenzio assenso con quanto disposto dallo stesso  d.l.  n.  468  in
 tema di annullamento delle concessioni illegittime.  Se anche infatti
 la  concessione  tacitamente assentita fosse in seguito annullata per
 la sua totale illegittimita', al costruttore non  occorrerebbe  altro
 (sempre  che la rimessione in pristino risultasse per qualunque causa
 "impossibile") che pagare il triplo degli  oneri  di  urbanizzazione.
 In   sintesi,   sembra   evidente   che   la   nuova  disciplina  del
 silenzio-assenso in tema di  concessioni  edilizie  rende  del  tutto
 eventuale   la  tutela  degli  interessi  urbanistici.  Ne'  si  puo'
 ribattere che la colpa  e'  dei  comuni  che  rimangano  inerti:  qui
 infatti  non  e'  in  gioco il "diritto" dei comuni di controllare lo
 sviluppo  edilizio,  ma  e'  in  gioco  il  diritto  dei   cittadini,
 costituzionalmente    protetto,    di    vivere    in   un   ambiente
 urbanisticamente,   paesisticamente   ed   architettonicamente    non
 degradato. La questione delle concessioni edilizie non e' una partita
 a  due  tra  richiedente e comune, ma un problema ben piu' complesso,
 che  investe  l'identita'  territoriale  delle  comunita'.    E'   da
 rilevare, infine, che, nei termini in cui e' disciplinato, l'istituto
 del  silenzio  assenso  travolge  non  solo,  come  detto,  la tutela
 urbanistica,  ma  anche  le  tutele  parallele  di  altri   interessi
 pubblici,  che  nel  procedimento  ordinario  si esprimono mediante i
 nulla osta dei vigili del fuoco e delle autorita' sanitarie (art. 220
 t.u.l.s.), e  che,  quando  si  tratti  di  beni  soggetti  a  tutela
 paesistica  o  storico-artistica,  si  esprime  mediante i nulla osta
 delle competenti autorita'.   Risulta cosi' vanificata  anche  quella
 "assistenza di meccanismi diversificati e di organi tecnici" che pure
 la   Corte   costituzionale  ha  ritenuto  essenziali  al  meccanismo
 concessorio nella sentenza n.  393/1992.   Una questione  particolare
 investe  poi  l'art.  8,  terzo  comma, in quanto nel nuovo testo del
 terzo comma, dell'art. 4  del  d.l.  n.    398/1993  si  fa  divieto
 all'amministrazione   in   termini   assoluti   di   richiedere,  ove
 necessarie,  "ulteriori  integrazioni  documentali",  in   violazione
 dell'art. 97, primo comma, della Costituzione.
    Non  si  vede  infatti  come  si  possa  ragionevolmente  impedire
 all'amministrazione che,  sia  pure  tardivamente,  si  avveda  della
 mancanza  di un documento essenziale, di richiederlo all'interessato:
 d'altronde  nello  stesso  interesse  di  quest'ultimo.   Si   potra'
 stabilire  semmai  che  la  richiesta tardiva non sospende il termine
 dato all'amministrazione per provvedere,  ma  e'  del  tutto  assurdo
 impedire ad essa di richiedere l'integrazione documentale.
    14. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 8, settimo comma, in
 quanto  attribuisce  la giurisdizione sulla responsabilita' per danno
 del sindaco e del  responsabile  del  provvedimento  per  illegittimo
 diniego  di  concessioni  edilizie  alla  giurisdizione esclusiva del
 giudice amministrativo senza  provvedere  alle  necessarie  modifiche
 delle  regole  processuali e senza il necessario coordinamento con la
 giurisdizione  del   giudice   ordinario   per   la   responsabilita'
 dell'amministrazione,  in  violazione  degli  artt.  24  e  113 della
 Costituzione.   Il settimo  comma  dell'art.  8  stabilisce  che  "il
 soggetto  competente all'adozione del provvedimento e il responsabile
 del procedimento rispondono, in caso di dolo o  colpa  grave,  per  i
 danni  arrecati  per  l'illegittimo diniego della concessione", e che
 "la giurisdizione esclusiva  in  materia  e'  attribuita  al  giudice
 amministrativo".    La  disposizione  consta dunque di due norme, una
 sostanziale  ed  una  processuale.  Della  prima  non  e'  chiaro  il
 contenuto  innovativo, dato che la responsabilita' per i danni creati
 ai   privati   dai   pubblici   agenti   e'   da   sempre   principio
 dell'ordinamento  italiano,  costituzionalmente  codificato dall'art.
 28. Anche la limitazione di tale responsabilita' ai casi  di  dolo  e
 colpa  grave  era  gia'  prevista  per  i  pubblici impiegati, mentre
 l'estensione  della  limitazione  anche   al   "soggetto   competente
 all'adozione  del provvedimento", ovvero al sindaco o a chi operi per
 sua delega, e' forse il contenuto proprio della  nuova  disposizione.
 Qui  interessa  pero'  la  disposizione  processuale, in virtu' della
 quale  la  giurisdizione  in  materia  e'   attribuita   al   giudice
 amministrativo quale giurisdizione esclusiva.  E' ben noto che l'art.
 103,   primo   comma,  della  Costituzione  consente  al  legislatore
 ordinario di demandare  al  giudice  amministrativo,  in  particolari
 materie,  anche  la  tutela  dei  diritti  soggettivi.  Cionondimeno,
 l'attribuzione a tale  giudice  della  giurisdizione  in  materia  di
 responsabilita'  civile  per  danni  prodotti  dagli  agenti pubblici
 rappresenta una singolarita' nel sistema, essendosi  sempre  ritenuto
 che  l'accertamento  e la valutazione del danno richiedono tecniche e
 modi processuali propri del giudice ordinario.   Cio' e' vero  a  tal
 punto  che  anche  quando,  in  ossequio  a normativa comunitaria, il
 legislatore italiano ha stabilito (con la legge 19 febbraio 1992,  n.
 142, art. 13) che "i soggetti che hanno subito una lesione a causa di
 atti  compiuti  in  violazione  del diritto comunitario in materia di
 appalti pubblici di lavori o di  forniture  o  delle  relative  norme
 interne   di   recepimento   possono   chiedere   all'amministrazione
 aggiudicatrice il risarcimento del  danno"  (primo  comma),  esso  ha
 tuttavia  disposto (secondo comma) che "la domanda di risarcimento e'
 proponibile  dinanzi  al  giudice  ordinario  da  chi   ha   ottenuto
 l'annullamento    dell'atto   lesivo   con   sentenza   del   giudice
 amministrativo".    La  ragione  della   presente   attribuzione   di
 giurisdizione  sul  danno  al  giudice  amministrativo non e' chiara:
 sembra invece chiaro che essa per l'intanto,  a  causa  delle  regole
 processuali  proprie della giurisdizione esclusiva, ed in particolare
 delle limitazioni imposte al  giudice  nella  tipologia  delle  prove
 ammissibili,  si  traduce in una netta diminuzione della possibilita'
 per il privato di ottenere la tutela risarcitoria, diminuzione lesiva
 delle  garanzie  costituzionali in materia.  Inoltre, sembra evidente
 che, se si volesse davvero attribuire al  giudice  amministrativo  la
 giurisdizione in questione, non si potrebbe poi mancare di attribuire
 ad esso la giurisdizione anche sui corrispondenti giudizi, quando sia
 chiamata in causa anche o soltanto l'amministrazione di appartenenza.
 Diversamente,  infatti, potrebbero o addirittura dovrebbero svolgersi
 contemporaneamente due diversi  giudizi  sullo  stesso  oggetto,  con
 duplicazione delle procedure e rischio di contrasto tra i giudicati.
   Tutto  cio'  premesso,  la  ricorrente regione Emilia-Romagna, come
 sopra rappresentata  e  difesa  chiede  che  l'eccellentissima  Corte
 costituzionale  voglia dichiarare l'illegittimita' costituzionale del
 d.l.  26  luglio  1994,  n.  418,  in  relazione  alle  disposizioni
 specificatamente  impugnate,  per violazione, nei termini illustrati,
 delle disposizioni e dei principi della Costituzione.
      Padova-Roma, addi' 10 agosto 1994
                    Avv. prof. Giandomenico FALCON

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