N. 729 ORDINANZA (Atto di promovimento) 6 ottobre 1994

                                N. 729
 Ordinanza  emessa  il  6  ottobre  1994  dal  pretore  di Perugia nel
 procedimento penale a carico di Di Manno Alberto Francesco
 Inquinamento - Scarichi provenienti da insediamenti produttivi -
    Inosservanza dei limiti di accettabilita' previsti  dalle  tabelle
    della  legge n. 316/1976 (legge Merli) e superamento dei limiti di
    accettabilita'  inderogabili  per  parametri  di  natura   tossica
    persistente  e  bioaccumulabile - Lamentata depenalizzazione della
    prima ipotesi (gia' reato piu' grave  tra  quelli  previsti  dalla
    legge   citata)   e   riduzione   della  pena  per  la  seconda  -
    Irragionevolezza - Disparita' di trattamento rispetto  ad  ipotesi
    meno  gravi,  ma punite con maggior severita' - Mancata tutela del
    paesaggio e della salute - Omesso adeguamento  con  le  norme  del
    diritto  internazionale, in particolare, con le norme C.E.E. (dir.
    n. 271/1991) - Penalizzazione dell'iniziativa  economica  privata,
    in  specie:  aziende che abbiano fatto investimenti per adeguare i
    propri impianti alle esigenze di tutela ambientale.
 (D.L. 17 settembre 1994, n. 537, art. 3).
 (Cost., artt. 3, 9, 10, 32 e 41).
(GU n.50 del 7-12-1994 )
                              IL PRETORE
    Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento a carico  di
 Di  Manno  Alberto  Francesco,  imputato del reato di cui all'art. 21
 terzo comma della legge n.  319/1976  per  aver  effettuato  scarichi
 "risultati  non  conformi  alle tabelle di legge poiche' superavano i
 limiti della tabella A", in territorio di Perugia in  data  2  aprile
 1993;
                                OSSERVA
     A)   Sussiste  l'ipotesi  di  non  manifesta  infondatezza  della
 questione di legittimita' costituzionale dell'art.  3  del  d.l.  17
 settembre 1994, n. 537 poiche' detto articolo modifica il terzo comma
 dell'art.  21  della  legge  n.  319/1976,  nella  specie  oggetto di
 contestazione, prevedendo una manifesta disparita' di trattamento tra
 coloro che  scaricando  non  osservano  i  limiti  di  accettabilita'
 previsti  dalle tabelle, per la cui fattispecie la sanzione comminata
 dal legislatore e' penale soltando laddove lo scarico supera di oltre
 il 20% i limiti di accettabilita' delle tabelle  stesse,  rispetto  a
 coloro  che  ai  sensi  del  primo  comma  dell'art.  21  legge Merli
 scaricano in difetto di prescritta autorizzazione, fattispecie per la
 quale il legislatore ha  previsto  l'obbligatorieta'  della  sanzione
 penale.  La  norma  citata  si pone in contrasto con gli art. 3 e con
 l'art. 9 della Costituzione per manifesta disparita'  di  trattamento
 sanzionatorio che il legislatore ha previsto per fattispecie analoghe
 ed  anzi  di  maggiore gravita' sostanziale per quanto in particolare
 concerne la modifica del  comma  3  dell'art.  21  legge  Merli  come
 novellato  dal decreto legge citato; in contrasto altresi' con l'art.
 9  della  Costituzione  in  relazione  al secondo comma dell'articolo
 stesso in quanto la mancata applicazione della sanzione penale  nella
 fattispecie   prevista   dall'art.   3   del   d.l.   citato  appare
 insufficiente a tutelare il paesaggio nella eccezione piu'  lata  che
 recenti  pronuncie  delle  Corti  Supreme hanno dato alla nozione del
 paesaggio; infine la norma in questione appare in contrasto  altresi'
 con  l'art.  10  della Costituzione che impone allo Stato italiano di
 conformarsi  alle  norme  del  diritto  internazionale   generalmente
 riconosciute laddove omette la sostanziale applicazione ed attuazione
 delle direttive CEE in materia di inquinamento ambientale.
