N. 774 ORDINANZA (Atto di promovimento) 14 novembre 1994
N. 774 Ordinanza emessa il 14 novembre 1994 dal pretore di Bassano del Grappa nel procedimento penale a carico di Battocchio Marcello Processo penale - Procedimenti speciali - Applicazione della pena su richiesta delle parti - Ritenuta radicale illegittimita' costituzionale di detto procedimento - Lesione del principio della finalita' di rieducazione della pena per incongruita' della stessa a causa della decurtazione di un terzo per la scelta del rito - Contrasto con i criteri direttivi della legge delega - Lesione dei principi dell'inviolabilita' della liberta' personale, della garanzia del diritto di difesa, dell'obbligatorieta' dell'azione penale, del dovere di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali nonche' della ragionevolezza delle scelte discrezionali del legislatore - Richiamo alle sentenze nn. 124/1972, 66, 183, 277, 313 e 431 del 1990, 12, 81 e 176 del 1991, 255/1992 e 41/1993. (C.P.P. 1988, artt. 444, 445, 446, 447 e 448; legge 16 febbraio 1987, n. 81, direttiva 45). (Cost., artt. 3, primo comma, 13, secondo comma, 24, secondo comma, 27, primo, secondo e terzo comma, 76, 111, primo comma, e 112).(GU n.3 del 18-1-1995 )
IL PRETORE Procedimento n. 402/94/R, mod. 23, nei confronti di Battocchio Marcello, nato a Rossano Veneto il 23 luglio 1944. Proponendo d'ufficio questione di legittimita' costituzionale degli artt. da 444 a 448 del c.p.p. approvato con d.P.R. 22 settembre 1988, n. 447, nella parte in cui consentono all'imputato e al pubblico ministero di chiedere al giudice l'applicazione, nella spe- cie e nella misura indicata, di una sanzione sostitutiva o di una pena pecuniaria, diminuita fino ad un terzo ovvero di una pena detentiva quando questa, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino ad un terzo, non supera due anni di reclusione o di arresto, soli o congiunti a pena pecuniaria; ed impongono al giudice di disporre con sentenza l'applicazione della pena indicata, sulla base degli atti, previ gli accertamenti prescritti dal secondo comma dell'art. 444; nonche' di provvedere allo stesso modo dopo la chiusura del dibattimento di primo grado o nel giudizio di impugnazione, quando ritiene ingiustificato il dissenso del p.m. e congrua la pena richiesta dall'imputato, ai sensi dell'art. 448, secondo comma: in riferimento agli artt. 27, primo, secondo e terzo comma, 76, 13, secondo comma, 24, secondo comma, 111, primo comma, 112 e 3, primo comma, della Costituzione; ed altresi', questione di legittimita' costituzionale della direttiva n. 45 della legge 16 febbraio 1987, n. 81, recante delega legislativa per l'emanazione del nuovo c.p.p., nella parte in cui prevede che ciascuna delle parti predette, con il consenso dell'altra, possa chiedere al giudice l'applicazione delle sanzioni sostitutive nei casi consentiti o della pena detentiva improrogabile per il reato entro il limite sopra indicato, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino a un terzo; e che il giudice applichi la sanzione nella misura richiesta: in riferimento ai medesimi precetti costituzionali, ad eccezione dell'art. 76; O S S E R V A 1. - Battocchio Marcello, citato a giudizio per rispondere della imputazione di cui agli artt. 595 e 61, n. 10, del c.p., ha formulato, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, richiesta di applicazione della pena ai sensi dell'art. 444 del c.p.p., riguardo alla quale il p.m. ha espresso il consenso. Conseguentemente, il pretore, ritenendo, nella specie, corrette la qualificazione del fatto, l'applicazione e la comparazione delle circostanze, prospettate dalle parti, nonche' congrua la pena richiesta, dovrebbe pronunciare immediatamente la sentenza prevista dalla disposizione indicata, come prescritto dall'art. 448 del c.p.p. Risulta, pertanto, rilevante per la definizione del giudizio la questione di costituzionalita' delle disposizioni in epigrafe. 2. - La delibazione di costituzionalita' riguarda l'impianto complessivo delle disposizioni indicate in epigrafe, avendo presente, in particolare, l'attuale formulazione dell'art. 444, secondo comma, del codice, quale risulta per effetto della sentenza n. 113/1990 di codesta eccellentissima Corte, recante la pronuncia di illegittimita' della disposizione stessa " .. nella parte in cui non prevede che, ai fini e nei limiti di cui all'art. 27, terzo comma, della Costituzione, il giudice possa valutare la congruita' della pena indicata dalle parti, rigettando la richiesta in ipotesi di sfavorevole valutazione". Il pretore sospetta che la diminuzione della pena fino a un terzo, costituente peculiare risultato della scelta del rito da parte dell'imputato, non sia giustificata dai fini e non rispetti i limiti dettati dall'indicato precetto costituzionale; inoltre, che l'istituto processuale in esame contrasti con i principi e con i criteri direttivi fissati dalla legge di delegazione, oltre che con i canoni costituzionali della inviolabilita' della liberta' personale, dell'analoga garanzia del diritto di difesa, dell'obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale, del dovere di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, della ragionevolezza delle scelte discrezionali del legislatore ordinario. Con gli stessi parametri, escluso quello desunto dall'art. 76 della Costituzione, si propone di confrontare la direttiva 45 della legge di delega. Ove fosse riconosciuta la fondatezza delle questioni, si avrebbe motivo di prevedere l'eliminazione del rito speciale nel suo insieme. 3. - Il giudizio di congruita' della pena era gia' presente nel sistema del vigente codice, essedo imposto dall'art. 448, primo comma, e, cosi', confinato alla fase successiva alla chiusura del dibattimento di primo grado e al giudizio d'impugnazione, sempre che la richiesta di applicazione della pena provenga dall'imputato: coincidendo l'esito positivo di tale giudizio con la valutazione, come ingiustificato, del dissenso espresso, in precedenza, dal pubblico ministero. Codesta Corte, nella sentenza n. 313/1990, ha anticipato la valutazione di congruita' della pena da parte del giudice, estendendola all'ipotesi di consenso del p.m.: con possibile esito sfavorevole alla richiesta delle parti. la pronuncia di illegittimita' del secondo comma dell'art. 444 fu motivata, fra l'altro, dalla eventualita' che, per effetto dell'accordo delle parti, la pena da applicare, " .. a causa di attenuanti che si fanno operare nella loro massima estensione sul minimo della pena", raggiugesse limiti "assolutamente incongrui". Quindi, la valutazione di adeguatezza della pena concordata, da parte del giudice, venita situata a monte dell'ulteriore riduzione prevista dalla disposizione processuale: riduzione la cui incidenza sui principi di retributivita' e di rieducazione, non venne presa in considerazione nella sentenza commentata, oltre tutto perche' non era stata sollevata questione espressa in riferimento a quel parametro. Infatti, "L'art. 27, terzo comma, della Costituzione, cui i rimettenti fanno implicito riferimento, dev'essere pertanto aggiunto ai parametri espressamente da loro invocati" (sentenza n. 313/1990). Percio', non si ritiene esatta l'opinione secondo cui la soluzione concordata del processo " .. e', ora, per effetto della detta decisione della Corte costituzionale ..", subordinata " .. alla congruita' della pena residuale (da applicare) rispetto all'esigenza di rieducazione del giudicabile" Cass., sez. fer., c.c., 23 agosto 1990, Enver, Cass. pen. 1991, 63). In realta', la sentenza costituzionale ha modificato la norma processuale nel senso di attribuire al giudice la valutazione di congruita', non gia' della pena scontata, ma di quella irrogabile prima della decurtazione in parola: tanto e' reso palese dal riferimento alla operativita' di circostanze attenuanti nella loro massima estensione sopra i minimi edittali, e non, anche, alla concordata misura della riduzione per il rito. Tuttavia, essendo la diminuzione della pena un effetto imprescindibile dell'accordo fra le parti, ovvero della sola richiesta da parte dell'imputato, nel caso di dissenso del p.m. ritenuto ingiustificato all'esito del dibattimento: diviene inevitabile il confronto della norma processuale, che conduce alla determinazione della sanzione finale, con l'indicato parametro costituzionale. Riconoscendo adeguata alla funzione indicata nello statuo la sanzione penale, della specie ed entro i limiti edittali fissati nella fase normativa - e tale deve presumersi fino a censura di costituzionalita' per irragionevolezza - individuabile, nella fase applicativa, in base agli ordinari criteri di cui all'art. 133 del c.p., ed una volta operata la comparazione delle circostanze ricorrenti in concreto: la sanzione stessa risultera' necessariamente inadeguata per difetto, quando subisca l'ulteriore diminuzione conseguente all'accordo fra le parti, oppure alla richiesta dell'imputato - in ipotesi di dissenso ingiustificato - nella misura, ancorche' minima, indicata dalle une o dall'altro. All'inverso, e ragionando per assurdo, la valutazione di congruita', effettuata dal giudice con esito affermativo, della pena gia' ridotta consensualmente nell'accordo fra le parti, oppure unilateralmente nella richiesta dell'imputato, implica l'incongruita', per eccesso, della sanzione che sarebbe risultata applicabile, in difetto di accordo e di richiesta, all'esito dell'ordinario giudizio. In altri termini, non e' dato affermare l'esistenza, nel momento applicativo, di due pene differenti quantitativamente e, talora, qualitativamente - per effetto della possibilita' di sostituzione, ai sensi degli artt. 53 e seguenti della legge n. 689/1981, eventualmente derivante dalla diminuzione processuale (cosi', Cass., sez. un., 12 ottobre 1993, Bosco, Foro it. 1994, II, 339; id., 12 ottobre 1993, Bocchese, ivi, 340; id., 12 ottobre 1993, Scopel, ivi, 340; orientamento accolto da codesta Corte: sentenza n. 254/1994; contra, Cass., sezione quarta, 18 dicembre 1992, Crisci, Cass. pen. 1993, 1785) - nei confronti dello stesso imputato e per il medesimo fatto reato, entrambe adeguate alla funzione rieducativa voluta dal Costituente; a meno di sostenere che la scelta del rito speciale, da parte dell'imputato, abbia attinenza con la funzione appena ricordata. Il dilemma e' stato bene tratteggiato dalla dottrina, in tema di giudizio abbreviato: "Perche' delle due, l'una: o il giudice parte da una pena base piu' alta per assorbire preventivamente la diminuzione ex art. 442, ma allora si alterano gli ordinari criteri di commisurazione della pena; o il giudice rispetta tali criteri ed allora e' ben possibile che la drastica riduzione di un terzo faccia scendere la pena finale ben al di sotto dei limiti richiesti dalla pena 'giusta'". Il primo corno del dilemma e' presto eliminato: ove il giudice, in seguito all'accordo sulla pena, ovvero alla semplice richiesta dell'imputato, intendesse muovere deliberatamente da una pena base maggiore di quella individuabile all'esito del giudizio ordinario, cosi' da pervenire - pur attraverso la diminuzione processuale - all'identico risultato sanzionatorio, violerebbe lo spirito e la lettera della norma, eludendo il significato della scelta del rito, oppure della richiesta predetta, e l'effetto premiale dell'istituto in vista della funzione collaborativa assegnata all'imputato. All'evidenza, i compilatori sia della legge di delega sia del codice hanno ritenuto "congrue" tanto la pena che dovrebbe conseguire al dibattimento, in caso di mancata richiesta da parte dell'imputato, quanto quella ridotta fino a un terzo, per effetto dell'accordo oppure della richiesta. Detto questo, ancora non si e' chiarito se la riduzione in parola risponda alla finalita' di rieducazione. Riprendendo alcune delle illuminanti considerazioni svolte nella sentenza n. 313/1990: "Cio' che il verbo 'tendere' vuole significare e' soltanto la presa d'atto della divaricazione che nella prassi puo' verificarsi tra quella finalita' e l'adesione di fatto del destinatario al processo di rieducazione: com'e' dimostrato dall'istituto che fa corrispondere benefici di decurtazione della pena ogni qualvolta, e nei limiti temporali, in cui quell'adesione concretamente si manifesti (liberazione anticipata)". Ma, nel caso del patteggiamento, la richiesta di applicazione della pena da parte dell'imputato, oppure il suo consenso all'analoga iniziativa assunta dal p.m., non implicano alcuna adesione alla funzione rieducativa della sanzione: senplicemente perche' la sentenza che dovrebbe ratificare l'accordo, al momento della richiesta o del consenso non e' stata ancora pronunciata; e neppure se ne puo' prevedere l'immancabile deliberazione, essendo sempre aperta la possibilita' del proscioglimento ovvero - dopo la ricordata dichiarazione di incostituzionalita' - del rigetto. E dunque, non si puo' sostenere che l'imputato, mediante la richiesta o il consenso, manifesti di aderire alla funzione ed al significato di una pena futura ed incerta. Percio', l'inserimento della riduzione predetta fra gli effetti della scelta del rito processuale, si riconosce agevolmente estraneo al " .. 'principio di proporzione' fra qualita' e quantita' della sanzione, da una parte, ed offesa, dall'altra", richiamato da codesta Corte nella decisione in commento, ed ivi collegato con quello della rieducazione " .. che, seppure variamente profilato, e' ormai da tempo diventato patrimonio della cultura giuridica europea ..": essendo tale riduzione, anzi, preordinata funzionalmente ad eliminare la proporzione stessa, gia' assicurata dal legislatore - fino a censura di costituzionalita' - nella fase normativa, e demandata al giudice in quella applicativa, nel rispetto dei criteri di diritto sostantivo che ne disciplinano la determinazione. L'argomentazione per la quale " .. gia' l'art. 133 del vigente codice penale, prevede, ai fini della determinazione della pena, che venga presa in considerazione la condotta dell'imputato contemporanea o susseguente al reato .." (sentenza di codesta Corte, n. 284/1990), svolta con riguardo alla riduzione di pena conseguente al rito abbreviato, per escluderne il contrasto con l'art. 3 della Costituzione, non sembra estensibile al differente parametro costituzionale quivi prospettato. Di piu', in margine a tale decisione e' stato incisivamente osservato che, accedendo al giudizio abbreviato, l'imputato non rivela, sempre e necessariamente, "un minor bisogno di pena sul piano della prevenzione speciale". In sostanza - si e' detto - l'art. 133, secondo comma, n. 3, del c.p. valorizza la condotta susseguente al reato non di per se stessa, ma soltanto quale indice di capacita' a delinquere, ligittimando un'attenuazione della pena, entro i limiti edittali, eslcusivamente nel caso in cui il comportamento del reo, successivo alla commissione del reato, evidenzi un minor bisogno di essa: piu' precisamente, nell'ambito di una lettura "costituzionalmente orientata" della norma, "un minor bisogno di prevenzione speciale". Altri hanno rilevato che " .. la pena, diminuita per effetto della scelta del rito, non corrsisponde piu', per difetto, ne' alla gravita' del fatto in concreto, sulla quale non puo' avere alcuna incidenza la sua piu' spedita repressione, ne' alla colpevolezza dell'autore, alla quale non puo' essere attribuito alcun ruolo nell'ambito dei riti alternativi; sicche' essa, in un'ottica retribuzionistica, non puo' apparire come pena 'giusta'". Alla tesi esposta nella sentenza n. 284/1990, pare decisiva, ad ogni modo, l'obiezione per la quale, della condotta susseguente al reato, come di tutti gli altri elementi elencati nell'art. 133 del c.p., il giudice ha il dovere di tenere conto sin dalla fase della determinazione della cosiddetta pena base, ed ancor prima dell'applicazione e della comparazione delle circostanze, le quali - a loro volta - devono precedere, unitamente all'aumento per la continuazione di reato (in tema di abbreviato: Cass., sezione unica, 31 maggio 1991, Volpe, ibid., 1992, p. 40; in tema di pena concordata, sezione unica, 1 ottobre 1991, Biz, ibid., p. 295; conf., sezione unica, 24 marzo 1990, Borzachini; sez. fer., 4 settembre 1990, Mugnai; sezione sesta, 30 gennaio 1991, Garofalo; sezione prima, 5 marzo 1991, Alfano; sezione sesta, 28 giugno 1991; idem, 11 luglio 1991, Colin, ined.), la riduzione prevista in seguito all'adozione del rito; e cio', " .. in relazione all'impossibilita' di comprendere quella diminuente nel novero delle circostanze attenuanti del reato" (sezione unica, 1 ottobre 1991, Biz, cit.). Non meno discusso e' il fondamento della diminuzione di pena, conseguente ai riti speciali, nella prospettiva della prevenzione generale c.d. allargata, intesa cioe' non come mera deterrenza, ma come strumento di orientamento culturale, capace di inculcare nella collettivita' giudizi di valore. In questa sede, basti ricordare il monito che non bisogna correre " .. il rischio di strumentalizzare l'individuo per fini generali di politica criminale (prevenzione generale) o di privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di stabilita' e sicurezza (difesa sociale) .." (sentenza n. 313/1990); e neppure - sia consentito aggiungere - per assicurare la deflazione del giudizio ordinario, quale finalita' dichiaratamente perseguita dal legislatore delegante e dai compilatori del codice. Del resto, che la riduzione di pena in questione abbia attinenza con la valutazione degli elementi elencati nell'art. 133 del c.p., e' indicazione che mal si concilia con altre decisioni di codesta Corte: "Il caso di specie va risolto senza ricorso all'esame dell'ampiezza, portata e contenuti dell'art. 2 del c.p. ( ..) La possibilita' della riduzione di pena per chi richiede il provvedimento abbreviato vale soltanto, come s'e' innanzi osservato, a stimolare, nei limiti dell'esperibilita' del procedimento abbreviato, la richiesta, da parte dell'imputato, dello stesso procedimento: l'intento 'stimolatorio' della richiesta del giudizio abbreviato non puo', pertanto, assurgere a mutata valutazione sociale, in senso favorevole al reo, del fatto, oggetto del giudizio, previsto e punito dal codice penale sostanziale" (Corte costituzionale, sentenza n. 277/1990). Tale conclusione pare estensibile al rito speciale in esame; e trova adesione nella giurisprudenza di legittimita': "E' significativo notare come la cennata finalita' dell'istituto la svincola anche da qualsiasi giustificazione legata alla condotta del reo 'susseguente al reato', richiamata dall'art. 133, secondo comma, n. 3, del c.p. La condotta ivi considerata - pur assumendo rilievo anche nella sua espressione all'interno del processo - costituisce sintomo della capacita' a delinquere, elemento estraneo alla scelta del rito premiata dalla legge di per se stessa, nell'ottica sopra indicata" (sezione unica, 31 maggio 1991, Volpe, cit.). Sembra cosi', inevitabile arguire che la riduzione di pena, prevista dal rito speciale in oggetto, non e' riconducibile per alcun verso alle finalita' assegnate alla sanzione criminale dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione. E' questo l'avviso della Corte regolatrice: "Ne' potrebbe sostenersi che anche la pena applicata mediante la richiesta concorde delle parti, ex art. 444 del codice di rito, deve essere adeguata al caso e parametrata alle finalita' educative e di reinserimento sociale del giudicabile, come la Corte delle leggi, con ben nota decisione (26 giugno-2 luglio 1990, n. 313) ha affermato, poiche' questo profilo, individuato dalla Corte sovrana per valorizzare i poteri cognitivi e decisori del giudice (a fronte dell'assunto, in denunzia, ruolo paranotarile, rispetto alla pena concordata dalle parti) deve ritenersi riferibile, non alla specie e misura di pena di risulta (applicata), ma a quella criminale, vale a dire a quella individuata per soddisfare la pretesa punitiva dello Stato, prima dell'applicazione della diminuente. Diversa interpretazione porterebbe all'inattuabilita' del rito speciale, dato che in ogni caso (rito speciale od ordinario), la pena deve essere sempre quella giusta ed adeguata al caso; e questa e' la pena criminale non quella incentivante, la quale, giustificata dalle sopra richiamate finalita', sconta indubbiamente la non corrispondenza al referente in considerazione" (sezione quarta, 18 dicembre 1992, Crisci, cit.). E non si puo' tacere la considerazione che l'art. 445, primo comma, del codice di rito, al raggiungimento dell'accordo sulla pena principale, ovvero alla richiesta dell'imputato, ove risulti ingiustificato il dissenso del p.m., ricollega anche l'esclusione di pene accessorie: le quali, nonostante il rilievo generalmente secondario, pure concorrono a definire il quadro del trattamento sanzionatorio adeguato, e devono sottostare al canone costituzionale in discorso. Percio', non sembra azzardato supporre che la cennata esclusione comporti violazione, ad un tempo, del precetto di cui all'art. 27, terzo comma, della Costituzione, in quanto non giustificata da un minor bisogno di emenda dell'imputato; e dei principi e criteri direttivi imposti dal legislatore delegante, in riferimento all'art. 76 dello statuto. L'eventuale accoglimento della questione, nei termini prospettati, potrebbe determinare il venir meno dell'istituto. Infatti, eliminando l'incentivo, il rito speciale resterebbe privo della ragion d'essere. Tanto sembra argomentarsi dalla giurisprudenza di codesta Corte, nell'affine settore del giudizio abbreviato: "Difatti, la caratteristica del giudizio abbreviato risiede proprio nell'incentivo, offerto all'imputato, di una riduzione della pena, in funzione di un piu' rapido svolgimento del processo, a deflazione del dibattimento. Con il mettere in discussione la possibilita' di operare tale riduzione per una certa categoria di delitti, viene necessariamente messa in discussione anche la possibilita' di avvalersi di quel procedimento speciale" (sentenza n. 176/1991). In ogni caso, pur in presenza di questa ineludibile correlazione, il pretore non si considera esentato dal dovere di delibare la legittimita' dell'istituto in riferimento ad ulteriori precetti costituzionali, rinvenendo argomenti non completamente coincidenti - per quanto e' dato apprezzare - con quelli prospettati da precedenti ordinanze di rimessione. 