N. 675 ORDINANZA (Atto di promovimento) 10 maggio - 3 novembre 1994

                                N. 675
 Ordinanza   emessa   il   10   maggio   1994  (pervenuta  alla  Corte
 costituzionale il 3 novembre 1994) dalla corte di appello di Roma nel
 giudizio di revisione promosso da Bonomo Lorenzo
 Processo  penale  -  Sentenza  pronunciata  in  corte  di  assise   -
 Procedimento di revisione - Competenza devoluta alla corte di appello
 nel  cui distretto si trova il giudice che ha pronunciato la sentenza
 di primo grado - Lamentata omessa previsione della  competenza  della
 Corte  di  cassazione  per  il  giudizio  rescindente  e  per  quello
 rescissorio  del  giudice  di  primo  grado  o  di  appello  che   ha
 pronunciato la sentenza annullata - Irragionevolezza.
 (C.P.P. 1988, artt. 633, 636 e 639).
 (Cost., art. 3).
(GU n.47 del 16-11-1994 )
                          LA CORTE DI APPELLO
    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza nel giudizio di revisione
 promosso da Bonomo Lorenzo, nato a Villa  S.  Stefano  il  16  giugno
 1946;
    Visti gli atti;
    Udite  in  pubblica  udienza  la  relazione  del consigliere dott.
 Carlino, nonche' le conclusioni del p.g. e della difesa;
                             O S S E R V A
    Lorenzo Bonomo, dichiarato colpevole  del  reato  di  omicidio  in
 danno  di  Rita  di  Girolamo nonche' di detenzione abusiva di armi e
 condannato dalla Corte di assise di appello di Roma alla pena di anni
 16 e mesi quattro di reclusione, - decisione divenuta irrevocabile  a
 seguito del rigetto del ricorso per Cassazione -, chiede la revisione
 della  sentenza  adducendo la sopravvenienza di elementi di prova che
 unitamente  a  una  nuova  valutazione  delle  emergenze  istruttorie
 acquisite condurrebbero ad una pronuncia di assoluzione.
    Tale  pronuncia  a  norma  dell'art.  561  del codice di procedura
 penale del 1930 sarebbe stata devoluta alla competenza della Corte di
 assise  di  appello,  posto  che  il  procedimento  di  revisione  si
 suddivideva  in due fasi: la prima rescindente affidata alla Corte di
 cassazione, la seconda rescissoria attribuita "ad un altro giudice di
 primo grado o d'appello,  secondo  che  la  sentenza  o  le  sentenze
 annullate furono pronunciate nell'uno o nell'altro grado".
    Il nuovo codice del 1988 ha modificato la procedura, unificando le
 due  fasi,  entrambe  di  competenza  "della  Corte d'appello nel cui
 distretto si trova il giudice che ha pronunciato la sentenza di primo
 grado o il decreto penale di condanna" (cfr. art. 633).
    Come affermato dalla suprema  Corte,  la  nuova  disciplina  della
 revisione  non  consente  l'innesto  delle  norme che regolano in via
 generale  la  competenza,   ma   attribuisce   specifica   competenza
 funzionale  proprio  alla  Corte  di  appello, laddove il riferimento
 territoriale e' desumibile dalla sede  del  giudice  di  primo  grado
 (cfr. Cass. sez. I, 4 maggio 1991, n. 1748).
    Conseguentemente  nella  fattispecie e' devoluta a questa Corte la
 competenza a pronunciarsi sulla revisione, posto che  il  giudice  di
 primo grado e' stata la Corte di assise di Frosinone.
    In  caso  di  accoglimento la stessa Corte di appello adita dovra'
 revocare la sentenza di condanna e  pronunciare  il  proscioglimento,
 cosi' come dispone l'art. 637 del c.p.p.
    Siffatta  previsione  legislativa,  che  consente  ad  un collegio
 composto da soli giudici togati di sindacare alla  luce  delle  nuove
 prove  il  complesso delle risultanze probatorie acquisite e valutate
 da un collegio  composto  anche  da  giudici  laici,  appare  -  come
 eccepito   dal   p.g.   -   essere   in   contrasto  con  il  dettato
 costituzionale.
    Invero la Corte  costituzionale  e'  stata  gia'  investita  della
 questione,  ma limitatamente alla dedotta violazione dell'art. 25 per
 il preteso contrasto con il principio del giudice naturale.
    La sollevata eccezione e' stata disattesa dalla ordinanza  n.  375
 del  23  luglio  1991,  nel  rilievo che l'organo giudicante e' stato
 istituito dalla legge sulla base di criteri generali prefissati  -  e
 non  in  relazione  a singole fattispecie - e che i giudici di merito
 esauriscono  nel  corrispondente  grado  di  giudizio  la  sfera   di
 giurisdizione loro rispettivamente assegnata dall'ordinamento.