     B)  La  prospettata questione appare altresi' rilevante, nel caso
 in  esame,  poiche'  l'imputato  ha  ritualmente  e   tempestivamente
 avanzato  richiesta di applicazione ai sensi dell'art. 444 del c.p.p.
 della pena dell'ammenda prevista per il reato contestato  dal  citato
 art.  3 d.l. n. 537/1994 ed il presente giudizio, pertanto, non puo'
 definirsi in modo indipendente dalla  risoluzione  della  prospettata
 questione di legittimita' costituzionale.
    Circa  i  presupposti  di  diritto  in  ordine  alla non manifesta
 infondatezza si rileva quanto segue.
    Va premesso che la legge 10 maggio  1976,  n.  319  e  succ.  mod.
 (cosiddetta  "legge-Merli")  costituisce  la norma-base in materia di
 tutela del territorio e delle acque dall'inquinamento idrico,  e  nel
 suo  contesto  sanzionatorio  il  reato piu' grave e signiticativo in
 senso assoluto e' stato sempre considerato quello previsto dal  terzo
 comma  dell'art.  21  posto  che  punisce  la  condotta  sostanziale,
 immediatamente  incidente  sull'ambiente  naturale,  di  coloro   che
 "inquinano"  materialmente  nel senso logico-previsionale della legge
 stessa e cioe' superando nello scarico  i  limiti  di  accettabilita'
 previsti  dalla  legge  stessa  come  parametri  massimi  formalmente
 tollerabili per ciascuna  sostanza  riversata  su  quello  che  viene
 definito  il corpo ricettore (e che in realta' e' in massima parte il
 patrimonio idrico e poi anche territoriale del nostro Paese). Accanto
 ad altri reati satellite, si evidenzia altro reato,  per  cosi'  dire
 preventivo  e  burocratico,  previsto  dal  primo e secondo comma del
 citato art. 21 che punisce chi opera uno scarico senza aver  ottenuto
 l'autorizzazione amministrativa allo stesso.
    Di  conseguenza,  il reato di cui al terzo comma citato riporta la
 pena piu' grave (arresto due mesi a due anni oltre la pena accessoria
 dell'incapacita' di contrattare  con  la  pubblica  amministrazione),
 mentre  nel  caso  dei reati previsti dagli altri commi o dagli altri
 articoli si prevedono pene  piu'  lievi,  laddove  peraltro  la  pena
 detentiva  e'  alternativa  a  quella pecuniaria (con possibilita' di
 oblazione).
    L'art.  3  del  decreto  legge  in  esame,  come  e'  stato  sopra
 riportato,  depenalizza in linea generale il terzo comma dell'art. 21
 e relega in una ipotesi secondaria  un  residuo  di  sanzione  penale
 applicabile a casi specifici e limitati, selettivamente individuati.
