N. 414 SENTENZA 24 novembre - 7 dicembre 1994

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Fallimento - Reato di interesse privato del curatore negli atti della
 procedura - Fattispecie applicabile -  Determinazione  -  Irrilevanza
 delle  asserzioni  del  giudice   a quo - Necessita' di un intervento
 legislativo di coordinamento dell'art. 228 della  legge  fallimentare
 con  le  modifiche  introdotte  per  i  reati  commessi  da  pubblici
 ufficiali contro la p.a. - Non fondatezza.
 
 (R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 228).
 
 (Cost., art. 3).
 
(GU n.51 del 14-12-1994 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
 Giudici: prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Vincenzo
    CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI,  prof.  Luigi  MENGONI,  prof.  Enzo
    CHELI,  prof.  Giuliano  VASSALLI,  prof.  Francesco GUIZZI, prof.
    Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv.  Massimo  VARI,
    dott. Cesare RUPERTO;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel  giudizio  di legittimita' costituzionale dell'art. 228 del regio
 decreto 16  marzo  1942,  n.  267  (Disciplina  del  fallimento,  del
 concordato   preventivo,  dell'amministrazione  controllata  e  della
 liquidazione coatta amministrativa), promosso con ordinanza emessa il
 3 marzo 1994 dal Tribunale  di  Casale  Monferrato  nel  procedimento
 penale  a  carico  di  Gatti Antonio, iscritta al n. 284 del registro
 ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
 n. 22, prima serie speciale, dell'anno 1994;
    Visto l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio del 26 ottobre 1994 il Giudice
 relatore Vincenzo Caianiello;
                           Ritenuto in fatto
    1. - Con ordinanza emessa il 3 marzo 1994, il Tribunale di  Casale
 Monferrato  ha  sollevato,  nel corso di un giudizio penale avente ad
 oggetto una imputazione di bancarotta fraudolenta ex art. 216,  comma
 secondo,  del  r.d.  16  marzo  1942,  n.  267  (legge fallimentare),
 questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  228  del  citato
 regio decreto, che prevede il reato di interesse privato del curatore
 negli   atti   del   fallimento,  in  riferimento  all'art.  3  della
 Costituzione.
    2.  -  Il rimettente rileva preliminarmente che, in base all'esame
 degli atti del giudizio (che si svolge con il  rito  abbreviato),  la
 condotta  penalmente  rilevante ascritta al curatore di un fallimento
 di impresa individuale dovrebbe essere qualificata non  gia'  secondo
 il  titolo  dell'imputazione  originaria  di  bancarotta bensi', piu'
 esattamente, come reato di interesse privato del  curatore,  ex  art.
 228 impugnato. Questa diversa qualificazione, aggiunge, e' consentita
 nell'ambito  del  giudizio  abbreviato,  nel  rispetto dell'art. 521,
 comma 1, del codice di procedura penale.
    3. - Il Tribunale osserva poi che con la legge 26 aprile 1990,  n.
 86,   e'   stata   abrogata   la  fattispecie  incriminatrice  comune
 dell'interesse privato in atti di ufficio di  cui  all'art.  324  del
 codice  penale,  strutturata  in  termini identici a quelli descritti
 nella norma impugnata; si verifica quindi, ad avviso  del  giudice  a
 quo,  la  persistente  punibilita'  del curatore fallimentare per una
 fattispecie di reato cui non sono piu' soggetti  gli  altri  pubblici
 ufficiali.  Questa  situazione, prosegue il rimettente, determina una
 disparita'  di  trattamento  non  giustificata,  e   percio'   lesiva
 dell'art.  3  della Costituzione, che non puo' neppure ritenersi " ..
 colmata dal rinvio contenuto nella norma (impugnata) .. all'art.  323
 del   codice  penale,  ove  venga  letto  nella  nuova  formulazione"
 conseguente alla riforma apportata con la legge n. 86 del 1990, "  ..
 e  cio'  indipendentemente  dalle ragioni per cui nell'art. 228 della
 legge fallimentare e' previsto un diverso regime sanzionatorio".
