N. 676 ORDINANZA (Atto di promovimento) 10 maggio - 3 novembre 1994

                                N. 676
 Ordinanza  emessa  il  10   maggio   1994   (pervenuta   alla   Corte
 costituzionale  il 3 novembre 1994) dalla corte d'appello di Roma nel
 giudizio di revisione promosso da Papalia Domenico
 Processo   penale  -  Sentenza  pronunciata  in  corte  di  assise  -
 Procedimento di revisione - Competenza devoluta alla corte di appello
 nel cui distretto si trova il giudice che ha pronunciato la  sentenza
 di  primo  grado - Lamentata omessa devoluzione alla competenza della
 corte  di  assise  per  le  sentenze  emesse  da   tale   giudice   -
 Irragionevolezza.
 (C.P.P. 1988, artt. 633, 636 e 639).
 (Cost., art. 3).
(GU n.47 del 16-11-1994 )
                          LA CORTE D'APPELLO
    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza nel giudizio di revisione
 promosso da Papalia Domenico, nato a Plati' (Reggio Calabria)  il  18
 aprile 1945;
    Visti gli atti;
    Udite  in  pubblica  udienza  la  relazione  del  presidente prof.
 Morsillo nonche' le conclusioni del p.g. e della difesa,
                             O S S E R V A
    Domenico Papalia dichiarato colpevole del  reato  di  omicidio  in
 danno  di  Antonio  D'Agostino  e condannato dalla Corte di assise di
 appello di Roma alla pena dell'ergastolo, chiede la  revisione  della
 sentenza  adducendo  la  sopravvenienza  di  elementi  di  prova  che
 unitamente ad  una  nuova  valutazione  delle  emergenze  istruttorie
 acquisite porterebbero ad una pronuncia di assoluzione.
    Tale  pronuncia  a  norma  dell'art.  561  del codice di procedura
 penale del 1930 sarebbe stata devoluta alla competenza della Corte di
 assise  di  appello,  posto  che  il  procedimento  di  revisione  si
 suddivideva  in due fasi: la prima rescindente affidata alla Corte di
 cassazione, la seconda rescissoria attribuita "ad  altro  giudice  di
 primo  grado  o  d'appello,  secondo  che  la  sentenza o le sentenze
 annullate furono pronunciate nell'uno o nell'altro grado".
    Il nuovo codice del 1988 ha modificato la procedura unificando  le
 due  fasi,  entrambe  di  competenza  "della  Corte d'appello nel cui
 distretto si trova il giudice che ha pronunciato la sentenza di primo
 grado o il decreto penale di condanna" (cfr. art. 633).
    Come affermato dalla suprema  Corte,  la  nuova  disciplina  della
 revisione  non  consente  l'innesto  delle  norme che regolano in via
 generale  la  competenza,   ma   attribuisce   specifica   competenza
 funzionale  proprio  alla  Corte  di  appello, laddove il riferimento
 territoriale e' desumibile dalla sede  del  giudice  di  primo  grado
 (cfr. Cass. sez. I, 4 maggio 1991 n. 1748).
    Conseguentemente  anche  nella  fattispecie  e'  devoluta a questa
 Corte la competenza a pronunciarsi  sulla  revisione,  posto  che  il
 giudice di primo grado e' stata la Corte di assise di Roma.
    In  caso  di  accoglimento la stessa Corte di appello adita dovra'
 revocare la sentenza di condanna e  pronunciare  il  proscioglimento,
 cosi' come dispone l'art. 637 del c.p.p.
    Siffatta  previsione  legislativa,  che  consente  ad  un collegio
 composto da soli giudici togati di sindacare alla  luce  delle  nuove
 prove  il  complesso delle risultanze probatorie acquisite e valutate
 da un collegio composto anche da giudici laici, appare a giudizio  di
 questa Corte essere in contrasto con il dettato costituzionale.
    Invero  la  Corte  costituzionale  e'  stata  gia' investita della
 questione, ma limitatamente alla dedotta violazione dell'art. 25  per
 il preteso contrasto con il principio del giudice naturale.