    Riguardo a quest'ultimo punto, si osserva che:
      la norma portante e di base diventa l'ipotesi depenalizzata, che
 trova  applicazione  nel  grande  contesto  generale della disciplina
 degli scarichi; e con cio' si e'  operata  di  fatto  una  diffusa  e
 latente depenalizzazione del reato del terzo comma art. 21; l'ipotesi
 residua  penale  e'  espressamente  indicata come semplice "deroga" a
 questa regolamentazione di  base  ed  e'  ristretta  ad  alcuni  casi
 specifici limitati;
     detta  residua  sanzione  penale  e', peraltro, estremamente piu'
 modesta  rispetto  alla  sanzione  originaria  del  terzo  comma   in
 questione  giacche'  prevede  in  un caso la sola ammenda ed in altro
 caso la pena dell'arresto alternativa con l'ammenda e dunque entrambi
 i casi sono soggetti all'oblazione; peraltro nel primo caso  trattasi
 di  oblazione  "semplice"  prevista  dall'art.  162  del  c.p. con la
 conseguente impossibilita' del giudice di negare  l'oblazione  stessa
 quando   "permangano  conseguenze  pericolose  o  dannose  del  reato
 eliminabili da parte del contravventore" (art. 162/ bis c.p.); e,  di
 fatto,  il  sistema  sanzionatorio si traduce in una depenalizzazione
 potenziale indiretta, ben diversa  dalla  previsione  originaria  del
 terzo comma come sopra espressa;
      detta residua ipotesi di carattere penale appare poi scarsamente
 adattabile  ai  casi  concreti  in quanto la verifica del superamento
 della soglia del 20 per cento non e' immediatamente percepibile dagli
 organi di p.g. in loco in sede di accertamento dell'illecito e dunque
 un organo di p.g. non sa e non puo' sapere in quel momento se  agisce
 come  organo di polizia giudiziaria che accerta un reato (con tutti i
 poteri/doveri conferitigli dal codice di  procedura  penale)  o  come
 organo  amministrativo  che  verifica un illecito amministrativo (con
 schemi operativi del tutto diversi); ne'  e'  data  possibile  questa
 verifica   in  quei  casi  di  inquinamento  oggettivo  ai  quali  la
 giurisprudenza della Corte di  cassazione  ricollega  un  superamento
 automatico  generale, anche se non quantificato, dei limiti tabellari
 in seguito a riversamento nel  corpo  ricettore  di  alcuni  tipi  di
 scarico  (es.  allevamenti)  senza  alcuna  forma  di  depurazione  e
 trattamento (come nel caso di  specie  ove  il  capo  di  imputazione
 prescinde   dalle   analisi   e   si  basa  su  riscontro  di  comune
 scienza/esperienza per scarico senza trattamento, rendendo quindi  di
 fatto  impossibile il calcolo del superamento del 20 per cento su una
 analisi inesistente);
      detta residua ipotesi di carattere penale rende impossibile  per
 l'organo  di  p.g. per le medesime ragioni, l'immediata percezione in
 loco  in  sede  di  accertamento   dei   limiti   di   accettabilita'
 inderogabili  per  i  parametri  di  natura  tossica,  persistente  e
 bioaccumulabile, di cui all'ultima parte dell'art. 3 del  decreto  in
 esame cosicche' anche in tal caso un organo di p.g. non sa e non puo'
 sapere  in  quel momento se agisce come organo di polizia giudiziaria
 che accerta un reato (con  tutti  i  poteri/doveri  conferitigli  dal
 codice di procedura penale) o come organo amministrativo che verifica
 un illecito amministrativo (con schemi operativi del tutto diversi);
      la sinergia di dette previsioni amministrative/penali con labili
 ed  incerti  confini di immediata definizione e percezione in sede di
 accertamento di p.g. crea di fatto una incertezza operativa  per  gli
 organi di polizia giudiziaria che rischia di tradursi in una generale
 casistica di accertamenti mancati e/o inesatti per inevitabili errori
 ed incertezze interpretative e difficolta' attuative.
    Nel  cosi'  rinnovato  e  novellato  testo generale della legge n.
 319/1976,  consegue  peraltro  che  colui   che   viola   il   regime
 autorizzatorio  (e  quindi  pone  in essere una condotta illecita ben
 piu' modesta in via sostanziale rispetto a  chi  scarica  inquinando)
 vede  intatta  la  norma  punitiva  originaria  che prevede, in linea
 teorica, anche l'arresto che addirittura puo'  giungere  fino  a  due
 anni;  mentre  chi riversa nell'ambiente naturale sostanze inquinanti
 in violazione di legge sara' soggetto,  in  linea  generale,  ad  una
 semplice  sanzione  amministrativa  (o,  nel  caso  piu'  teorico che
 pratico - a prova remota - della deroga residua penale sara' soggetto
 ad una blanda sanzione penale immediatamente oblazionabile  e  quindi
 di fatto potenzialmente ed indirettamente decriminalizzata); in detta
 situazione  si  puo'  individuare, ad avviso dello scrivente pretore,
 una violazione dell'art. 3 della Costituzione in quanto si e'  creata
 una ingiustificata disparita' di trattamento tra i cittadini soggetti
 alle  sanzioni  del  primo/secondo  e  terzo  comma  art. 21 legge n.
