N. 774 ORDINANZA (Atto di promovimento) 14 novembre 1994

                                N. 774
 Ordinanza emessa il 14 novembre  1994  dal  pretore  di  Bassano  del
 Grappa nel procedimento penale a carico di Battocchio Marcello
 Processo penale - Procedimenti speciali - Applicazione della pena su
    richiesta   delle   parti   -   Ritenuta  radicale  illegittimita'
    costituzionale di detto procedimento - Lesione del principio della
    finalita' di rieducazione della pena per incongruita' della stessa
    a causa della decurtazione di un terzo per la scelta  del  rito  -
    Contrasto con i criteri direttivi della legge delega - Lesione dei
    principi   dell'inviolabilita'  della  liberta'  personale,  della
    garanzia del diritto di difesa,  dell'obbligatorieta'  dell'azione
    penale,    del    dovere    di   motivazione   dei   provvedimenti
    giurisdizionali  nonche'   della   ragionevolezza   delle   scelte
    discrezionali   del  legislatore  -  Richiamo  alle  sentenze  nn.
    124/1972, 66, 183, 277, 313 e 431 del 1990, 12, 81 e 176 del 1991,
    255/1992 e 41/1993.
 (C.P.P. 1988, artt. 444, 445, 446, 447 e 448; legge 16 febbraio 1987,
    n. 81, direttiva 45).
 (Cost., artt. 3, primo comma, 13, secondo comma, 24, secondo comma,
    27, primo, secondo e terzo comma, 76, 111, primo comma, e 112).
(GU n.3 del 18-1-1995 )
                              IL PRETORE
    Procedimento  n.  402/94/R,  mod.  23, nei confronti di Battocchio
 Marcello, nato a Rossano Veneto il 23 luglio 1944.
    Proponendo  d'ufficio  questione  di  legittimita'  costituzionale
 degli artt. da 444 a 448 del c.p.p. approvato con d.P.R. 22 settembre
 1988,  n.  447,  nella  parte  in  cui  consentono  all'imputato e al
 pubblico ministero di chiedere al giudice l'applicazione, nella  spe-
 cie  e  nella  misura  indicata, di una sanzione sostitutiva o di una
 pena pecuniaria, diminuita fino  ad  un  terzo  ovvero  di  una  pena
 detentiva  quando  questa, tenuto conto delle circostanze e diminuita
 fino ad un terzo, non supera due anni di  reclusione  o  di  arresto,
 soli  o  congiunti  a  pena  pecuniaria;  ed  impongono al giudice di
 disporre con sentenza l'applicazione della pena indicata, sulla  base
 degli  atti,  previ  gli  accertamenti  prescritti  dal secondo comma
 dell'art. 444;  nonche'  di  provvedere  allo  stesso  modo  dopo  la
 chiusura   del   dibattimento  di  primo  grado  o  nel  giudizio  di
 impugnazione, quando ritiene ingiustificato il dissenso  del  p.m.  e
 congrua  la  pena  richiesta  dall'imputato,  ai sensi dell'art. 448,
 secondo comma: in riferimento agli artt. 27, primo, secondo  e  terzo
 comma,  76,  13,  secondo comma, 24, secondo comma, 111, primo comma,
 112 e 3, primo comma, della Costituzione; ed altresi',  questione  di
 legittimita'  costituzionale  della  direttiva  n.  45 della legge 16
 febbraio 1987, n. 81, recante delega legislativa per l'emanazione del
 nuovo c.p.p., nella parte in cui prevede  che  ciascuna  delle  parti
 predette,  con  il  consenso  dell'altra,  possa  chiedere al giudice
 l'applicazione delle sanzioni sostitutive nei casi consentiti o della
 pena detentiva improrogabile per  il  reato  entro  il  limite  sopra
 indicato, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino a un terzo;
 e  che  il  giudice  applichi  la sanzione nella misura richiesta: in
 riferimento  ai  medesimi  precetti  costituzionali,   ad   eccezione
 dell'art. 76;
                             O S S E R V A
    1.  -  Battocchio Marcello, citato a giudizio per rispondere della
 imputazione di cui  agli  artt.  595  e  61,  n.  10,  del  c.p.,  ha
 formulato,  prima  della  dichiarazione di apertura del dibattimento,
 richiesta di applicazione della  pena  ai  sensi  dell'art.  444  del
 c.p.p.,  riguardo  alla  quale  il  p.m.  ha  espresso  il  consenso.
 Conseguentemente, il pretore, ritenendo, nella  specie,  corrette  la
 qualificazione  del  fatto,  l'applicazione  e  la comparazione delle
 circostanze,  prospettate  dalle  parti,  nonche'  congrua  la   pena
 richiesta,  dovrebbe  pronunciare immediatamente la sentenza prevista
 dalla disposizione indicata, come prescritto dall'art. 448 del c.p.p.
 Risulta, pertanto, rilevante  per  la  definizione  del  giudizio  la
 questione di costituzionalita' delle disposizioni in epigrafe.
    2.  -  La  delibazione  di  costituzionalita'  riguarda l'impianto
 complessivo delle disposizioni indicate in epigrafe, avendo presente,
 in particolare, l'attuale formulazione dell'art. 444, secondo  comma,
 del  codice,  quale risulta per effetto della sentenza n. 113/1990 di
 codesta eccellentissima Corte, recante la pronuncia di illegittimita'
 della disposizione stessa " .. nella parte in cui non prevede che, ai
 fini   e   nei   limiti  di  cui  all'art.  27,  terzo  comma,  della
 Costituzione, il giudice possa  valutare  la  congruita'  della  pena
 indicata   dalle   parti,  rigettando  la  richiesta  in  ipotesi  di
 sfavorevole valutazione". Il  pretore  sospetta  che  la  diminuzione
 della  pena  fino  a  un terzo, costituente peculiare risultato della
 scelta del rito da parte dell'imputato, non sia giustificata dai fini
 e   non   rispetti   i   limiti   dettati   dall'indicato    precetto
 costituzionale;   inoltre,   che   l'istituto  processuale  in  esame
 contrasti con i principi e con  i  criteri  direttivi  fissati  dalla
 legge  di  delegazione,  oltre  che con i canoni costituzionali della
 inviolabilita' della liberta' personale,  dell'analoga  garanzia  del
 diritto  di  difesa,  dell'obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione
 penale, del dovere di motivazione dei provvedimenti  giurisdizionali,
 della  ragionevolezza  delle  scelte  discrezionali  del  legislatore
 ordinario. Con gli stessi parametri, escluso quello desunto dall'art.
 76 della Costituzione, si propone  di  confrontare  la  direttiva  45
 della  legge  di  delega.  Ove fosse riconosciuta la fondatezza delle
 questioni, si avrebbe motivo di  prevedere  l'eliminazione  del  rito
 speciale nel suo insieme.
    3.  -  Il  giudizio di congruita' della pena era gia' presente nel
 sistema del vigente  codice,  essedo  imposto  dall'art.  448,  primo
 comma,  e,  cosi',  confinato  alla fase successiva alla chiusura del
 dibattimento di primo grado e al giudizio d'impugnazione, sempre  che
 la  richiesta  di  applicazione  della  pena  provenga dall'imputato:
 coincidendo l'esito positivo di tale  giudizio  con  la  valutazione,
 come  ingiustificato,  del  dissenso  espresso,  in  precedenza,  dal
 pubblico ministero. Codesta Corte, nella  sentenza  n.  313/1990,  ha
 anticipato  la  valutazione  di  congruita'  della  pena da parte del
 giudice, estendendola all'ipotesi di consenso del p.m.: con possibile
 esito  sfavorevole  alla  richiesta  delle  parti.  la  pronuncia  di
 illegittimita'  del  secondo  comma  dell'art.  444  fu motivata, fra
 l'altro, dalla  eventualita'  che,  per  effetto  dell'accordo  delle
 parti,  la pena da applicare, " .. a causa di attenuanti che si fanno
 operare  nella  loro  massima  estensione  sul  minimo  della  pena",
 raggiugesse  limiti "assolutamente incongrui". Quindi, la valutazione
 di adeguatezza della pena concordata, da parte  del  giudice,  venita
 situata  a monte dell'ulteriore riduzione prevista dalla disposizione
 processuale:   riduzione   la   cui   incidenza   sui   principi   di
 retributivita'  e  di rieducazione, non venne presa in considerazione
 nella  sentenza  commentata,  oltre  tutto  perche'  non  era   stata
 sollevata   questione  espressa  in  riferimento  a  quel  parametro.
 Infatti,  "L'art.  27,  terzo  comma,  della  Costituzione,   cui   i
 rimettenti  fanno implicito riferimento, dev'essere pertanto aggiunto
 ai parametri espressamente da loro invocati" (sentenza n.  313/1990).
 Percio',  non  si  ritiene esatta l'opinione secondo cui la soluzione
 concordata del processo  "  ..  e',  ora,  per  effetto  della  detta
 decisione  della  Corte  costituzionale  ..",  subordinata  " .. alla
 congruita' della pena residuale (da applicare) rispetto  all'esigenza
 di  rieducazione  del giudicabile" Cass., sez.  fer., c.c., 23 agosto
 1990, Enver, Cass. pen. 1991, 63).
    In realta', la sentenza  costituzionale  ha  modificato  la  norma
 processuale  nel  senso  di  attribuire  al giudice la valutazione di
 congruita', non gia' della pena scontata,  ma  di  quella  irrogabile
 prima  della  decurtazione  in  parola:  tanto  e'  reso  palese  dal
 riferimento  alla  operativita'  di circostanze attenuanti nella loro
 massima estensione sopra  i  minimi  edittali,  e  non,  anche,  alla
 concordata misura della riduzione per il rito.
    Tuttavia,   essendo   la   diminuzione   della   pena  un  effetto
 imprescindibile  dell'accordo  fra  le  parti,  ovvero   della   sola
 richiesta  da  parte  dell'imputato,  nel  caso  di dissenso del p.m.
 ritenuto   ingiustificato   all'esito   del   dibattimento:   diviene
 inevitabile  il  confronto  della norma processuale, che conduce alla
 determinazione  della  sanzione  finale,  con  l'indicato   parametro
 costituzionale.  Riconoscendo  adeguata  alla funzione indicata nello
 statuo la sanzione penale, della specie ed entro  i  limiti  edittali
 fissati  nella fase normativa - e tale deve presumersi fino a censura
 di costituzionalita' per irragionevolezza - individuabile, nella fase
 applicativa, in base agli ordinari criteri di cui  all'art.  133  del
 c.p.,   ed  una  volta  operata  la  comparazione  delle  circostanze
 ricorrenti in concreto: la sanzione stessa risultera' necessariamente
 inadeguata  per  difetto,  quando  subisca  l'ulteriore   diminuzione
 conseguente   all'accordo   fra   le  parti,  oppure  alla  richiesta
 dell'imputato - in ipotesi di dissenso ingiustificato - nella misura,
 ancorche' minima, indicata dalle une  o  dall'altro.  All'inverso,  e
 ragionando  per assurdo, la valutazione di congruita', effettuata dal
 giudice   con   esito   affermativo,   della   pena   gia'    ridotta
 consensualmente  nell'accordo  fra  le  parti, oppure unilateralmente
 nella richiesta dell'imputato, implica l'incongruita',  per  eccesso,
 della  sanzione  che  sarebbe  risultata  applicabile,  in difetto di
 accordo e di richiesta, all'esito dell'ordinario giudizio.  In  altri
 termini,  non e' dato affermare l'esistenza, nel momento applicativo,
 di due pene differenti quantitativamente e, talora,  qualitativamente
 -  per  effetto  della  possibilita'  di sostituzione, ai sensi degli
 artt. 53 e seguenti della legge n. 689/1981, eventualmente  derivante
 dalla  diminuzione  processuale  (cosi',  Cass., sez. un., 12 ottobre
 1993, Bosco, Foro it. 1994, II, 339; id., 12 ottobre 1993,  Bocchese,
 ivi,  340;  id.,  12  ottobre  1993,  Scopel,  ivi, 340; orientamento
 accolto da  codesta  Corte:  sentenza  n.  254/1994;  contra,  Cass.,
 sezione  quarta,  18  dicembre 1992, Crisci, Cass. pen. 1993, 1785) -
 nei confronti dello stesso imputato e per il  medesimo  fatto  reato,
 entrambe adeguate alla funzione rieducativa voluta dal Costituente; a
 meno  di  sostenere  che  la  scelta  del  rito  speciale,  da  parte
 dell'imputato, abbia attinenza con la funzione appena  ricordata.  Il
 dilemma  e'  stato  bene  tratteggiato  dalla  dottrina,  in  tema di
 giudizio abbreviato: "Perche' delle due, l'una: o il giudice parte da
 una pena base piu' alta per assorbire preventivamente la  diminuzione
 ex   art.  442,  ma  allora  si  alterano  gli  ordinari  criteri  di
 commisurazione della pena; o il  giudice  rispetta  tali  criteri  ed
 allora  e' ben possibile che la drastica riduzione di un terzo faccia
 scendere la pena finale ben al di sotto dei  limiti  richiesti  dalla
 pena 'giusta'".
