N. 419 SENTENZA 24 novembre - 7 dicembre 1994

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Processo  penale  -  Misure  antimafia  -  Provvedimenti  cautelari -
 Istituto del "soggiorno cautelare" - Presupposti per l'applicazione -
 Ancoraggio  a  fatti  e   comportamenti   oggettivi   strumentalmente
 collegati  alla commissione di una o piu' delle fattispecie criminose
 tassativamente  indicate  -  Non  fondatezza  nei  sensi  di  cui  in
 motivazione - Richiamo alla giurisprudenza della Corte (cfr. sentenze
 nn.  11/1956,  53/1968,  76/1970,  168/1972  e  69/1975) - Poteri del
 procuratore nazionale  antimafia  in  materia  -  Disposizioni  della
 misura   in  via  definitiva  e  non  provvisoria  -  Soggezione  del
 provvedimento soltanto ad un riesame meramente eventuale da parte del
 giudice - Omessa previsione del  potere  di  disporre  da  parte  del
 procuratore  nazionale  antimafia,  con  decreto  motivato, la misura
 soltanto in via provvisoria con l'obbligo di chiedere la  contestuale
 adozione  del  provvedimento definitivo al tribunale - Illegittimita'
 costituzionale parziale.
 
 (D.-L.  8  giugno  1992,  n.  306,  art.  25-  quater,  primo  comma,
 convertito,  con  modificazioni,  dalla legge 7 agosto 1992, n.  356;
 d.-l.  8  giugno  1992,  n.  306,  art.  25-  quater,  quinto  comma,
 convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n.  356).
 
 (Cost., artt. 13, primo e secondo comma, e 25, terzo comma).
 
(GU n.51 del 14-12-1994 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
 Giudici: prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio
    BALDASSARRE,  prof.  Vincenzo  CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof.
    Luigi MENGONI, prof.  Enzo  CHELI,  dott.  Renato  GRANATA,  prof.
    Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI,
    prof.  Fernando  SANTOSUOSSO,  avv.  Massimo  VARI,  dott.  Cesare
    RUPERTO;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nei giudizi di legittimita' costituzionale  dell'art.  25-quater  del
 decreto-legge  8  giugno  1992,  n.  306  (Modifiche urgenti al nuovo
 codice  di  procedura  penale  e  provvedimenti  di  contrasto   alla
 criminalita'  mafiosa),  convertito, con modificazioni, dalla legge 7
 agosto 1992, n. 356,  promossi  con  n.  4  ordinanze  emesse  il  15
 dicembre  1993  dalla  Corte  di cassazione su ricorsi proposti da Lo
 Iacono Giovanni, Talia Erminio Claudio, Autelitano Antonio e Catroppa
 Dante, iscritte ai nn. 89, 95, 129 e 179 del registro ordinanze  1994
 e  pubblicate  nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 12, 13 e
 15, prima serie speciale, dell'anno 1994;
    Visti gli atti di intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del  6 luglio 1994 il Giudice
 relatore Mauro Ferri;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Con  quattro  ordinanze  di identico contenuto emesse il 15
 novembre 1993, la Corte  di  cassazione  ha  sollevato  questione  di
 legittimita'  costituzionale  - in riferimento agli artt. 13, primo e
 secondo comma, 24, secondo comma, e 25, primo e  terzo  comma,  della
 Costituzione - dell'art. 25-quater (soggiorno cautelare) del decreto-
 legge  8  giugno  1992,  n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di
 procedura penale  e  provvedimenti  di  contrasto  alla  criminalita'
 mafiosa),  convertito,  con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992,
 n. 356.
    Premette  la  Corte  remittente  che  i  ricorrenti  impugnano  le
 ordinanze  con le quali il giudice per le indagini preliminari presso
 il Tribunale di Roma, in sede di riesame, ha confermato i decreti del
 procuratore nazionale antimafia, con i quali era stato disposto,  nei
 confronti dei ricorrenti medesimi, ai sensi della norma impugnata, il
 soggiorno  cautelare. Tale norma attribuisce al procuratore nazionale
 antimafia il potere di "disporre il soggiorno cautelare di coloro nei
 cui confronti abbia motivo di ritenere che si  accingano  a  compiere
 taluno dei delitti indicati nell'articolo 275, comma 3, del codice di
 procedura  penale avvalendosi delle condizioni previste nell'articolo
 416- bis del codice penale o al fine di agevolare  l'attivita'  delle
 associazioni  indicate  nel medesimo articolo 416- bis" (comma 1). Lo
 stesso articolo stabilisce (comma 5) che, entro  dieci  giorni  dalla
 notificazione   del   provvedimento,   l'interessato   puo'  proporre
 richiesta di riesame al giudice per le indagini preliminari presso il
 Tribunale di Roma, il quale provvede nei dieci giorni successivi alla
 ricezione  della  richiesta,  "sentito   il   procuratore   nazionale
 antimafia  il  quale  trasmette  senza ritardo gli elementi su cui si
 fonda il decreto". Contro la decisione  del  giudice  e'  ammesso  il
 ricorso  per  cassazione.  Peraltro  "la  richiesta  di  riesame e il
 ricorso per cassazione non sospendono l'esecuzione del decreto".
    Cio' posto, il giudice a quo  rileva  che  la  problematica  delle
 misure  di  prevenzione  e'  stata  piu' volte affrontata dalla Corte
 costituzionale.