 319/1976.
    Nel  contesto  del  citato  principio  di  uguaglianza  la   Corte
 costituzionale (sentenza n. 7/1963) ha stabilito che appare legittimo
 per  il legislatore emanare norme differenziate riguardo a situazioni
 obiettivamente diverse solo a condizione che  tali  norme  rispondano
 all'esigenza   che  la  disparita'  di  trattamento  sia  fondata  su
 presupposti logici obiettivi, i quali razionalmente ne  giustifichino
 l'adozione.  In  caso  di  trattamento  sanzionatorio irrazionalmente
 differenziato  la   Corte   costituzionale   ha   sempre   dichiarato
 l'incostituzionalita'   delle   disposizioni   relative  (da  ultimo,
 sentenza n. 341/1994 in materia di  oltraggio  con  ridimensionamento
 della pena minima edittale).
    Il  sistema  sanzionatorio  dell'art.  21 legge n. 319/1976, cosi'
 come modificato dall'art. 3 del decreto legge in esame, di fatto e in
 ogni caso crea un profondo  ed  oggettivo  svuotamento  deterrente  e
 punitivo  in  ordine  a  quello  che  puo'  essere  definito  non uno
 qualsiasi dei reati in materia ambientale ma senz'altro il piu' grave
 o comunque uno tra i piu' gravi reati in assoluto in questo  settore,
 e  cioe'  l'inquinamento  in  senso  stretto  del  patrimonio  idrico
 nazionale e del territorio in  linea  generale.  Va  sottolineato  al
 riguardo  che,  nonostante  il  titolo  del  decreto ("Modifiche alla
 disciplina  degli  scarichi  delle  pubbliche   fognature   e   degli
 insediamenti  civili  che non recapitano in pubbliche fognature"), in
 realta' la modifica del terzo comma dell'art. 21 in questione  va  ad
 incidere in via diretta e totale sulla regolamentazione sanzionatoria
 anche  degli  scarichi  da  insediamenti  produttivi,  ivi compresi i
 grandi  complessi  industriali.    Dunque  anche  i  grandi  casi  di
 inquinamento  chimico  di  origine  industriale  rientrano  in  detta
 modifica.  Il  ridurre  le  relative  sanzioni,  che  possono  dunque
 riguardare   anche  casi  socialmente  gravissimi  sotto  il  profilo
 biologico/ambientale, ad una sanzione amministrativa o, tutt'al piu',
 ad una improbabile e difficilmente raggiungibile sanzione  penale  di
 minima  e  trascurabile  ed oblazionabile entita', significa di fatto
 aver creato uno svuotamento improvviso ed ingiustificato del  sistema
 sanzionatorio   originario   che   era,  invece,  chiaro,  facilmente
 interpretabile,  facilmente  attuabile  e  soprattutto  riportava  un
 effetto deterrente e punitivo di ben altra portata.