    Il primo corno del dilemma e' presto eliminato: ove il giudice, in
 seguito  all'accordo  sulla  pena,  ovvero  alla  semplice  richiesta
 dell'imputato, intendesse muovere deliberatamente da  una  pena  base
 maggiore  di  quella  individuabile all'esito del giudizio ordinario,
 cosi' da pervenire - pur  attraverso  la  diminuzione  processuale  -
 all'identico  risultato  sanzionatorio,  violerebbe  lo  spirito e la
 lettera  della  norma, eludendo il significato della scelta del rito,
 oppure della richiesta predetta, e l'effetto  premiale  dell'istituto
 in vista della funzione collaborativa assegnata all'imputato.
    All'evidenza,  i  compilatori  sia  della  legge di delega sia del
 codice hanno ritenuto "congrue" tanto la pena che dovrebbe conseguire
 al dibattimento, in caso di mancata richiesta da parte dell'imputato,
 quanto quella ridotta fino  a  un  terzo,  per  effetto  dell'accordo
 oppure della richiesta. Detto questo, ancora non si e' chiarito se la
 riduzione   in   parola  risponda  alla  finalita'  di  rieducazione.
 Riprendendo alcune  delle  illuminanti  considerazioni  svolte  nella
 sentenza  n. 313/1990: "Cio' che il verbo 'tendere' vuole significare
 e' soltanto la presa d'atto della divaricazione che nella prassi puo'
 verificarsi  tra  quella  finalita'  e  l'adesione   di   fatto   del
 destinatario   al   processo   di   rieducazione:  com'e'  dimostrato
 dall'istituto che fa corrispondere  benefici  di  decurtazione  della
 pena  ogni  qualvolta,  e nei limiti temporali, in cui quell'adesione
 concretamente si manifesti (liberazione anticipata)".  Ma,  nel  caso
 del  patteggiamento, la richiesta di applicazione della pena da parte
 dell'imputato, oppure il suo consenso all'analoga iniziativa  assunta
 dal  p.m.,  non  implicano  alcuna adesione alla funzione rieducativa
 della  sanzione:  senplicemente  perche'  la  sentenza  che  dovrebbe
 ratificare  l'accordo,  al momento della richiesta o del consenso non
 e'  stata  ancora  pronunciata;  e  neppure  se  ne  puo'   prevedere
 l'immancabile  deliberazione,  essendo  sempre aperta la possibilita'
 del proscioglimento ovvero  -  dopo  la  ricordata  dichiarazione  di
 incostituzionalita' - del rigetto.
    E  dunque,  non  si  puo'  sostenere  che  l'imputato, mediante la
 richiesta o il consenso, manifesti di aderire  alla  funzione  ed  al
 significato  di  una  pena  futura ed incerta. Percio', l'inserimento
 della riduzione predetta  fra  gli  effetti  della  scelta  del  rito
 processuale,  si riconosce agevolmente estraneo al " .. 'principio di
 proporzione' fra qualita' e quantita' della sanzione, da  una  parte,
 ed  offesa,  dall'altra", richiamato da codesta Corte nella decisione
 in commento, ed ivi collegato con quello della rieducazione " .. che,
 seppure variamente profilato, e' ormai da tempo diventato  patrimonio
 della  cultura  giuridica  europea ..": essendo tale riduzione, anzi,
 preordinata funzionalmente ad eliminare la proporzione  stessa,  gia'
 assicurata  dal  legislatore  - fino a censura di costituzionalita' -
 nella fase normativa, e demandata al giudice in  quella  applicativa,
 nel rispetto dei criteri di diritto sostantivo che ne disciplinano la
 determinazione.  L'argomentazione  per  la quale " .. gia' l'art. 133
 del vigente codice penale,  prevede,  ai  fini  della  determinazione
 della   pena,   che   venga   presa  in  considerazione  la  condotta
 dell'imputato contemporanea o susseguente al reato .."  (sentenza  di
 codesta  Corte,  n.  284/1990), svolta con riguardo alla riduzione di
 pena conseguente al rito abbreviato, per escluderne il contrasto  con
 l'art.  3  della  Costituzione,  non sembra estensibile al differente
 parametro costituzionale quivi prospettato. Di  piu',  in  margine  a
 tale  decisione  e'  stato  incisivamente osservato che, accedendo al
 giudizio abbreviato, l'imputato non rivela, sempre e necessariamente,
 "un minor bisogno di pena sul piano della prevenzione speciale".
    In sostanza - si e' detto - l'art. 133, secondo comma, n.  3,  del
 c.p. valorizza la condotta susseguente al reato non di per se stessa,
 ma  soltanto  quale  indice  di  capacita' a delinquere, ligittimando
 un'attenuazione della pena, entro i limiti  edittali,  eslcusivamente
 nel caso in cui il comportamento del reo, successivo alla commissione
 del  reato,  evidenzi  un  minor  bisogno di essa: piu' precisamente,
 nell'ambito  di  una  lettura  "costituzionalmente  orientata"  della
 norma,  "un  minor  bisogno  di  prevenzione  speciale".  Altri hanno
 rilevato che " .. la pena, diminuita per  effetto  della  scelta  del
 rito, non corrsisponde piu', per difetto, ne' alla gravita' del fatto
 in  concreto, sulla quale non puo' avere alcuna incidenza la sua piu'
 spedita repressione, ne' alla colpevolezza  dell'autore,  alla  quale
 non   puo'   essere  attribuito  alcun  ruolo  nell'ambito  dei  riti
 alternativi; sicche' essa, in un'ottica retribuzionistica,  non  puo'
 apparire  come  pena  'giusta'".  Alla tesi esposta nella sentenza n.
 284/1990, pare decisiva, ad ogni  modo,  l'obiezione  per  la  quale,
 della condotta susseguente al reato, come di tutti gli altri elementi
 elencati  nell'art.  133  del c.p., il giudice ha il dovere di tenere
 conto sin dalla fase della determinazione della cosiddetta pena base,
 ed  ancor  prima  dell'applicazione  e   della   comparazione   delle
 circostanze,  le  quali - a loro volta - devono precedere, unitamente
 all'aumento per la continuazione di reato  (in  tema  di  abbreviato:
 Cass.,  sezione  unica, 31 maggio 1991, Volpe, ibid., 1992, p. 40; in
 tema di pena concordata, sezione unica, 1 ottobre 1991,  Biz,  ibid.,
 p. 295; conf., sezione unica, 24 marzo 1990, Borzachini; sez. fer., 4
 settembre  1990,  Mugnai;  sezione  sesta, 30 gennaio 1991, Garofalo;
 sezione prima, 5 marzo 1991, Alfano; sezione sesta, 28  giugno  1991;
 idem, 11 luglio 1991, Colin, ined.), la riduzione prevista in seguito
 all'adozione  del  rito; e cio', " .. in relazione all'impossibilita'
 di  comprendere  quella  diminuente  nel  novero  delle   circostanze
 attenuanti  del  reato"  (sezione  unica, 1 ottobre 1991, Biz, cit.).
 Non meno  discusso  e'  il  fondamento  della  diminuzione  di  pena,
 conseguente  ai  riti  speciali,  nella prospettiva della prevenzione
 generale c.d. allargata, intesa cioe' non come  mera  deterrenza,  ma
 come  strumento  di orientamento culturale, capace di inculcare nella
 collettivita' giudizi di valore.
    In questa sede, basti ricordare il monito che non bisogna  correre
 "  .. il rischio di strumentalizzare l'individuo per fini generali di
 politica  criminale  (prevenzione  generale)  o  di  privilegiare  la
 soddisfazione di bisogni collettivi di stabilita' e sicurezza (difesa
 sociale)  .."  (sentenza  n.  313/1990);  e  neppure - sia consentito
 aggiungere - per assicurare la  deflazione  del  giudizio  ordinario,
 quale  finalita' dichiaratamente perseguita dal legislatore delegante
 e dai compilatori del codice. Del resto, che la riduzione di pena  in
 questione  abbia attinenza con la valutazione degli elementi elencati
 nell'art. 133 del c.p., e' indicazione che mal si concilia con  altre
 decisioni  di  codesta  Corte:  "Il  caso  di specie va risolto senza
 ricorso all'esame dell'ampiezza, portata e contenuti dell'art. 2  del
 c.p.  (  ..) La possibilita' della riduzione di pena per chi richiede
 il  provvedimento  abbreviato  vale  soltanto,  come   s'e'   innanzi
 osservato,   a   stimolare,   nei   limiti   dell'esperibilita'   del
 procedimento abbreviato, la richiesta, da parte dell'imputato,  dello
 stesso  procedimento:  l'intento  'stimolatorio'  della richiesta del
 giudizio  abbreviato  non  puo',   pertanto,   assurgere   a   mutata
 valutazione  sociale,  in senso favorevole al reo, del fatto, oggetto
 del giudizio, previsto e punito dal codice penale sostanziale" (Corte
 costituzionale,  sentenza  n.  277/1990).   Tale   conclusione   pare
 estensibile  al  rito  speciale  in  esame;  e  trova  adesione nella
 giurisprudenza di legittimita':  "E'  significativo  notare  come  la
 cennata  finalita'  dell'istituto  la  svincola  anche  da  qualsiasi
 giustificazione legata alla condotta del reo 'susseguente al  reato',
 richiamata  dall'art.  133, secondo comma, n. 3, del c.p. La condotta
 ivi considerata - pur assumendo rilievo anche nella  sua  espressione
 all'interno  del  processo  -  costituisce  sintomo della capacita' a
 delinquere, elemento estraneo alla scelta  del  rito  premiata  dalla
 legge  di  per se stessa, nell'ottica sopra indicata" (sezione unica,
 31 maggio 1991, Volpe, cit.). Sembra cosi', inevitabile  arguire  che
 la  riduzione  di pena, prevista dal rito speciale in oggetto, non e'
 riconducibile per alcun verso alle finalita' assegnate alla  sanzione
 criminale  dall'art.  27,  terzo comma, della Costituzione. E' questo
 l'avviso della Corte regolatrice: "Ne' potrebbe sostenersi che  anche
 la pena applicata mediante la richiesta concorde delle parti, ex art.
 444  del  codice  di rito, deve essere adeguata al caso e parametrata
 alle finalita' educative e di reinserimento sociale del  giudicabile,
 come la Corte delle leggi, con ben nota decisione (26 giugno-2 luglio
 1990, n. 313) ha affermato, poiche' questo profilo, individuato dalla
 Corte  sovrana  per  valorizzare  i  poteri  cognitivi e decisori del
 giudice (a fronte  dell'assunto,  in  denunzia,  ruolo  paranotarile,
 rispetto alla pena concordata dalle parti) deve ritenersi riferibile,
 non  alla specie e misura di pena di risulta (applicata), ma a quella
 criminale, vale a dire a quella individuata per soddisfare la pretesa
 punitiva  dello  Stato,  prima  dell'applicazione  della  diminuente.
 Diversa   interpretazione   porterebbe  all'inattuabilita'  del  rito
 speciale, dato che in ogni caso (rito speciale od ordinario), la pena
 deve essere sempre quella giusta ed adeguata al caso; e questa e'  la
 pena  criminale non quella incentivante, la quale, giustificata dalle
 sopra   richiamate   finalita',   sconta   indubbiamente    la    non
 corrispondenza  al  referente  in considerazione" (sezione quarta, 18
 dicembre 1992, Crisci, cit.). E non si puo' tacere la  considerazione
 che  l'art.  445,  primo comma, del codice di rito, al raggiungimento
 dell'accordo   sulla   pena   principale,   ovvero   alla   richiesta
 dell'imputato,  ove  risulti  ingiustificato  il  dissenso  del p.m.,
 ricollega anche l'esclusione di pene accessorie: le quali, nonostante
 il rilievo generalmente secondario, pure  concorrono  a  definire  il
 quadro del trattamento sanzionatorio adeguato, e devono sottostare al
 canone  costituzionale  in  discorso.  Percio',  non sembra azzardato
 supporre che la cennata esclusione comporti violazione, ad un  tempo,
 del  precetto di cui all'art. 27, terzo comma, della Costituzione, in
 quanto non giustificata da un minor bisogno di emenda  dell'imputato;
 e dei principi e criteri direttivi imposti dal legislatore delegante,
 in  riferimento  all'art.  76 dello statuto. L'eventuale accoglimento
 della questione, nei termini  prospettati,  potrebbe  determinare  il
 venir  meno  dell'istituto.  Infatti, eliminando l'incentivo, il rito
 speciale  resterebbe  privo  della  ragion  d'essere.  Tanto   sembra
 argomentarsi  dalla  giurisprudenza  di  codesta  Corte,  nell'affine
 settore del giudizio  abbreviato:  "Difatti,  la  caratteristica  del
 giudizio   abbreviato   risiede   proprio   nell'incentivo,   offerto
 all'imputato, di una riduzione della pena, in  funzione  di  un  piu'
 rapido  svolgimento  del processo, a deflazione del dibattimento. Con
 il mettere in discussione la possibilita' di operare  tale  riduzione
 per  una  certa  categoria di delitti, viene necessariamente messa in
 discussione  anche  la possibilita' di avvalersi di quel procedimento
 speciale" (sentenza n. 176/1991). In ogni caso, pur  in  presenza  di
 questa ineludibile correlazione, il pretore non si considera esentato
 dal  dovere  di delibare la legittimita' dell'istituto in riferimento
 ad  ulteriori  precetti  costituzionali,  rinvenendo  argomenti   non
 completamente  coincidenti  -  per  quanto  e'  dato apprezzare - con
 quelli prospettati da precedenti ordinanze di rimessione.