    La  sollevata  eccezione e' stata disattesa dalla ordinanza n. 375
 del 23 luglio 1991, nel rilievo  che  l'organo  giudicante  e'  stato
 istituito  dalla  legge sulla base di criteri generali prefissati - e
 non in relazioni a singole fattispecie - e che i  giudici  di  merito
 esauriscono   nel  corrispondente  grado  di  giudizio  la  sfera  di
 giurisdizione loro rispettivamente assegnata dall'ordinamento.
    Questa Corte ritiene, di contro, che  la  costituzionalita'  degli
 artt.  633,  636  e  639  del  c.p.p. debba essere esaminata sotto il
 profilo  della  irragionevolezza  della  statuizione  e   quindi   in
 relazione all'art. 3 della Costituzione.
    Nell'ambito  dei  principi  enunciati  dal  primo comma del citato
 articolo la dottrina ha posto in rilievo che "il legislatore  sarebbe
 vincolato  a  non porre in essere discipline intimamente incoerenti e
 contraddittorie" e che  "per  riconoscere  le  disarmonie  in  parola
 occorre  rifarsi  agli  scopi  perseguiti  dal  legislatore"  o "agli
 interessi che si sono voluti tutelare  ed  alla  congruita'  di  tale
 tutela".
    La   stessa   dottrina   ha  evidenziato  che  vi  e'  "l'esigenza
 (costituzionale) che il legislatore sviluppi il  contenuto  normativo
 di ogni disposizione, estenda la disciplina contenuta in essa a tutte
 le ipotesi in cui lo richiede la ratio che vi presiede".
    E'  dunque  necessario  far  riferimento alla ragionevolezza dello
 scopo perseguito dal legislatore per  valutare  la  costituzionalita'
 della diversita' di regolamentazione tra situazioni consimili.
    Autorevolmente  e'  stato  sottolineato  che "puo' esservi inoltre
 necessita' di  rapportare  la  norma  denunciata  unicamente  con  un
 principio    generale,    nel    presupposto   che   essa   distingua
 illegittimamente una situazione che avrebbe dovuto rimanere pur  essa
 regolata da quel principio; oppure la comparizione puo' mancare di un
 secondo  termine  quando  si deduce l'illegittimita' di una norma che
 per la sua incompletezza, in quanto regola una fattispecie  descritta
 in  modo  da  escludere componenti che ne modificano la sostanza e da
 non permettere ingiustificatamente una protezione integrale o da  non
 sanzionare  senza  ragione  tutti gli atteggiamenti della fattispecie
 reale".
    Svolgendo i suindicati principi, la Corte costituzionale ha con il
 termine "ragionevolezza" specificato le condizioni che il legislatore
 deve rispettare, pervenendo - in taluna pronuncia - ad usare anche la
 terminologia di "eccesso nello svolgimento del  potere  discrezionale
 del legislatore".
    Il  requisito  della  "idonea  ragione"  e quelli del "ragionevole
 motivo", dell'assenza  di  "arbitrarieta'",  di  "presupposti  logici
 obiettivi",  del  limite  della  ragionevolezza  sono stati richiesti
 dalla Corte costituzionale sin  dalla  sentenza  n.  46  del  1959  e
 ripetutamente.
    La  stessa  Corte  nella sentenza n. 54 del 1968 considera ai fini
 del giudizio di  razionalita'  la  funzione,  lo  scopo  della  norma
 nonche' gli interessi che la stessa mira a tutelare.
    Esaminando  sotto  tali aspetti il disposto degli artt. 633, 636 e
 639 del c.p.p. - che recepiscono le direttive di cui all'art. 2 n. 99
 della legge di delega legislativa al  Governo  della  Repubblica  per
 l'emanazione  del nuovo codice di procedura penale (legge 16 febbraio
 1987, n. 83) -  devesi  preliminarmente  porre  in  evidenza  che  la
 giurisdizione  penale  e'  ripartita  in considerazione dell'indole o
 della  gravita'  del  reato  e che proprio al criterio qualitativo e'
 improntata  la  devoluzione  alla  Corte  di  assise  di  determinati
 delitti, compreso l'omicidio.