    Questa  Corte  ritiene,  di contro, che la costituzionalita' degli
 artt. 633, 636 e 639 del  c.p.p.  debba  essere  esaminata  sotto  il
 profilo   della   irragionevolezza  della  statuizione  e  quindi  in
 relazione all'art. 3 della Costituzione.
    Nell'ambito dei principi enunciati  dal  primo  comma  del  citato
 articolo  la dottrina ha posto in rilievo che "il legislatore sarebbe
 vincolato a non porre in essere discipline intimamente  incoerenti  e
 contraddittorie"  e  che  "per  riconoscere  le  disarmonie in parole
 occorre rifarsi  agli  scopi  perseguiti  dal  legislatore"  o  "agli
 interessi  che  si  sono  voluti  tutelare ed alla congruita' di tale
 tutela".
    La stessa dottrina ha anche evidenziato che  vi  e'  "la  esigenza
 (costituzionale)  che  il legislatore sviluppi il contenuto normativo
 di ogni disposizione, estenda la disciplina contenuta in essa a tutte
 le ipotesi in cui lo richiede la ratio che vi presiede".
    E' dunque necessario far  riferimento  alla  ragionevolezza  dello
 scopo  perseguito  dal  legislatore per valutare la costituzionalita'
 della diversita' di regolamentazione tra situazioni consimili.
    Autorevolmente e' stato sottolineato  che  "puo'  esservi  inoltre
 necessita'  di  rapportare  la  norma  denunciata  unicamente  con un
 principio   generale,   nel   presupposto    che    essa    distingua
 illegittimamente  una situazione che avrebbe dovuto rimanere pur essa
 regolata da quel principio; oppure la comparazione puo' mancare di un
 secondo termine quando si deduce l'illegittimita' di una norma per la
 sua incompletezza, in quanto regola una fattispecie descritta in modo
 da escludere componenti che  ne  modificano  la  sostanza  e  da  non
 permettere  ingiustificatamente  una  protezione  integrale  o da non
 sanzionare senza ragione tutti gli  atteggiamenti  della  fattispecie
 reale".
    Svolgendo i suindicati principi, la Corte costituzionale ha con il
 termine "ragionevolezza" specificato le condizioni che il legislatore
 deve rispettare, pervenendo - in taluna pronuncia - ad usare anche la
 terminologia  di  "eccesso nello svolgimento del potere discrezionale
 del legislatore".
    Il  requisito  della  "idonea  ragione"  e quelli del "ragionevole
 motivo", dell'assenza  di  "arbitrarieta'",  di  "presupposti  logici
 obiettivi",  del  limite  della  ragionevolezza  sono stati richiesti
 dalla Corte costituzionale sin  dalla  sentenza  n.  46  del  1959  e
 ripetutamente.
    La  stessa  Corte  nella sentenza n. 54 del 1968 considera ai fini
 del giudizio di  razionalita'  la  funzione,  lo  scopo  della  norma
 nonche' gli interessi che la stessa mira a tutelare.
    Esaminando  sotto  tali aspetti il disposto degli artt. 633, 636 e
 639 del c.p.c. - che recepiscono le direttive di cui all'art.  2,  n.
 99, della legge di delega legislativa al Governo della Repubblica per
 l'emanazione  del nuovo codice di procedura penale (legge 16 febbraio
 1987, n. 83) -  devesi  preliminarmente  porre  in  evidenza  che  la
 giurisdizione  penale  e'  ripartita  in considerazione dell'indole o
 della gravita' del reato e che proprio  al  criterio  qualitativo  e'
 improntata  la  devoluzione  alla  Corte  di  assise  di  determinati
 delitti, compreso l'omicidio.
    La presenza in questa di membri laici garantisce la partecipazione
 diretta del popolo all'amministrazione della  giustizia,  secondo  le
 formalita'  dell'art. 102, terzo comma, della Costituzione e risponde
 a precise motivazioni di carattere politico.
    Per  siffatta  composizione  e  finalita'  la  Corte   di   assise
 costituisce  un  organo  giurisdizionale  autonomo  e non una sezione
 specializzata del tribunale della stessa sede  in  cui  e'  istituita
 (cfr. Cass. sez. I, 27 aprile 1987, n. 1107).
    Appare  pertanto  illogico  ed  irragionevole  che  il giudizio di
 revisione  -  che  sostanzialmente  investe  gli  stessi  fatti,  pur
 valutati  alla  scorta  di nuove prove - sia devoluto alla competenza
 della Corte di appello in luogo della Corte di assise di appello.