    4. - In aggiunta al ricordato profilo  della  esclusione  di  pene
 accessorie,  va  trattata piu' diffusamente la questione del rispetto
 dell'art. 76 della Costituzione. Il  detto  parametro,  in  relazione
 all'art.  2,  primo  comma,  della  legge  di  delega  e  alla  norma
 interposta di cui all'art. 6, primo comma, della legge 4 agosto 1955,
 n. 848, concernente la ratifica della convenzione per la salvaguardia
 dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata  a  Roma
 il  4  novembre 1950, venne invocato nella limitata angolazione della
 mancata previsione " .. che nella fase delle indagini preliminari  la
 sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi
 dell'art. 444 del c.p.p. sia emessa in pubblica udienza" (ord. g.i.p.
 pretura   Roma   13  dicembre  1990).  Codesta  Corte,  escludendo  -
 contrariamente all'assunto  del  remittente  -  che  la  sentenza  in
 questione  avesse  la  natura  propria  di una pronuncia di condanna,
 basata,  questa  si',  sull'accertamento  pieno   della   "fondatezza
 dell'accusa  penale",  riconobbe nella volonta' delle parti il motivo
 per attenuare quell'esigenza di garanzia per l'accusato,  alla  quale
 la  ricordata  convenzione collega il requisito della pubblicita' dei
 processi, nonostante " .. anche la presenza di un interesse oggettivo
 connesso al controllo sociale sl processo"  (sentenza  n.  251/1991).
 Alla  tesi  della  divesita'  della  sentenza  che  applica  la  pena
 concordata da quella di condanna, constano ripetute pronunce  adesive
 della  sprema  Corte  (sezione  prima,  19  febbraio 1990, Migliardi,
 ibid., 1992, 89; sezione quinta, 26 giugno 1991,  Garetto,  ivi,  90;
 sezione  quinta,  21  marzo 1991, Msabah, ivi, 1991, II, 212; sezione
 sesta, 14 novembre 1991, Ascione, ivi, 210; sezione sesta, 5 novembre
 1990,  Drago,  c.e.d.  186906;  sezione  prima,  18  settembre  1990,
 Sansone,  Arch.  n.p.p.  1991, p. 277; sezione sesta, 10 luglio 1990,
 Cimino, Cass. pen. 1991, II, 211; sezione quinta,  c.c.,  6  febbraio
 1991,  Santoiemma,  ivi,  1992,  677; contra, sezione prima, c.c., 26
 marzo 1991, Negri, ibid. 238; sezione prima,  c.c.,  3  aprile  1991,
 Bozzoli, ivi, 1992, 91).
    Diversamente,  e' stato affermato che " .. la sentenza ex art. 444
 del c.p.p.  debba  nelle  linee  generali  rientrare  tra  quelle  di
 condanna, sia pure con qualche effetto atipico .." (sezione unica, 27
 marzo  1992,  Cardarilli,  ibid.,  1076;  nonche',  in  termini  piu'
 sfumati, sezione unica, 27 marzo 1992, Di Benedetto, ibid, 1078).  Il
 pretore  non  rinviene  motivi  per  discostarsi dall'interpretazione
 accolta dal Giudice delle leggi.  Senonche', ambedue le opinioni  non
 sottraggono  l'istituto  al sospetto d'illegittimita'. Se si aderisce
 alla prima, viene in considerazione - come nella richiamata ordinanza
 di rimessione - l'obbligo, stabilito dalla citata disposizione  della
 legge  di  delega, di adeguare il codice alle norme delle convenzioni
 internazionali ratificate dall'Italia e  relative  ai  diritti  della
 persona  e  al  processo  penale.  In  riferimento al precetto di cui
 all'art. 76 della Costituzione, la norma interposta  da  prendere  in
 esame  e'  contenuta  nell'art.  5,  secondo  comma,  della ricordata
 convenzione;  in  forza  del quale, nessuno puo' essere privato dalla
 sua liberta', eccetto che nei casi di  seguito  elencati  e  per  via
 legale:  per  quanto  rileva, " a) se e' detenuto legittimamente dopo
 una condanna da parte di un tribunale competente"; mentre la sentenza
 prevista dagli art. 444 e segg. del c.p.p. di condanna non e'.
    Si deve riconoscere che e' la  stessa  direttiva  45  della  legge
 delega  ad  introdurre  il  rito  speciale,  del quale la sentenza in
 commento costituisce epilogo, oltre agli essenziali lineamenti che lo
 caratterizzano,  primo  fra  tutti  l'incentivo  rappresentato  dalla
 riduzione  della  pena  (ma  non l'esclusione delle pene accessorie).
 Potrebbe ravvisarsi, quindi, una intrinseca incompatibilita'  fra  la
 citata  disposizione  dell'art. 2 e la direttiva 45: l'una assegnando
 al legislatore delegato il  limite  del  rispetto  delle  convenzioni
 internazionali, che pero' l'altra sembra disattendere nel prefigurare
 il  rito  speciale  e  le  sue  connotazioni peculiari. Il sospettato
 contrasto interno alla legge di delega sarebbe rivelatore  -  con  le
 parole  adoperate da codesta Corte per differente fattispecie - della
 non rispondenza ai " .. requisiti minimi di razionalita'  dell'azione
 legislativa":  in  quanto  introduce  un  " .. elemento certo, pur se
 involontario, di irrazionalita' e di contraddittorieta'  rispetto  al
 contesto  normativo  in  cui  la disposizione e' inserita e come tale
 determina anche una violazione di quel canone di coerenza delle norme
 che e' espressione del principio di uguaglianza  di  cui  all'art.  3
 della  Costituzione"  (sentenza  n. 185/1992). Ben vero, non si e' in
 presenza di un mero errore materiale del legislatore, quale esaminato
 nella decisione citata.
    Nondimeno,  quei  requisiti  minimi  di  razionalita'   potrebbero
 autorizzare  un  intervento  ortopedico  sul testo legislativo, anche
 quando il contrasto al suo interno si riconosca frutto, non  gia'  di
 un  errore  di  tale  natura,  ma  della non meditata valutazione del
 contenuto degli  obblighi  internazionali  assunti.  Una  volta  reso
 coerente il contenuto della legge di delega, in osservanza del canone
 di   cui   all'art.  3  della  Costituzione,  sarebbe  conseguenziale
 ricondurre il dettato del decreto delegato al rispetto  dell'art.  76
 dello  statuto,  mediato  dalla conformazione della stessa alla norma
 internazionale   interposta.   Si   ritiene    che    il    risultato
 dell'operazione   descritta  sia  imposto  dal  riconoscimento  della
 intrinseca prevalenza del criterio informatore, dettato  dall'art.  2
 della  legge  -  siccome  parifica  l'attuazione  dei  principi della
 Costituzione e l'adeguamento alle convenzioni  internazionali  -  sul
 contenuto  di  ciascuna  delle  seguenti,  specifiche  direttive. Del
 resto, la  commentata  disposizione  della  convenzione  non  fa  che
 rendere    esplicito   un   principio   gia'   immanente   al   testo
 costituzionale.
    5. - Infatti, la possibilita' di applicare una sanzione  criminale
 con  una  sentenza  di natura diversa da quella di condanna, non pare
 resistere al vaglio della lettura coordinata dei precetti recati  dal
 primo,  secondo  e  terzo  comma,  dell'art.  27  della Costituzione.
 Codesta Corte non ravviso' il contrasto del rito speciale in discorso
 con la presunzione  di  non  colpevolezza,  desunta  dal  solo  comma
 secondo  del  suddetto  articolo  (sentenza  n. 313/1990). Senonche',
 riconoscendo che i tre commi, pur nella reciproca autonomia, rivelano
 una stretta interdipendenza ed un'assoluta inscindibilita' nella loro
 portata  qualificante  del  sistema  processuale  penale,  si  dovra'
 convenire  che:  il  canone della personalita' della responsabilita',
 dettato dal primo comma, e' diretto ad orientare il legislatore nella
 individuazione del responsabile, in astratto,  dell'illecito  penale;
 il  secondo  comma  salda  indissolubilmente  il riconoscinento della
 qualita' di colpevole, cioe' di responsabile, in concreto, del reato,
 ad una pronuncia giudiziaria la quale, prima ancora  che  definitiva,
 deve  potersi definire di condanna, e non di altra natura; infine, il
 terzo comma enuncia il principio per cui soltanto a una  sentenza  di
 condanna  puo'  conseguire  l'applicazione  di  pene,  istituendo una
 ineludibile  correlazione  fra  queste  ultime  e  l'affermazione  di
 responsabilita':  quando  esige  che  esse, oltre a non consistere in
 trattamenti contrari al senso di umanita', tendano alla  rieducazione
 del  condannato  e non di altri, cui si pretenda di applicarla, o che
 richieda di vedersele applicate.  Quindi,  il  giudizio  speciale  in
 commento  non  sembra rispettare i cennati parametri: perche' si con-
 clude con una sentenza che, senza implicare  l'individuazione  di  un
 responsabile (in astratto) ne' di un colpevole (in concreto), conduce
 alla  irrogazione  di sanzioni criminali. Ne' il dubbio sembra fugato
 dalla considerazione che " .. l'istituto dell'applicazione della pena
 su  richiesta,  anziche'  comportare   un   accertamento   pieno   di
 responsabilita',  basato  sul  contraddittorio tra le parti, trovi il
 suo fondamento  primario  nell'"accordo  tra  pubblico  ministero  ed
 imputato sul merito dell'imputazione (responsabilita' dell'imputato e
 pena  conseguente)" (sentenza n. 66/1990), dal momento che chi chiede
 la pena pattuita "rinuncia ad avvalersi della facolta' di  contestare
 l'accusa"   (sentenza   n.   313/1991)   (recte:   del  1990)  (Corte
 costituzionale, sentenza n.   251/1991). Che l'accertamento  non  sia
 pieno,   e'  indubitabile,  solo  riflettendo  che  la  pronuncia  in
 discussione viene adottata, di regola, in assenza di prove  in  senso
 tecnico,  come  si  ricordera'  oltre;  sta  di  fatto  che solo alle
 sentenze di condanna il secondo e  terzo  comma  dell'art.  27  della
 Costituzione    ricollegano,   rispettivamente,   l'affermazione   di
 colpevolezza e la irrogazione della pena: mentre di condanna  non  e'
 quella  che  applica  la sanzione concordata. Invero, "Contrasterebbe
 con la logica oltre che con il principio costituzionale, che  collega
 la  condanna  all'accertamento  della  colpevolezza (arg. ex art. 27,
 secondo comma, della Costituzione), un istituto fondato  sull'opposto
 principio  dell'applicabilita'  di  sanzioni  penali  senza la previa
 verifica della colpevolezza dell'imputato" (Cass., sezione sesta,  15
 ottobre 1990, Moncef., cass. pen. 1992, 236). Senonche', ad eliminare
 il  supposto  contrasto, non e' sufficiente una definizione dogmatica
 della natura giuridica della sentenza in questione, che la differenzi
 dalla decisione di condanna, quando dall'una e dall'altra discende il
 medesimo effetto principale: posto che la "applicazione" della  pena,
 disposta  con  la  sentenza  prevista  dall'art.  444, secondo comma,
 codice di rito, non e' lessicalnente  ne'  funzionalmente  differente
 dall'operazione  descritta nel primo inciso del primo comma dell'art.