    Va  peraltro osservato che sul modificato terzo comma dell'art. 21
 legge  n.  319/1976  si  e'  innestata  una  fiorente  ed  articolata
 giurisprudenza  della  Corte  di cassazione che ha costruito principi
 inediti ed importanti ruotando intorno a detto sistema sanzionatorio;
 si pensi alle innovative sentenze sulla natura dei prelievi operabili
 anche da organi di p.g.,  alle  problematiche  sulle  garanzie  della
 difesa  in  sede  di  accertamento, alle nuove possibilita' operative
 offerte  alla  p.g. in diverse sedi di accertamento nel settore, alla
 individuazione  di  concetti-base   come   quello   di   insediamento
 produttivo  e  civile  ed  alle  innumerevoli  problematiche connesse
 risolte in sede di  indagine  e  processuale,  alle  decisioni  sulle
 competenze istituzionali, alla individuazione dei punti di scarico ed
 alle metodiche di prelievo e si potrebbe a lungo continuare; trattasi
 di  una  stratificazione,  omogenea  e  per  nulla  disarticolata, di
 giurisprudenza che negli ultimi anni ha  creato  un  vera  e  propria
 prassi  interpretativa/applicativa  di  supporto  e integrazione alla
 legge n. 319/1976 che ha costituito fino ad oggi l'ossatura  portante
 delle  indagini  di  p.g.  e  dei  processi in materia; il decreto in
 esame, intaccando alla radice il sistema sanzionatorio su cui  si  e'
 basato  l'intervento della suprema Corte, ha azzerato di fatto questa
 preziosa costruzione giurisprudenziale che appare in larga parte  non
 piu' pertinente.
    In   detto   svuotamento  sanzionatorio  di  uno  dei  reati  piu'
 importanti in materia di  tutela  ambientale  (forse  il  reato  piu'
 importante  in  assoluto  in  materia  di inquinamenti) si profila ad
 avviso dello scrivente pretore, una violazione del disposto dell'art.
 9/secondo comma della Costituzione, laddove la tutela del  paesaggio,
 inteso  secondo  le piu' recenti pronunce della Corte di cassazione e
 della Corte costituzionale, non deve essere inteso solo come bellezza
 estetica da cartolina ma come ambiente naturale in senso lato, quindi
 comprensivo  anche  degli   inevitabili   ed   inscindibili   aspetti
 bionaturalistici.
    Il  decreto-legge  prevede come sostanze pericolose esclusivamente
 quelle  contenute  nella  delibera   del   30   dicembre   1980,   ma
 successivamente  a  tale  data  le  tabelle  allegate  alla  legge n.
 319/1976  sono  state  modificate  inserendo  anche  altre   sostanze
 notevolmente  pericolose  come  i  policlorobifenili  ed  i pesticidi
 differenti da quelli clorurati e fosforati; nel momento in cui invece
 si fa riferimento esclusivamente a quelle  contenute  nella  delibera
 vengono  fatte  salve  queste  sostanze  che,  pur se pericolose, non
 vengono ad essere  considerate  tra  quelle  soggette  alle  sanzioni
 previste per le altre sostanze pericolose (ad es. atrazina).
    Inoltre  si deve evidenziare come la legge n. 319/1976 non prevede
 che non vengano scaricate esclusivamente le sostanze contenute  nella
 tabella   A,  ma  prevede  anche  che  non  vengano  scaricate  senza
 autorizzazione tutte le sostanze  possibili  tossiche  e  nocive  che
 possono  essere  presenti  in  uno  scarico,  talche' quando pretende
 l'autorizzazione all'art. 13 prevede che si  chieda  l'autorizzazione
 anche per tutte le sostanze inquinanti rendendo appunto necessaria la
 dichiarazione  delle  caratteristiche  qualitative e quantitive dello
 scarico ma non limitatamente a quelle previste dalle tabelle.
    Questo precetto comporta che se un soggetto  scarica  nella  acque
 uno  sostanza  tipo  la  diossina,  non  essendo  la  diossina stessa
 prevista tra i limiti tabellari l'autorita' competente  che  rilascia
 l'autorizzazione potra' e dovra' certamente prescrivere un limite per
 la  diossina;  nel  momento in cui, pero', viene ad essere prescritto
 questo  limite,  non  essendo  la  diossina  annoverata  dai   limiti
 tabellari  con l'attuale dizione presente nel decreto-legge in esame,
 abbiamo che pur in presenza di detto scarico che riguarda  una  delle
 sostanze  piu' tossiche, non e' applicabile la stessa sanzione che e'
 irrogabile ad esempio per  il  mercurio;  e  quanto  esposto  per  la
 diossina  vale  per  molte  altre  sostanze  tossiche come ad esempio
 l'argento.
