N. 102 ORDINANZA (Atto di promovimento) 23 settembre 1994
N. 102 Ordinanza emessa il 23 settembre 1994 dalla Corte di cassazione sul ricorso proposto da Bambara Maria c/ fallimento Zunino Bernardo Fallimento - Beni acquistati dal coniuge del fallito - Presunzione di fronte ai creditori, salvo prova contraria (c.d. "presunzione Muciana"), che i beni acquistati a titolo oneroso dal coniuge del fallito nel quinquennio anteriore alla dichiarazione di fallimento, siano acquistati con denaro del fallito e siano, pertanto, di proprieta' dello stesso - Disparita' di trattamento delle famiglie con regime di comunione legale dei beni, per le quali detta presunzione non opera, rispetto alle famiglie in re- gime convenzionale di separazione dei beni (sentenze Cassazione nn. 7338 e 6079 del 1991, 351/1990 e 954/1989) - Incidenza sui principi della tutela della famiglia e di agevolazione della formazione della stessa - Riferimento alla sentenza della Corte costituzionale n. 100/1993. (R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 70). (Cost., artt. 3, 29 e 31).(GU n.9 del 1-3-1995 )
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto da Bambara Maria, elettivamente domiciliata in Roma, via F.lli Ruspoli, 2 c/o l'avvocato Mario Albanese che la rappresenta e difende per delega a margine del ricorso, ricorrente, contro fallimento Zunino Bernardo, in persona del curatore Monti Piero, intimato, avverso la sentenza n. 359/1990 della Corte di appello di Torino depositato il 12 aprile 1990. E' presente per il ricorrente l'avvocato Albanese; Udita la relazione della causa svolta dal cons. rel. dott. Morelli; La difesa del ricorrente chiede l'accoglimento del ricorso; Udito il p.m. in persona del sost. proc. gen. dott. Lupi che con- clude per l'accoglimento del primo e secondo ricorso, con rimessione alla Corte costituzionale, in virtu' dell'art. 70 l.f. in relazione alla interpretazione della Corte di cassazione sulla stessa. FATTO E DIRITTO I. - Maria Bambara ricorre per cassazione avverso la sentenza in data 12 aprile 1990 della Corte di appello di Torino che, confermando la statuizione di primo grado, ha respinto l'opposizione da essa proposta avverso l'acquisizione, al fallimento del marito Bernardo Zunino, di due immobili da lei personalmente acquistati in regime di separazione dei beni, nel quinquennio anteriore alla dichiarazione di fallimento. Poiche' nella specie ricorrono pacificamente tutti i presupposti, fattuali e giuiridici, della presunzione (di acquisto con denaro del fallito) di cui all'art. 70 l.f., appunto invocata dal curatore fallimentare, la moglie in bonis, con l'odierna impugnazione (ritualmente notificata al fallimento che pero' non si e' costituito), per un verso, ora denuncia vizi di motivazione, in cui sarebbero a suo avviso incorsi i giudici di merito nell'escludere la concludenza della prova liberatoria da lei offerta in punto di effettiva utilizzazione di "denaro proprio" nelle compravendite in oggetto; e per altro verso, in subordine, eccepisce l'illegittimita' costituzionale del predetto art. 70 l.f., in riferimento agli artt. 3 e 31 della Costituzione. La seconda censura (al di la' della sua collocazione graduata nella sequenza espositiva) e' logicamente preliminare, per cui si impone, con carattere di priorita', la verifica di legittimita' della c.d. presunzione muciana ex art. 70 cit.: nei limiti ovviamente della deliberazione sommaria cui e' tenuto questo Collegio, quale giudice a quo, ai fini della proposizione dell'incidente di costituzionalita' ai sensi degli art. 134 della Cost., 1 della l. cost. 1948 n. 1 e 23 l. 11 marzo 1953 n. 87. II. - La disposizione sospettata di illegittimita' e' - come detto - quella dell'art. 70 r.d. 1942 n. 267, secondo cui "i beni che il coniuge del fallito ha acquistato a titolo oneroso nel quinquennio anteriore alla dichiarazione di fallimento