 533 del c.p.p. Del resto, se e' vero  che  l'imputato  o  l'indagato,
 chiedendo  l'applicazione della pena, " ..rinuncia ad avvalersi della
 facolta' di contestare l'accusa  .."  (sentenza  n.  313/1990),  cio'
 significa  che  e' quest'ultima a prevalere, garantendosi, attraverso
 la  sentenza  che  ratifica  l'accordo,  un  risultato   virtualmente
 identico a quello di una decisione di condanna. E non da' certo prova
 di coerenza un sistema processuale che, sulla base di un accertamento
 "non  pieno",  offre ingresso all'applicazione della pena concordata,
 dopo  avere  bandito,  all'esito  di  un  siffatto  accertamento  nel
 giudizio  ordinario, finanche la pronuncia assolutoria con la formula
 del dubbio. Soltanto per completezza di argomentazione,  il  pretore,
 pur  ribadendo  di  aderire  alla  tesi  della  qualificazione  della
 sentenza di applicazione di pena concordata, come differente  da  una
 decisione  di  condanna, vuole prospettare le implicazioni della tesi
 opposta, senza con  cio'  sollevare  una  questione  di  legittimita'
 alternativa a quella appena delibata: alternativa incompatibile con i
 criteri  che  devono  orientare  il giudice remittente, illustrati da
 codesta Corte (fra le numerose: sentenza n. 456/1989).  "La  concorde
 volonta' delle parti e' il presupposto del contenuto della sentenza e
 diviene  oggetto  di  determinazione  da  parte  del  giudice, con la
 conseguenza che la sentenza che dispone l'applicazione della pena  su
 richiesta  delle  parti  contiene un accertamento ed una affermazione
 impliciti    della    responsabilita'     dell'imputato.     Pertanto
 l'accertamento  della  responsabilita' non va espressamente motivato,
 cosi' come l'affermazione di  responsabilita'  non  va  espressamente
 dichiarata.  Trattandosi,  quindi, di sentenza che, come si e' detto,
 trova il suo fondamento primario  e  la  sua  ragion  d'essere  nella
 volonta'  delle  parti e che, se pure affermativa di responsabilita',
 lo e' sulla base di un accertamento solo implicito, nei  sensi  sopra
 precisati,  essa  non  e'  una  vera  e propria sentenza di condanna"
 (Cass., sezione unica, 27 marzo 1992, Di Benedetto, Cass. pen.  1992,
 1078).  "Che  d'altra parte la sentenza ex art. 444 debba nelle linee
 generali rientrare tra quelle  di  condanna,  sia  pure  con  qualche
 effetto  atipico,  e'  confermato dalla constatazione che con essa si
 applica comunque una pena, suscettibile di determinare i  presupposti
 della  recidiva,  dell'abitualita' e professionalita' del reato e che
 la Corte costituzionale, pur nei limiti propri fissati  dalla  legge,
 ha  reiteratamente  affermato  che il giudice deve comunque, prima di
 dare attuazione all'accordo delle  parti,  accertare  che  esiste  la
 responsabilita'  dell'imputato  (C.C. n. 313/1990; C.C. n. 251/1991)"
 (Cass., sezione unica, 27 marzo 1992,  Cardarilli,  ivi,  1076).  Se,
 dunque,  di  condanna si trattasse, verrebbe in considerazione, quale
 norma interposta ai fini del rispetto dell'art. 76 della Costituzione
 - in connessione con la prevalenza  della  prima  parte  dell'art.  2
 della   legge  di  delega  sulle  successive  direttive  -  l'art.  6
 convenzione cit., ove attribuisce ad ogni persona il diritto a che un
 tribunale indipendente ed imparziale, costituito dalla legge,  decida
 "sul  fondamento  di  ogni accusa in materia penale elevata contro di
 lei". La sentenza che applica la pena sull'accordo delle  parti,  non
 reca   una   decisione   siffatta.   L'accoglimento  postula  la  non
 rilevabilita' di situazioni tali da imporre  il  proscioglimento,  ai
 sensi  dell'art.  129 del c.p.p., eventualmente sulla base dell'esame
 degli atti contenuti nel fascicolo del p.m.,  dei  quali  l'art.  135
 delle  disp. att. del codice prevede per il giudice la facolta' - non
 l'obbligo - di ordinare l'esibizione; ma la  mancata  rilevazione  in
 questa  fase  non esclude, palesemente, che tali situazioni potessero
 emergere  dall'istruzione  dibattimentale,  alla   quale,   tuttavia,
 l'adozione del rito speciale impedisce di transitare.
    Ne  deriva  che la pronuncia di applicazione della pena concordata
 non implica affermazione ne' esclusione del  fondamento  dell'accusa,
 quali postulate dalla convenzione: e non lo potrebbe, dal momento che
 non  sono  state  ancora  raccolte  le  prove a sostegno dell'accusa,
 destinate  -  come  quelle della difesa - a formarsi, per definizione
 accolta nel vigente sistema accusatorio e salvo tassative  eccezioni,
 in  dibattimento;  e,  in  ipotesi,  neppure  sono state espletate le
 indagini necessarie  per  le  determinazioni  inerenti  all'esercizio
 dell'azione  penale  (art.  326  del  c.p.p.),  quando  l'accordo sia
 raggiunto nel corso delle indagini preliminari, come  prevede  l'art.
 447  del  c.p.p.  Questa  considerazione introduce il confronto delle
 disposizioni impugnte con il parametro  di  cui  all'art.  112  della
 Costituzione.
    6.  - Ai sensi dell'art. 405, primo comma, del c.p.p., il pubblico
 ministero,  quando  non  deve  richiedere  l'archiviazione,  esercita
 l'azione  penale,  formulando  l'imputazione,  nei  casi previsti nei
 titoli secondo, terzo, quarto e quinto del  libro  sesto  ovvero  con
 richiesta  di  rinvio  a  giudizio.  Nella  sistematica  del  codice,
 l'eventuale adozione del giudizio abbreviato, disciplinato dal titolo
 primo del libro sesto, e'  preceduta  dalla  richiesta  di  rinvio  a
 giudizio.  Alla  formulazione  dell'imputazione  -  postulata, in via
 generale, dall'art. cit. - si accompagna, per la  instaurazione,  del
 giudizio immediato, un'apposita richiesta da parte del p.m., ai sensi
 dell'art. 453, primo comma, quando questa non provenga dall'imputato,
 come  prevede il terzo comma in relazione all'art. 419, quinto comma,
 a seguito della richiesta di rinvio a giudizio. Non diversamente,  il
 procedimento  per decreto e' subordinato ad analogo atto d'impulso da
 parte del p.m. (art. 459, primo comma).  A  sua  volta,  il  giudizio
 direttissimo   presuppone   l'iniziativa   del   p.m.  attraverso  la
 presentazione dell'imputato arrestato in  flagranza  o  in  stato  di
 custodia  cautelare,  oppure  la citazione dell'imputato libero (art.
 450, primo e secondo comma). L'unico caso in cui il p.m. si limita  a
 formulare  l'imputazione,  e' quello del procedimento di applicazione
 della pena, promosso  da  richiesta  della  persona  sottoposta  alle
 indagini  nel corso della corrispondente fase (art. 447). Certamente,
 il canone dell'obbligatorieta'  dell'azione  penale  non  puo'  dirsi
 violato da una disciplina legislativa, che ne identifichi l'esercizio
 nella   mera  formulazione  dell'imputazione,  corredata  o  meno  da
 ulteriori adempimenti. Senonche', la  presentazione  della  richiesta
 predetta comporta la paralisi delle indagini preliminari: nel duplice
 senso  che  queste non possono venire iniziate o proseguite; e che il
 p.m. non puo' addurre, a giustificazione del dissenso, la mancanza  o
 la  incompletezza  delle  indagini.  Difatti,  a seguito di richiesta
 congiunta,  o  di  quella  di  una  parte,  corredata  del   consenso
 dell'altra  (art.  447,  primo comma), ovvero di consenso manifestato
 nel termine  all'uopo  assegnato  (terzo  comma),  il  giudice  fissa
 l'udienza  per  la  decisione:  nella quale, l'obbligo di pronunciare
 sentenza e' immediato, "se ne ricorrono  le  condizioni"  (art.  448,
 primo  comma):  cioe', le condizioni stabilite dall'art. 444, secondo
 comma. D'altra parte, almeno tre giorni prima della suddetta udienza,
 il fascicolo del pubblico  ministero  deve  essere  depositato  nella
 cancelleria  del  giudice. E' ben vero che il pubblico ministero ha "
 .. il dovere di compere  ogni  attivita'  necessaria  ai  fini  delle
 'determinazioni   inerenti   all'esercizio  dell'azione  penale'  .."
 (sentenza di codesta Corte n. 190/1991);  cosi'  come  puo'  impedire
 l'intera procedura incidentale appena descritta, negando il consenso.
 "In  tema  di  patteggiamento, allorche' vi sia stato il dissenso del
 p.m.  e  il dissenso stesso risulti ingiustificato, la pena richiesta
 dall'imputato  puo'  essere  egualmente  applicata,  ma  soltanto  in
 dibattimento  ed  all'esito di questo, e non nel corso delle indagini
 preliminari. Cio' si desume dal disposto degli artt. 447  e  448  del
 c.p.p.,  secondo  il  quale la ratio che informa detta disciplina sta
 nella idoneita'  soltanto  del  giudizio  conseguente  all'esito  del
 dibattimento   a  fornire  al  giudice  gli  elementi  necessari  per
 concludere sul difetto di giustificazione del dissenzo  del  p.m.  e,
 quindi,  per  applicare  la  pena richiesta" (Cass. sezione prima, 22
 settembre 1992, Calarco, Cass. pen. 1994, 414; conf., sezione  terza,
 11  novembre  1992, Ortello, c.e.d. Cass. 192736; sezione seconda, 13
 dicembre 1991, Saccaro, ivi, 188779).
    "E'  manifestamente  infondata  la   questione   di   legittimita'
 costituzionale  dell'art.  448,  primo comma, del c.p.p. sollevata in
 riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, nella parte in  cui
 stabilisce  che  solo  all'esito  del  dibattimento  il giudice possa
 applicare la pena richiesta dall'imputato nell'ipotesi in cui il p.m.
 abbia espresso il  proprio  dissenso"  (ord.  di  codesta  Corte,  n.
 127/1993).  Ma  il  dissenso del pubblico ministero, anche nella fase
 delle indagini preliminari, deve essere motivato; e deve  esserlo  in
 riferimento   alla   incongruita'  della  pena  richiesta,  la  quale
 identifica  l'unico  criterio  assegnato  al  giudice  per   ritenere
 giustificato  lo  stesso dissenso, in aderenza alla lettura del primo
 comma dell'art. 448. Non puo' il diniego del consenso venire motivato
 con  la  valutazione  della  incompletezza  delle  indagini  e  della
 conseguente  indecidibilita'  allo  stato  degli  atti: criterio che,
 all'opposto, giustifica il dissenso del p.m. dall'adozione  del  rito
 abbreviato,  perche'  "  ..  non  puo'  che identificarsi in quello -
 ricavabile dal confronto per i poteri conferiti al giudice  dall'art.
 440,   primo  comma  -  consistente  nel  ritenere  il  processo  non
 definibile allo stato degli  atti"  (sentenze  di  codesta  Corte  n.
 81/1991;  e,  in  precedenza,  sentenze  nn.  66  e  183  del  1990).
 Nell'ordinanza richiamata poco sopra, codesta  Corte  osservava  che,
 ove  si  attribuisce  al  giudice il potere di surrogare d'ufficio la
 carenza del consenso  del  p.m.,  questi  "  ..  verrebbe  ad  essere
 autoritativamente   'espropriato'   del   potere   di  esercitare  in
 dibattimento il proprio diritto alla prova, che ben puo'  volgersi  a
 dimostrare,  fra l'altro, proprio la fondatezza delle ragioni in base
 alle  quali  la  stessa   parte   pubblica   non   ha   ritenuto   di
 accondiscendere  alla  richiesta di applicazione della pena formulata
 dall'imputato; che la disposizione oggetto di censura, pertanto,  non
 puo'  in  alcun  modo  ritenersi  lesiva  degli  invocati  parametri,
 rappresentando, anzi, il frutto  di  un  coerente  disegno  normativo
 volto a mantenere in equilibrio fra loro i contrapposti diritti delle
 parti  e  le  attribuzioni  del  giudice  ..".  La legittimita' della
 disposizione impugnata in quella sede, viene ora ridiscussa, non gia'
 nella parte in cui - rettamente - salvaguarda  il  diritto  del  p.m.
 alla prova; bensi', nella inversa prospettiva del condizionamento che
 essa  introduce  all'esercizio  ufficioso  dell'azione penale. In via
 generale,  posto  che  il  giudice,  anche  nel  caso  di   richiesta
 presentata dall'imputato dopo la chiusura delle indagini preliminari,
 non  e'  abilitato  a  sindacare  il dissenso del p.m. perche' - come
 argomentato  dalla  Corte  regolatrice  -  soltanto   la   successiva
 istruzione   gli   consente  di  effettuare  tale  valutazione:  cio'
 significa  che  egli,  in  mancanza e prima dell'assunzione di prove,
 neppure e' in grado di apprezzare se sia  giustificato  il  consenso,
 sebbene  si  avvalga dell'esame del fascicolo del p.m., eventualmente
 esibito ai sensi  dell'art.  135  delle  disp.  att.  del  c.p.p.  Si
 obiettera'  che,  nel  caso  di  dissenso,  il  giudice  non  viene a
 conoscenza degli atti contenuti in detto fascicolo; mentre questi gli
 vengono resi noti nel caso di consenso, il quale,  percio',  potrebbe
 venire  adeguatamente  valutato.  Ma  e'  agevole replicare, in primo
 luogo, che l'ordine di esibire il fascicolo del p.m., ai sensi  della
 disposizione  citata,  costituisce  oggetto  di  facolta',  e  non di
 obbligo, del  giudice;  in  secondo  che  la  detta  esibizione,  ove
 ritenuta idonea a permettere la valutazione del consenso, lo sarebbe,
 nondimeno,  per  apprezzare  il  dissenso. Tuttavia, nel secondo caso
 l'esibizione  non  e'  ammessa,  proprio  perche'  il  giudice   deve
 procedere  al  dibattimento  per  realizzare il diritto del p.m. alla
 prova, fra l'altro, della " ..fondatezza delle ragioni in  base  alle
 quali  la  stessa  parte  pubblica non ha ritenuto di accondiscendere
 alla richiesta ..". Cio' costituisce riprova del fatto che il p.m. e'
 tenuto  a  fornire  -  e  il  giudice  abilitato  a  sindacare  -  la
 dimostrazione delle ragioni del dissenso, e non gia' del consenso.