    Nella  lunga  serie  di   pronunce,   con   l'affermazione   della
 legittimita'  costituzionale  di "un sistema di misure di prevenzione
 dei fatti illeciti", a difesa "dell'ordinato e  pacifico  svolgimento
 dei   rapporti   fra   i  cittadini",  risultano  consolidati  alcuni
 importanti principi, quali l'obbligo della  garanzia  giurisdizionale
 per ogni provvedimento limitativo della liberta' personale e il netto
 rifiuto  del sospetto come presupposto per l'applicazione di siffatti
 provvedimenti,  in  tanto  legittimi  in  quanto  motivati  da  fatti
 specifici: norme costituzionali di riferimento, gli articoli 13, 16 e
 25,  comma  3  (stante  il  riconosciuto  parallelismo, per i dedotti
 profili, fra misure di prevenzione  e  misure  di  sicurezza),  della
 Costituzione.
    Vengono,  in particolare, menzionate al riguardo le sentenze nn. 2
 e 11 del 1956 (secondo cui  "in  nessun  caso  l'uomo  potra'  essere
 privato   o   limitato  nella  sua  liberta'  (personale)  se  questa
 privazione o restrizione non  risulti  astrattamente  prevista  dalla
 legge,  se un regolare giudizio non sia a tal fine instaurato, se non
 vi sia un provvedimento dell'autorita'  giudiziaria  che  ne  dia  le
 ragioni");  n. 23 del 1964, in cui la Corte escluse che "le misure di
 prevenzione  possano  essere  adottate  sul  fondamento  di  semplici
 sospetti",  richiedendosi  invece "una oggettiva valutazione di fatti
 ..    che    siano   manifestazione   concreta"   della   proclivita'
 delinquenziale del soggetto "e che siano stati accertati in  modo  da
 escludere valutazioni puramente soggettive e incontrollabili da parte
 di chi promuove o applica le misure di prevenzione"; e soprattutto la
 n.  177  del  1980,  nella  quale  si  affermo'  che "il principio di
 legalita' in materia di prevenzione  ..  implica  che  l'applicazione
 della  misura,  ancorche'  legata,  nella maggioranza dei casi, ad un
 giudizio prognostico, trovi il presupposto necessario in  fattispecie
 di  pericolosita'  previste  -  descritte  - dalla legge: fattispecie
 destinate a costituire il parametro dell'accertamento  giudiziale  e,
 insieme,  il fondamento di una prognosi di pericolosita', che solo su
 questa base puo' dirsi legalmente fondata"; su questa base, la  Corte
 dichiaro'  incostituzionale  la  norma  dell'articolo  1, n. 3, della
 legge 27 dicembre 1956 n. 1423, nella parte in  cui  elencava  fra  i
 soggetti  passibili  di  misure  di  prevenzione  "coloro che, per la
 manifestazioni cui  abbiano  dato  luogo,  diano  fondato  motivo  di
 ritenere  che  siano proclivi a delinquere", mentre ritenne legittima
 la norma dell'articolo 18, n. 1, della legge 22 maggio 1975  n.  152,
 che  prevede la sottoposizione a misure di prevenzione di "coloro che
 .. pongono  in  essere  atti  preparatori  obiettivamente  rilevanti,
 diretti a sovvertire l'ordinamento dello Stato, con la commissione di
 uno   dei   reati"   ivi  elencati  tassativamente,  poiche'  "l'atto
 preparatorio consiste in una manifestazione esterna" di rilevabilita'
 obiettiva,  per  cui  sufficientemente  determinata  ne  risulta   la
 fattispecie di pericolosita'.
    In  coerenza  con  le  indicate  decisioni  -  prosegue  la  Corte
 remittente - non puo' non  prospettarsi  la  incostituzionalita'  del
 citato articolo 25-quater sotto vari profili.
    Anzitutto  quello  inerente al principio di legalita', incorporato
 negli articoli 13, primo e secondo comma, e 25,  terzo  comma,  della
 Costituzione,  in  quanto la formula legale "coloro nei cui confronti
 (il procuratore nazionale antimafia) abbia motivo di ritenere che  si
 accingano   a  compiere  taluno  dei  delitti  indicati"  non  sembra
 rispondere       all'inderogabile       esigenza       costituzionale
 dell'individuazione di una fattispecie determinata, tale da escludere
 valutazioni  puramente  soggettive  e  da  poter  formare  oggetto di
 concreto accertamento giudiziario. Parrebbe infatti  che  la  formula
 "abbia  motivo  di ritenere" offra al procuratore nazionale antimafia
 uno spazio  di  incontrollabile  discrezionalita',  ancorato  ad  una
 valutazione  essenzialmente soggettiva, e cio' tanto piu' in rapporto
 all'estrema  genericita'  dell'indicazione   ("si   accinga")   della
 condotta,   apparentemente  svincolata  da  qualsiasi  manifestazione
 esteriore, cui si riferisce la valutazione anzidetta.