4. - In aggiunta al ricordato profilo della esclusione di pene accessorie, va trattata piu' diffusamente la questione del rispetto dell'art. 76 della Costituzione. Il detto parametro, in relazione all'art. 2, primo comma, della legge di delega e alla norma interposta di cui all'art. 6, primo comma, della legge 4 agosto 1955, n. 848, concernente la ratifica della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, venne invocato nella limitata angolazione della mancata previsione " .. che nella fase delle indagini preliminari la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi dell'art. 444 del c.p.p. sia emessa in pubblica udienza" (ord. g.i.p. pretura Roma 13 dicembre 1990). Codesta Corte, escludendo - contrariamente all'assunto del remittente - che la sentenza in questione avesse la natura propria di una pronuncia di condanna, basata, questa si', sull'accertamento pieno della "fondatezza dell'accusa penale", riconobbe nella volonta' delle parti il motivo per attenuare quell'esigenza di garanzia per l'accusato, alla quale la ricordata convenzione collega il requisito della pubblicita' dei processi, nonostante " .. anche la presenza di un interesse oggettivo connesso al controllo sociale sl processo" (sentenza n. 251/1991). Alla tesi della divesita' della sentenza che applica la pena concordata da quella di condanna, constano ripetute pronunce adesive della sprema Corte (sezione prima, 19 febbraio 1990, Migliardi, ibid., 1992, 89; sezione quinta, 26 giugno 1991, Garetto, ivi, 90; sezione quinta, 21 marzo 1991, Msabah, ivi, 1991, II, 212; sezione sesta, 14 novembre 1991, Ascione, ivi, 210; sezione sesta, 5 novembre 1990, Drago, c.e.d. 186906; sezione prima, 18 settembre 1990, Sansone, Arch. n.p.p. 1991, p. 277; sezione sesta, 10 luglio 1990, Cimino, Cass. pen. 1991, II, 211; sezione quinta, c.c., 6 febbraio 1991, Santoiemma, ivi, 1992, 677; contra, sezione prima, c.c., 26 marzo 1991, Negri, ibid. 238; sezione prima, c.c., 3 aprile 1991, Bozzoli, ivi, 1992, 91). Diversamente, e' stato affermato che " .. la sentenza ex art. 444 del c.p.p. debba nelle linee generali rientrare tra quelle di condanna, sia pure con qualche effetto atipico .." (sezione unica, 27 marzo 1992, Cardarilli, ibid., 1076; nonche', in termini piu' sfumati, sezione unica, 27 marzo 1992, Di Benedetto, ibid, 1078). Il pretore non rinviene motivi per discostarsi dall'interpretazione accolta dal Giudice delle leggi. Senonche', ambedue le opinioni non sottraggono l'istituto al sospetto d'illegittimita'. Se si aderisce alla prima, viene in considerazione - come nella richiamata ordinanza di rimessione - l'obbligo, stabilito dalla citata disposizione della legge di delega, di adeguare il codice alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale. In riferimento al precetto di cui all'art. 76 della Costituzione, la norma interposta da prendere in esame e' contenuta nell'art. 5, secondo comma, della ricordata convenzione; in forza del quale, nessuno puo' essere privato dalla sua liberta', eccetto che nei casi di seguito elencati e per via legale: per quanto rileva, " a) se e' detenuto legittimamente dopo una condanna da parte di un tribunale competente"; mentre la sentenza prevista dagli art. 444 e segg. del c.p.p. di condanna non e'. Si deve riconoscere che e' la stessa direttiva 45 della legge delega ad introdurre il rito speciale, del quale la sentenza in commento costituisce epilogo, oltre agli essenziali lineamenti che lo caratterizzano, primo fra tutti l'incentivo rappresentato dalla riduzione della pena (ma non l'esclusione delle pene accessorie). Potrebbe ravvisarsi, quindi, una intrinseca incompatibilita' fra la citata disposizione dell'art. 2 e la direttiva 45: l'una assegnando al legislatore delegato il limite del rispetto delle convenzioni internazionali, che pero' l'altra sembra disattendere nel prefigurare il rito speciale e le sue connotazioni peculiari. Il sospettato contrasto interno alla legge di delega sarebbe rivelatore - con le parole adoperate da codesta Corte per differente fattispecie - della non rispondenza ai " .. requisiti minimi di razionalita' dell'azione legislativa": in quanto introduce un " .. elemento certo, pur se involontario, di irrazionalita' e di contraddittorieta' rispetto al contesto normativo in cui la disposizione e' inserita e come tale determina anche una violazione di quel canone di coerenza delle norme che e' espressione del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione" (sentenza n. 185/1992). Ben vero, non si e' in presenza di un mero errore materiale del legislatore, quale esaminato nella decisione citata. Nondimeno, quei requisiti minimi di razionalita' potrebbero autorizzare un intervento ortopedico sul testo legislativo, anche quando il contrasto al suo interno si riconosca frutto, non gia' di un errore di tale natura, ma della non meditata valutazione del contenuto degli obblighi internazionali assunti. Una volta reso coerente il contenuto della legge di delega, in osservanza del canone di cui all'art. 3 della Costituzione, sarebbe conseguenziale ricondurre il dettato del decreto delegato al rispetto dell'art. 76 dello statuto, mediato dalla conformazione della stessa alla norma internazionale interposta. Si ritiene che il risultato dell'operazione descritta sia imposto dal riconoscimento della intrinseca prevalenza del criterio informatore, dettato dall'art. 2 della legge - siccome parifica l'attuazione dei principi della Costituzione e l'adeguamento alle convenzioni internazionali - sul contenuto di ciascuna delle seguenti, specifiche direttive. Del resto, la commentata disposizione della convenzione non fa che rendere esplicito un principio gia' immanente al testo costituzionale. 5. - Infatti, la possibilita' di applicare una sanzione criminale con una sentenza di natura diversa da quella di condanna, non pare resistere al vaglio della lettura coordinata dei precetti recati dal primo, secondo e terzo comma, dell'art. 27 della Costituzione. Codesta Corte non ravviso' il contrasto del rito speciale in discorso con la presunzione di non colpevolezza, desunta dal solo comma secondo del suddetto articolo (sentenza n. 313/1990). Senonche', riconoscendo che i tre commi, pur nella reciproca autonomia, rivelano una stretta interdipendenza ed un'assoluta inscindibilita' nella loro portata qualificante del sistema processuale penale, si dovra' convenire che: il canone della personalita' della responsabilita', dettato dal primo comma, e' diretto ad orientare il legislatore nella individuazione del responsabile, in astratto, dell'illecito penale; il secondo comma salda indissolubilmente il riconoscinento della qualita' di colpevole, cioe' di responsabile, in concreto, del reato, ad una pronuncia giudiziaria la quale, prima ancora che definitiva, deve potersi definire di condanna, e non di altra natura; infine, il terzo comma enuncia il principio per cui soltanto a una sentenza di condanna puo' conseguire l'applicazione di pene, istituendo una ineludibile correlazione fra queste ultime e l'affermazione di responsabilita': quando esige che esse, oltre a non consistere in trattamenti contrari al senso di umanita', tendano alla rieducazione del condannato e non di altri, cui si pretenda di applicarla, o che richieda di vedersele applicate. Quindi, il giudizio speciale in commento non sembra rispettare i cennati parametri: perche' si con- clude con una sentenza che, senza implicare l'individuazione di un responsabile (in astratto) ne' di un colpevole (in concreto), conduce alla irrogazione di sanzioni criminali. Ne' il dubbio sembra fugato dalla considerazione che " .. l'istituto dell'applicazione della pena su richiesta, anziche' comportare un accertamento pieno di responsabilita', basato sul contraddittorio tra le parti, trovi il suo fondamento primario nell'"accordo tra pubblico ministero ed imputato sul merito dell'imputazione (responsabilita' dell'imputato e pena conseguente)" (sentenza n. 66/1990), dal momento che chi chiede la pena pattuita "rinuncia ad avvalersi della facolta' di contestare l'accusa" (sentenza n. 313/1991) (recte: del 1990) (Corte costituzionale, sentenza n. 251/1991). Che l'accertamento non sia pieno, e' indubitabile, solo riflettendo che la pronuncia in discussione viene adottata, di regola, in assenza di prove in senso tecnico, come si ricordera' oltre; sta di fatto che solo alle sentenze di condanna il secondo e terzo comma dell'art. 27 della Costituzione ricollegano, rispettivamente, l'affermazione di colpevolezza e la irrogazione della pena: mentre di condanna non e' quella che applica la sanzione concordata. Invero, "Contrasterebbe con la logica oltre che con il principio costituzionale, che collega la condanna all'accertamento della colpevolezza (arg. ex art. 27, secondo comma, della Costituzione), un istituto fondato sull'opposto principio dell'applicabilita' di sanzioni penali senza la previa verifica della colpevolezza dell'imputato" (Cass., sezione sesta, 15 ottobre 1990, Moncef., cass. pen. 1992, 236). Senonche', ad eliminare il supposto contrasto, non e' sufficiente una definizione dogmatica della natura giuridica della sentenza in questione, che la differenzi dalla decisione di condanna, quando dall'una e dall'altra discende il medesimo effetto principale: posto che la "applicazione" della pena, disposta con la sentenza prevista dall'art. 444, secondo comma, codice di rito, non e' lessicalnente ne' funzionalmente differente dall'operazione descritta nel primo inciso del primo comma dell'art. 533 del c.p.p. Del resto, se e' vero che l'imputato o l'indagato, chiedendo l'applicazione della pena, " ..rinuncia ad avvalersi della facolta' di contestare l'accusa .." (sentenza n. 313/1990), cio' significa che e' quest'ultima a prevalere, garantendosi, attraverso la sentenza che ratifica l'accordo, un risultato virtualmente identico a quello di una decisione di condanna. E non da' certo prova di coerenza un sistema processuale che, sulla base di un accertamento "non pieno", offre ingresso all'applicazione della pena concordata, dopo avere bandito, all'esito di un siffatto accertamento nel giudizio ordinario, finanche la pronuncia assolutoria con la formula del dubbio. Soltanto per completezza di argomentazione, il pretore, pur ribadendo di aderire alla tesi della qualificazione della sentenza di applicazione di pena concordata, come differente da una decisione di condanna, vuole prospettare le implicazioni della tesi opposta, senza con cio' sollevare una questione di legittimita' alternativa a quella appena delibata: alternativa incompatibile con i criteri che devono orientare il giudice remittente, illustrati da codesta Corte (fra le numerose: sentenza n. 456/1989). "La concorde volonta' delle parti e' il presupposto del contenuto della sentenza e diviene oggetto di determinazione da parte del giudice, con la conseguenza che la sentenza che dispone l'applicazione della pena su richiesta delle parti contiene un accertamento ed una affermazione impliciti