si presumono di fronte ai creditori, salvo prova contraria, acquistati con denaro del fallito e si considerano di proprieta' di lui. Il curatore e' legittimato ad apprenderne il possesso". La norma vive nella ormai consolidata interpretazione giurisprudenziale - da cui anche questo Collegio non ha motivo di discostarsi - secondo cui essa non si applica con riguardo a beni oggetto di comunione legale dei coniugi secondo le disposizioni degli artt. 177 ss.cc. (nel testo fissato dalla riforma del diritto di famiglia di cui alla legge 19 maggio 1975, n. 151) perche', in questo caso, "la presunzione dell'appartenenza al coniuge imprenditore (in relazione agli acquisti) e' combattuta e vinta dal principio giuridico dell'attribuzione degli acquisti ad entrambi i coniugi, a prescindere dall'accertamento della provenienza del denaro, anzi sulla opposta presunzione che il prezzo sia la risultante di un eguale apporto dei coniugi". E continua viceversa ad operare, detta presunzione, "quando tra i coniugi sussista" - come nella specie - "il diverso regime convenzionale della separazione dei beni" (cfr. sentenze nn. 7338, 6079/91 n.; 35 1/1990; 954/1989 e Corte cost. 100/1993). Siffatta disciplina - ad avviso di questa Corte - effettivamente non si sottrae al dubbio di incostituzionalita' in relazione ai parametri e per le ragioni che (anche al di la' della prospettazione della parte) si vanno di seguito ad esporre. 1) Violazione dell'art. 3 cpv, in relazione anche agli artt. 3, comma primo, 29 e 31, comma primo, Costituzione, per irragionevolezza sopravvenuta della norma in esame nel quadro della nuova disciplina dei rapporti di famiglia, attuativa di valori costituzionali. A) Con la citata sentenza n. 351/1990 di questa sezione e' stato invero gia' sottolineato come la richiamata legge del 1975 abbia appunto "tradotto in regole giuridiche i principi enucleati dalla Carta costituzionale in materia di famiglia, con lo scopo di rafforzare il vincolo coniugale e di garantirlo .. anche attraverso la valorizzazione del lavoro in modo paritario di ciascuno dei coniugi pur se soltanto casalingo". Questi principi, fondanti di una nuova e piu' moderna concezione delle relazioni anche patrimoniali dei coniugi, hanno evidentemente una portata generalissima e conformano in ogni caso quei rapporti, quale che sia poi il regime - legale di comunione, di separazione dei beni od altro convenzionale - in concreto prescelto dai coniugi. Per cui se, in caso di adozione del modello legale di comunione, resta per quanto detto con cio' stesso esclusa in radice l'operativita' della presunzione muciana (in parte qua implicitamente cosi', di fatto, abrogata), nell'ipotesi, invece, di diversa regolamentazione convenzionale dei rapporti economici familiari, lo ius superveniens, ancorche' non comporti analoga incompatibilita' applicativa di quella presunzione, non e' comunque privo di conseguenza, perche' introduce pur sempre una rete di principi - ispirati al canone sovraordinato della parita' delle posizioni dei coniugi - nella quale la norma "interferente" (cfr. Cass. n. 954/1989) dell'art. 70 l.f. pare impigliarsi e venire comunque a collidere, per la valenza assolutamente antinomica dei presupposti da cui muove e del risultato cui e' suscettibile di approdare, assoggettando il coniuge in bonis all'onere "spesso faticoso se non addirittura impossibile" (Cass. n. 351/1990) di provare cio' che nella logica, paritaria della riforma (e della normativa sovraordinata di sostegno) dovrebbe essere piuttosto il dato fattuale di normale ricorrenza, da superare con la prova ex adverso (l'effettivita' cioe' degli acquisti personali, come corollario della pari dignita', che esclude la sudditanza, economica anche del coniuge dell'imprenditore). B) Ulteriori elementi di contraddizione e di intima irragionevolezza del complessivo prodotto normativo