    Vi e' poi - prosegue il giudice a quo  -,  non  meno  rilevante  e
 forse  anche piu' marcato, il profilo della violazione della garanzia
 giurisdizionale, quale prevista dallo  stesso  articolo  13,  secondo
 comma   ("per   atto   motivato   dell'autorita'   giudiziaria"),   e
 necessariamente integrata dal riconoscimento del diritto  di  difesa,
 di cui all'articolo 24, secondo comma, della Costituzione. Invero, la
 "garanzia  giurisdizionale",  quale  requisito  di  legittimita'  del
 procedimento di applicazione delle misure di prevenzione, implica una
 decisione del giudice conseguente ad accertamento nel contraddittorio
 delle parti, che dia spazio anche  all'esercizio  della  difesa.  Per
 contro,  secondo  la  norma  in  esame:  1)  il potere di disporre il
 soggiorno cautelare e' attribuito al procuratore nazionale antimafia,
 organo  non  giurisdizionale,  in  assenza  di qualsiasi formalita' o
 prescrizione procedurale; 2) l'intervento  del  giudice  e'  previsto
 solo  in  sede  di  riesame  su  ricorso,  percio'  in  via meramente
 eventuale,  comunque  in  una  fase   successiva   all'adozione   del
 provvedimento,  e  oltretutto  senza  che  il  ricorso  abbia effetti
 sospensivi; 3) la decisione del g.i.p., in sede di riesame, segue  la
 procedura c.d. de plano, sentito il procuratore nazionale antimafia e
 in  base agli elementi da esso forniti, percio' senza contraddittorio
 e senza possibilita' di esplicazione del diritto di difesa.
    Vi e' infine - conclude la Corte di cassazione - un terzo  profilo
 per  cui  sembra  potersi  configurare una illegittimita' della norma
 considerata, ed e' quello che attiene al principio di inderogabilita'
 del giudice naturale, affermato dall'articolo 25, primo comma,  della
 Costituzione,  in  quanto  il  giudizio  di  riesame  e'  affidato in
 esclusiva al g.i.p. presso il Tribunale di Roma ("tribunale del luogo
 ove ha  sede  il  procuratore  nazionale  antimafia")  per  tutto  il
 territorio  nazionale:  cio'  che,  anche per la brevita' dei termini
 concessi,  puo'   rappresentare   un'ulteriore   e   non   secondaria
 limitazione,   sul   piano  pratico,  del  diritto  di  difesa  degli
 interessati.
    2. - E' intervenuto in tutti i giudizi il Presidente del Consiglio
 dei ministri, concludendo per l'infondatezza della questione.
    Osserva l'Avvocatura generale dello Stato che  una  lettura  della
 norma  impugnata in armonia con i principi che emergono proprio dalle
 sentenze  richiamate  nelle  ordinanze  salva  la  norma  stessa  dal
 sospetto di incostituzionalita'.
    Non v'e' dubbio, anzitutto, che il soggiorno cautelare si inscriva
 nel  novero  delle  misure preventive degli illeciti penali, reputate
 legittime dal giudice delle leggi.
    Il  giudizio  prognostico  demandato  al   procuratore   nazionale
 antimafia ha per oggetto non il semplice sospetto, ma alcuni elementi
 presuntivi  che  sono  identificabili obiettivamente; il giudice, dal
 canto suo, puo' controllarne  la  sussistenza  nei  termini  ritenuti
 necessari dalla giurisprudenza costituzionale.
    In  questo  senso,  prosegue  l'Avvocatura,  l'art.  25-quater  va
 interpretato come se fosse una norma analoga all'art. 18 della  legge
 n.  152  del  1975 (reputato legittimo da questa Corte), in quanto il
 pericolo preso in considerazione dal p.n.a. attiene ad  un  antefatto
 che,  pur  non  sfociando  necessariamente  in  un tentativo di reato
 penalmente  punibile,  si  pone  come  "ultima  soglia"  prima  della
 configurazione  di  una  fattispecie tentata o consumata di reato. In
 altre  parole,  la  fattispecie  presa  in  esame   dal   p.n.a.   e'
 sufficientemente  predeterminata,  per  cui il controllo (tempestivo)
 del giudice interviene su "casi" e non sulla  manifestazione  di  una
 discrezionalita'  pressoche' pura. Ne' e' da dubitarsi che il "quasi-
 reato" previsto dal comma 1 dell'art. 25-quater sia la manifestazione
 concreta di una proclivita' delinquenziale.
    Non sarebbe violato, poi, ad avviso  dell'Avvocatura,  neanche  il
 parametro    dell'art.   13,   sotto   il   profilo   dell'intervento
 dell'"autorita' giudiziaria". E' pur vero che il  p.n.a.  non  e'  un
 organo  giurisdizionale  in  senso  stretto,  ma e' parte dell'ordine
 giudiziario (sent. n. 190 del 1970). E'  del  resto  controverso,  in
 dottrina,  se  il  pubblico  ministero  possa  essere  annoverato nel
 concetto   di  "autorita'  giudiziaria"  di  cui  all'art.  13  della
 Costituzione:  potrebbe  avvalorare  la  conclusione  affermativa  la
 constatazione  che  il  pubblico ministero, seppure nell'ambito di un
 codice di procedura penale che gli assegnava una veste  ad  un  ruolo
 ben  diversi  dall'attuale,  esercitava  in  passato  dei  poteri che
 indubbiamente  rilevavano  quale  "atto   motivato"   o   "convalida"
 dell'autorita' giudiziaria.
    Parimenti infondato, inoltre, sarebbe anche il profilo inerente il
 diritto di difesa, visto che, sebbene nell'ambito di una procedura de
 plano,  l'interessato  ha la possibilita' di esplicare appieno le sue
 doglianze  sia  dinanzi  al  g.i.p.  che  in   sede   di   successiva
 impugnazione.