della responsabilita' dell'imputato. Pertanto l'accertamento della responsabilita' non va espressamente motivato, cosi' come l'affermazione di responsabilita' non va espressamente dichiarata. Trattandosi, quindi, di sentenza che, come si e' detto, trova il suo fondamento primario e la sua ragion d'essere nella volonta' delle parti e che, se pure affermativa di responsabilita', lo e' sulla base di un accertamento solo implicito, nei sensi sopra precisati, essa non e' una vera e propria sentenza di condanna" (Cass., sezione unica, 27 marzo 1992, Di Benedetto, Cass. pen. 1992, 1078). "Che d'altra parte la sentenza ex art. 444 debba nelle linee generali rientrare tra quelle di condanna, sia pure con qualche effetto atipico, e' confermato dalla constatazione che con essa si applica comunque una pena, suscettibile di determinare i presupposti della recidiva, dell'abitualita' e professionalita' del reato e che la Corte costituzionale, pur nei limiti propri fissati dalla legge, ha reiteratamente affermato che il giudice deve comunque, prima di dare attuazione all'accordo delle parti, accertare che esiste la responsabilita' dell'imputato (C.C. n. 313/1990; C.C. n. 251/1991)" (Cass., sezione unica, 27 marzo 1992, Cardarilli, ivi, 1076). Se, dunque, di condanna si trattasse, verrebbe in considerazione, quale norma interposta ai fini del rispetto dell'art. 76 della Costituzione - in connessione con la prevalenza della prima parte dell'art. 2 della legge di delega sulle successive direttive - l'art. 6 convenzione cit., ove attribuisce ad ogni persona il diritto a che un tribunale indipendente ed imparziale, costituito dalla legge, decida "sul fondamento di ogni accusa in materia penale elevata contro di lei". La sentenza che applica la pena sull'accordo delle parti, non reca una decisione siffatta. L'accoglimento postula la non rilevabilita' di situazioni tali da imporre il proscioglimento, ai sensi dell'art. 129 del c.p.p., eventualmente sulla base dell'esame degli atti contenuti nel fascicolo del p.m., dei quali l'art. 135 delle disp. att. del codice prevede per il giudice la facolta' - non l'obbligo - di ordinare l'esibizione; ma la mancata rilevazione in questa fase non esclude, palesemente, che tali situazioni potessero emergere dall'istruzione dibattimentale, alla quale, tuttavia, l'adozione del rito speciale impedisce di transitare. Ne deriva che la pronuncia di applicazione della pena concordata non implica affermazione ne' esclusione del fondamento dell'accusa, quali postulate dalla convenzione: e non lo potrebbe, dal momento che non sono state ancora raccolte le prove a sostegno dell'accusa, destinate - come quelle della difesa - a formarsi, per definizione accolta nel vigente sistema accusatorio e salvo tassative eccezioni, in dibattimento; e, in ipotesi, neppure sono state espletate le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale (art. 326 del c.p.p.), quando l'accordo sia raggiunto nel corso delle indagini preliminari, come prevede l'art. 447 del c.p.p. Questa considerazione introduce il confronto delle disposizioni impugnte con il parametro di cui all'art. 112 della Costituzione. 6. - Ai sensi dell'art. 405, primo comma, del c.p.p., il pubblico ministero, quando non deve richiedere l'archiviazione, esercita l'azione penale, formulando l'imputazione, nei casi previsti nei titoli secondo, terzo, quarto e quinto del libro sesto ovvero con richiesta di rinvio a giudizio. Nella sistematica del codice, l'eventuale adozione del giudizio abbreviato, disciplinato dal titolo primo del libro sesto, e' preceduta dalla richiesta di rinvio a giudizio. Alla formulazione dell'imputazione - postulata, in via generale, dall'art. cit. - si accompagna, per la instaurazione, del giudizio immediato, un'apposita richiesta da parte del p.m., ai sensi dell'art. 453, primo comma, quando questa non provenga dall'imputato, come prevede il terzo comma in relazione all'art. 419, quinto comma, a seguito della richiesta di rinvio a giudizio. Non diversamente, il procedimento per decreto e' subordinato ad analogo atto d'impulso da parte del p.m. (art. 459, primo comma). A sua volta, il giudizio direttissimo presuppone l'iniziativa del p.m. attraverso la presentazione dell'imputato arrestato in flagranza o in stato di custodia cautelare, oppure la citazione dell'imputato libero (art. 450, primo e secondo comma). L'unico caso in cui il p.m. si limita a formulare l'imputazione, e' quello del procedimento di applicazione della pena, promosso da richiesta della persona sottoposta alle indagini nel corso della corrispondente fase (art. 447). Certamente, il canone dell'obbligatorieta' dell'azione penale non puo' dirsi violato da una disciplina legislativa, che ne identifichi l'esercizio nella mera formulazione dell'imputazione, corredata o meno da ulteriori adempimenti. Senonche', la presentazione della richiesta predetta comporta la paralisi delle indagini preliminari: nel duplice senso che queste non possono venire iniziate o proseguite; e che il p.m. non puo' addurre, a giustificazione del dissenso, la mancanza o la incompletezza delle indagini. Difatti, a seguito di richiesta congiunta, o di quella di una parte, corredata del consenso dell'altra (art. 447, primo comma), ovvero di consenso manifestato nel termine all'uopo assegnato (terzo comma), il giudice fissa l'udienza per la decisione: nella quale, l'obbligo di pronunciare sentenza e' immediato, "se ne ricorrono le condizioni" (art. 448, primo comma): cioe', le condizioni stabilite dall'art. 444, secondo comma. D'altra parte, almeno tre giorni prima della suddetta udienza, il fascicolo del pubblico ministero deve essere depositato nella cancelleria del giudice. E' ben vero che il pubblico ministero ha " .. il dovere di compere ogni attivita' necessaria ai fini delle 'determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale' .." (sentenza di codesta Corte n. 190/1991); cosi' come puo' impedire l'intera procedura incidentale appena descritta, negando il consenso. "In tema di patteggiamento, allorche' vi sia stato il dissenso del p.m. e il dissenso stesso risulti ingiustificato, la pena richiesta dall'imputato puo' essere egualmente applicata, ma soltanto in dibattimento ed all'esito di questo, e non nel corso delle indagini preliminari. Cio' si desume dal disposto degli artt. 447 e 448 del c.p.p., secondo il quale la ratio che informa detta disciplina sta nella idoneita' soltanto del giudizio conseguente all'esito del dibattimento a fornire al giudice gli elementi necessari per concludere sul difetto di giustificazione del dissenzo del p.m. e, quindi, per applicare la pena richiesta" (Cass. sezione prima, 22 settembre 1992, Calarco, Cass. pen. 1994, 414; conf., sezione terza, 11 novembre 1992, Ortello, c.e.d. Cass. 192736; sezione seconda, 13 dicembre 1991, Saccaro, ivi, 188779). "E' manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 448, primo comma, del c.p.p. sollevata in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, nella parte in cui stabilisce che solo all'esito del dibattimento il giudice possa applicare la pena richiesta dall'imputato nell'ipotesi in cui il p.m. abbia espresso il proprio dissenso" (ord. di codesta Corte, n. 127/1993). Ma il dissenso del pubblico ministero, anche nella fase delle indagini preliminari, deve essere motivato; e deve esserlo in riferimento alla incongruita' della pena richiesta, la quale identifica l'unico criterio assegnato al giudice per ritenere giustificato lo stesso dissenso, in aderenza alla lettura del primo comma dell'art. 448. Non puo' il diniego del consenso venire motivato con la valutazione della incompletezza delle indagini e della conseguente indecidibilita' allo stato degli atti: criterio che, all'opposto, giustifica il dissenso del p.m. dall'adozione del rito abbreviato, perche' " .. non puo' che identificarsi in quello - ricavabile dal confronto per i poteri conferiti al giudice dall'art. 440, primo comma - consistente nel ritenere il processo non definibile allo stato degli atti" (sentenze di codesta Corte n. 81/1991; e, in precedenza, sentenze nn. 66 e 183 del 1990). Nell'ordinanza richiamata poco sopra, codesta Corte osservava che, ove si attribuisce al giudice il potere di surrogare d'ufficio la carenza del consenso del p.m., questi " .. verrebbe ad essere autoritativamente 'espropriato' del potere di esercitare in dibattimento il proprio diritto alla prova, che ben puo' volgersi a dimostrare, fra l'altro, proprio la fondatezza delle ragioni in base alle quali la stessa parte pubblica non ha ritenuto di accondiscendere alla richiesta di applicazione della pena formulata dall'imputato; che la disposizione oggetto di censura, pertanto, non puo' in alcun modo ritenersi lesiva degli invocati parametri, rappresentando, anzi, il frutto di un coerente disegno normativo volto a mantenere in equilibrio fra loro i contrapposti diritti delle parti e le attribuzioni del giudice ..". La legittimita' della disposizione impugnata in quella sede, viene ora ridiscussa, non gia' nella parte in cui - rettamente - salvaguarda il diritto del p.m. alla prova; bensi', nella inversa prospettiva del condizionamento che essa introduce all'esercizio ufficioso dell'azione penale. In via generale, posto che il giudice, anche nel caso di richiesta presentata dall'imputato dopo la chiusura delle indagini preliminari, non e' abilitato a sindacare il dissenso del p.m. perche' - come argomentato dalla Corte regolatrice - soltanto la successiva istruzione gli consente di effettuare tale valutazione: cio' significa che egli, in mancanza e prima dell'assunzione di prove, neppure e' in grado di apprezzare se sia giustificato il consenso, sebbene si avvalga dell'esame del fascicolo del p.m., eventualmente esibito ai sensi dell'art. 135 delle disp. att. del c.p.p. Si obiettera' che, nel caso di dissenso, il giudice non viene a conoscenza degli atti contenuti in detto fascicolo; mentre questi gli vengono resi noti nel caso di consenso, il quale, percio', potrebbe venire adeguatamente valutato. Ma e' agevole replicare, in primo luogo, che l'ordine di esibire il fascicolo del p.m., ai sensi della disposizione citata, costituisce oggetto di facolta', e non di obbligo, del giudice; in secondo che la detta esibizione, ove ritenuta idonea a permettere la valutazione del consenso, lo sarebbe, nondimeno, per apprezzare il dissenso. Tuttavia, nel secondo caso l'esibizione non e' ammessa, proprio perche' il giudice deve procedere al dibattimento per realizzare il diritto del p.m. alla prova, fra l'altro, della " ..fondatezza delle ragioni in base alle quali la stessa parte pubblica non ha ritenuto di accondiscendere alla richiesta ..". Cio' costituisce riprova del fatto che il p.m. e' tenuto a fornire - e il giudice abilitato a sindacare - la dimostrazione delle ragioni del dissenso, e non gia' del consenso. Per piu' forte ragione, quando l'imputato presenti la richiesta di applicazione della pena nella fase delle indagini preliminari, il materiale investigativo gia' - se del caso - raccolto, come non consente al giudice di valutare la congruita' della