    Per piu' forte ragione, quando l'imputato presenti la richiesta di
 applicazione  della  pena  nella  fase delle indagini preliminari, il
 materiale investigativo gia' - se  del  caso  -  raccolto,  come  non
 consente  al  giudice di valutare la congruita' della pena, cosi' non
 e' sufficiente al p.m. per esprimere consenso o dissenso giustificati
 e motivati,  in  quanto  non  gli  permette  ancora  di  assumere  le
 determinazioni  inerenti  all'esercizio  dell'azione penale. L'organo
 dell'accusa e' posto, dunque,  di  fronte  al  dilemma:  prestare  il
 consenso, nonostante il mancato avvio o completamento delle indagini,
 e   percio'   in   assenza  di  elementi  che  giustifichino  persino
 l'esercizio dell'azione penale;  oppure  negarlo,  al  solo  fine  di
 proseguire  le  indagini,  il  quale,  pero',  non costituisce legale
 giustificazione del dissenso. In entrambi i casi, il p.m.  opera  una
 scelta   in   base  a  criteri,  piu'  che  meramente  discrezionali,
 assolutamente  arbitrari;  e,  nell'ipotesi   di   consenso,   rimane
 dispensato dall'inzio o dall'esaurimento delle indagini necessarie al
 fine di cui all'art. 326 del codice.
    Ne'  l'opzione  puo'  essere  sindacata  dal giudice, il quale, in
 presenza  del  consenso,  e'  soltanto  abilitato  ad  apprezzare  la
 congruita'  della  pena, come sara' piu' diffusamente argomentato. Si
 puo' sostenere che il p.m., prestando il consenso, eserciti  comunque
 l'azione penale, perche' ottiene una decisione favorevole all'ipotesi
 accusatoria.  Ma  questo  epilogo  del  procedimento  non  e' affatto
 conseguenza dello svolgimento di indagini adeguate, dal  momento  che
 queste,  prima  della chiusura della corrispondente fase processuale,
 non  sono  ancora   esaurite,   ovvero   neppure   iniziate;   bensi'
 dell'iniziativa   della   controparte,   la  quale  diviene  arbitra,
 indirettamente della qualita' e della  quantita'  delle  indagini  da
 compiere.  Il  patteggiamento si presenta, cosi', strumento idoneo ad
 evitare o paralizzare le indagini, tese ad assumere le determinazioni
 piu' volte menzionate: e percio' ad impedire l'adempimento del dovere
 imposto dall'art. 112 della Costituzione.
    7.  -  Guardando  agli effetti della richiesta di pena nella sfera
 del destinatario, si reputa inevitabile riproporre il  confronto  del
 rito  speciale con i parametri desunti dagli artt. 13, secondo comma,
 e 24, secondo comma, gia' invocati da numerosi uffici remittenti.
    Essendo definiti inviolabili,  dal  primo  precetto,  la  liberta'
 personale e, dall'altro, il diritto alla difesa in ogni stato e grado
 del  procedimento,  non  sembra  appagante - sebbene da condividere -
 l'affermazione che  "  ..occorre  anche  guardarsi  dal  pericolo  di
 confondere  il  diritto  di liberta' e quello di difesa con l'obbligo
 assoluto di esercitarli" (sentenza di codesta  Corte,  n.  313/1990).
 Pare  innegabile che i diritti qualificati inviolabili dallo statuto,
 in    particolare    il    "diritto    fondamentale    di    liberta'
 costituzionalmente   riconosciuto"   (sentenza  di  codesta  Corte,n.
 409/1989) e quello, del pari fondamentale (sentenze nn. 184 e 243 del
 1989), di difesa, siano indisponibili per definizione. Percio' -  sia
 consentito  argomentare  -  una  cosa e' la rinuncia all'esercizio di
 quei diritti, nei limiti  di  singole  facolta'  che  ne  formano  il
 contenuto  normativo;  e  cosa ben diversa e' l'abdicazione al nucleo
 essenziale  degli  stessi.  Il  diritto  di  liberta'  puo'   subi're
 limitazioni   per   effetto   di   un  atto  motivato  dell'autorita'
 giudiziaria: il corrispondente parametro, dunque,  si  raccorda  -  e
 sara'  trattato  congiuntamente  - con quello desunto dall'art. 111.,
 primo comma, della Costituzione, che comporta il dovere  generale  di
 motivazione  dei  provvedimenti giurisdizionali. Quanto al diritto di
 difesa, si puo' riconoscere che la riduzione dei casi e dei mezzi  di
 impugnazione  della  sentenza,  che  accoglie  la richiesta di pena -
 essendo il ricorso per cassazione inammissibile per motivi  attinenti
 a  fatti  non  risultanti dagli atti del procedimento (Cass., sezione
 sesta, 13  febbraio  1991,  Baccei,  Cass.  pen.  1992,  678)  -  sia
 compatibile  con il precetto costituzionale: l'estensione del diritto
 ai diversi gradi  non  implicando  la  necessita'  che  questi  siano
 legislativamente  riconosciuti,  ne'  concretamente percorsi, in ogni
 tipo di procedimento. Ma il rito in esame, ben di piu',  postula  che
 il  procedimento  neppure transiti dalla fase delle indagini a quella
 del dibattimento; e, addirittura,  consente  che  la  prima  non  sia
 esaurita,   ovvero   neanche   iniziata.  L'applicazione  della  pena
 concordata  impedisce  cosi'  il   passaggio   -   secondo   efficace
 espressione  dottrinale  -  dal procedimento al processo. Dichiarando
 l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  425,  primo  comma,  del
 c.p.p.,  nella  parte  in  cui  stabiliva che il giudice pronunciasse
 sentenza di non luogo  a  procedere  quando  risultava  evidente  che
 l'imputato  era persona non imputabile, codesta Corte osservava: "Ne'
 a sanare l'indicato contrasto  puo'  invocarsi  la  possibilita'  che
 l'art.  419,  quinto comma, del codice di rito riconosce all'imputato
 di 'rinunciare  all'udienza  preliminare  e  richiedere  il  giudizio
 immediato',  giacche',  a tacer d'altro, sarebbe davvero singolare un
 sistema  che,  per   consentire   all'imputato   di   esercitare   il
 fondamentale  diritto  di  difesa in ogni stato e grado del processo,
 gli imponesse la rinuncia - che non a caso il codice costruisce  come
 'atto  personalissimo' - ad una fase del processo destinata proprio a
 consentire  l'esercizio  di  quel  diritto"  (sentenza  n.  41/1993).
 Rinuncia  non  giustificabile,  dunque; eppur modica, al confronto di
 quella alla  celebrazione  dello  stesso  dibattimento,  quale  viene
 imposta  all'imputato  od  alla persona sottoposta alle indagini, per
 usufruire dello sconto di pena. Percio', non sembra  compatibile  con
 gli  indicati  precetti  la rinuncia alla instaurazione del processo,
 nel  quale,  soltanto,  il  diritto  di  difesa  trova   pienezza   e
 possibilita'  di  esercizio  adeguato;  ed  il  quale, d'altra parte,
 costituisce  la  "via  legale"  alla  compressione  del  diritto   di
 liberta'. La rinuncia investe il processo inteso - in aderenza ad una
 concezione   enfatizzata   del   modello   accusatorio,  accolta  dai
 compilatori,  del  codice  -  come  sequenza  di  atti  diretti  alla
 formazione  delle  prove  nel  contraddittorio  delle  parti. Il rito
 speciale in  commento  non  implica  alcun  contraddittorio,  perche'
 eliminato  alla  radice dall'incontro consensuale delle parti; ne' la
 formazione di prove, perche' all'indicato modello accusatorio ripugna
 il riconoscimento  di  valore  probatorio  agli  atti  contenuti  nel
 fascicolo   del  p.m.,  ad  eccezione  dei  verbali  degli  atti  non
 ripetibili   e   di   quelli   assunti   nell'incidente   probatorio.
 Sicuramente,  non costituiscono prove gli atti compiuti dalla polizia
 giudiziaria, al di fuori del criterio della irripetibilita', ed ancor
 meno se anteriori alla individuazione della persona  sottoposta  alle
 indagini;  altrettanto  e' da escludere che presenti simile valore un
 atto di parte come la querela, la quale, nondimeno, esaurisce  spesso
 l'intero contenuto del fascicolo del p.m., sebbene utilizzabile - ove
 ricevuta  a  verbale  -  solo per il limitato fine indicato dall'art.
 511, quarto comma. Salvo il  criterio  enunciato  nell'art.  326,  il
 codice  non  determina - giova ribadirlo - la qualita' e la quantita'
 delle indagini che il  p.m.  e'  tenuto  a  svolgere  al  fine  delle
 determinazioni  inerenti  all'esercizio  dell'azione  penale; ad ogni
 modo, la carenza o la totale  omissione  di  indagini,  come  non  e'
 rimediabile  dal  pubblico  ministero  a  seguito della presentazione
 della   richiesta   di   applicazione   della    pena,    da    parte
 dell'interessato,   nel   corso   della   corrispondente   fase   del
 procedimento: cosi' non e' sindacabile, dal giudice,  il  quale  deve
 limitarsi  a valutare l'esistenza delle condizioni elencate nell'art.
 444,  secondo  comma.  In  sostanza,  l'affermazione  che  anche   la
 decisione  adottata  ai  sensi  di  detta  disposizione,  non possa "
 ..prescindere  dalle  prove  della  responsabilita'"   (sentenza   n.
 313/1990,  cit.),  si  puo'  condividere solo accogliendo una nozione
 delle prove diametralmente opposta a quella enunciata nel  codice  di
 rito:  che  definisce  tali,  e  percio'  utilizzabili  ai fini della
 deliberazione della sentenza (all'esito del giudizio ordinario), solo
 "quelle legittimamente acquisite nel dibattimento" (art. 526).
    Del  resto,  codesta  Corte  ha  chiarito  che  l'attuale  sistema
 processuale  penale  "  ..riserva al dibattimento la formazione della
 prova, mentre nella fase preliminare si raccolgono solo gli  elementi
 sufficienti  per  la formulazione dell'accusa e il rinvio a giudizio"
 (ordinanza n. 213/1992). "Salvo il caso  degli  incidenti  probatori,
 che  tuttavia  riguardano  particolari  aspetti  non  sempre idonei a
 delineare la fisionomia generale dei  fatti,  non  esistono,  dunque,
 prove  nell'udienza  preliminare  ne'  significativo accertamento dei
 fatti, che si profileranno soltanto al dibattimento .." (sentenza  n.
 431/1990). Sembra corretto sostenere che l'art. 135 dellla disp. att.
 del  codice  preveda l'impiego degli atti contenuti nel fascicolo del
 p.m.,  simulando  che  rivestano  valore  di  prove  ed   amettendone
 l'utilizzazione  da parte del giudice del dibattimento, ai fini della
 pronuncia della sentenza che applica la pena  concordata,  ovvero  di
 quella  di  proscioglimento.  L'ordine  di esibizione di questi atti,
 pero'  -  come  gia' segnalato - e' rimesso alla facolta' del giudice
 tanto da rivelare, per un verso,  lo  scarso  affidamento  che  essi,
 secondo   il  legislatore  delegato,  offrono;  e,  per  l'altro,  la
 marginalita'  dell'intervento  del  giudice   rispetto   all'incontro
 consensuale  delle  parti.  Sembra inevitabile concludere che venga a
 delinearsi   non   un   rito    processuale    alternativo,    bensi'
 "un'alternativa al processo", come incasticamente notato in dottrina.
 Non   sembri   pleonastico,   quindi,   rammentare  che  il  processo
 costituisce non soltanto il presupposto indefettibile  dell'esercizio
 del  diritto  di  difesa,  nella  sua piena estensione; ma, altresi',
 qualificante e imprescindibile connotato della struttura dello  Stato
 democratico:  al  punto  da  far ritenere la regola della pubblicita'
 delle udienze una "espressione di civilta' giuridica" - desunta,  fra
 gli  altri,  dall'art.  6,  primo  comma,  secondo  enunciato,  della
 convenzione citata - alla quale  "  ..  si  da'  ampio  spazio  negli
 ordinamenti  democratici  fondati,  come  il nostro, sulla sovranita'
 popolare" (sentenza di codesta Corte n. 50/1989), e che si  ricollega
 al precetto di cui all'art. 101, primo comma, della Costituzione.