    Da  ultimo  -  conclude  l'interveniente  - la competenza radicata
 presso il g.i.p. di Roma si giustifica in ragione della necessita' di
 ricostruire, per  quanto  possibile,  un  collegamento  funzionale  e
 territoriale  tra l'organo del pubblico ministero (nella fattispecie,
 il  p.n.a.)  e  il  giudice,  collegamento  che  assicura  anche  una
 tendenziale uniformita' d'indirizzo nel sindacato dei giudizi operati
 dal  medesimo  p.n.a.  In  ogni  caso,  il giudice risulta pur sempre
 precostituito  per  legge  in   rapporto   alla   generalita'   delle
 controversie  in materia: non e', del resto, pacifica la tesi secondo
 la quale il giudice  e'  "naturale"  solo  quando  e'  assicurato  il
 collegamento con il locus commissi delicti.
                        Considerato in diritto
    1.  -  La  Corte di cassazione, con quattro ordinanze di contenuto
 sostanzialmente  identico,  dubita,   sotto   vari   profili,   della
 legittimita'  costituzionale  dell'art. 25-quater del decreto-legge 8
 giugno 1992, n. 306, convertito, con  modificazioni,  dalla  legge  7
 agosto   1992,   n.   356,   con   il   quale   e'  stato  introdotto
 nell'ordinamento, nell'ambito di una serie  di  misure  di  contrasto
 alla   criminalita'   mafiosa,   l'istituto   denominato   "soggiorno
 cautelare". Data l'identita' delle questioni  sollevate,  i  relativi
 giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza.
    2.   -   Le  censure  della  Corte  di  cassazione  si  incentrano
 esclusivamente sul primo e sul quinto comma dell'articolo  citato,  i
 quali  rispettivamente  prevedono,  per quanto qui interessa, che: il
 procuratore nazionale antimafia "puo' disporre il soggiorno cautelare
 di coloro nei cui confronti abbia motivo di ritenere che si accingano
 a compiere taluno dei delitti indicati nell'articolo  275,  comma  3,
 del  codice di procedura penale avvalendosi delle condizioni previste
 nell'articolo 416- bis del codice penale  od  al  fine  di  agevolare
 l'attivita'  delle  associazioni indicate nel medesimo art. 416- bis"
 (primo comma); entro dieci giorni  dalla  notificazione  del  decreto
 motivato  applicativo  della  misura,  l'interessato  "puo'  proporre
 richiesta di riesame al giudice per le indagini preliminari presso il
 tribunale del luogo ove ha sede il procuratore nazionale  antimafia";
 "il  giudice  provvede  entro  dieci  giorni  dalla  ricezione  della
 richiesta,  sentito  il  procuratore  nazionale  antimafia  il  quale
 trasmette  senza ritardo gli elementi su cui si fonda il decreto"; la
 richiesta di riesame e il successivo eventuale ricorso per cassazione
 "non sospendono l'esecuzione del decreto" (quinto comma).
    Avverso detta normativa la Corte remittente solleva  tre  distinte
 questioni di legittimita' costituzionale.
    In  primo  luogo,  e'  prospettata,  in riferimento agli artt. 13,
 primo e secondo comma, e 25,  terzo  comma,  della  Costituzione,  la
 violazione  del principio di legalita' ad opera del primo comma della
 disposizione impugnata, nella parte in cui detta  i  presupposti  per
 l'applicazione  della  misura.  La  formula adoperata dal legislatore
 ("abbia motivo di ritenere che  si  accingano  a  compiere  ..")  non
 risponderebbe  ai  requisiti piu' volte indicati dalla giurisprudenza
 costituzionale,   in   quanto   non   individua    una    fattispecie
 sufficientemente  determinata tale da escludere valutazioni puramente
 soggettive da parte  dell'autorita'  competente,  finendo  cosi'  con
 l'attribuire a questa uno spazio di incontrollabile discrezionalita'.
    In  secondo  luogo,  viene denunciata la violazione della garanzia
 giurisdizionale, prevista  negli  artt.  13,  secondo  comma,  e  24,
 secondo   comma,   della   Costituzione   -  cui  e'  subordinata  la
 legittimita'  del  procedimento  di  applicazione  delle  misure   di
 prevenzione  -,  che  implica l'intervento di un giudice nel rispetto
 del principio del contraddittorio tra le parti. La censura in  questo
 caso   finisce   con  l'investire  l'intera  sequenza  procedimentale
 delineata dal legislatore nella normativa  impugnata,  la  quale,  ad
 avviso  del  giudice a quo, sarebbe illegittima poiche': a) il potere
 di disporre il soggiorno cautelare e' attribuito  ad  un  organo  non
 giurisdizionale,  in  assenza di qualsiasi procedura; b) l'intervento
 del giudice e' meramente eventuale, su  iniziativa  dell'interessato,
 la  quale peraltro non produce effetti sospensivi della misura; c) la
 decisione del giudice e'  adottata  senza  contraddittorio  e  quindi
 senza possibilita' di esplicazione del diritto di difesa.