pena, cosi' non e' sufficiente al p.m. per esprimere consenso o dissenso giustificati e motivati, in quanto non gli permette ancora di assumere le determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale. L'organo dell'accusa e' posto, dunque, di fronte al dilemma: prestare il consenso, nonostante il mancato avvio o completamento delle indagini, e percio' in assenza di elementi che giustifichino persino l'esercizio dell'azione penale; oppure negarlo, al solo fine di proseguire le indagini, il quale, pero', non costituisce legale giustificazione del dissenso. In entrambi i casi, il p.m. opera una scelta in base a criteri, piu' che meramente discrezionali, assolutamente arbitrari; e, nell'ipotesi di consenso, rimane dispensato dall'inzio o dall'esaurimento delle indagini necessarie al fine di cui all'art. 326 del codice. Ne' l'opzione puo' essere sindacata dal giudice, il quale, in presenza del consenso, e' soltanto abilitato ad apprezzare la congruita' della pena, come sara' piu' diffusamente argomentato. Si puo' sostenere che il p.m., prestando il consenso, eserciti comunque l'azione penale, perche' ottiene una decisione favorevole all'ipotesi accusatoria. Ma questo epilogo del procedimento non e' affatto conseguenza dello svolgimento di indagini adeguate, dal momento che queste, prima della chiusura della corrispondente fase processuale, non sono ancora esaurite, ovvero neppure iniziate; bensi' dell'iniziativa della controparte, la quale diviene arbitra, indirettamente della qualita' e della quantita' delle indagini da compiere. Il patteggiamento si presenta, cosi', strumento idoneo ad evitare o paralizzare le indagini, tese ad assumere le determinazioni piu' volte menzionate: e percio' ad impedire l'adempimento del dovere imposto dall'art. 112 della Costituzione. 7. - Guardando agli effetti della richiesta di pena nella sfera del destinatario, si reputa inevitabile riproporre il confronto del rito speciale con i parametri desunti dagli artt. 13, secondo comma, e 24, secondo comma, gia' invocati da numerosi uffici remittenti. Essendo definiti inviolabili, dal primo precetto, la liberta' personale e, dall'altro, il diritto alla difesa in ogni stato e grado del procedimento, non sembra appagante - sebbene da condividere - l'affermazione che " ..occorre anche guardarsi dal pericolo di confondere il diritto di liberta' e quello di difesa con l'obbligo assoluto di esercitarli" (sentenza di codesta Corte, n. 313/1990). Pare innegabile che i diritti qualificati inviolabili dallo statuto, in particolare il "diritto fondamentale di liberta' costituzionalmente riconosciuto" (sentenza di codesta Corte,n. 409/1989) e quello, del pari fondamentale (sentenze nn. 184 e 243 del 1989), di difesa, siano indisponibili per definizione. Percio' - sia consentito argomentare - una cosa e' la rinuncia all'esercizio di quei diritti, nei limiti di singole facolta' che ne formano il contenuto normativo; e cosa ben diversa e' l'abdicazione al nucleo essenziale degli stessi. Il diritto di liberta' puo' subi're limitazioni per effetto di un atto motivato dell'autorita' giudiziaria: il corrispondente parametro, dunque, si raccorda - e sara' trattato congiuntamente - con quello desunto dall'art. 111., primo comma, della Costituzione, che comporta il dovere generale di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali. Quanto al diritto di difesa, si puo' riconoscere che la riduzione dei casi e dei mezzi di impugnazione della sentenza, che accoglie la richiesta di pena - essendo il ricorso per cassazione inammissibile per motivi attinenti a fatti non risultanti dagli atti del procedimento (Cass., sezione sesta, 13 febbraio 1991, Baccei, Cass. pen. 1992, 678) - sia compatibile con il precetto costituzionale: l'estensione del diritto ai diversi gradi non implicando la necessita' che questi siano legislativamente riconosciuti, ne' concretamente percorsi, in ogni tipo di procedimento. Ma il rito in esame, ben di piu', postula che il procedimento neppure transiti dalla fase delle indagini a quella del dibattimento; e, addirittura, consente che la prima non sia esaurita, ovvero neanche iniziata. L'applicazione della pena concordata impedisce cosi' il passaggio - secondo efficace espressione dottrinale - dal procedimento al processo. Dichiarando l'illegittimita' costituzionale dell'art. 425, primo comma, del c.p.p., nella parte in cui stabiliva che il giudice pronunciasse sentenza di non luogo a procedere quando risultava evidente che l'imputato era persona non imputabile, codesta Corte osservava: "Ne' a sanare l'indicato contrasto puo' invocarsi la possibilita' che l'art. 419, quinto comma, del codice di rito riconosce all'imputato di 'rinunciare all'udienza preliminare e richiedere il giudizio immediato', giacche', a tacer d'altro, sarebbe davvero singolare un sistema che, per consentire all'imputato di esercitare il fondamentale diritto di difesa in ogni stato e grado del processo, gli imponesse la rinuncia - che non a caso il codice costruisce come 'atto personalissimo' - ad una fase del processo destinata proprio a consentire l'esercizio di quel diritto" (sentenza n. 41/1993). Rinuncia non giustificabile, dunque; eppur modica, al confronto di quella alla celebrazione dello stesso dibattimento, quale viene imposta all'imputato od alla persona sottoposta alle indagini, per usufruire dello sconto di pena. Percio', non sembra compatibile con gli indicati precetti la rinuncia alla instaurazione del processo, nel quale, soltanto, il diritto di difesa trova pienezza e possibilita' di esercizio adeguato; ed il quale, d'altra parte, costituisce la "via legale" alla compressione del diritto di liberta'. La rinuncia investe il processo inteso - in aderenza ad una concezione enfatizzata del modello accusatorio, accolta dai compilatori, del codice - come sequenza di atti diretti alla formazione delle prove nel contraddittorio delle parti. Il rito speciale in commento non implica alcun contraddittorio, perche' eliminato alla radice dall'incontro consensuale delle parti; ne' la formazione di prove, perche' all'indicato modello accusatorio ripugna il riconoscimento di valore probatorio agli atti contenuti nel fascicolo del p.m., ad eccezione dei verbali degli atti non ripetibili e di quelli assunti nell'incidente probatorio. Sicuramente, non costituiscono prove gli atti compiuti dalla polizia giudiziaria, al di fuori del criterio della irripetibilita', ed ancor meno se anteriori alla individuazione della persona sottoposta alle indagini; altrettanto e' da escludere che presenti simile valore un atto di parte come la querela, la quale, nondimeno, esaurisce spesso l'intero contenuto del fascicolo del p.m., sebbene utilizzabile - ove ricevuta a verbale - solo per il limitato fine indicato dall'art. 511, quarto comma. Salvo il criterio enunciato nell'art. 326, il codice non determina - giova ribadirlo - la qualita' e la quantita' delle indagini che il p.m. e' tenuto a svolgere al fine delle determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale; ad ogni modo, la carenza o la totale omissione di indagini, come non e' rimediabile dal pubblico ministero a seguito della presentazione della richiesta di applicazione della pena, da parte dell'interessato, nel corso della corrispondente fase del procedimento: cosi' non e' sindacabile, dal giudice, il quale deve limitarsi a valutare l'esistenza delle condizioni elencate nell'art. 444, secondo comma. In sostanza, l'affermazione che anche la decisione adottata ai sensi di detta disposizione, non possa " ..prescindere dalle prove della responsabilita'" (sentenza n. 313/1990, cit.), si puo' condividere solo accogliendo una nozione delle prove diametralmente opposta a quella enunciata nel codice di rito: che definisce tali, e percio' utilizzabili ai fini della deliberazione della sentenza (all'esito del giudizio ordinario), solo "quelle legittimamente acquisite nel dibattimento" (art. 526). Del resto, codesta Corte ha chiarito che l'attuale sistema processuale penale " ..riserva al dibattimento la formazione della prova, mentre nella fase preliminare si raccolgono solo gli elementi sufficienti per la formulazione dell'accusa e il rinvio a giudizio" (ordinanza n. 213/1992). "Salvo il caso degli incidenti probatori, che tuttavia riguardano particolari aspetti non sempre idonei a delineare la fisionomia generale dei fatti, non esistono, dunque, prove nell'udienza preliminare ne' significativo accertamento dei fatti, che si profileranno soltanto al dibattimento .." (sentenza n. 431/1990). Sembra corretto sostenere che l'art. 135 dellla disp. att. del codice preveda l'impiego degli atti contenuti nel fascicolo del p.m., simulando che rivestano valore di prove ed amettendone l'utilizzazione da parte del giudice del dibattimento, ai fini della pronuncia della sentenza che applica la pena concordata, ovvero di quella di proscioglimento. L'ordine di esibizione di questi atti, pero' - come gia' segnalato - e' rimesso alla facolta' del giudice tanto da rivelare, per un verso, lo scarso affidamento che essi, secondo il legislatore delegato, offrono; e, per l'altro, la marginalita' dell'intervento del giudice rispetto all'incontro consensuale delle parti. Sembra inevitabile concludere che venga a delinearsi non un rito processuale alternativo, bensi' "un'alternativa al processo", come incasticamente notato in dottrina. Non sembri pleonastico, quindi, rammentare che il processo costituisce non soltanto il presupposto indefettibile dell'esercizio del diritto di difesa, nella sua piena estensione; ma, altresi', qualificante e imprescindibile connotato della struttura dello Stato democratico: al punto da far ritenere la regola della pubblicita' delle udienze una "espressione di civilta' giuridica" - desunta, fra gli altri, dall'art. 6, primo comma, secondo enunciato, della convenzione citata - alla quale " .. si da' ampio spazio negli ordinamenti democratici fondati, come il nostro, sulla sovranita' popolare" (sentenza di codesta Corte n. 50/1989), e che si ricollega al precetto di cui all'art. 101, primo comma, della Costituzione. 