   8. - Sicuramente, non puo', condividersi " .. l'idea che l'imputato
 'disponga'   della   sua   'indisponibile'   liberta'  personale  per
 autolimitarla", (sentenza n. 313/1990, cit.);  e  si  e'  indotti  ad
 escludere  che una visione siffatta fosse sottesa all'istituto, cosi'
 come all'impostazione delle precedenti ordinanze  di  rimessione.  In
 effetti,  la limitazione del diritto di liberta', che puo' conseguire
 all'applicazione della pena richiesta dalle parti, e' mediata  da  un
 provvedimento,  giurisdizionale.  Ma  il  provvedimento  deve  essere
 motivato, sia in aderenza, al canone  di  cui  all'art.  13,  secondo
 comma,  sia  a  quello  piu'  generale enunciato nell'art. 111, primo
 comma,  della  costituzione.  La  motivazione,  d'altra  parte,  deve
 risultare  adeguata  alla,  specie  e  all'entita'  degli effetti che
 l'atto e' destinato a produrre. L'art. 546, primo  comma,  lett.  e),
 del  c.p.p. definisce la motivazione della sentenza - deliberata dopo
 la chiusura del dibattimento - come la concisa esposizione dei motivi
 di  fatto  e  di  diritto  su  cui  la  decisione  e'  fondata,   con
 l'indicazione  delle  prove  poste  a  base  della decisione stessa e
 l'enunciazione delle ragioni per le  quali  il  giudice  ritiene  non
 attendibili  le  prove  contrarie. Di questa nozione rimane del tutto
 estranea alla sentenza, che definisce il rito alternativo,  la  parte
 dell'enunciazione  e  della  valutazione  delle  prove: cosi' come la
 formazione di queste ultime e' completamente assente  dalla  fase  in
 cui  si  forma  l'accordo fra le parti.   Ma la sentenza in questione
 puo' risultare priva anche della esposizione  dei  motivi  di  fatto,
 quando, nelle situazioni, gia' delineate, non sia dato attingerne dal
 fascicolo  del  p.m.  -  qualora  esibito  -  ne'  da  quello  per il
 dibattimento.  Percio',  e'  dato  condividere  soltanto   in   parte
 l'argomentazione  per  cui  "  ..il  giudice  non puo' lasciare senza
 alcuna   giustificazione   nella   sentenza   l'apprezzamento   della
 correttezza   o  meno  della  definizione  giuridica  del  fatto  che
 scaturisce dalle risultanze: cosi' come e tenuto a  dire  le  ragioni
 per  cui  le  circostanze,  attenuanti  od  aggravanti, e l'eventuale
 prevalenza o equivalenza delle une rispetto alle altre, siano  o  non
 ritenute plausibili nei sensi prospettati nella consensuale richiesta
 delle  parti" (sentenza n. 313/1990).  Invero, l'adozione del rito e'
 ben compatibile con la completa assenza di quelle risultanze che, nel
 pensiero di codesta Corte, dovrebbero permettere la ricostruzione del
 fatto,   prima  della  sua  definizione  giuridica.  Sicuramente,  la
 sentenza in discorso reca una motivazione, relativa alla  correttezza
 della   definizione  giuridica  del  fatto,  alla  sussistenza  delle
 circostanze, ed al bilanciamento di queste; ma che,  con  altrettanta
 sicurezza,  non si estende all'esame del fondamento dell'accusa. Tale
 sentenza,  quindi,  e'  paragonabile  a  una  decisione   sull'accusa
 prospettata: se il fatto, negli estremi oggettivi e soggettivi, fosse
 riconosciuto    sussistente,    esso    risulterebbe,   correttamente
 qualificato, circostanziato e meritevole di un  determinato  giudizio
 di  comparazione  fra  le  circostanze.  "E  tali  conclusioni  escno
 ulteriormente rafforzate dalla considerazione che a questa  forma  di
 definizione  anticipata,  del  procedimento  e'  consentito ricorrere
 persino nella fase delle indagini  preliminari  (art.  447)  e  cioe'
 quando,  almeno  teoricamente,  non si siano ancora raccolti elementi
 per una richiesta di rinvio al giudizio.  Si  tratta  insomma  di  un
 istituto  nuovo  per  il  nostro ordinamento e in esso introdotto per
 deflazionare il dibattimento attraverso la pronuncia di una  sentenza
 con  la  quale,  venendo a scindersi la formula 'riconoscimento della
 responsabilita'-applicazione della pena', non si accerta dal  giudice
 la  effettiva  offesa  da parte dell'imputato dell'interesse protetto
 dalla norma che si assume violata e la  colpevolezza  dell'inquisito,
 con  esonero per l'accusa dall'onere della prova di responsabilita' e
 con  la  accettazione  da  parte  dell'imputato,  per  sue  personali
 valutazioni   di   convenienza,   della  definizione  anticipata  del
 procedimento godendo  di  effetti  'preminali'.  Qualora  si  volesse
 inquadrare   l'istituto   in  una  categoria  (lo)  si  potrebbe,  in
 definitiva, inserirlo tra quelle che si sono  definite  'sentenze  in
 ipotesi'    e,   in   questo   specifico   caso,   'in   ipotesi   di
 responsabilita''" (Cass., sezione prima, 19 febbraio 1990, Migliardi,
 Cass. pen. 1990, II,  15).  "Nella  pronunzia  in  esame,  mentre  e'
 previsto  il secondo dei termini di questa combinazione (applicazione
 della pena) e' assente il  primo  e  cioe'  il  riconoscimento  della
 responsabilita'  che  non  puo'  conseguire  alla  completezza  di un
 accertamento da parte del giudice,  cui  anzi  e'  negata  la  stessa
 possibilita'  di  un  accertamento anche iniziale, dovendo il giudice
 limitarsi a esaminare se 'allo stato degli atti' sia da escludersi la
 evidenza di prova d'innocenza"  (Cass.,  sezione  quinta,  26  giugno
 1991,  Garetto,  ivi,  1992,  90).    Le  decisioni secondo le quali,
 diversamente, la sentenza in discorso  presuppone  l'accertamento  di
 responsabilita'  (Cass.,  sezione  prima, c.c., 26 marzo 1991, Negri,
 ivi, 1992, 238; idem, 3 aprile 1991, Bozzoli, ivi, 91),, non indicano
 di quali elementi il giudice debba disporre allo scopo; e,  comunque,
 confliggono  con  l'interpretazione  dell'istituto,  data  da codesta
 Corte: "La giurisprudenza costituzionale richiamata  non  ha  inteso,
 peraltro,    riferire   alla   sentenza   adottata   a   seguito   di
 'patteggiamento'  la  natura  propria  della  sentenza  di   condanna
 disposta  sulla  base  di  un  accertamento  pieno  della  fondatezza
 dell'accusa  e  delle  responsabilita'  dell'imputato"  (sentenza  n.
 251/1991).  E  la  ragione  ben  se  ne  intende:  "  ..  il presidio
 costituzionale della presunzione di non colpevolezza importa che  non
 sia la mancanza di prove di innocenza, ma la presenza di pertinenti e
 concludenti  prove  a  carico a giustificare una sentenza di condanna
 (cfr. la sentenza n.  175/1970)  .."  (sentenza  n.  124/1972).  Alla
 stregua  di  questo  principio, e' necessario rimeditare le ulteriori
 enunciazioni  di  codesta  Corte,  riguardo  alla  motivazione  della
 sentenza  che  applica la pena concordata. "D'altra parte, il modello
 generale di sentenza, che il legislatore delinea  nell'art.  546  del
 c.p.p., prevede alla lett. e) del primo comma 'la concisa esposizione
 dei  motivi di fatto e di diritto su cui la decisione e' fondata': si
 tratta  di  un'esigenza  che  non  e'   esclusa   dalla   particolare
 configurazione  della  sentenza prevista dall'art. 444 del cod. proc.
 pen., anche se ovviamente va ad essa ragguagliata.  (  ..)  Peraltro,
 ancora una volta va richiamato il modello generale di sentenza di cui
 all'art.  546  del cod. proc. pen., e le prescrizioni della lettera e
 del primo comma, dove si esige che il giudice indichi  le  prove  che
 intende porre a base della sua decisione, ed enunci le ragioni per le
 quali  non  ritiene attendibili le prove contrarie. Dal che si evince
 che anche la decisione di cui  all'art.  444  del  cod.  proc.  pen.,
 quanto  non  e'  decisione  di  proscioglimento, non puo' prescindere
 dalle prove  della  responsabilita'"  (sentenza  n.  313/1990).    In
 dottrina,  e'  stato  osservato  che le disposizioni relative al rito
 speciale in questione, non  recano  alcun  richiamo  alla  disciplina
 della  decisione  dibattimentale  (artt.  529 e segg. del c.p.p.), al
 contrario di quanto prevede l'art.  442,  primo  comma,  in  tema  di
 giudizio  abbreviato:  quasi  a significare la inevitabile differenza
 fra la motivazione contratta della sentenza che accoglie la richiesta
 di pena - riconducibile al generale modello  previsto  dall'art.  125
 codice  di  rito - e quella della sentenza pronunciata al termine del
 giudizio, la quale si estende anche alle prove. Il pretore rileva che
 - al di la' del generale dovere di motivazione delle sentenze e delle
 ordinanze, ribadito dal terzo comma dell'art. 125 -  l'indicazione  e
 la  valutazione  di  prove  non sono richieste per la sentenza di non
 luogo  a  procedere  (art.  426,  primo  comma,  lett.  d)),  perche'
 nell'udienza preliminare, l'acquisizione di ulteriori informazioni e'
 soltanto  eventuale;  e,  comunque,  si  tratta  di  una decisione di
 proscioglimento. All'opposto, il rinvio operato dall'art. 442,  primo
 comma,  agli  artt. 529 e segg. rivela che la sentenza conclusiva del
 giudizio abbreviato deve sottostare  ai  criteri  di  enunciazione  e
 valutazione   delle  prove,  propri  della  decisione  all'esito  del
 dibattimento. Esula dal tema in trattazione  chiarire  se,  nel  rito
 abbreviato,   gli   atti  contenuti  nel  fascicolo  del  p.m.  siano
 equiparati alle prove in senso tecnico (es., raccolte  nell'incidente
 probatorio).  E'  sufficiente  notare  che  l'adozione di questo rito
 presuppone  la  decidibilita'  allo  stato  degli  atti,   salva   la
 possibilita'  di  integrazione  probatoria nel caso di trasformazione
 del  giudizio  direttissimo.  Diversamente,  giova  ribadire  che  la
 decidibilita'  allo  stato  degli  atti  non  e'  richiesta  ai  fini
 dell'applicazione della pena concordata; e che,  di  conseguenza,  il
 giudice e' tenuto ad accogliere la richiesta, nonostante la carenza o
 totale  mancanza  di  prove di responsabilita' in senso tecnico, come
 pure di semplici elementi indiziari,  desumibili  dal  fascicolo  del
 p.m.  Si  deduce  che  il  mancato  richiamo  agli  artt. 529 e segg.
 conferma l'estraneita' della indicazione e valutazione di prove  alla
 motivazione  della sentenza in questione. Si dovra' aggiungere che la
 possibilita' di utilizzare gli atti contenuti nel fascicolo del  p.m.
 (art.  135  delle disp. att. del codice) per decidere sulla richiesta
 di applicazione della pena, comporta  il  ribaltamento  della  regola
 dettata  dall'art.  526, della quale pare ineludibile la correlazione
 con il tipo di motivazione  richiesto  dall'art.  546,  primo  comma,
 lett.  e).  E' apprezzabile il tentativo di chi, per superare i dubbi
 di costituzionalita', considera il giudice dell'udienza preliminare e
 quello  del   dibattimento   abilitati   a   prosciogliere,   quando,
 rispettivamente,  il  p.m.  non  abbia raccolto un minimo di concreti
 elementi di accusa, ovvero - per  affinita'  con  la  condizione  per
 l'applicazione  di  misure  cautelari  personali, richiesta dall'art.
 273, primo comma - l'imputato non sia raggiunto da  gravi  indizi  di
 colpevolezza.  Ma  una  siffatta  condizione  dall'art.  444, secondo
 comma, non e' imposta: limitandosi a richiedere che non debba  essere
 pronunciata  sentenza  di  proscioglimetnto, e che siano correttre la
 qualificazione giuridica del fatto, l'applicazione e la  comparazione
 delle  circostanze, oltre che - per effetto della decisione (sentenza
 n. 313/1990) di codesta Corte - congrua la pena indicata dalle parti.
 Coerentemente, e' stato deciso che "Per quel che riguarda la sentenza
 che applica la pena su richiesta, nell'ipotesi  in  cui  il  giudice,
 effettuati  i controlli richiesti dal secondo comma dell'art. 444 del
 c.p.p. (sulla qualificazione giuridica del fatto e sulla  correttezza
 nell'applicazione  e  nella  comparazione delle circostanze), ritenga
 irreprensibile dal punto di vista formale l'accordo  intervenuto  tra
 le   parti   e   fondata   la  concessione  delle  attenuanti  ed  il
 bilanciamento delle circostanze, la motivazione della  sentenza  puo'
 essere   ridotta  alla  mera  affermazione  di  avere  effettuato  il
 controllo richiesto dalla legge" (Cass., sezione  quinta,  30  aprile
 1991,  Ben  Omar, Cass. pen. 1992, 98). "Ne consegue che l'obbligo in
 parola deve ritenersi assolto con il darsi atto da parte del  giudice
 della  richiesta  delle  parti  in ordine all'entita' della pena e di
 avere positivamente effettuato la valutazione della correttezza della
 qualificazione giuridica del fatto, dell'applicazione e  comparazione
 delle  circostanze  prospettate  dalle parti e della congruita' della
 pena concordata ai fini e nei limiti di cui all'art. 27, terzo comma,
 della  Costituzione,  e  senza   che   sia   previamente   necessario
 'specificare'  le  ragioni  per  le quali non deve essere pronunciata
 sentenza di proscioglimento a norma  dell'art.  129  c.p.p."  (Cass.,
 sezione  quinta,  10  maggio 1991, Mazza, ivi, 96). "Nel procedimento
 speciale in questione,  inoltre,  il  giudice  non  e'  assolutamente
 tenuto  ad  accertare la sussistenza in fatto degli estremi del reato
 in relazione al  quale  le  parti  'patteggiano'  la  pena,  ma  deve
 soltanto valutare, sulla base degli atti, se sussistano elementi che,
 in maniera evidente, consentano di escludere la sussistenza del fatto
 stesso  e  la  prospettabilita' in fatto e in diritto dell'ipotesi di
 reato sul quale le parti concordemente chiedono l'applicazione  della
 pena"  (Cass.,  sez.  fer.,  30  luglio  1991,  D'Onofrio,  ivi, 97).