    Infine,  e' oggetto di censura anche quella parte del quinto comma
 della norma in esame in cui si individua il giudice competente per il
 riesame: l'aver accentrato tale giudizio esclusivamente  in  capo  al
 giudice  per  le  indagini  preliminari  presso  il Tribunale di Roma
 (luogo ove ha sede il procuratore  nazionale  antimafia),  viola,  ad
 avviso  della  Corte  remittente,  il  principio del giudice naturale
 (art. 25, primo comma, della  Costituzione)  e  determina,  anche  in
 considerazione  della  brevita'  dei  termini  per  proporre ricorso,
 un'ulteriore limitazione del diritto di difesa.
    3.1. - Occorre premettere che, come esattamente ritiene il giudice
 a quo, l'istituto in esame (al di la' dei dubbi che puo' suscitare il
 nomen   iuris   adoperato:   "soggiorno    cautelare")    costituisce
 indubbiamente  una  vera  e  propria  nuova misura di prevenzione, la
 quale   viene   ad   aggiungersi,   con   presupposti   e   struttura
 procedimentale  del  tutto peculiari, al vigente sistema delle misure
 di  prevenzione  personali,  che  trova   la   sua   regolamentazione
 essenziale  nella  legge  27  dicembre  1956,  n.  1423, e successive
 modificazioni, nonche' nelle leggi 31 maggio 1965, n. 575 e 22 maggio
 1975, n. 152.
    Va anche aggiunto  che  l'istituto  ha  successivamente  perso,  a
 seguito  dell'abrogazione  -  disposta  con  l'art.  1 della legge 24
 luglio 1993, n. 256 - del sesto comma dell'articolo che ne  prevedeva
 una   durata   triennale,   l'originario   carattere   temporaneo  ed
 eccezionale,  entrando  cosi'  in  via   permanente   a   far   parte
 dell'ordinamento giuridico.
    L'esame  delle  questioni  va  pertanto inquadrato nella complessa
 tematica  della   legittimita'   costituzionale   delle   misure   di
 prevenzione, che ha costituito oggetto di numerose pronunce di questa
 Corte, sin dal 1956.
    3.2.  -  Deve  altresi' preliminarmente osservarsi che l'istituto,
 cosi' com'e' concretamente disciplinato, integra senza  dubbio  -  ad
 avviso  di  questa Corte - una restrizione della liberta' personale e
 non una mera limitazione della liberta' di circolazione e  soggiorno,
 e  cade,  quindi,  sotto  il disposto dell'art. 13 della Costituzione
 (esattamente invocato dal  remittente)  e  non  gia'  nell'ambito  di
 operativita' dell'art. 16 della Carta.
    Partendo  dalla  considerazione  che i due precetti costituzionali
 ora richiamati presentano una  diversa  sfera  di  operativita',  nel
 senso  che la liberta' di circolazione e soggiorno non costituisce un
 mero  aspetto  della   liberta'   personale,   ben   potendo   quindi
 configurarsi istituti che comportano un sacrificio della prima ma non
 per cio' solo anche della seconda (cfr. sentt. nn. 2 del 1956, 45 del
 1960,  68  del  1964, ord. 384 del 1987), questa Corte ha individuato
 nella "degradazione giuridica" dell'individuo l'elemento qualificante
 della restrizione della liberta' personale, chiarendo che "per aversi
 degradazione giuridica .. occorre che il provvedimento  provochi  una
 menomazione  o  mortificazione  della  dignita' o del prestigio della
 persona, tale da  poter  essere  equiparata  a  quell'assoggettamento
 all'altrui  potere,  in  cui  si concreta la violazione del principio
 dell'habeas corpus" (cit. sent. n. 68 del 1964). Sulla base di  detti
 principi, che devono intendersi qui pienamente ribaditi, mentre si e'
 ritenuto  (con le citate sentenze) che non presentasse tali caratteri
 l'ordine di rimpatrio con foglio di via obbligatorio (sia  in  quanto
 non  suscettibile  di  coercitiva esecuzione, sia poiche' l'intimato,
 una volta raggiunta la nuova sede, e' libero di trasferirsi  altrove,
 tranne che nel luogo dal quale e' stato allontanato), con la sentenza
 n.   11   del   1956   la   Corte  rilevo',  invece,  che  l'istituto
 dell'ammonizione (disciplinato negli artt. da 164  a  176  del  Testo
 unico  delle  leggi  di  pubblica  sicurezza del 1931) concretava una
 restrizione della liberta' personale, in quanto si risolveva  appunto
 in  una  sorta  di  degradazione  giuridica  in  cui taluni individui
 venivano a trovarsi per effetto della  sorveglianza  di  polizia  cui
 erano sottoposti, attraverso tutta una serie di obblighi di fare e di
 non  fare, tra cui quello di non uscire prima e di non rincasare dopo
 di una certa ora.
    Cio' posto, non puo' negarsi che anche  l'istituto  ora  in  esame
 presenti,  nel complesso delle sue prescrizioni (obbligo di soggiorno
 in una localita' determinata - peraltro  normalmente,  anche  se  non
 necessariamente,  diversa da quella di residenza o di dimora abituale
 -; serie di prescrizioni che, in assenza di  specifiche  indicazioni,
 non  possono  che  essere  quelle  tipiche  delle ordinarie misure di
 prevenzione), un contenuto afflittivo tale  da  integrare  senz'altro
 una  menomazione  della  dignita' della persona e che, quindi, ricada
 pienamente sotto la sfera precettiva dell'art. 13 della Costituzione.