8. - Sicuramente, non puo', condividersi " .. l'idea che l'imputato 'disponga' della sua 'indisponibile' liberta' personale per autolimitarla", (sentenza n. 313/1990, cit.); e si e' indotti ad escludere che una visione siffatta fosse sottesa all'istituto, cosi' come all'impostazione delle precedenti ordinanze di rimessione. In effetti, la limitazione del diritto di liberta', che puo' conseguire all'applicazione della pena richiesta dalle parti, e' mediata da un provvedimento, giurisdizionale. Ma il provvedimento deve essere motivato, sia in aderenza, al canone di cui all'art. 13, secondo comma, sia a quello piu' generale enunciato nell'art. 111, primo comma, della costituzione. La motivazione, d'altra parte, deve risultare adeguata alla, specie e all'entita' degli effetti che l'atto e' destinato a produrre. L'art. 546, primo comma, lett. e), del c.p.p. definisce la motivazione della sentenza - deliberata dopo la chiusura del dibattimento - come la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione e' fondata, con l'indicazione delle prove poste a base della decisione stessa e l'enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie. Di questa nozione rimane del tutto estranea alla sentenza, che definisce il rito alternativo, la parte dell'enunciazione e della valutazione delle prove: cosi' come la formazione di queste ultime e' completamente assente dalla fase in cui si forma l'accordo fra le parti. Ma la sentenza in questione puo' risultare priva anche della esposizione dei motivi di fatto, quando, nelle situazioni, gia' delineate, non sia dato attingerne dal fascicolo del p.m. - qualora esibito - ne' da quello per il dibattimento. Percio', e' dato condividere soltanto in parte l'argomentazione per cui " ..il giudice non puo' lasciare senza alcuna giustificazione nella sentenza l'apprezzamento della correttezza o meno della definizione giuridica del fatto che scaturisce dalle risultanze: cosi' come e tenuto a dire le ragioni per cui le circostanze, attenuanti od aggravanti, e l'eventuale prevalenza o equivalenza delle une rispetto alle altre, siano o non ritenute plausibili nei sensi prospettati nella consensuale richiesta delle parti" (sentenza n. 313/1990). Invero, l'adozione del rito e' ben compatibile con la completa assenza di quelle risultanze che, nel pensiero di codesta Corte, dovrebbero permettere la ricostruzione del fatto, prima della sua definizione giuridica. Sicuramente, la sentenza in discorso reca una motivazione, relativa alla correttezza della definizione giuridica del fatto, alla sussistenza delle circostanze, ed al bilanciamento di queste; ma che, con altrettanta sicurezza, non si estende all'esame del fondamento dell'accusa. Tale sentenza, quindi, e' paragonabile a una decisione sull'accusa prospettata: se il fatto, negli estremi oggettivi e soggettivi, fosse riconosciuto sussistente, esso risulterebbe, correttamente qualificato, circostanziato e meritevole di un determinato giudizio di comparazione fra le circostanze. "E tali conclusioni escno ulteriormente rafforzate dalla considerazione che a questa forma di definizione anticipata, del procedimento e' consentito ricorrere persino nella fase delle indagini preliminari (art. 447) e cioe' quando, almeno teoricamente, non si siano ancora raccolti elementi per una richiesta di rinvio al giudizio. Si tratta insomma di un istituto nuovo per il nostro ordinamento e in esso introdotto per deflazionare il dibattimento attraverso la pronuncia di una sentenza con la quale, venendo a scindersi la formula 'riconoscimento della responsabilita'-applicazione della pena', non si accerta dal giudice la effettiva offesa da parte dell'imputato dell'interesse protetto dalla norma che si assume violata e la colpevolezza dell'inquisito, con esonero per l'accusa dall'onere della prova di responsabilita' e con la accettazione da parte dell'imputato, per sue personali valutazioni di convenienza, della definizione anticipata del procedimento godendo di effetti 'preminali'. Qualora si volesse inquadrare l'istituto in una categoria (lo) si potrebbe, in definitiva, inserirlo tra quelle che si sono definite 'sentenze in ipotesi' e, in questo specifico caso, 'in ipotesi di responsabilita''" (Cass., sezione prima, 19 febbraio 1990, Migliardi, Cass. pen. 1990, II, 15). "Nella pronunzia in esame, mentre e' previsto il secondo dei termini di questa combinazione (applicazione della pena) e' assente il primo e cioe' il riconoscimento della responsabilita' che non puo' conseguire alla completezza di un accertamento da parte del giudice, cui anzi e' negata la stessa possibilita' di un accertamento anche iniziale, dovendo il giudice limitarsi a esaminare se 'allo stato degli atti' sia da escludersi la evidenza di prova d'innocenza" (Cass., sezione quinta, 26 giugno 1991, Garetto, ivi, 1992, 90). Le decisioni secondo le quali, diversamente, la sentenza in discorso presuppone l'accertamento di responsabilita' (Cass., sezione prima, c.c., 26 marzo 1991, Negri, ivi, 1992, 238; idem, 3 aprile 1991, Bozzoli, ivi, 91),, non indicano di quali elementi il giudice debba disporre allo scopo; e, comunque, confliggono con l'interpretazione dell'istituto, data da codesta Corte: "La giurisprudenza costituzionale richiamata non ha inteso, peraltro, riferire alla sentenza adottata a seguito di 'patteggiamento' la natura propria della sentenza di condanna disposta sulla base di un accertamento pieno della fondatezza dell'accusa e delle responsabilita' dell'imputato" (sentenza n. 251/1991). E la ragione ben se ne intende: " .. il presidio costituzionale della presunzione di non colpevolezza importa che non sia la mancanza di prove di innocenza, ma la presenza di pertinenti e concludenti prove a carico a giustificare una sentenza di condanna (cfr. la sentenza n. 175/1970) .." (sentenza n. 124/1972). Alla stregua di questo principio, e' necessario rimeditare le ulteriori enunciazioni di codesta Corte, riguardo alla motivazione della sentenza che applica la pena concordata. "D'altra parte, il modello generale di sentenza, che il legislatore delinea nell'art. 546 del c.p.p., prevede alla lett. e) del primo comma 'la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione e' fondata': si tratta di un'esigenza che non e' esclusa dalla particolare configurazione della sentenza prevista dall'art. 444 del cod. proc. pen., anche se ovviamente va ad essa ragguagliata. ( ..) Peraltro, ancora una volta va richiamato il modello generale di sentenza di cui all'art. 546 del cod. proc. pen., e le prescrizioni della lettera e del primo comma, dove si esige che il giudice indichi le prove che intende porre a base della sua decisione, ed enunci le ragioni per le quali non ritiene attendibili le prove contrarie. Dal che si evince che anche la decisione di cui all'art. 444 del cod. proc. pen., quanto non e' decisione di proscioglimento, non puo' prescindere dalle prove della responsabilita'" (sentenza n. 313/1990). In dottrina, e' stato osservato che le disposizioni relative al rito speciale in questione, non recano alcun richiamo alla disciplina della decisione dibattimentale (artt. 529 e segg. del c.p.p.), al contrario di quanto prevede l'art. 442, primo comma, in tema di giudizio abbreviato: quasi a significare la inevitabile differenza fra la motivazione contratta della sentenza che accoglie la richiesta di pena - riconducibile al generale modello previsto dall'art. 125 codice di rito - e quella della sentenza pronunciata al termine del giudizio, la quale si estende anche alle prove. Il pretore rileva che - al di la' del generale dovere di motivazione delle sentenze e delle ordinanze, ribadito dal terzo comma dell'art. 125 - l'indicazione e la valutazione di prove non sono richieste per la sentenza di non luogo a procedere (art. 426, primo comma, lett. d)), perche' nell'udienza preliminare, l'acquisizione di ulteriori informazioni e' soltanto eventuale; e, comunque, si tratta di una decisione di proscioglimento. All'opposto, il rinvio operato dall'art. 442, primo comma, agli artt. 529 e segg. rivela che la sentenza conclusiva del giudizio abbreviato deve sottostare ai criteri di enunciazione e valutazione delle prove, propri della decisione all'esito del dibattimento. Esula dal tema in trattazione chiarire se, nel rito abbreviato, gli atti contenuti nel fascicolo del p.m. siano equiparati alle prove in senso tecnico (es., raccolte nell'incidente probatorio). E' sufficiente notare che l'adozione di questo rito presuppone la decidibilita' allo stato degli atti, salva la possibilita' di integrazione probatoria nel caso di trasformazione del giudizio direttissimo. Diversamente, giova ribadire che la decidibilita' allo stato degli atti non e' richiesta ai fini dell'applicazione della pena concordata; e che, di conseguenza, il giudice e' tenuto ad accogliere la richiesta, nonostante la carenza o totale mancanza di prove di responsabilita' in senso tecnico, come pure di semplici elementi indiziari, desumibili dal fascicolo del p.m. Si deduce che il mancato richiamo agli artt. 529 e segg. conferma l'estraneita' della indicazione e valutazione di prove alla motivazione della sentenza in questione. Si dovra' aggiungere che la possibilita' di utilizzare gli atti contenuti nel fascicolo del p.m. (art. 135 delle disp. att. del codice) per decidere sulla richiesta di applicazione della pena, comporta il ribaltamento della regola dettata dall'art. 526, della quale pare ineludibile la correlazione con il tipo di motivazione richiesto dall'art. 546, primo comma, lett. e). E' apprezzabile il tentativo di chi, per superare i dubbi di costituzionalita', considera il giudice dell'udienza preliminare e quello del dibattimento abilitati a prosciogliere, quando, rispettivamente, il p.m. non abbia raccolto un minimo di concreti elementi di accusa, ovvero - per affinita' con la condizione per l'applicazione di misure cautelari personali, richiesta dall'art. 273, primo comma - l'imputato non sia raggiunto da gravi indizi di colpevolezza. Ma una siffatta condizione dall'art. 444, secondo comma, non e' imposta: limitandosi a richiedere che non debba essere pronunciata sentenza di proscioglimetnto, e che siano correttre la qualificazione giuridica del fatto, l'applicazione e la comparazione delle circostanze, oltre che - per effetto della decisione (sentenza n. 313/1990) di codesta Corte - congrua la pena indicata dalle parti. Coerentemente, e' stato deciso che "Per quel che riguarda la sentenza che applica la pena su richiesta, nell'ipotesi in cui il giudice, effettuati i controlli richiesti dal secondo comma dell'art. 444 del c.p.p. (sulla qualificazione giuridica del fatto e sulla correttezza nell'applicazione e nella comparazione delle circostanze), ritenga irreprensibile dal punto di vista formale l'accordo intervenuto tra le parti e fondata la concessione delle attenuanti ed il bilanciamento delle circostanze, la motivazione della sentenza puo' essere ridotta alla mera affermazione di avere effettuato il controllo richiesto dalla legge" (Cass., sezione quinta, 30 aprile 1991, Ben Omar, Cass. pen. 1992, 98). "Ne consegue che l'obbligo in parola deve ritenersi assolto con il darsi atto da parte del giudice della richiesta delle parti in ordine all'entita' della pena e di avere positivamente effettuato la valutazione della correttezza della qualificazione giuridica del fatto, dell'applicazione e comparazione delle circostanze prospettate dalle parti e della congruita' della pena concordata ai fini e nei limiti di cui all'art. 27, terzo comma, della Costituzione, e senza che sia previamente necessario 'specificare' le ragioni per le quali non deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento a norma dell'art. 129 c.p.p." (Cass., sezione quinta, 10 maggio 1991, Mazza, ivi, 96). "Nel procedimento speciale in questione, inoltre, il giudice non e' assolutamente tenuto ad accertare la sussistenza in fatto degli estremi del reato in relazione al quale le parti 'patteggiano' la pena, ma deve soltanto valutare, sulla base degli atti, se sussistano elementi che, in maniera evidente, consentano di escludere la sussistenza del fatto stesso e la prospettabilita' in fatto e in diritto dell'ipotesi di reato sul quale le parti concordemente chiedono l'applicazione della pena" (Cass., sez. fer., 30 luglio 1991, D'Onofrio, ivi, 97). L'interpretazione prevalente nella giurisprudenza di legittimita', sebbene dissenziente da quella accolta da codesta Corte nella decisione, piu' volte ricordata, immedesima il diritto vivente; e conduce a ritenere che la sentenza conclusiva del rito speciale non solo possa, ma debba prescindere dall'indicazione e dalla valutazione di prove, segnatamente di quelle di responsabilita'; e, conseguentemente, sia priva della motivazione essenziale, in materia penale, imposta dal ricordato precetto costituzionale, nella lettura data da codesta Corte: "Vi e' poi, da tener conto della imprescindibilita' della motivazione (art. 111 della Costituzione), che, come e' noto, e' il maggior impegno del giudice, perche' deve contenere la ricostruzione logica e critica delle prove, per dare ragione della fondatezza della pronunzia soddisfare e le esigenze di giustizia dei consociati .." (sentenza n. 124/1972). 