    Ne' vale rilevare che la richiesta  di  revisione  costituisce  un
 mezzo  di impugnazione di natura straordinaria perche' mira a forzare
 la res iudicata; ne' appare esaustivo affermare come estranea al tema
 la ripartizione delle competenze fra i diversi giudici di merito.
    Non puo' revocarsi  in  dubbio  che  nel  caso  in  esame  vengono
 sottratte  al giudizio della componente laica - che il legislatore ha
 chiamato ad integrare  il  collegio  -  elementi  di  prova  di  tale
 rilevanza da determinare l'assunto proscioglimento dell'imputato; che
 la  Corte di appello priva della presenza popolare deve riesaminare -
 anche se unitamente a nuovi -  fatti  gia'  vagliati  dal  precedente
 giudice   "naturale"   ed  in  ipotesi  modificarne  le  conclusioni,
 revocando la condanna e prosciogliendo.
    Giova  anche  sottolineare  come  la  competenza   indistintamente
 attribuita  alla  Corte  di  appello consenta a strategie difensive -
 volte a vanificare,  nei  casi  di  delitti  di  particolare  allarme
 sociale,  il  giudizio  della  c.d. giuria - di riservare artatamente
 alla fase di  revisione  l'indicazione  di  prove,  confidando  nella
 mancata presenza della componente laica.
    Sussistono  quindi  a  giudizio  della  Corte  di  appello di Roma
 elementi di contraddizione, di non coesione, di carenza logica  e  di
 irragionevolezza  nella  disciplina  del  procedimento  di  revisione
 dettata dagli artt. 633, 636 e 639 del c.p.c.
    Identici  motivi appaiono - a giudizio del collegio - inficiare la
 stessa devoluzione alla Corte di appello  del  giudizio  rescindente,
 atteso che nel caso concreto potrebbe in ipotesi essere inficiata una
 sentenza della Corte di cassazione.
    Appare  ugualmente  irragionevole  e  privo di motivazione nonche'
 contrario a principi di ordine  generale  che  un  giudice  di  grado
 inferiore  sia  chiamato ad esaminare e porre nel nulla una pronuncia
 del giudice supremo.
    La suddivisione del processo di revisione in due distinte  fasi  e
 l'attribuzione  del  giudizio  rescindente alla Corte di cassazione e
 del giudizio rescissorio al giudice di primo grado o di appello  -  a
 seconda  che la sentenza annullata fosse stata pronunciata dall'uno o
 dall'altro  organo  giudiziario  -,  cosi'  come   disciplinate   dal
 legislatore  antecedentemente  alla  riforma del 1989, si sottraevano
 alle formulate censure.
    La normativa in vigore prima del nuovo codice di procedura  penale
 consentiva invero al supremo collegio di valutare i presupposti della
 chiesta  revisione,  con  uniformita' di giudizio e senza stravolgere
 regole di carattere generale.
    Permetteva allo  stesso  giudice  che  aveva  emesso  la  sentenza
 annullata  di  riesaminare  in  sede  di  rinvio  i  noviter producta
 unitamente alle prove gia' acquisite, nel rispetto  delle  competenze
 statuite dalla legge anche in considerazione della particolarita' del
 reato  e della conclamata esigenza che a conoscere taluni reati siano
 giudici "particolari".
    Di conseguenza non puo' ritenersi infondata  sotto  i  prospettati
 profili la questione di legittimita' sollevata dal p.g.
                               P. Q. M.
    Visti  gli  artt. 134 della Costituzione e 23 della legge 11 marzo
 1953, n. 87;
    Cosi' provvede:
      dichiara rilevante e non manifestamente infondata  la  questione
 di legittimita' costituzionale degli artt. 633, 636 e 639 del c.p.p.,
 in relazione all'art. 3 della Costituzione della Repubblica, a) nella
 parte  in cui devolvono alla Corte di appello il potere di sindacare,
 in via diretta e immediata, in sede di  revisione,  decisioni  emesse
 dalla  Corte  di  cassazione,  b)  nella  parte in cui devolvono alla
 competenza della corte di appello anche la decisione della  richiesta
 di revisione afferente condanne per delitti di competenza della corte
 di assise;
      ordina   la   immediata   trasmissione  degli  atti  alla  Corte
 costituzionale;
      sospende il giudizio in corso;
      dispone che a cura della cancelleria la presente  ordinanza  sia
 notificata  al  Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai
 Presidenti delle due Camere del Parlamento.
    Cosi' deciso in Roma, addi' 10 maggio 1994
                       Il presidente: RIVELLESE
                                     Il consigliere estensore: CARLINO
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