    4.1. - Passando all'esame delle censure nell'ordine  in  cui  sono
 prospettate  dal  giudice  remittente, va per prima affrontata quella
 relativa alla presunta violazione del principio di legalita' ad opera
 del primo comma della disposizione  impugnata,  la'  dove  delinea  i
 presupposti applicativi della misura.
    La questione non e' fondata nei sensi di seguito esposti.
    Secondo   la   costante   giurisprudenza   di   questa  Corte,  la
 legittimita' costituzionale delle misure di prevenzione -  in  quanto
 limitative,   a   diversi   gradi,  della  liberta'  personale  -  e'
 necessariamente   subordinata,   innanzitutto,   all'osservanza   del
 principio  di  legalita',  individuato  nell'art.  13, secondo comma,
 della Costituzione, nonche' nell'art. 25, terzo  comma,  della  Carta
 medesima,  nel  quale,  pur se riferito espressamente alle "misure di
 sicurezza", e'  stata  solitamente  rinvenuta  la  conferma  di  tale
 principio  anche  per  la categoria delle misure di prevenzione, data
 l'identita' del fine (prevenzione dei reati) perseguito  da  entrambe
 (ritenute  due  species  di  un unico genus), aventi a presupposto la
 pericolosita' sociale dell'individuo.
    Con la sentenza  n.  23  del  1964,  questa  Corte  ebbe  modo  di
 affermare  - esplicitando principi gia' insiti in precedenti pronunce
 - che dalla natura e dalle  finalita'  delle  misure  di  prevenzione
 discende  che  "nella  descrizione  delle  fattispecie il legislatore
 debba normalmente procedere con criteri diversi  da  quelli  con  cui
 procede nella determinazione degli elementi costitutivi di una figura
 criminosa,  e  possa  far  riferimento  anche  a elementi presuntivi,
 corrispondenti   pero'   sempre   a   comportamenti    obiettivamente
 identificabili.  Il che non vuol dire minor rigore, ma diverso rigore
 nella previsione  e  nella  adozione  delle  misure  di  prevenzione,
 rispetto alla previsione dei reati e alla irrogazione delle pene".
    Nella  sentenza  n.  177  del  1980  si  sottolineo' ulteriormente
 l'esigenza che "l'applicazione della misura, ancorche' legata,  nella
 maggioranza   dei   casi,   ad  un  giudizio  prognostico,  trovi  il
 presupposto necessario in 'fattispecie di pericolosita'', previste  -
 descritte  -  dalla  legge"; per cui l'accento cade sul sufficiente o
 insufficiente grado di determinatezza della  descrizione  legislativa
 di   tali   fattispecie   (destinate   a   costituire   il  parametro
 dell'accertamento  del  giudice),  descrizione   che   "permetta   di
 individuare  la  o le condotte dal cui accertamento nel caso concreto
 possa fondatamente dedursi un giudizio prognostico, per  cio'  stesso
 rivolto  all'avvenire".  E  si  aggiunse  che  la descrizione di tali
 condotte  non  puo'  non  involgere  il  riferimento,   esplicito   o
 implicito, ai reati, o alle categorie di reati, della cui prevenzione
 si tratta, per cui essa acquista tanto maggiore determinatezza quanto
 piu'  consenta  di dedurre dal verificarsi delle condotte indicate la
 ragionevole previsione che quei reati potrebbero venir consumati.
    4.2. - Nel ribadire pienamente i principi richiamati, va osservato
 che  la  norma  impugnata,  pur   potendo   essere   formulata   piu'
 chiaramente,  si  presta,  tuttavia,  ad  essere interpretata in modo
 aderente ai principi medesimi.
    In primo luogo, la formula  adoperata  soddisfa  l'esigenza  della
 tassativa  indicazione dei reati che si intendono prevenire, mediante
 il rinvio a quelli, di particolare gravita', indicati nell'art.  275,
 terzo comma, del codice di procedura penale. Ne' assume rilevanza, in
 senso  contrario,  il  fatto  che trattasi di una pluralita' di reati
 eterogenei. Va anzi sottolineato che la  norma  impugnata,  la'  dove
 richiede  che  i  soggetti  interessati  si accingano a compiere tali
 delitti "avvalendosi delle condizioni previste nell'art. 416- bis del
 codice penale od al fine di agevolare l'attivita' delle  associazioni
 indicate   nel   medesimo  art.  416-  bis",  introduce  un  elemento
 unificante delle varie figure delittuose richiamate  e  nel  contempo
 contiene  il  riferimento  ad  ulteriori  modalita' o finalita' della
 condotta criminosa, che indubbiamente contribuiscono ad una  migliore
 ricostruzione della fattispecie di pericolosita'.
    In  secondo  luogo,  costituisce  ormai un dato da tempo acquisito
 nella materia de qua, sia, come si e' visto, nella giurisprudenza  di
 questa  Corte,  sia a livello normativo (cfr. l'art. 1 della legge n.
 1423 del 1956, come sostituito dalla legge 3 agosto  1988,  n.  327),
 quello  secondo  cui  il  giudizio  prognostico  deve  fondarsi sulla
 sussistenza di elementi  di  fatto,  in  ossequio  al  principio  del
 ripudio  del  mero sospetto come presupposto per l'applicazione delle
 misure in esame. Ne deriva  che  l'omesso  riferimento,  nella  norma
 censurata,  a tale requisito non impedisce che esso possa - e debba -
 considerarsi implicito nella stessa.