    La presenza in questa di membri laici garantisce la partecipazione
 diretta  del  popolo  all'amministrazione della giustizia, secondo le
 formalita' dell'art. 102, terzo comma, della Costituzione e  risponde
 a precise motivazioni di carattere politico.
    Per   siffatte   composizioni  e  finalita'  la  Corte  di  assise
 costituisce un organo giurisdizionale  autonomo  e  non  una  sezione
 specializzata  del  tribunale  della  stessa sede in cui e' istituita
 (cfr. Cass. sez. I, 27 aprile 1987, n. 1107).
    Appare peraltro illogico  ed  irragionevole  che  il  giudizio  di
 revisione  -  che  sostanzialmente  investe  gli  stessi  fatti,  pur
 valutati sulla scorta di nuove prove - sia devoluto  alla  competenza
 della Corte di appello in luogo della Corte di assise di appello.
    Ne'  vale  rilevare  che  la richiesta di revisione costituisce un
 mezzo di impugnazione di natura straordinaria perche' mira a  forzare
 la res iudicata; ne' appare esaustivo affermare come estranea al tema
 di ripartizione delle competenze fra i diversi giudici di merito.
    Non  puo'  revocarsi  in  dubbio  che  nel  caso  in esame vengono
 sottratte al giudizio della componente laica - che il legislatore  ha
 chiamato  ad  integrare  il  collegio  -  elementi  di  prova di tale
 rilevanza da determinare l'assunto proscioglimento dell'imputato; che
 la Corte di appello priva della presenza popolare deve riesaminare  -
 anche  se  unitamente  a  nuovi  - fatti gia' vagliati dal precedente
 giudice  "naturale"  ed  in  ipotesi  modificarne   la   conclusione,
 revocando la condanna e prosciogliendo.
    Giova   anche  sottolineare  come  la  competenza  indistintamente
 attribuita alla Corte di appello consente  a  strategie  difensive  -
 svolte  a  vanificare,  nei  casi  di  delitti di particolare allarme
 sociale, il giudizio della c.d. giuria  -  di  riservare  artatamente
 alla  fase  di  revisione  l'indicazione  di  prove, confidando nella
 mancata presenza della componente laica.
    Sussistono quindi a  giudizio  della  Corte  di  appello  di  Roma
 elementi  di  contraddizione, di non coesione, di carenza logica e di
 irragionevolezza  nella  disciplina  del  procedimento  di  revisione
 dettata dagli artt. 633, 636 e 639 del c.p.p.
    Di  conseguenza  non puo' ritenersi manifestamente infondata sotto
 il  prospettato  profilo  la  questione  di  legittimita'   sollevata
 d'ufficio,  come  peraltro  affermato  da  questa  stessa  Corte  nel
 procedimento di revisione promosso da Lorenzo Bonomo.
                               P. Q. M.
    Vista l'ordinanza emessa in  data  odierna  da  questa  Corte  nel
 procedimento  di  revisione  della sentenza di condanna per omicidio,
 promosso su istanza di Bonomo Lorenzo;
    Visti gli artt. 134 della Costituzione e 23 della legge  11  marzo
 1953, n. 87.
    Cosi' provvede:
      dichiara  rilevante  e non manifestamente infondata la questione
 di legittimita' costituzionale degli artt. 633, 636 e 639 del  codice
 di procedura penale, in relazione all'art. 3 della Costituzione della
 Repubblica,  nella parte in cui devolvono alla competenza della Corte
 di appello anche la decisione sulle richieste di revisione  afferenti
 condanne per delitti di competenza della Corte di assise;
      ordina   la   immediata   trasmissione  degli  atti  alla  Corte
 costituzionale;
      sospende il giudizio in corso;
      dispone che a cura della cancelleria la presente  ordinanza  sia
 notificata  al  Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai
 Presidenti delle due Camere.
       Roma, addi' 10 maggio 1994
                          (firma illeggibile)

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