    4. - E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato, che ha concluso per una declaratoria di non  fondatezza  della
 questione;   l'Avvocatura  richiama  a  tal  fine  la  giurisprudenza
 costituzionale che riconduce all'ambito del legittimo esercizio della
 discrezionalita' legislativa le  ipotesi  di  diversificazione  della
 disciplina  di certe fattispecie che, pur simili ad altre, presentino
 rispetto a queste ultime elementi di diversita', come si verifica nel
 caso in esame, stante la  specificita'  del  settore  fallimentare  e
 della figura del curatore del fallimento.
                        Considerato in diritto
    1. - Il giudice rimettente dubita, in riferimento all'art. 3 della
 Costituzione,  della  legittimita' costituzionale dell'art. 228 della
 legge fallimentare (r.d. 16 marzo 1942, n. 267) che prevede  la  pena
 della  reclusione  da  due a sei anni e la multa non inferiore a lire
 quattrocentomila per il "curatore che  prende  interesse  privato  in
 qualsiasi atto del fallimento direttamente o per interposta persona o
 con atti simulati".
    Si osserva nell'ordinanza di rimessione che "in virtu' della legge
 n.  26  aprile 1990, n. 86 e' stata espunta dal nostro ordinamento la
 fattispecie normativa di cui all'art. 324 c.p. (interesse privato  in
 atti  di ufficio), norma strutturata in maniera identica all'art. 228
 della legge fallimentare". In base a quest'ultima norma "il  curatore
 fallimentare  continuerebbe  ad  essere sottoposto ad una fattispecie
 cui non sono oramai piu' soggetti..  gli  altri  pubblici  ufficiali,
 determinandosi  cosi'  una  disparita'  di  trattamento  che non puo'
 ritenersi  colmata  dal  rinvio",  contenuto  nel  citato  art.  228,
 "all'art.  323  cod.pen.  ,  ove venga letto nella nuova formulazione
 successiva all'entrata in vigore della legge n. 86/90".
    2. - La questione non e' fondata.
    Va innanzitutto precisato che l'art. 228 della legge fallimentare,
 recante  il  titolo  "interesse  privato  del curatore negli atti del
 fallimento",  nel  mentre  ricollega  al  curatore  stesso  i   reati
 imputabili  in  generale  ai  pubblici ufficiali, facendo a taluni di
 essi esplicito richiamo con la clausola  di  sussidiarieta'  espressa
 nella  formula  "salvo  che  al fatto non siano applicabili gli artt.
 315, 317, 318, 319, 321, 322 e 323 del codice penale",  configura  in
 modo  autonomo,  sia  pure simile nel contenuto all'abrogato art. 324
 del codice penale, la fattispecie dell'interesse privato riferita  al
 curatore  fallimentare,  comminando,  fra l'altro, una pena detentiva
 maggiore, nel minimo e nel massimo, rispetto  a  quella  dell'analogo
 reato  gia'  previsto dall'abrogato art. 324 del codice penale per il
 pubblico ufficiale.
    L'incriminazione in modo autonomo del suddetto reato  se  commesso
 dal  curatore  fallimentare, pur recante il medesimo titolo di quello
 ora abrogato nel codice penale, evidenzia l'intento  del  legislatore
 di  attribuire una specialita' - e un connotato di maggiore gravita',
 espresso nel  trattamento  sanzionatorio  -  al  reato  di  interesse
 privato riferito al curatore, rispetto alla previsione incriminatrice
 del  codice  penale  gia' prevista per il pubblico ufficiale; figura,
 quest'ultima,  cui,  anche  sotto  altri  profili,  il  curatore   e'
 assimilato.