    In conclusione, la formula adoperata dal legislatore  consente  di
 interpretare  la  norma  nel senso che la valutazione del procuratore
 nazionale  antimafia  debba  ancorarsi  a   fatti   e   comportamenti
 oggettivi,  che  egli ragionevolmente ritenga, sulla base di adeguata
 motivazione, strumentalmente collegati alla commissione di una o piu'
 delle  fattispecie  criminose  tassativamente   indicate:   cio'   e'
 sufficiente - analogamente a quanto ritenne questa Corte nella citata
 sentenza  n.  177  del 1980 in relazione alla formula di cui all'art.
 18, n. 1, della legge 22 maggio 1975, n. 152 - a far si' che la norma
 medesima sfugga ad una pronuncia di incostituzionalita'.
    5.1. - La seconda censura prospettata dalla  Corte  di  cassazione
 attiene,   come   s'e'   detto,   alla   violazione   della  garanzia
 giurisdizionale, che trova la sua radice  nel  disposto,  intimamente
 collegato,  degli artt. 13, secondo comma, e 24, secondo comma, della
 Costituzione;  essa  investe   nel   suo   complesso   la   struttura
 procedimentale  dettata  nel  primo  e  nel  quinto comma della norma
 impugnata.
    La questione e' fondata.
    Accanto   all'osservanza   del   principio   di   legalita',    la
 giurisprudenza  di questa Corte nella materia in esame - gia' in gran
 parte piu' volte richiamata - ha costantemente individuato anche  nel
 rispetto   della   garanzia   giurisdizionale  l'altro  indefettibile
 requisito, del resto connesso  al  primo,  della  legittimita'  delle
 misure di prevenzione.
    Nella  sentenza n. 11 del 1956 si e' affermato che "in nessun caso
 l'uomo potra' essere privato o limitato nella sua liberta' se  questa
 privazione  o  restrizione  non  risulti astrattamente prevista dalla
 legge, se un regolare giudizio non sia a tal fine instaurato, se  non
 vi  sia  provvedimento  dell'autorita'  giudiziaria  che  ne  dia  le
 ragioni"; con le sentenze nn. 3 del 1974 e 113 del 1975 si e' esclusa
 la illegittimita'  costituzionale  della  reiterazione  della  misura
 della  sorveglianza  speciale (art. 11 della legge n. 1423 del 1956),
 in quanto non automatica, ma  subordinata  ad  un  provvedimento  del
 giudice  emanato all'esito di un procedimento rispettoso dei principi
 del contraddittorio e del diritto di difesa; con le sentenze  nn.  53
 del  1968,  76  del 1970, 168 del 1972 e 69 del 1975 si e' confermata
 l'esigenza che, con riguardo a tutte le  misure  che  incidono  sulla
 liberta'  personale,  sia  garantito  al  soggetto  il  diritto  allo
 svolgimento di una integrale difesa; infine, nella  sentenza  n.  177
 del   1980   si  e'  ancora  una  volta  ribadita  l'indefettibilita'
 dell'intervento del giudice nel procedimento per l'applicazione delle
 misure di prevenzione, con le necessarie garanzie difensive.
    Dalle  anzidette  pronunce deve trarsi la conseguenza non solo che
 il pubblico ministero (organo  non  giurisdizionale,  ma  pur  sempre
 autorita'  giudiziaria)  possa  - com'e' ovvio - assumere la veste di
 semplice soggetto proponente la misura (come e'  del  resto  previsto
 nella  rimanente  normativa  in  materia), ma anche che deve altresi'
 ritenersi compatibile con i richiamati principi  una  disciplina  che
 attribuisca ad esso il potere di disporre la misura medesima, purche'
 pero'  con  carattere  di  provvisorieta',  e  quindi  esclusivamente
 nell'ambito di un procedimento  che,  entro  brevi  termini,  conduca
 necessariamente all'adozione del provvedimento definitivo da parte di
 un giudice, con il rispetto delle garanzie della difesa.
    Cio'  posto,  appare  evidente  come  la  normativa  impugnata non
 risponda assolutamente ai delineati requisiti, e si ponga,  pertanto,
 in  insanabile  contrasto  con  gli artt. 13 e 24 della Costituzione.
 Basta  osservare  al  riguardo  che,  in  base  ad  essa  (la   quale
 costituisce,   d'altronde,   un   unicum   nel   vigente  sistema  di
 prevenzione, che riserva all'organo giurisdizionale anche  l'adozione
 del  provvedimento  in via provvisoria: v. art. 6 della legge n. 1423
 del 1956 e succ. mod.), il procuratore nazionale antimafia dispone la
 misura del "soggiorno cautelare" in via definitiva, come  chiaramente
 discende  dal  fatto  che il provvedimento e' soggetto soltanto ad un
 riesame meramente eventuale da parte del giudice, su  iniziativa  del
 soggetto  interessato;  ne'  assume,  ovviamente, alcuna rilevanza in
 contrario la temporaneita' della misura (che non  puo'  avere  durata
 superiore  ad  un  anno), essendo evidente che la durata della misura
 non ha nulla a che vedere con la natura,  potenzialmente  definitiva,
 del provvedimento che la dispone.