sembrano poi derivare dalla presunzione muciana - pur negli indicati limiti di riferibilita' al regime di separazione dei beni - con riguardo alla disciplina di singoli istituti del nuovo diritto patrimoniale della famiglia. In particolare, gia' in relazione allo stesso regime legale di comunione, siffatti profili di antinomia sembrano verificabili. In questa prospettiva, l'attenzione cade sull'art. 193 del c.c. (che e' norma inderogabile ai sensi del successivo art. 210), laddove questo indica il passaggio, anche per via giudiziale, al regime di separazione dei beni come rimedio fisiologico per le patologie del regime di comunione legale. Non sfugge infatti come questa "ancora di salvataggio", offerta al coniuge in comunione a fronte di situazioni di disordine negli affari del consorte, rischi di trasformarsi in una trappola quando un tale disordine (come nel piu' dei casi) sia relativo ad attivita' imprenditoriali (e prodromico di uno stato di insolvenza): poiche' con la scelta - che, nell'intenzione del legislatore, dovrebbe essere cautelativa - del regime di separazione dei beni, il coniuge dell'imprenditore si pone in posizione di virtuale soggezione alla presunzione muciana con il risultato (di cui si stenta a trovare giustificazione) di mettere a repentaglio anche quella quota di proprieta' degli acquisti che la comunione gli avrebbe comunque garantito. C) Ne' priva di rilievo - sempre ai fini della incidenza dello ius superveniens (in chiave di erosione dei presupposti di ragionevolezza) nei rispetti della presunzione in oggetto - pare essere la diversa configurazione che, quanto alla sua fonte, assume ora il regime di separazione dei beni. Nell'attuale assetto dei rapporti patrimoniali della famiglia, la separazione dei beni costituisce infatti, non piu' "regime legale" ma il risultato effettuale di una apposita "convenzione" dei coniugi: che, per un verso, ne disvela l'intenzione di evitare commistioni di patrimoni e, per altro verso, su un piano socio-economico, statisticamente tende a ricollegarsi ad una situazione fattuale in cui entrambi i coniugi hanno proprie e distinte fonti di reddito. Per modo che - in controtendenza con la dimostrata sua progressiva devitalizzazione - la presunzione de qua sarebbe chiamata ora a superare e travolgere, con il meccanismo dell'inversione dell'onere della prova, non piu' soltanto l'effettivita' del singolo acquisto operato dal coniuge dell'imprenditore nell'arco del quinquennio, ma anche l'effettivita' (o comunque la perdurante osservanza) dello scopo della convenzione di base sulla opzione del regime patrimoniale. Il che pure non si sottrae al dubbio appunto di ragionevolezza. 2) Violazione degli artt. 31, comma primo, 29 e 3, comma primo, Costituzione. In questa seconda prospettiva, la presunzione in questione sembra piu' direttamente, collidere con il combinato contesto degli artt. 31 (la' dove questo impone di "agevolare la formazione della famiglia), 29 (che fonda, a sua volta, la famiglia sul matrimonio) e 3 della Costituzione (per quanto ne esce, da detti parametri, rafforzata l'esigenza di tutela della famiglia, con l'implicito divieto di farla oggetto di misure di sfavore). In applicazione dei riferiti canoni costituzionali, e' stato dallo stesso Giudice delle leggi del resto gia' affermato - tra l'altro con la sentenza n. 179/1976 (che ha dichiarato l'illegittimita' della disciplina fiscale sul cumulo dei redditi coniugali) - che si pone fuori dal circuito delle indicazioni programmatiche del Costituente una normativa "che non agevola la formazione della famiglia ed anzi da' vita per i nuclei familiari legittimi, e nei confronti delle unioni libere, delle famiglie di fatto e di altre convivenze, ad un trattamento deteriore". E cio' appunto e' quel che sembra verificarsi nella specie, per effetto dell'applicazione della disciplina sub art. 70 l.f. