N. 667 ORDINANZA (Atto di promovimento) 2 aprile - 29 ottobre 1994

                                N. 667
 Ordinanza   emessa   il   2   aprile   1994   (pervenuta  alla  Corte
 costituzionale il 29  ottobre  1994)  dal  tribunale  di  Milano  nel
 procedimento  civile  vertente tra S.p.a. Sogefan e fallimento S.p.a.
 Codelfa
 Procedure concorsuali - Azione revocatoria fallimentare - Estensione,
 per diritto vivente, della normativa prevista per  il  fallimento  in
 caso  di  consecuzione tra amministrazione controllata e fallimento -
 Conseguente computo del termine di un  anno  dall'amminissione  della
 procedura di amministrazione controllata anziche' dalla dichiarazione
 di  fallimento - Lamentato egual trattamento per situazioni disuguali
 - Compressione del diritto di difesa per il convenuto in  revocatoria
 - Limitazione della liberta d'azione economica.
 (R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 67).
 (Cost., artt. 3, 24 e 41).
(GU n.47 del 16-11-1994 )
                             IL TRIBUNALE
   Riunito  in  camera  di  consiglio per discutere della causa civile
 iscritta al ruolo generale n. 6385/87 chiamata all'udienza collegiale
 del 21 aprile 1994, promossa con ricorso ex  art.  9817  da:  Sogefan
 S.p.a.,  rappresentata  e  difesa  dall'avv.  Piero Dina per delega a
 margine dell'atto di opposizione ed elettivamente domiciliata  presso
 lo  studio  del  medesimo  via  della Guastalla, 15, Milano, attrice,
 contro fallimento Cudelfa S.p.a.   rappresentato e  difeso  dall'avv.
 Giampaolo  Tagliagambe per delega in calce al ricorso introduttivo ed
 elettivamente domiciliato presso lo studio del medesimo via  Daverio,
 6, Milano, convenuto.
    Ha pronunciato la seguente ordinanza.
    Con  ricorso  ex  art.  98 legge fallimentare la Sogefan S.p.a. ha
 esposto di  avere  richiesto  l'ammissione  al  passivo  del  proprio
 credito  in via privilegiata di L. 2.244.560 per IVA su fatture ed in
 via chirografaria di  L.  219.261.929  comprensivo  del  saldo  delle
 fatture  indicate  nel  decreto  ingiuntivo  del 6 maggio 1982, degli
 interessi dal 1 maggio 1982 al 15  aprile  1985  della  rivalutazione
 monetaria  anteriore al fallimento, delle spese liquidate in decreto,
 delle spese di precetto e delle spese del giudizio di  opposizione  a
 decreto ingiuntivo; di essere stata ammessa al passivo del fallimento
 per  il  minor  importo  di  L.  122.397.432 in via chirografaria con
 esclusione del privilegio IVA e del residuo; ha chiesto  pertanto  di
 essere  ammessa  al  passivo  per  il maggiore importo indicato nella
 domanda di insinuazione con  il  riconoscimento  del  privilegio  sul
 credito IVA.
    Il   giudice   delegato   ha  fissato  con  decreto  l'udienza  di
 comparizione delle parti dinanzi a se' ed il termine per la  notifica
 del ricorso al curatore.
    Si e' costituito in giudizio il fallimento Codelfa che ha eccepito
 che  la  Sogefan  S.p.a. e stata correttamente ammessa al passivo per
 l'importo capitale di L.  82.352.489  ancora  dovuto  a  saldo  delle
 fatture  170, 188, 189, 195 del 1981 dopo l'ultimo pagamento ricevuto
 dalla Codelfa di L. 20.000.000,  che  il  conteggio  degli  interessi
 convenzionali  dovuti  dall'l.5.1982  al  15.4.1985  e'  viziato  per
 eccesso, che la rivalutazione monetaria non e' dovuta  e  cosi'  pure
 non  sono  dovute  le  spese  del  giudizio di opposizione al decreto
 ingiuntivo e che infine non puo'  essere  riconosciuta  per  IVA  per
 mancanza dei beni sui quali esercitarlo.
    Inoltre il fallimento Codelfa, autorizzato con decreto del giudice
 delegato  in  data  1  aprile  1987  e  6  maggio 1987 ha chiesto, in
 riconvenzionale la condanna della Sogefan  S.p.a.  alla  restituzione
 dell'importo di L. 76.000.000 per pagamento revocabile effettuati nel
 periodo  compreso  tra  luglio  1981  ed  il  luglio  1982  nell'anno
 anteriore alla data di ammissione della  Codelfa  alla  procedura  di
 amministrazione controllata (28 luglio 1982).
    La  causa  e' stata istruita attraverso la produzione di documenti
 ed il libero interrogatorio  delle  parti  per  chiarire  l'ammontare
 degli interessi richiesti dalla Sogefan S.p.a.; indi e' stata rimessa
 al Collegio per la discussione all'udienza sopra indicata.
    Ai   fini   del   decidere   sulla  riconvenzionale  proposta  dal
 fallimento, si pone il problema del termine dal  quale  computare  il
 periodo  di  esperibilita'  dell'azione  revocatoria fallimentare nel
 caso di consecuzione tra amministrazione controllata e fallimento. Il
 fallimento chiede infatti la revoca dei  pagamenti  effettuati  dalla
 fallita sul presupposto della loro anteriorita' infrannuale rispetto,
 non  gia'  alla  dichiarazione  di  fallimento, bensi' alla procedura
 concorsuale alla quale e' stata sottoposta la Codelfa S.p.a.
    Detta  impostazione  e'  conforme   ad   una   solida   tradizione
 giurisprudenziale,rispetto  alla quale questo Tribunale ha assunto da
 tempo un atteggiamento rispettosamente dissenziente (da ultimo,  cfr.
 trib.  Milano  16  settembre 1993 in "foro italiano", 1994, I, 1808),
 che e' rimasto tuttavia avversato dalla Corte di Cassazione, la quale
 ha sempre costantemente ribadito  la  validita'  dell'interpretazione
 tradizionale  della  consecutio  nella  prospettiva della revocatoria
 fallimentare.    Tanto    appare     irremovibile     l'atteggiamento
 interpretativo  della  suprema Corte, che si puo' ben dire abbia dato
 luogo ad un "diritto vivente"  secondo  il  quale  l'art.  67,  legge
 fallimentare  e'  come  se  fosse  scritto:  "  ..  gli atti compiuti
 nell'anno   anteriore   alla   dichiarazione   di    fallimento,    o
 all'ammissione  della  procedura  di  amministrazione controllata nel
 caso di consecuzione".
    In  tale  formulazione  sostanziale  della   norma,   non   appare
 manifestamente infondata la questione se essa violi il disposto:
       a) dell'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui tratta in
 modo uguale situazioni diseguali;
       b) dell'art. 24 della Costituzione, nella parte in cui di fatto
 non  consente  al  convenuto  in  revocatoria  di eccepire la propria
 inscientia decoctionis;
       c) dell'art. 41 della Costituzione, nella parte in cui  implica
 una limitazione della liberta' d'azione economica.
     a) In relazione all'art. 3 della Costituzione.
    La  ratio  della  proposizione  normativa  sottoposta all'esame di
 costituzionalita'  si  puo'  riassumere  nell'affermazione  per  cui,
 quando   un'impresa   sia  passata  attraverso  la  procedura  minore
 giungendo   senza   soluzione   di    continuita'    al    fallimento
 (eventualmente,  come nella specie, passando attraverso il concordato
 preventivo), essa poteva dirsi decotta  fin  dall'inizio.    Siffatta
 considerazione  induce  a ravvisare nelle ipotesi di consecuzione una
 procedura concorsuale unitaria  e  omnicomprensiva,  che  assorbe  la
 fisionomia della procedura anteriore, facendo risalire all'ammissione
 della  medesima  gli  effetti  legali,  o almeno alcuni degli effetti
 legali,  tipicamente  connessi  alla  successiva   dichiarazione   di
 fallimento.  Cosi', per restare al tema in discussione, il periodo di
 revocabilita' dei pagamenti effettuati  dal  fallito  viene  spostato
 all'indietro  a  partire  da  quando l'imprenditore era stato ammesso
 all'amministrazione controllata.
    Occorre  pero'  domandarsi  fino  a  che  punto  sia  giustificato
 agganciare  l'esperibilita'  dell'azione  revocatoria  ad un contesto
 fattuale nettamente diverso dal fallimento, qual'e' quello in cui  si
 cala   la   procedura  minore  menzionata.  A  parere  del  collegio,
 l'estensione  della  normativa  prevista  per  il  fallimento  ad una
 situazione  appositamente  differenziata  dalla  legge  si  pone   in
 contrasto  con l'art. 3 della Costituzione, giacche', com'e' noto, il
 principio d'uguaglianza non  vale  soltanto  a  rendere  uniforme  il
 trattamento  di  situazioni  uguali,  ma  anche a rendere difforme il
 trattamento di situazioni diseguali.
    Comparando i presupposti di fatto dell'amministrazione controllata
 con quelli del fallimento, al di la' del comune  e  generico,  quanto
 ovvio,  riferimento alla crisi dell'impresa, si colgono delle marcate
 peculiarita',  che  costringono  ad   associare   i   due   strumenti
 concorsuali ad una fenomenologia economica molto dissimile: mentre la
 procedura  di  amministrazione  controllata  e'  volta al risanamento
 dell'impresa  attraverso  il  superamento  di   una   situazione   di
 tremporanea   difficolta'   ad   adempiere   (art.  187  della  legge
 finanziaria), il fallimento sanziona l'irreversibilita' del dissesto.
 Per  quanto  possa  giudicarsi   semplicistico   il   richiamo   alla
 definizione  letterale, la stessa ragione d'esistenza della procedura
 minore,  piu'  di  ogni   disquisizione   filosofica   sulla   natura
 dell'insolvenza,  suggerisce  che essa deve necessariamente affondare
 le proprie radici in una  realta'  dell'impresa  non  assimilabile  a
 quella    sottostante   al   fallimento.   Se   non   esistesse   una
 disomogeneita', non avrebbe nemmeno senso la  valutazione  giudiziale
 che  e'  tenuta  ad individuarla per contrapposizicne alla decozione.
 Poiche', senza ravvisare comprovate  possibilita'  di  risanamentc  e
 transitorieta' della crisi, il tribunale non puo' ammettere l'impresa
 al   beneficio   della   procedura  minore,  ma  deve  dichiarare  il
 fallimento, appare chiaro, per converso, che il decreto di ammissione
 all'amministrazione controllata assume in sostanza il significato  di
 un  accertamento  negativo  sull'irreversibilita' dell'insolvenza. La
 funzione assegnata alla procedura dalla legge, oltreche' il contenuto
 della  pronuncia  che  vi  da'  ingresso,  pertanto,  costringono  ad
 associare  all'amministrazione  controllata una condizione ontologica
 dell'insolvenza distinta e persino alternativa a quella  propria  del
 fallimento,  condizione  che  si  potrebbe  scolpire  nella dicotomia
 insolvenza sanabile/insanabile.
    Sullo specifico terreno della  revocatoria  l'irriducibilita'  ora
 segnalata  non  potrebbe  delinearsi  in  modo  piu'  netto, giacche'
 l'amministrazione controllata, postulando il ripristino della normale
 solvibilita' dell'impresa all'esito della moratoria,  non  concepisce
 nemmeno la lesivita' dai pagamenti anteriori e dunque non prevede, di
 per  se',  alcuno  strumento  volto  a  ripristinare  la par condicio
 creditorum in relazione a simili evenienze.  E'  superfluo  ricordare
 che  la  revocatoria non e' esperibile nel corso dell'amministrazione
 controllata, ma solo ed esclusivamente col  seguente  fallimento;  la
 disciplina   della   consecutio,  insomma,  cosi'  come  s'e'  venuta
 delineando nel diritto vivente,  non  estende  affatto  lo  strumento
 revocatorio  al caso dell'amministrazione controllata, ma si limita a
 prolungare  retrospettivamente  il  periodo  sospetto   proprio   del
 fallimento,   inglobando   in  esso  la  durata  dell'amministrazione
 controllata.
    Le brevi osservazioni sopra condotte in ordine ai diversi  profili
 delle    due    procedure    e   dell'accertamento   giudiziale   che
 rispettivamente  vi  da'  ingresso   sembrano   avvalorate   da   una
 riflessione  sul  ruolo  assunto  dai  creditori  nel  contesto della
 procedura minore. Invero, mentre il fallimento puo' essere dichiarato
 d'ufficio, a tutela di un preminente interesse pubblico, l'ammissione
 alla procedura di amministrazione controllata risponde essenzialmente
 agli   interessi   del   debitore  e  dei  soggetti  coinvolti  dalla
 prosecuzione della sua attivita' imprenditoriale.  Coerentemente,  le
 valutazioni  dell'organo di giustizia si collocano in un procedimento
 entro il quale risulta  indispensabile  il  consenso,  non  solo  del
 debitore, che deve chiedere il beneficio, ma anche dei creditori, che
 devono  approvare  la  particolare soluzione concorsuale (artt. 188 e
 189 della legge fallimentare) alla crisi dell'imprenditore.
    Il  peso  determinante  assunto  dalla  volontaria  adesione   dei
 creditori  avvicina  la  logica  dell'amministrazione  controllata  a
 quella degli accordi stragiudiziali  tra  l'impresa  in  crisi  ed  i
 creditori,  la  cui  frequenza ed importanza e' ampiamente dimostrata
 dalla recente cronaca economica. Gli approcci  di  questo  tipo  alla
 patologia  della  vita aziendale si sviluppano solitamente attraverso
 una trattativa preliminare  coi  maggiori  creditori,  di  regola  le
 banche,  e  si  definiscono poi, in varie forme, sotto la veste di un
 pactum de non petendo, al quale aderiscono i rimanenti  creditori,  o
 comunque   la   maggioranza   di   essi,   in   modo   da  consentire
 all'imprenditore di fronteggiare anche le  posizioni  di  coloro  che
 restano  dissenzienti.  Non  pare  sussistano ostacoli di principio a
 collocare il rimedio dell'amministrazione controllata sotto la stessa
 categoria generale, visto che analoghi sono i  conflitti  d'interesse
 coinvolti ed analoga e' la manifestazione di volonta' che li risolve,
 benche'  l'accordo  in  cui detta volonta' si esprime venga raggiunto
 entro  lo  schema  di  una  procedura  confezionata  dalla  legge   e
 sorvegliata dall'autorita' giudiziaria; cio' che consente al debitore
 di  ottenere  subito  e,  per  cosi'  dire, "coattivamente" l'effetto
 sospensivo  della  esigibilita'  dei  crediti,  ma  non  elimina   la
 necessita'  di  una  convergenza di volonta' sulla proposta formulata
 dal debitore, in quanto tale effetto resta pur sempre sottoposto alla
 condizione risolutiva di una rapida (il termine previsto dalla  legge
 e'  di  30  gg.)  approvazione  dei creditori. Rivalutando la valenza
 dell'aspetto  volontaristico  del   procedimento,   l'essenza   della
 valutazione  giudiziale  che da' luogo alla procedura minore potrebbe
 cogliersi non tanto in una prognosi fausta sulla sorte  dell'impresa,
 che dipendera' in buona parte dalla fiducia che vorranno accordarvi i
 creditori,  quanto  proprio  nell'accertamento negativo sopra cennato
 circa lo status decoctionis, ovvero  circa  l'assenza  di  impellenti
 ragioni  tali  da imporre l'espulsione dal mercato dell'impresa ormai
 irrimediabilmente decotta (tale clausola di salvaguardia si perpetua,
 dopo il voto favorevole dei creditori, nella  disposizione  dell'art.
 192 della legge finanziaria).
    Non  e'  il  caso  di  approfondire in questa sede la similitudine
 proposta: se e' facile immaginare le  obiezioni  che  vi  si  possono
 muovere,  non  e' certo impossibile trovare esaurienti risposte, come
 ha messo in luce quella recente dottrina che e' giunta a  configurare
 l'amministrazione  controllata  alla  stregua  di  un  pactum  de non
 petendo di diritto positivo. Apprezzando anche  solo  in  parte  tale
 impostazione,  comunque,  non  puo'  non accentuarsi l'impressione di
 lontananza   tra   la   situazione   del    fallimento    e    quella
 dell'amministrazione controllata: cosi' come l'esistenza di un pactum
 di  diritto  comune  tra  il  debitore ed il ceto creditorio dissolve
 l'insolvenza, poiche' rivela la fiducia di cui  gode  l'imprenditore,
 la    stessa    conclusione    puo'    essere    accolta   nel   caso
 dell'amministrazione controllata.
    Alla luce delle considerazioni che precedono, appare tutto sommato
 sterile continuare a discutere se la temporanea  difficolta'  sia  di
 per  se' insolvenza dal punto di vista strettamente economico, inteso
 come  un  termine  di   riferimento   assoluto   e   scientificamente
 misurabile,   quando  invece  il  dato  economico  appare  largamente
 influenzato dall'esistenza o meno della  volonta'  dei  creditori  di
 concedere fiducia (e dunque credito) all'imprenditore in difficolta',
 valutandone   discrezionalmente   le  potenzialita'  di  ripresa.  La
 situazione  di  fatto  sottostante  all'amministrazione  controllata,
 dunque, risulta in questa prospettiva irriducibile al fallimento, non
 solo  perche'  l'inesistenza  della decozione costituiva un requisito
 preliminare  della  procedura  minore,  ma  perche'   l'atteggiamento
 favorevole  dei  creditori  ribadisce  nei  fatti l'inesistenza della
 decozione.
    Orbene, se il legislatore ha architettato le due procedure secondo
 strutture e funzioni nettamente differenziate ed ha inteso  associare
 il  rimedio della revocatoria al solo contesto del fallimento, appare
 del tutto irragionevole, alla luce dell'art.  3  della  Costituzione,
 che  i  limiti  temporali  di  esperibilita'  dell'azione  in caso di
 consecuzione siano invece agganciati al contesto dell'amministrazione
 controllata, la quale e'  istituzionalmente  rivolta  al  ritorno  in
 bonis   dell'impresa   e  dunque  tende  ad  uno  sbocco  palesemente
 contraddittorio  con  l'esistenza  di   una   presunzione   oggettiva
 d'insolvenza durante il periodo che la precede.
     b) In relazione all'art. 24 della Costituzione.
    Mentre  l'esistenza  oggettiva dello stato d'insolvenza durante il
 periodo sospetto  e'  presunta  dalla  legge,  l'elemento  soggettivo
 dell'azione   revocatoria   dev'essere   dimostrato,   com'e'   noto,
 attraverso un'indagine di fatto;  non  rileva,  a  questo  proposito,
 quale  sia  la  collocazione dell'onere della prova (a seconda che si
 verta nell'ipotesi del primo o del secondo comma dell'art.  67  della
 legge  finanziaria),  ne'  la  natura  concreta  del  mezzo  di prova
 impiegato (eventualmente  la  presunzione  indiziaria).  Gli  estremi
 della  rappresentazione mentale che costituisce l'elemento soggettivo
 dell'azione (in termini penalistici si direbbe  l'oggetto  del  dolo)
 sono   incontestabilmente  i  connotati  dell'insolvenza  propri  del
 fallimento,  giacche',  come  abbiamo  detto,  anche   in   caso   di
 consecuzione,  e'  solo  dal susseguente fallimento che scaturisce la
 revocatoria.
    Nella concatenazione tra procedure emerge subito  un  problema  di
 allineamento   tra  la  retrodatazione  della  presunzione  oggettiva
 dell'insolvenza    fallimentare    e    la    conoscenza    effettiva
 dell'insolvenza  medesima  da parte di colui che riceve il pagamento.
 Il confronto tra la natura presuntiva del primo requisito e la natura
 realmente  probatoria   dell'accertamento   sul   secondo   requisito
 evidenzia una incompatibilita', che reca una distorsione processuale.
 Invero,  l'esistenza  di  una  presunzione  iuris et de iure sul lato
 oggettivo  inibisce  al  convenuto  in  revocatoria  la  difesa  piu'
 elementare  ed  efficace  sul  lato soggettivo, non consentendogli di
 eccepire l'inesistenza della base materiale della  supposta  scientia
 decoctionis.  Il  contrasto  tra  la  presunzione  e la realta', come
 emerge dalle  considerazioni  sviluppate  nel  paragrafo  precedente,
 laddove  si e' messa in mostra la differenza tra il contesto fattuale
 dell'amministrazione controllata e  quello  del  fallimento,  conduce
 pertanto ad un'indebita ed ingiustificata compressione del diritto di
 difesa in sede processuale.
   Per  comprendere  la  gravita'  con  cui si manifesta tale lesione,
 occorre considerare che, com'e' noto, l'oggetto del dolo e' il  fatto
 e  non il giudizio sul fatto. Il substrato della scientia decoctionis
 e'  quindi  costituito  da   quella   stessa   situazione   economica
 dell'impresa alla quale la legge (nell'interpretazione costante della
 Corte  di cassazione) associa automaticamente, ovvero con un giudizio
 presuntivo, l'insolvenza. Ma il creditore  che  riceve  il  pagamento
 conosce  inevitabilmente  per quello e', almeno in qualche misura, la
 situazione economica del debitore, sicche', quando viene convenuto in
 revocatoria, si vede costretto a scegliere tra il seguente dilemma: o
 negare ipocritamente di aver conosciuto la realta'  dell'impresa  con
 cui  intratteneva  rapporti d'affari, oppure ammettere onestamente di
 averla  conosciuta,  sostenendo  tuttavia  di  non   aver   ravvisato
 l'insolvenza,  bensi' una temporanea difficolta'. Quest'ultima scelta
 difensiva, peraltro, benche' appaia piu' corretta, si traduce in  una
 vana  proclamazione,  che  cozza  inesorabilmente  contro il giudizio
 presuntivo imposto a posteriori dalla legge.
    Una vicenda esemplare, che aiuti a comprendere la scomoda e  quasi
 paradossale  posizione  in  cui  si  viene  a trovare il convenuto in
 revocatoria, potrebbe essere sintetizzata come segue: Tizio riceve il
 pagamento;  il  tribunale  ammette  il  debitore  all'amministrazione
 controllata, all'esito di un'istruttoria con la quale accerta che non
 esiste decozione, ma soltanto temporanea difficolta' dell'impresa; il
 commissario   giudiziale   redige   una  relazione  sulla  situazione
 patrimoniale del debitore, che conferma la valutazione del tribunale;
 i  creditori  accettano,  votando   a   favore   dell'amministrazione
 controllata,   la  moratoria  sui  propri  crediti;  sopraggiunge  il
 fallimento e Tizio si vede  revocato  il  pagamento  perche'  la  sua
 conoscenza  dello  stato  d'insolvenza appare dimostrata dagli stessi
 fatti  ampiamente  conosciuti  ed  analizzati  dal   tribunale,   dal
 commissario  giudiziale  e  dall'adunanza  dei  creditori,  che  pure
 avevano escluso l'insolvenza fallimentare. E' il  caso  di  segnalare
 che  la  vicenda  sopra descritta trova puntuale riscontro negli atti
 della presente causa.
    Orbene,  se   il   presupposto   di   fatto   dell'amministrazione
 controllata  e'  diverso da fallimento, sovrapporre presuntivamente e
 retroattivamente la condizione fallimentare a  quella  propria  della
 procedura minore significa fatalmente, non solo omologare cio' che e'
 diverso,  ma  anche  impedire  di  contestare l'omologazione sotto il
 profilo della valutazione soggettiva. Ecco perche' la  vicenda  sopra
 esemplificata  costituisce  uno  stereotipo  comune, riproducibile in
 tutte le cause analoghe, dove la  prova  della  scientia  decoctionis
 viene  immancabilmente  offerta  ricorrendo  a quegli stessi elementi
 (notizie  di  stampa,  esistenza  di  decreti  ingiuntivi,  procedure
 esecutive,  solleciti  di  pagamento, ecc.) espressamente considerati
 dal  tribunale,  dal  commissario  giudiziale  e  dall'adunanza   dei
 creditori,  che avevano a loro tempo ammesso, caldeggiato e votato la
 procedura di amministrazione  controllata,  ritenendo  temporanea  la
 crisi   economica   dell'impresa  e  comprovate  le  possibilita'  di
 risanamento, con cio' implicitamente riconoscendo,  tra  l'altro,  la
 non lesivita' dei pagamenti anteriori.
    In  sostanza,  la  conoscenza  di  quei  fatti  che  all'epoca del
 pagamento  non   potevano   per   definizione   rendere   l'accipiens
 consapevole  della  lesione  alla par condicio, viene successivamente
 intesa come consapevolezza della lesione, trasfigurando per mezzo  di
 una  nuova  valutazione  puramente  normativa  la  stessa  condizione
 psicologica fattuale.
    L'interversione a posteriori del  semplice  disvalore  del  fatto,
 anziche'  la  prova  di  una  percezione  conoscitiva  effettivamente
 diversa  e  piu'  grave  di  quella  originariamente  connessa   alla
 situazione dell'amministrazione controllata, rende del tutto fittizia
 e  minorata  la  difesa  in  punto di elemento soggettivo dell'azione
 revocatoria.
     c) In relazione all'art. 41 della Costituzione.
    Per     affrontare     l'ultimo,     forse     tenue,     sospetto
 d'incostituzionalita'  della  disciplina  della  consecutio,  occorre
 esaminare gli effetti indiretti che si  innescano  quando  vengono  a
 profilarsi  le  prime  difficolta' dell'impresa nei comportamenti dei
 creditori, i quali, normalmente, sono a loro volta  imprenditori.  E'
 facile  immaginare che il timore di revoca degli atti e dei pagamenti
 agisce come un  deterrente  al  compimento  dello  scambio  economico
 secondo  la  pura  convenienza  di mercato, inducendo l'operatore che
 fornisce  beni  o  servizi  all'impresa,  se  non  a   rinunciare   o
 interrompere  del  tutto  il  rapporto,  a  restringere  anzitempo il
 credito concesso all'impresa in crisi, con cio' contribuendo a  farla
 prematuramente   collassare  verso  il  fallimento.  L'operatore  che
 avverte di poter al momento concludere positivamente uno scambio,  ma
 teme  che  questo  possa essere successivamente reso inefficace a suo
 danno,  presumibilmente  evitera'  tale   rischio   astenendosi   dal
 contratto:  l'efficienza  del  mercato  viene in tal modo compromessa
 dall'esistenza di una  regola  giuridica,  che  indubbiamente  incide
 sulla liberta' di scelta dei consociati.
    Si  tratta  ora  di  stabilire se tale inibizione sia giustificata
 dall'esistenza di altri interessi  meritevoli  di  tutela.  Torna  al
 riguardo in considerazione, ancora una volta, la differenza tra stato
 d'insolvenza  e  condizione  di  temporanea difficolta' dell'impresa,
 quale presupposto dell'amministrazione controllata. E'  noto  che  il
 pagamento  rappresenta  un  atto doveroso, che deve essere omesso dal
 debitore  unicamente   nel   contesto   della   propria   incapacita'
 complessiva ad adempiere; correlativamente, il comportamento di colui
 il  quale riceve un pagamento puo' essere contrassegnato da disvalore
 soltanto laddove vi sia stata consapevolezza di pregiudicare con cio'
 la soddisfazione del credito altrui. La sanzione dell'inefficacia  e'
 dunque  un rimedio eccezionale, il quale postula l'impotenza e non la
 semplice temporanea difficolta' del debitore,  rispetto  alla  quale,
 come  abbiamo  visto,  non e' giuridicamente concepibile la lesivita'
 del pagamento. Non solo dunque non e' legittimo, ma  non  e'  nemmeno
 opportuno,  che  il sentore di una momentanea debolezza dell'impresa,
 da un lato,  autorizzi  l'astensione  dai  pagamenti  e,  dall'altro,
 induca   i   creditori  a  rifiutare  fiducia  all'impreditore.  Cio'
 costituirebbe un turbamento  ingiustificato  alla  negoziazione,  che
 puo'  e  deve intervenire esclusivamente quando emerga la complessiva
 impossibilita' di un operatore nel far fronte ai propri impegni.
    Non  sussiste  dunque  alcun apprezzabile interesse ad estendere a
 ridosso dell'amministrazione controllata l'incertezza sulla sorte dei
 rapporti anzitempo definiti  dall'imprenditore,  con  cio'  alterando
 prematuramente e dannosamente i comportamenti dei suoi interlocutori.
 Se,  in  una lettura sufficientemente aperta degli interessi tutelati
 dall'art. 41 della  Costituzione,  si  vogliono  ricomprendere  nella
 sfera di protezione di tale norma tutte le liberta' d'azione volte ad
 ottimizzare l'efficienza dello scambio economico, la cui compressione
 non  risulta  razionalmente  necessitata  da alcuna utilita' sociale,
 appare legittimo il sospetto che la disciplina della  revocatoria  in
 caso  di consecuzione tra amministrazione controllata e fallimento si
 ponga in contrasto con detta norma costituzionale.
    In presenza dei vari dubbi di costituzionalita' sopra evidenziati,
 che attengono  alla  regola  di  diritto  determinante  ai  fini  del
 presente giudizio, si impone la sospensione del medesimo in attesa di
 una  decisione  in  proposito da parte della Corte costituzionale. La
 presente ordinanza va notificata  alle  parti  e  al  Presidente  del
 Consiglio dei Ministri, nonche' comunicata al Presidente del Senato e
 al Presidente della Camera dei Deputati.
                               P. Q. M.
    Ritenuta non manifestamente infondata la questione di legittimita'
 costituzionale  della  disciplina  dell'azione  revocatoria  (art. 67
 della legge finanziaria) in caso di consecuzione tra  amministrazione
 controllata e fallimento, per violazione degli artt. 3, 24 e 41 della
 Costituzione.
    Dispone:
      1) la sospensione del presente giudizio;
      2)  la  rimessione  degli  atti alla Corte costituzionale per la
 risoluzione della questione;
      3) la notificazione della presente ordinanza  alle  parti  e  al
 Presidente del Consiglio dei Ministri;
      4)  la  comunicazione della presente ordinanza ai Presidenti del
 Senato e della Camera dei deputati.
       Milano, addi' 21 aprile 1994
                        Il presidente: VIGNALI

 94C1186