 L'interpretazione prevalente nella  giurisprudenza  di  legittimita',
 sebbene  dissenziente  da  quella  accolta  da  codesta  Corte  nella
 decisione, piu' volte ricordata, immedesima  il  diritto  vivente;  e
 conduce  a  ritenere che la sentenza conclusiva del rito speciale non
 solo possa, ma debba prescindere dall'indicazione e dalla valutazione
 di   prove,   segnatamente   di   quelle   di   responsabilita';   e,
 conseguentemente,  sia priva della motivazione essenziale, in materia
 penale, imposta dal ricordato precetto costituzionale, nella  lettura
 data   da   codesta   Corte:   "Vi  e'  poi,  da  tener  conto  della
 imprescindibilita' della motivazione (art. 111  della  Costituzione),
 che,  come  e'  noto, e' il maggior impegno del giudice, perche' deve
 contenere la ricostruzione logica e critica  delle  prove,  per  dare
 ragione  della fondatezza della pronunzia soddisfare e le esigenze di
 giustizia dei consociati .." (sentenza n.  124/1972).
    9. - La rinuncia all'acquisizione delle  prove  nel  dibattimento,
 che   sostanzia   il   rito  speciale  in  discorso,  introduce  alla
 valutazione della relativa  disciplina  alla  stregua  del  parametro
 della   ragionevolezza.  Nell'esame  di  questioni  affatto  diverse,
 codesta Corte chiari'  che  "  ..  l'oralita',  assunta  a  principio
 ispiratore  del  nuovo sistema, non rappresenta, nella disciplina del
 codice,  il  veicolo  esclusivo  di  formazione   della   prova   nel
 dibattimento:  cio'  perche' - e' appena il caso di ricordarlo - fine
 primario ed ineludibile del processo penale  non  puo'  che  rimanere
 quello  della  ricerca  della  verita' (in armonia coi principi della
 Costituzione: come reso esplicito nell'art. 2, prima parte,  e  nella
 direttiva n. 73, della legge di delega, tradottasi nella formulazione
 degli  artt.  506 e 507; cfr. anche la sentenza n. 258/1991 di questa
 Corte) ..". Conseguentemente, veniva dichiarata l'illegittimita'  dei
 commi  terzo e quarto dell'art. 500 del codice di rito, per contrasto
 con l'art. 3 della Costituzione, in quanto la norma "  ..  istituisce
 una  irragionevole  regola  di  esclusione che, non solo puo' giocare
 cosi' a vantaggio come a danno dell'imputato, ma e'  suscettibile  di
 ostacolare  la  funzione  stessa del processo penale proprio nei casi
 nei quali si fa piu' pressante l'esigenza della difesa della societa'
 dal delitto, quando per di  piu'  il  ricorso  all'intimidazione  dei
 testimoni si verifica assai di frequente ( ..).  In in secondo luogo,
 posto  che  il  nuovo  codice  fa  salvo  (e, in aderenza ai principi
 costituzionali, non poteva essere altrimenti) il principio del libero
 convincimento, inteso come liberta' del giudice di valutare la  prova
 secondo  il  proprio  prudente  apprezzamento,  con l'obbligo di dare
 conto in motivazione dei criteri adottati e dei risultati  conseguiti
 (art.  192),  la  norma  in esame impone al giudice di contraddire la
 propria motivata convinzione nel contesto della stessa decisione  .."
 (sentenza  n. 255/1992). Queste valutazioni devono, ora, confrontarsi
 con una prospettiva processuale esattamente rovesciata.  Diversamente
 dalla  norma  dichiarata  incostituzionale con la ricordata sentenza,
 quelle che disciplinano il rito della pena concordata non evitano, ma
 anzi ammettono l'utilizzazione degli atti contenuti nel fascicolo del
 p.m., pochi o molti che siano, e  qualunque  ne  risulti  la  portata
 probante  o, piu' frequentemente, solo indiziante: esse, percio', non
 contraddicono il "principio di non dispersione dei mezzi  di  prova",
 individuato   da   codesta  Corte  nella  suddetta  decisione,  quale
 correttivo del canone  dell'oralita',  e  destinato  al  recupero  di
 accertamenti  non suscettibili di essere compiutamente e genuinamente
 surrogati   dalla   prova   dibattimentale.       All'opposto,    nel
 patteggiamento  e'  il  principio  dell'oralita' a venire interamente
 sacrificato, quando si attribuisce o, comunque, si  finge  il  valore
 probatorio   di   atti   che,  ben  potendo  venire  compiutamente  e
 genuinamente sostituiti dalle prove dibattimentali, non assumerebbero
 alcun  rilievo,  ed  anzi  sarebbero  inutilizzabili  ai  fini  della
 decisione  conclusiva  del  giudizio  con  rito ordinario.   Resta da
 chiedersi quanto coerente con i principi della ricerca della  verita'
 e   del   libero   convincimento  del  giudice,  risulti  una  scelta
 legislativa la quale, non solo equipara ad atti non ripetibili  tutti
 quelli contenuti nel fascicolo del p.m., attribuendovi indiscriminata
 valenza  probatoria  agli  effetti della ratifica dell'accordo fra le
 parti  e,  in  par  tempo,  negandola  in  sede  di  definizione  del
 dibattimento;  ma,  addirittura, priva il giudice di qualsiasi potere
 di integrazione di tali risultanze - quale previsto dagli artt. 306 e
 507 del c.p.p., riconosciuti espressione  del  principio  di  ricerca
 della   verita'  -  non  parendo  dubbio  che  costui,  alla  stregua
 dell'attuale   formulazione   dell'art.   444,   secondo   comma,   e
 diversamente  da  quella dell'art. 440, primo comma, non puo' opporre
 all'accordo intervenuto fra le parti la non decidibilita' allo  stato
 degli   atti.   Riceve   conferma   l'osservazione   che   la  stessa
 qualificazione giuridica del fatto, prospettata dalle parti, in tanto
 deve essere ritenuta corretta dal giudice, in quanto, e solo perche',
 aderisca al contenuto del fascicolo del p.m.    Si  deve,  per  altro
 verso,  paventare  che  la  rinuncia  al dibattimento, nella quale si
 sostanzia la scelta del rito alternativo da  parta  dell'indagato  od
 imputato,  risulti  -  in  concreto,  e  in  ipotesi  tutt'altro  che
 residuali  -  suggerita  da  finalita'  ben  diverse  da  quella   di
 beneficiare degli effetti premiali dell'istituto: cosi', in evenienza
 non  peregrina,  dall'intento  di  dissimulare  la responsabilita' di
 terzi, sottraendoli  alle  conseguenti  pene  e  facendosene  carico;
 oppure  dal  fine  di impedire, soprattutto nella fase iniziale delle
 indagini preliminari, l'accertamento di fattispecie ben piu' gravi di
 quelle gia' emerse, commesse, le prime, dalla persona sottoposta alle
 indagini o da altri, e che rischiano di venire in luce attraverso  la
 prosecuzione  delle  attivita'  investigative  ovvero  nel  corso del
 dibattimento. Non a caso,  l'amministrazione  della  giustizia  viene
 tutelata   anche   attraverso   l'incriminazione   dell'autocalunnia.
 Senonche',  il  rito  in  questione,   introdotto   dalla   richiesta
 dell'indagato  od  imputato,  non implica l'incolpazione di se', ma -
 come rilevato da codesta Corte - qualcosa di meno  e  di  differente,
 cioe'  la  rinuncia a contestare l'accusa. Da questa rinuncia, pero',
 possono  derivare  effetti  pratici  non  diversi  da   quelli   che,
 frequentemente,  si  propone  l'autocalunniatore.  Ma la richiesta di
 applicazione  della  pena,  rientrando  nel  novero  delle   facolta'
 processuali  riconosciute  all'imputato,  non  potra'  giammai essere
 valutata come indizio del reato previsto dall'art.  369  del  c.p.p.,
 ne' dal p.m. ne' dal giudice: il primo dovra' limitarsi a valutare la
 congruita' della pena proposta, all'effetto ai prestare il consenso e
 di  astenersi  dall'iniziare o dal proseguire le indagini; il secondo
 non  potra'  che  accertarsi  della  volontarieta'  della   richiesta
 dell'indagato od imputato (art. 446, quinto comma) e del consenso, ma
 non certo sondare i motivi della scelta del rito, neppure disponendo,
 a   tal  fine,  l'interrogatorio  del  richiedente.  Da  un  siffatto
 meccanismo  processuale,  i  principi  della  ricerca  della  verita'
 sostanziale  e del libero convincimento sembrano ricevere un affronto
 ben piu' grave, che non dal divieto - riconosciuto illegittimo  -  di
 utilizzare  con  valore di prova le precedenti dichiarazioni rese dal
 teste, contenuto nell'art. 500, quarto comma, del c.p.p. (sentenza n.
 255/1992): se si  discuteva,  a  proposito  di  quel  divieto,  della
 ccstituzionalita'  di limitazioni al libero convincimento per effetto
 di regole restrittive  dell'utilizzabilita'  di  atti  contenuti  nel
 fascicolo  dal  p.m.;  sara'  lecito  chiedersi quale piu' penetrante
 incidenza assuma,  sul  medesimo  principio,  l'obbligo  inverso  del
 giudice  di  fondare  la  decisione  sulle risultanze di quegli atti,
 prive, per definizione - enucleata dall'art. 526  del  codice  -  del
 valore    di   prove   utilizzabili   all'esito   del   dibattimento,
 congiuntamente  al  divieto  di  disporre  d'ufficio  una   qualsiasi
 integrazione  istruttoria, nonche' di accertare i motivi della scelta
 del rito.   Analoga questione venne dichiarata  infondata  da  questa
 Corte  (sentenza  n.  12/1991),  in  base alle considerazioni che era
 stata prospettata senza indicazione di  parametri  costituzionali  di
 confronto,  e  che  atteneva  palesemente a circostanze di fatto, del
 tutto ininfluenti nel giudizio di  legittimita'.  La  censura  viene,
 quindi,   riproposta   in   riferimento   esplicito   al   canone  di
 ragionevolezza delle scelte legislative, e ai connessi principi che -
 come chiarito dalla piu' recente  pronuncia  -  devono  informare  il
 processo penale.