    Detta  specialita'  costituisce  indubbio indice di disomogeneita'
 fra l'abrogata fattispecie dell'art. 324 del codice penale  e  quella
 prevista per il curatore dalla legge fallimentare. Una disomogeneita'
 che   ha  indotto  evidentemente  lo  stesso  giudice  rimettente  ad
 escludere - per il fatto stesso di sollevare la questione,  con  cio'
 supponendo  la perdurante vigenza della norma impugnata - l'implicita
 abrogazione anche  dell'art.  228  della  legge  fallimentare,  quale
 conseguenza   dell'abrogazione   dell'art.  324  del  codice  penale,
 mostrando cosi' di non aderire  alla  opinione  espressa  da  qualche
 autore.
    In  presenza di situazioni normative fra loro non omogenee, stante
 l'autonomia e la specialita' dell'art. 228 del r.d. n. 267  del  1942
 rispetto  all'abrogato  art.  324  del  codice  penale  invocato come
 tertium  comparationis,  non  trova  fondamento  la   tesi   di   una
 ingiustificata  disparita'  di  trattamento  che  si sarebbe venuta a
 determinare, per effetto delle modifiche apportate dalla legge n.  86
 del  1990,  fra  il  curatore  fallimentare  ed il pubblico ufficiale
 rispetto alla situazione precedente: da un lato, gia' in  origine  le
 fattispecie  incriminatrici  dell'interesse  privato  erano,  nei due
 casi,  rispettivamente  autonome  e  diversificate  nel  segno  della
 maggiore  severita'  per  la prima; dall'altro, non si e' determinata
 una indiscriminata abolitio  criminis  delle  condotte  del  pubblico
 ufficiale  gia' qualificabili come fatti di interesse privato in atti
 di ufficio,  bensi'  si  e'  verificata  la  riconduzione  di  quelle
 condotte  a  nuove  fattispecie (artt. 323 e 326) del codice penale -
 secondo un fenomeno di successione di  incriminazioni  enucleato,  in
 termini  consolidati,  dalla  giurisprudenza  e  gia' sottolineato da
 questa  Corte  (ord.  n.  6  del  1992)  -  per  cui  perde   rilievo
 l'asserzione,  da  cui muove il giudice a quo, della impunita' di cui
 godrebbero i pubblici ufficiali per le richiamate  condotte,  sebbene
 assimilabili a quelle del curatore.
   La  dichiarazione di infondatezza della questione non puo' peraltro
 esimere  la  Corte  del  richiamare  l'attenzione   del   legislatore
 sull'esigenza  di  coordinamento  del  vigente  art.  228 della legge
 fallimentare con le modifiche introdotte  per  i  reati  commessi  da
 pubblici  ufficiali contro la pubblica amministrazione, ad alcuni dei
 quali detto articolo peraltro, come si e' detto, rinvia presupponendo
 situazioni normative oggi abrogate o sostituite con altre  previsioni
 incriminatrici  ad  opera  della  legge  n.  86 del 1990. Un profilo,
 questo, che assume particolare  rilievo  per  quel  che  concerne  la
 riserva,  operata  dal citato art. 228, di applicazione dell'art. 323
 del codice penale, sostituito con una fattispecie  che,  come  si  e'
 detto,  comprende,  mutatis mutandis, ipotesi corrispondenti a quelle
 incriminate dalla norma della legge fallimentare oggetto del presente
 giudizio.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara non fondata la questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.  228  del  r.d.  16  marzo  1942,  n.  267  (Disciplina del
 fallimento,   del   concordato    preventivo,    dell'amministrazione
 controllata e della liquidazione coatta amministrativa) sollevata, in
 riferimento  all'art.  3  della Costituzione, dal Tribunale di Casale
 Monferrato, con l'ordinanza indicata in epigrafe.
    Cosi' deciso in  Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 24 novembre 1994.
                        Il Presidente: CASAVOLA
                       Il redattore: CAIANIELLO
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 7 dicembre 1994.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
 94C1311