9. - La rinuncia all'acquisizione delle prove nel dibattimento, che sostanzia il rito speciale in discorso, introduce alla valutazione della relativa disciplina alla stregua del parametro della ragionevolezza. Nell'esame di questioni affatto diverse, codesta Corte chiari' che " .. l'oralita', assunta a principio ispiratore del nuovo sistema, non rappresenta, nella disciplina del codice, il veicolo esclusivo di formazione della prova nel dibattimento: cio' perche' - e' appena il caso di ricordarlo - fine primario ed ineludibile del processo penale non puo' che rimanere quello della ricerca della verita' (in armonia coi principi della Costituzione: come reso esplicito nell'art. 2, prima parte, e nella direttiva n. 73, della legge di delega, tradottasi nella formulazione degli artt. 506 e 507; cfr. anche la sentenza n. 258/1991 di questa Corte) ..". Conseguentemente, veniva dichiarata l'illegittimita' dei commi terzo e quarto dell'art. 500 del codice di rito, per contrasto con l'art. 3 della Costituzione, in quanto la norma " .. istituisce una irragionevole regola di esclusione che, non solo puo' giocare cosi' a vantaggio come a danno dell'imputato, ma e' suscettibile di ostacolare la funzione stessa del processo penale proprio nei casi nei quali si fa piu' pressante l'esigenza della difesa della societa' dal delitto, quando per di piu' il ricorso all'intimidazione dei testimoni si verifica assai di frequente ( ..). In in secondo luogo, posto che il nuovo codice fa salvo (e, in aderenza ai principi costituzionali, non poteva essere altrimenti) il principio del libero convincimento, inteso come liberta' del giudice di valutare la prova secondo il proprio prudente apprezzamento, con l'obbligo di dare conto in motivazione dei criteri adottati e dei risultati conseguiti (art. 192), la norma in esame impone al giudice di contraddire la propria motivata convinzione nel contesto della stessa decisione .." (sentenza n. 255/1992). Queste valutazioni devono, ora, confrontarsi con una prospettiva processuale esattamente rovesciata. Diversamente dalla norma dichiarata incostituzionale con la ricordata sentenza, quelle che disciplinano il rito della pena concordata non evitano, ma anzi ammettono l'utilizzazione degli atti contenuti nel fascicolo del p.m., pochi o molti che siano, e qualunque ne risulti la portata probante o, piu' frequentemente, solo indiziante: esse, percio', non contraddicono il "principio di non dispersione dei mezzi di prova", individuato da codesta Corte nella suddetta decisione, quale correttivo del canone dell'oralita', e destinato al recupero di accertamenti non suscettibili di essere compiutamente e genuinamente surrogati dalla prova dibattimentale. All'opposto, nel patteggiamento e' il principio dell'oralita' a venire interamente sacrificato, quando si attribuisce o, comunque, si finge il valore probatorio di atti che, ben potendo venire compiutamente e genuinamente sostituiti dalle prove dibattimentali, non assumerebbero alcun rilievo, ed anzi sarebbero inutilizzabili ai fini della decisione conclusiva del giudizio con rito ordinario. Resta da chiedersi quanto coerente con i principi della ricerca della verita' e del libero convincimento del giudice, risulti una scelta legislativa la quale, non solo equipara ad atti non ripetibili tutti quelli contenuti nel fascicolo del p.m., attribuendovi indiscriminata valenza probatoria agli effetti della ratifica dell'accordo fra le parti e, in par tempo, negandola in sede di definizione del dibattimento; ma, addirittura, priva il giudice di qualsiasi potere di integrazione di tali risultanze - quale previsto dagli artt. 306 e 507 del c.p.p., riconosciuti espressione del principio di ricerca della verita' - non parendo dubbio che costui, alla stregua dell'attuale formulazione dell'art. 444, secondo comma, e diversamente da quella dell'art. 440, primo comma, non puo' opporre all'accordo intervenuto fra le parti la non decidibilita' allo stato degli atti. Riceve conferma l'osservazione che la stessa qualificazione giuridica del fatto, prospettata dalle parti, in tanto deve essere ritenuta corretta dal giudice, in quanto, e solo perche', aderisca al contenuto del fascicolo del p.m. Si deve, per altro verso, paventare che la rinuncia al dibattimento, nella quale si sostanzia la scelta del rito alternativo da parta dell'indagato od imputato, risulti - in concreto, e in ipotesi tutt'altro che residuali - suggerita da finalita' ben diverse da quella di beneficiare degli effetti premiali dell'istituto: cosi', in evenienza non peregrina, dall'intento di dissimulare la responsabilita' di terzi, sottraendoli alle conseguenti pene e facendosene carico; oppure dal fine di impedire, soprattutto nella fase iniziale delle indagini preliminari, l'accertamento di fattispecie ben piu' gravi di quelle gia' emerse, commesse, le prime, dalla persona sottoposta alle indagini o da altri, e che rischiano di venire in luce attraverso la prosecuzione delle attivita' investigative ovvero nel corso del dibattimento. Non a caso, l'amministrazione della giustizia viene tutelata anche attraverso l'incriminazione dell'autocalunnia. Senonche', il rito in questione, introdotto dalla richiesta dell'indagato od imputato, non implica l'incolpazione di se', ma - come rilevato da codesta Corte - qualcosa di meno e di differente, cioe' la rinuncia a contestare l'accusa. Da questa rinuncia, pero', possono derivare effetti pratici non diversi da quelli che, frequentemente, si propone l'autocalunniatore. Ma la richiesta di applicazione della pena, rientrando nel novero delle facolta' processuali riconosciute all'imputato, non potra' giammai essere valutata come indizio del reato previsto dall'art. 369 del c.p.p., ne' dal p.m. ne' dal giudice: il primo dovra' limitarsi a valutare la congruita' della pena proposta, all'effetto ai prestare il consenso e di astenersi dall'iniziare o dal proseguire le indagini; il secondo non potra' che accertarsi della volontarieta' della richiesta dell'indagato od imputato (art. 446, quinto comma) e del consenso, ma non certo sondare i motivi della scelta del rito, neppure disponendo, a tal fine, l'interrogatorio del richiedente. Da un siffatto meccanismo processuale, i principi della ricerca della verita' sostanziale e del libero convincimento sembrano ricevere un affronto ben piu' grave, che non dal divieto - riconosciuto illegittimo - di utilizzare con valore di prova le precedenti dichiarazioni rese dal teste, contenuto nell'art. 500, quarto comma, del c.p.p. (sentenza n. 255/1992): se si discuteva, a proposito di quel divieto, della ccstituzionalita' di limitazioni al libero convincimento per effetto di regole restrittive dell'utilizzabilita' di atti contenuti nel fascicolo dal p.m.; sara' lecito chiedersi quale piu' penetrante incidenza assuma, sul medesimo principio, l'obbligo inverso del giudice di fondare la decisione sulle risultanze di quegli atti, prive, per definizione - enucleata dall'art. 526 del codice - del valore di prove utilizzabili all'esito del dibattimento, congiuntamente al divieto di disporre d'ufficio una qualsiasi integrazione istruttoria, nonche' di accertare i motivi della scelta del rito. Analoga questione venne dichiarata infondata da questa Corte (sentenza n. 12/1991), in base alle considerazioni che era stata prospettata senza indicazione di parametri costituzionali di confronto, e che atteneva palesemente a circostanze di fatto, del tutto ininfluenti nel giudizio di legittimita'. La censura viene, quindi, riproposta in riferimento esplicito al canone di ragionevolezza delle scelte legislative, e ai connessi principi che - come chiarito dalla piu' recente pronuncia - devono informare il processo penale. 10. - Il parametro di cui all'art. 3, primo comma, della Costituzione, viene in esame anche da differente angolazione. In tema di rito abbreviato, codesta Corte rinveniva (sentenza n. 92/1992) il nucleo essenziale delle precedenti decisioni nn. 66 e 183 del 1990, 81/1991, nel " .. riconoscimento dell'incompatibilita' con un ordinamento costituzionale fondato sui principi di uguaglianza e di legalita' della pena, di una disciplina che affida(va) a scelte discrezionali - immotivate e, quindi, insindacabili - del pubblico ministero l'accesso dell'imputato ad un rito dal quale scaturiscono automaticamente rilevanti effetti sulla determinazione della pena"; cosicche' "Resta evidentemente fermo, e va anzi ribadito, che l'introduzione o meno di un rito avente automatici effetti sulla determinazione della pena non puo' farsi dipendere da scelte discrezionali dal pubblico ministero. Tali sono, indubbiamente, quelle con le quali costui decide quali, e quante, indagini esperire per porle a base della richiesta di rinvio a giudizio e, piu' in generale, quelle connesse alla sua strategia processuale; la quale puo' fargli preferire - in quanto li ritenga non necessari a tal fine - di rinviare al dibattimento l'esperimento di certi mezzi o l'acquisizione di determinate prove)". La sentenza, pur dichiarando inammissibile la questione di legittimita' degli artt. 438, 439 e 440 del codice di rito, additava al legislatore la necessita' che " .. il vincolo derivante dalle scelte del pubblico ministero sia reso superabile con l'introduzione di un meccanismo di integrazione probatoria. Al riguardo, e' innanzitutto da osservare che, nel quadro della generale finalita' di semplificare il processo ed evitare dibattimenti non necessari, un'integrazione probatoria e gia' prevista, dall'art. 422, al piu' limitato fine di consentire la decisione circa il rinvio a giudizio il proscioglimento; sicche' non appare coerente che essa sia esclusa quando le medesime finalita', sono perseguite introducendo un procedimento che si conclude con una decisione di merito". Della parte di motivazione trascritta preme, ai fini dell'attuale indagine, notare il riconoscimento della discrezionalita', delle scelte del p.m. riguardo sia alla qualita' sia alla quantita' delle indagini da espletare, per la raccolta del