    Va inoltre tenuto presente  che  le  sostanze  tossiche  contenute
 nella  delibera  del  31 dicembre 1980, cosiddette inderogabili, sono
 solo una piccolissima parte di quelle che invece sono da  considerare
 tossiche  e nocive, perche' solo una piccola parte di queste sostanze
 possono essere ricondotte alle 129 sostanze previste dalla  direttiva
 C.E.E.  madre  per  quanto riguarda l'inquinamento e quindi andare ad
 applicare delle sanzioni  penali  esclusivamente  a  queste  sostanze
 pericolose  e'  del  tutto  limitativo e non rispetta quanto previsto
 dalla direttiva C.E.E.
    Per gli stessi  motivi  esposti  in  relazione  all'art.  9  della
 Costituzione,  si ritiene che la norma in esame si ponga in contrasto
 anche con l'art. 32 della carta costituzionale. Infatti nel  concetto
 di  tutela  della  salute come principio costituzionalmente garantito
 deve, per forza di cose, ricomprendersi il piu' vasto concetto  della
 salute  pubblica nel senso della salubrita' dell'ambiente naturale ed
 urbano ove ciascun cittadino vive.  Il  diritto  alla  salute  inteso
 anche  come diritto all'ambiente salubre e' stato ormai ripetutamente
 accertato in giurisprudenza (si veda per  tutte  la  famosa  sentenza
 delle  sezioni  unite  n.  517  del  6 ottobre 1979, nonche' la Corte
 costituzionale in data 31 dicembre 1987, n. 641 ed in data  16  marzo
 1990 n. 17). E' fuor dubbio che la diminuita, ed anzi per certi versi
 di   fatto   del   tutto   caducata,   possibilita'   di   intervento
 deterrente/punitivo in sede di illeciti da inquinamento idrico crea i
 presupposti  per   una   evoluzione   incontrollata   del   fenomeno,
 incoraggiata  dall'abbassamento della guardia in sede di controlli di
 p.g. e possibilita' di intervento  processuale;  e  tutto  questo  si
 traduce  in  via  diretta  in  un  danno  per  la salute e salubrita'
 pubblica  in  un   ambiente   che   resta   cosi'   maggiormente   ed
 incontrollatamente esposto al degrado inquinante.
    Va  ancora  rilevato  che  la  norma in esame pare porsi in totale
 contrasto  con  gli  obblighi  che  derivano  al  nostro  Paese   per
 l'appartenenza all'unione europea. Gia' due volte la Corte europea di
 giustizia  ha  condannato  il  nostro  Paese  per il contrasto tra la
 "legge-Merli" e le direttive comunitarie, tra l'altro  anche  per  la
 permissivita'   del   sistema   autorizzatorio   previsto  e  per  la
 "insufficienza"  delle  sanzioni  penali  previste  dall'art.  22  in
 relazione  alla  inosservanza  delle prescrizioni dell'autorizzazione
 (Corte di giustizia 28 febbraio 1991 e 13 dicembre 1990 -  pubblicate
 integralmente  in "Amendola, inquinamento e industria", - Milano 1992
 -  pag.  69  e  segg.).  La  sopra   esposta   generale   regressione
 sanzionatoria  creata  dal  decreto  legge  in  esame  concretizza di
 conseguenza  una  ulteriore  evoluzione  del  grado  di  inadempienza
 italiana  verso  le  direttive C.E.E. e verso le sentenze della Corte
 europea.