    10.  -  Il  parametro  di  cui  all'art.  3,  primo  comma,  della
 Costituzione, viene in esame anche da differente angolazione. In tema
 di rito abbreviato, codesta Corte rinveniva (sentenza n. 92/1992)  il
 nucleo  essenziale  delle precedenti decisioni nn. 66 e 183 del 1990,
 81/1991,  nel  "  ..  riconoscimento  dell'incompatibilita'  con   un
 ordinamento  costituzionale  fondato sui principi di uguaglianza e di
 legalita' della pena, di  una  disciplina  che  affida(va)  a  scelte
 discrezionali  -  immotivate  e, quindi, insindacabili - del pubblico
 ministero l'accesso dell'imputato ad un rito dal  quale  scaturiscono
 automaticamente  rilevanti  effetti sulla determinazione della pena";
 cosicche'  "Resta  evidentemente  fermo,  e  va  anzi  ribadito,  che
 l'introduzione  o  meno  di  un  rito avente automatici effetti sulla
 determinazione  della  pena  non  puo'  farsi  dipendere  da   scelte
 discrezionali  dal  pubblico  ministero.    Tali sono, indubbiamente,
 quelle con le quali costui decide quali, e quante, indagini  esperire
 per  porle  a  base  della  richiesta di rinvio a giudizio e, piu' in
 generale, quelle connesse alla sua strategia  processuale;  la  quale
 puo' fargli preferire - in quanto li ritenga non necessari a tal fine
 -  di  rinviare  al  dibattimento  l'esperimento  di  certi  mezzi  o
 l'acquisizione di determinate prove)".  La sentenza, pur  dichiarando
 inammissibile la questione di legittimita' degli artt. 438, 439 e 440
 del codice di rito, additava al legislatore la necessita' che " .. il
 vincolo  derivante  dalle  scelte  del  pubblico  ministero  sia reso
 superabile  con  l'introduzione  di  un  meccanismo  di  integrazione
 probatoria. Al riguardo, e' innanzitutto da osservare che, nel quadro
 della  generale  finalita'  di  semplificare  il  processo ed evitare
 dibattimenti  non  necessari,  un'integrazione  probatoria   e   gia'
 prevista,  dall'art.  422,  al  piu'  limitato  fine di consentire la
 decisione circa il rinvio a giudizio il proscioglimento; sicche'  non
 appare  coerente  che  essa sia esclusa quando le medesime finalita',
 sono perseguite introducendo un procedimento che si conclude con  una
 decisione  di merito".   Della parte di motivazione trascritta preme,
 ai  fini  dell'attuale  indagine,  notare  il  riconoscimento   della
 discrezionalita',  delle  scelte  del p.m. riguardo sia alla qualita'
 sia alla quantita' delle indagini da espletare, per la  raccolta  del
 materiale probatorio, secondo i casi, meramente indiziario che, anche
 ai  fini  del  procedimento  di applicazione della pena su richiesta,
 deve essere utilizzato per la decisione: e cio',  in  riferimento  ai
 parametri,  gia' esaminati, di cui agli artt. 111, primo comma, e 112
 della  Costituzione;  nonche'   sottolineare   l'affermazione   della
 incompatibilita'    di   tale   discrezionalita'   con   i   principi
 costituzionali  richiamati  nella  decisione,  non  solo  in  quanto,
 concretamente,  sia  di  ostacolo  all'introduzione di un rito avente
 effetti premiali, ma  anche  ove,  all'inverso,  lo  renda  possibile
 ("l'introduzione,  o meno, di un rito"). Forse, anche nella struttura
 del procedimento speciale in esame, il correttivo di una integrazione
 probatoria, indicato da codesta Corte, e'  possibile  per  intervento
 del  legislatore;  ma  esso  riduce  i vantaggi della semplificazione
 processuale a poca cosa.   Comunque, alla stregua  del  principio  di
 eguaglianza  dei  cittadini,  il rito dell'applicazione della pena su
 richiesta, al confronto di quello abbreviato, esalta il significato e
 le conseguenze della discrezionalita' del p.m.: perche'  il  consenso
 da  questi prestato alla richiesta dell'imputato, oppure la richiesta
 da lui presentata, non devono essere, in  alcun  modo,  motivati  ne'
 correlati   alla   decidibilita'   allo   stato  degli  atti,  bensi'
 esclusivamente - e non diversamente da quanto imposto  al  giudice  -
 alla congruita' della pena. Correlativamente, il giudice, non essendo
 autorizzato  a  sindacare la qualita' e la quantita' delle indagini -
 eventualmente - espletate per il limitato fine di cui all'art. 326, e
 non disponendo, di regola, di alcuna  prova  in  senso  tecnico,  che
 possa   motivare   sia  una  pronuncia  di  proscioglimento,  sia  il
 convincimento  (implicito)  di  responsabilita',  resta,   nondimeno,
 tenuto  ad  applicare  la  pena  indicata dalle parti, purche' reputi
 congrua  quella  che  prescinde  dalla  riduzione  concordata,  senza
 possibilita'  di  disporre una integrazione probatoria, e limitandosi
 alla definizione giuridica del  fatto  descritto  nella  imputazione;
 soprattutto nell'ipotesi limite - ma non infrequente - in cui nessuna
 indagine  sia  stata  espletata.  In cio' si sostanzia il sospetto di
 radicale  illegittimita'  del  procedimento  speciale,  che   conduce
 all'applicazione  di  una  sanzione  criminale senza giudizio e senza
 prove o,  finanche,  in  mancanza  di  elementi  idonei  a  sostenere
 l'accusa  in  giudizio (artt. 125 delle disp. att.); bensi', soltanto
 sulla base della opzione  del  p.m.  di  prestare  il  consenso  alla
 richiesta   dell'imputato,   e  motivata  non  dal  convincimento  di
 responsabilita', ma dalla valutazione di congruita' di una  pena,  la
 quale  avrebbe significato solo in presenza di quel convincimento. Se
 il sospetto fosse  fondato,  il  procedimento  speciale  non  sarebbe
 suscettibile  di  limitati interventi correttori, quali indicati, per
 il rito abbreviato, nella citata sentenza n.  92/1992,  parendone  la
 connotazione  essenziale  in  contrasto  irriducibile con i parametri
 invocati.
    11. - La questione proposta e reputata rilevante per la decisione.
 Per escluderne l'ammissibilita', non pare decisiva la  considerazione
 che  le  norme  impugnate, sebbene dettate nella materia processuale,
 s'inquadrino  fra   quelle   favorevoli   all'imputato,   in   quanto
 disciplinano  un  rito  che  comporta  effetti  premiali:  cosicche',
 un'eventuale   pronuncia   di   accoglimento   non   ne   impedirebbe
 l'applicazione nel giudizio principale, in forza del canone enunciato
 nell'art.   25,   secondo  comma,  della  Costituzione.  In  tema  di
 impugnazione di disposizioni che introducono cause  speciali  di  non
 punibilita', codesta Corte ha ritenuto (sentenza n. 148/1983) che non
 possono  residuare,  all'interno  della  legislazione  penale,  "zone
 franche" del tutto impreviste dal Costituente, perche'  sottratte  al
 sindacato  di  legittimita': in quanto le " .. norme penali di favore
 fanno  anch'esse  parte del sistema, al pari di qualunque altra norma
 costitutiva   dell'ordinamento";   d'altronde,   "   ..   l'eventuale
 accoglimento delle impugnative di norme siffatte verrebbe ad incidere
 sulle  formule  di  proscioglimento  o,  quanto meno, sui dispositivi
 delle sentenze penali ..", non trascurandosi la possibilita', di  una
 pronuncia  interpretativa di rigetto o " .. comunque correttiva delle
 premesse esegetiche su cui si fosse fondata l'ordinanza di rimessione
 ..", pur sempre " ..  fatte  salve  le  implicazioni  ricavabili  dal
 principio  d'irretroattivita'  dei  reati  e delle pene ..".  Piu' di
 recente: "Fin dalla sentenza n. 148/1983,  e'  stato  deciso  che  il
 principio  costituzionale  della  irretroattivita'  dei reati e delle
 pene non vale ad esonerare dal sindacato della Corte le norme  penali
 di  favore,  'quand'anche  lesive  degli imperativi costituzionali di
 eguaglianza in  materia  penale'"  (sentenza  di  codesta  Corte,  n.
 25/1994;  nello stesso senso, sentenze nn. 124/1990 e 167/1993). Piu'
 complesso e' il tema dell'eventuale irretroattivita' di decisioni che
 dichiarano la illegittimita' di norme contenute nel codice  di  rito,
 quando   queste   comportino  anche  effetti  di  natura  sostanziale
 incidenti  sul  trattamento   sanzionatorio.   Anche   per   siffatte
 disposizioni  vale  il criterio enunciato da codesta Corte in tema di
 norme penali di favore: "Ma lo stabilire in  quali  modi  il  sistema
 potrebbe  reagire  all'annullamento  di  norme  del genere, non e' un
 quesito  cui  la  Corte  possa  rispondere  in  astratto,  salve   le
 implicazioni  ricavabili dal principio d'irretroattivita' dei reati e
 delle pene; sicche', per questa parte, va confermato che si tratta di
 un  problema   (ovvero   di   una   somma   di   problemi)   inerente
 all'interpretazione  di  norme  diverse  da  quelle  annullate, che i
 singoli giudici dovranno dunque affrontare caso per caso, nell'ambito
 delle rispettive competenze" (sentenza n. 148/1983, cit.).  La  Corte
 di  legittimita'  ha  statuito  che " .. la sentenza n.  176/1991 non
 puo' determinare effetti  svantaggiosi  per  gli  imputati  di  reati
 punibili  con  l'ergastolo che hanno richiesto il giudizio abbreviato
 prima   della   dichiarazione   dell'illegittimita'    costituzionale
 dell'art.  442,  secondo  comma,  del c.p.p. Per questi imputati deve
 rimanere fermo il trattamento penale di favore di cui hanno goduto in
 collegamento con il procedimento speciale adottato e  di  conseguenza
 deve  essere  rigettato il ricorso del procuratore generale diretto a
 fare invalidare gli atti del giudizio abbreviato  e  fare  cadere  il
 correlativo  trattamento  di  favore"  (sezioni  unite, 6 marzo 1992,
 Piccillo, Cass. pen. 1992, 922). La connessione, posta in luce  nella
 sentenza,   e  fra  gli  aspetti  processuali  e  quelli  sostanziali
 dell'accesso al rito suddetto, era stata ripetutamente illustrata  da
 codesta  Corte: " .. la realta', invero piu' complessa, che e' quella
 di un accordo delle parti sul rito avente pure un effetto, certo  non
 lieve,  sul  merito" (sentenza n. 183/1990); " .. non dovrebbe essere
 consentito che i rapporti  fra  pubblico  ministero  ed  imputato  si
 sbilancino  al  punto  che il primo, con un semplice atto di volonta'
 immotivato e, percio', incontrollabile, si trovi in grado di  privare
 il  secondo  di  un  rilevante  vantaggio  sostanziale"  (sentenza n.
 81/1991); " .. viene in discussione un profilo che ha conseguenze  di
 carattere  sostanziale,  perche'  dall'ammissione  al rito abbreviato
 deriva la possibilita' per l'imputato di fruire  di  una  consistente
 riduzione  della  pena"  (sentenza  n.  23/1992;  nello stesso senso,
 sentenza  n.  92/1992,  richiamata  al  par.  10).   E'   certo   che
 l'affermazione  della  permanente  applicabilita'  delle disposizioni
 impugnate, seppure venissero dichiarate illegittime, nei procedimenti
 pendenti e, finanche, in quello  pregiudicato,  per  nulla  influisce
 sulla  rilevanza  della  questione proposta, alla stregua dei criteri
 enunciati nella sentenza n. 148/1983.   Si deve  soltanto  aggiungere
 che  l'esattezza della conclusione accolta dalle sezioni unite non e'
 pacifica.  Chiamata a valutare la legittimita'  dell'art.  247  delle
 disp.  att.   del vigente codice, nella parte in cui limita l'accesso
 al rito abbreviato  nei  procedimenti  in  corso,  codesta  Corte  ha
 chiarito:  "Il  caso  di  specie  va  risolto senza ricorso all'esame
 dell'ampiezza, portata  e  contenuti  dell'art.  2  del  c.p.  Questa
 disposizione  entra  in  discussione, infatti, solo e soltanto ove vi
 sia stato un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione  sociale
 del  fatto  tipico oggetto del giudizio. ( ..) Or, nel caso in esame,
 la valutazione  sociale  negativa,  rispetto  ai  fatti  oggetto  del
 processo  penale,  non e' mutata: nulla, invero, e' variato in ordine
 all'illiceita' od alla disciplina giuridico-penale dei fatti previsti
 nel codice penale sostanziale. La  possibilita'  della  riduzione  di
 pena  per chi richiede il procedimento abbreviato vale soltanto, come
 s'e' innanzi osservato, a stimolare,  nei  limiti  dell'esperibilita'
 del  procedimento  abbreviato,  la richiesta, da parte dell'imputato,
 dello stesso procedimento: l'intento 'stimolatorio'  della  richiesta
 del  giudizio  abbreviato  non  puo',  pertanto,  assurgere  a mutata
 valutazione sociale, in senso favorevole al reo, del  fatto,  oggetto
 del  giudizio,  previsto  e  punito  dal  codice  penale sostanziale.
 Consegue che al caso in esame non puo' applicarsi il disposto di  cui
 al terzo comma dell'art. 2 del c.p." (sentenza n. 277/1990, cit.). In
 tema  di  effetti  sostanziali  sfavorevoli,  previsti dall'art. 248,
 quarto comma, stesse disposizioni, codesta Corte ha deciso " ..  che,
 quanto  al  preteso contrasto delle disposizioni impugnate con l'art.
 25, secondo comma, della Costituzione, e'  giurisprudenza  di  questa
 Corte    (cfr.,    sentenza    n.    15/1982)    che   il   principio
 dell'irretroattivita' della legge penale, ivi proclamato, si  applica
 soltanto  alle  norme di carattere sostanziale e non anche alle norme
 processuali penali .." (ordinanza  n.  419/1990).  L'estraneita'  del
 predetto   principio  alla  disciplina  della  successione  di  leggi
 processuali nel tempo, dovrebbe, coerentemente, riconoscersi anche in
 relazione agli effetti delle declaratorie  d'incostituzionalita',  di
 norme  della corrispondente natura. Ed e' significativo notare che la
 decisione di accoglimento, adottata  con  la  sentenza  n.  176/1991,
 disattese  l'eccezione  di inammissibilita' della questione, proposta
 in riferimento all'art. 75 della Costituzione, in quanto ne riconobbe
 il requisito dell'attualita'.
                               P. Q. M.
    Visti  gli  artt.  134   della   Costituzione,   1   della   legge
 costituzionale  9  febbraio 1948, n. 1, 23 della legge 11 marzo 1953,
 n. 87;
    Dichiara  rilevante  per  la  definizione  del  giudizio   e   non
 manifestamente  infondata la questione di legittimita' costituzionale
 degli artt. da 444 a 448 codice di  procedura  penale  approvato  con
 d.P.R.  22  settembre  1988,  n.  447,  in riferimento agli artt. 27,
 primo, secondo e terzo comma, 76,  13,  secondo  comma,  24,  secondo
 comma,  111,  primo  comma, 112 e 3, primo comma, della Costituzione;
 nonche' della direttiva n. 45 della legge 16 febbraio  1987,  n.  81,
 recante  delega  legislativa  per  l'emanazione  del  nuovo codice di
 procedura penale, in riferimento agli  artt.  27,  primo,  secondo  e
 terzo  comma, 13, secondo comma, 24, secondo comma, 111, primo comma,
 112 e 3, primo comma della Costituzione;
    Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
 costituzionale e sospende il giudizio in corso;
    Dispone  che,  a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia
 notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri e  comunicata  ai
 Presidenti delle due Camere del Parlamento.
                       Il pretore: MONTINI TROTTI
 
 95C0055