materiale probatorio, secondo i casi, meramente indiziario che, anche ai fini del procedimento di applicazione della pena su richiesta, deve essere utilizzato per la decisione: e cio', in riferimento ai parametri, gia' esaminati, di cui agli artt. 111, primo comma, e 112 della Costituzione; nonche' sottolineare l'affermazione della incompatibilita' di tale discrezionalita' con i principi costituzionali richiamati nella decisione, non solo in quanto, concretamente, sia di ostacolo all'introduzione di un rito avente effetti premiali, ma anche ove, all'inverso, lo renda possibile ("l'introduzione, o meno, di un rito"). Forse, anche nella struttura del procedimento speciale in esame, il correttivo di una integrazione probatoria, indicato da codesta Corte, e' possibile per intervento del legislatore; ma esso riduce i vantaggi della semplificazione processuale a poca cosa. Comunque, alla stregua del principio di eguaglianza dei cittadini, il rito dell'applicazione della pena su richiesta, al confronto di quello abbreviato, esalta il significato e le conseguenze della discrezionalita' del p.m.: perche' il consenso da questi prestato alla richiesta dell'imputato, oppure la richiesta da lui presentata, non devono essere, in alcun modo, motivati ne' correlati alla decidibilita' allo stato degli atti, bensi' esclusivamente - e non diversamente da quanto imposto al giudice - alla congruita' della pena. Correlativamente, il giudice, non essendo autorizzato a sindacare la qualita' e la quantita' delle indagini - eventualmente - espletate per il limitato fine di cui all'art. 326, e non disponendo, di regola, di alcuna prova in senso tecnico, che possa motivare sia una pronuncia di proscioglimento, sia il convincimento (implicito) di responsabilita', resta, nondimeno, tenuto ad applicare la pena indicata dalle parti, purche' reputi congrua quella che prescinde dalla riduzione concordata, senza possibilita' di disporre una integrazione probatoria, e limitandosi alla definizione giuridica del fatto descritto nella imputazione; soprattutto nell'ipotesi limite - ma non infrequente - in cui nessuna indagine sia stata espletata. In cio' si sostanzia il sospetto di radicale illegittimita' del procedimento speciale, che conduce all'applicazione di una sanzione criminale senza giudizio e senza prove o, finanche, in mancanza di elementi idonei a sostenere l'accusa in giudizio (artt. 125 delle disp. att.); bensi', soltanto sulla base della opzione del p.m. di prestare il consenso alla richiesta dell'imputato, e motivata non dal convincimento di responsabilita', ma dalla valutazione di congruita' di una pena, la quale avrebbe significato solo in presenza di quel convincimento. Se il sospetto fosse fondato, il procedimento speciale non sarebbe suscettibile di limitati interventi correttori, quali indicati, per il rito abbreviato, nella citata sentenza n. 92/1992, parendone la connotazione essenziale in contrasto irriducibile con i parametri invocati. 11. - La questione proposta e reputata rilevante per la decisione. Per escluderne l'ammissibilita', non pare decisiva la considerazione che le norme impugnate, sebbene dettate nella materia processuale, s'inquadrino fra quelle favorevoli all'imputato, in quanto disciplinano un rito che comporta effetti premiali: cosicche', un'eventuale pronuncia di accoglimento non ne impedirebbe l'applicazione nel giudizio principale, in forza del canone enunciato nell'art. 25, secondo comma, della Costituzione. In tema di impugnazione di disposizioni che introducono cause speciali di non punibilita', codesta Corte ha ritenuto (sentenza n. 148/1983) che non possono residuare, all'interno della legislazione penale, "zone franche" del tutto impreviste dal Costituente, perche' sottratte al sindacato di legittimita': in quanto le " .. norme penali di favore fanno anch'esse parte del sistema, al pari di qualunque altra norma costitutiva dell'ordinamento"; d'altronde, " .. l'eventuale accoglimento delle impugnative di norme siffatte verrebbe ad incidere sulle formule di proscioglimento o, quanto meno, sui dispositivi delle sentenze penali ..", non trascurandosi la possibilita', di una pronuncia interpretativa di rigetto o " .. comunque correttiva delle premesse esegetiche su cui si fosse fondata l'ordinanza di rimessione ..", pur sempre " .. fatte salve le implicazioni ricavabili dal principio d'irretroattivita' dei reati e delle pene ..". Piu' di recente: "Fin dalla sentenza n. 148/1983, e' stato deciso che il principio costituzionale della irretroattivita' dei reati e delle pene non vale ad esonerare dal sindacato della Corte le norme penali di favore, 'quand'anche lesive degli imperativi costituzionali di eguaglianza in materia penale'" (sentenza di codesta Corte, n. 25/1994; nello stesso senso, sentenze nn. 124/1990 e 167/1993). Piu' complesso e' il tema dell'eventuale irretroattivita' di decisioni che dichiarano la illegittimita' di norme contenute nel codice di rito, quando queste comportino anche effetti di natura sostanziale incidenti sul trattamento sanzionatorio. Anche per siffatte disposizioni vale il criterio enunciato da codesta Corte in tema di norme penali di favore: "Ma lo stabilire in quali modi il sistema potrebbe reagire all'annullamento di norme del genere, non e' un quesito cui la Corte possa rispondere in astratto, salve le implicazioni ricavabili dal principio d'irretroattivita' dei reati e delle pene; sicche', per questa parte, va confermato che si tratta di un problema (ovvero di una somma di problemi) inerente all'interpretazione di norme diverse da quelle annullate, che i singoli giudici dovranno dunque affrontare caso per caso, nell'ambito delle rispettive competenze" (sentenza n. 148/1983, cit.). La Corte di legittimita' ha statuito che " .. la sentenza n. 176/1991 non puo' determinare effetti svantaggiosi per gli imputati di reati punibili con l'ergastolo che hanno richiesto il giudizio abbreviato prima della dichiarazione dell'illegittimita' costituzionale dell'art. 442, secondo comma, del c.p.p. Per questi imputati deve rimanere fermo il trattamento penale di favore di cui hanno goduto in collegamento con il procedimento speciale adottato e di conseguenza deve essere rigettato il ricorso del procuratore generale diretto a fare invalidare gli atti del giudizio abbreviato e fare cadere il correlativo trattamento di favore" (sezioni unite, 6 marzo 1992, Piccillo, Cass. pen. 1992, 922). La connessione, posta in luce nella sentenza, e fra gli aspetti processuali e quelli sostanziali dell'accesso al rito suddetto, era stata ripetutamente illustrata da codesta Corte: " .. la realta', invero piu' complessa, che e' quella di un accordo delle parti sul rito avente pure un effetto, certo non lieve, sul merito" (sentenza n. 183/1990); " .. non dovrebbe essere consentito che i rapporti fra pubblico ministero ed imputato si sbilancino al punto che il primo, con un semplice atto di volonta' immotivato e, percio', incontrollabile, si trovi in grado di privare il secondo di un rilevante vantaggio sostanziale" (sentenza n. 81/1991); " .. viene in discussione un profilo che ha conseguenze di carattere sostanziale, perche' dall'ammissione al rito abbreviato deriva la possibilita' per l'imputato di fruire di una consistente riduzione della pena" (sentenza n. 23/1992; nello stesso senso, sentenza n. 92/1992, richiamata al par. 10). E' certo che l'affermazione della permanente applicabilita' delle disposizioni impugnate, seppure venissero dichiarate illegittime, nei procedimenti pendenti e, finanche, in quello pregiudicato, per nulla influisce sulla rilevanza della questione proposta, alla stregua dei criteri enunciati nella sentenza n. 148/1983. Si deve soltanto aggiungere che l'esattezza della conclusione accolta dalle sezioni unite non e' pacifica. Chiamata a valutare la legittimita' dell'art. 247 delle disp. att. del vigente codice, nella parte in cui limita l'accesso al rito abbreviato nei procedimenti in corso, codesta Corte ha chiarito: "Il caso di specie va risolto senza ricorso all'esame dell'ampiezza, portata e contenuti dell'art. 2 del c.p. Questa disposizione entra in discussione, infatti, solo e soltanto ove vi sia stato un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione sociale del fatto tipico oggetto del giudizio. ( ..) Or, nel caso in esame, la valutazione sociale negativa, rispetto ai fatti oggetto del processo penale, non e' mutata: nulla, invero, e' variato in ordine all'illiceita' od alla disciplina giuridico-penale dei fatti previsti nel codice penale sostanziale. La possibilita' della riduzione di pena per chi richiede il procedimento abbreviato vale soltanto, come s'e' innanzi osservato, a stimolare, nei limiti dell'esperibilita' del procedimento abbreviato, la richiesta, da parte dell'imputato, dello stesso procedimento: l'intento 'stimolatorio' della richiesta del giudizio abbreviato non puo', pertanto, assurgere a mutata valutazione sociale, in senso favorevole al reo, del fatto, oggetto del giudizio, previsto e punito dal codice penale sostanziale. Consegue che al caso in esame non puo' applicarsi il disposto di cui al terzo comma dell'art. 2 del c.p." (sentenza n. 277/1990, cit.). In tema di effetti sostanziali sfavorevoli, previsti dall'art. 248, quarto comma, stesse disposizioni, codesta Corte ha deciso " .. che, quanto al preteso contrasto delle disposizioni impugnate con l'art. 25, secondo comma, della Costituzione, e' giurisprudenza di questa Corte (cfr., sentenza n. 15/1982) che il principio dell'irretroattivita' della legge penale, ivi proclamato, si applica soltanto alle norme di carattere sostanziale e non anche alle norme processuali penali .." (ordinanza n. 419/1990). L'estraneita' del predetto principio alla disciplina della successione di leggi processuali nel tempo, dovrebbe, coerentemente, riconoscersi anche in relazione agli effetti delle declaratorie d'incostituzionalita', di norme della corrispondente natura. Ed e' significativo notare che la decisione di accoglimento, adottata con la sentenza n. 176/1991, disattese l'eccezione di inammissibilita' della questione, proposta in riferimento all'art. 75 della Costituzione, in quanto ne riconobbe il requisito dell'attualita'.
P. Q. M. Visti gli artt. 134 della Costituzione, 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara rilevante per la definizione del giudizio e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale degli artt. da 444 a 448 codice di procedura penale approvato con d.P.R. 22 settembre 1988, n. 447, in riferimento agli artt. 27, primo, secondo e terzo comma, 76, 13, secondo comma, 24, secondo comma, 111, primo comma, 112 e 3, primo comma, della Costituzione; nonche' della direttiva n. 45 della legge 16 febbraio 1987, n. 81, recante delega legislativa per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 27, primo, secondo e terzo comma, 13, secondo comma, 24, secondo comma, 111, primo comma, 112 e 3, primo comma della Costituzione; Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso; Dispone che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Il pretore: MONTINI TROTTI 95C0055