    Peraltro il  decreto  stesso,  eliminando  limiti  certi  per  gli
 scarichi  da pubbliche fognature si pone in evidente contrasto con la
 direttiva C.E.E. n. 271 del 21  maggio  1991  sul  trattamento  delle
 acque  reflue  urbane,  che  lo  Stato  italiano  avrebbe dovuto gia'
 recepire entro lo scorso giugno 1993 e che fissa  obblighi  e  limiti
 ben  precisi, con ben pochi margini di discrezionalita' specie per le
 "aeree sensibili". E del resto il contrasto e' apparso  evidentemente
 gia'  in sede di redazione del testo in esame se il decreto specifica
 espressamente  nell'art.  1  comma  terzo  che  "le  disposizioni del
 presente  decreto  si  applicano  in  attesa  dell'attuazione   della
 direttiva  91/271/C.E.E.  del  21  maggio  1991".  Dunque  da un lato
 l'Italia non ha recepito la direttiva C.E.E. nei termini stabiliti  e
 dall'altro ha adottato un decreto legge in antitesi ai principi della
 direttiva stessa, con una mora temporale applicativa illogica. Ove il
 decreto   n.   537   dovesse  essere  convertito  in  legge,  le  sue
 prescrizioni si  applicheranno  dunque  finche'  non  si  sara'  data
 attuazione  alla  citata direttiva; evoluzione che dovrebbe avvenire,
 secondo la legge comunitaria 1993 n. 146 del 22 febbraio 1994,  entro
 il marzo 1995, e cioe' entro pochissimi mesi; e, peraltro, con rigidi
 principi  di attuazione predeterminati dal Parlamento (art. 37, primo
 comma) in evidente contrasto con la  elasticita'  e  genericita'  del
 decreto   in  esame.  Il  che  provochera'  ulteriore  confusione  ed
 incertezza del diritto.
    Ed in ogni caso va  sottolineato  che,  secondo  la  citata  legge
 comunitaria,  il  Governo dovrebbe dare attuazione a questa direttiva
 provvedendo all'"adeguamento della normativa vigente alla  disciplina
 comunitaria,  apportando  alla  prima  ogni  necessaria  modifica  ed
 integrazione allo scopo di definire un quadro  omogeneo  ed  organico
 delle disposizioni di settore" (art. 36 lett. c).
    Dato  il  carattere  regressivo  in sede sanzionatoria del decreto
 537, ritiene lo scrivente che si appalesa un contrasto con l'art.  10
 della  Costituzione  per  mancata conformazione alle citate norme del
 diritto internazionale.
    Si rileva inoltre che la regressione  sanzionatoria  in  esame  si
 pone  in evidente contrasto con il principio "chi inquina paga", oggi
 chiaramente  presupposta  da  diverse  decisioni   della   Corte   di
 cassazione  (tra  le  altre, cass. pen. sez. III, 2 febbraio 1994, n.
 2525 e cass. pen. sez.  III,  6  aprile  1993,  n.  3148).  La  norma
 denunciata  infatti  favorisce  apertamente chi ha violato la legge e
 penalizza, invece, anche sul piano  della  concorrenza  tra  imprese,
 proprio  le  aziende  che hanno affrontato rilevanti investimenti per
 adeguare i propri impianti alle esigenze di tutela ambientale; e cio'
 appalesa, ad avviso dello scrivente, un contrasto con l'art. 41 della
 Costituzione.
                                P. Q. M.
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata  per  violazione
 degli  artt.  3,  9,  10, 32 e 41 della Costituzione, la questione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 3 del d.l. 17 settembre  1994,
 n. 537;
    Sospende il giudizio in corso;
    Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
 costituzionale;
    Ordina che a cura della  cancelleria  la  presente  ordinanza  sia
 notificata  all'imputato, al difensore, al p.m. nonche' al Presidente
 del Consiglio dei Ministri e comunicata al  Presidente  della  Camera
 dei Deputati ed al Presidente del Senato della Repubblica.
      Perugia, addi' 6 ottobre 1994
                          Il pretore: DUCHINI

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