    5.2.  -  L'accertato  vizio  di costituzionalita' inficia - com'e'
 evidente - in radice l'iter procedimentale dell'istituto, cosi'  come
 delineato,  nella sua sequenza essenziale (adozione del provvedimento
 -  riesame  su  ricorso),  negli  impugnati  commi  primo  e   quinto
 dell'articolo in esame.
    Ma  cio'  non  comporta  che ne consegua inevitabilmente la pura e
 semplice caducazione dell'anzidetta disciplina -  che  finirebbe  col
 travolgere  integralmente  l'istituto  -, ove sia possibile rinvenire
 nell'ordinamento una soluzione che, riconducendo la disciplina stessa
 nell'alveo della legittimita', assicuri nel  contempo  la  perdurante
 operativita'  di  uno  strumento  di  prevenzione  della criminalita'
 mafiosa e,  quindi,  di  tutela  di  interessi  di  primario  rilievo
 costituzionale.
    Ritiene  al  riguardo  questa  Corte  che tale soluzione vi sia, e
 consista nel ricondurre il procedimento in esame, con  il  necessario
 correttivo  di cui si dira', nell'ambito della disciplina processuale
 dettata dall'art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423  e  succes-
 sive  modificazioni. Detta disciplina e' quella ordinaria del vigente
 sistema di prevenzione, nel quale si inserisce l'istituto  in  esame,
 per  cui  il riferimento ad essa discende anche dall'applicazione del
 normale criterio ermeneutico della riespansione della norma  generale
 in caso di venir meno di quella speciale.
    Ne consegue che alla emanazione del provvedimento motivato con cui
 il  procuratore nazionale antimafia dispone il "soggiorno cautelare",
 dato  il  suo   necessario   carattere   di   provvisorieta',   debba
 contestualmente associarsi la richiesta di adozione del provvedimento
 definitivo  al  tribunale  indicato  nel citato art. 4 della legge n.
 1423 del 1956, cui seguira' la procedura di cui  ai  commi  quinto  e
 seguenti  del  medesimo  articolo  4.  Poiche', tuttavia, occorre, in
 conseguenza della natura provvisoria del provvedimento, per  di  piu'
 incidente  sulla  liberta'  personale,  che  la decisione del giudice
 intervenga entro un termine perentorio, il termine di  trenta  giorni
 indicato  nella  norma summenzionata deve necessariamente operare, in
 questo caso, a pena di decadenza del provvedimento medesimo.
    5.3.  -  In  conclusione,  ferma  rimanendo  la  possibilita'   di
 intervento  del  legislatore  - beninteso nel rispetto dei richiamati
 principi   costituzionali   -,   va    dichiarata    l'illegittimita'
 costituzionale dell'art. 25-quater, primo comma, del d.-l. n. 306 del
 1992,  convertito,  con  modificazioni,  dalla legge n. 356 del 1992,
 nella parte in cui non prevede che il procuratore nazionale antimafia
 puo' disporre, con decreto motivato, il soggiorno cautelare  soltanto
 in   via  provvisoria,  con  l'obbligo  di  chiedere  contestualmente
 l'adozione  del  provvedimento  definitivo  al  tribunale,  ai  sensi
 dell'art.  4  della  legge  27  dicembre  1956,  n. 1423 e successive
 modificazioni, il quale decide, a pena di decadenza,  nei  termini  e
 con le procedure previste dall'anzidetto art. 4 della legge medesima;
 a  cio'  consegue  necessariamente la dichiarazione di illegittimita'
 costituzionale del quinto comma del medesimo articolo 25-quater. Ogni
 altra censura prospettata dal remittente resta assorbita.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Riuniti i giudizi,
       a) dichiara non fondata, nei sensi di cui  in  motivazione,  la
 questione  di legittimita' costituzionale dell'art.  25-quater, primo
 comma - nella parte in cui definisce i presupposti per l'applicazione
 dell'istituto -, del decreto-legge 8 giugno 1992, n.  306  (Modifiche
 urgenti  al  nuovo  codice  di  procedura  penale  e provvedimenti di
 contrasto alla criminalita' mafiosa), convertito, con  modificazioni,
 dalla  legge  7  agosto  1992,  n. 356, in riferimento agli artt. 13,
 primo e  secondo  comma,  e  25,  terzo  comma,  della  Costituzione,
 sollevata dalla Corte di cassazione con le ordinanze in epigrafe;
       b)    dichiara    l'illegittimita'   costituzionale   dell'art.
 25-quater, primo comma, del decreto-legge  8  giugno  1992,  n.  306,
 convertito,  con  modificazioni,  dalla  legge 7 agosto 1992, n. 356,
 nella parte in cui non prevede che il procuratore nazionale antimafia
 puo' disporre, con decreto motivato, il soggiorno cautelare  soltanto
 in   via  provvisoria,  con  l'obbligo  di  chiedere  contestualmente
 l'adozione  del  provvedimento  definitivo  al  tribunale,  ai  sensi
 dell'art.  4  della  legge  27  dicembre  1956,  n. 1423 e successive
 modificazioni, il quale decide, a pena di decadenza,  nei  termini  e
 con le procedure previste dall'anzidetto art. 4 della legge medesima;
       c)    dichiara    l'illegittimita'   costituzionale   dell'art.
 25-quater, quinto comma, del decreto-legge  8  giugno  1992  n.  306,
 convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992 n. 356.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 24 novembre 1994.
                        Il Presidente: CASAVOLA
                          Il redattore: FERRI
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 7 dicembre 1994.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
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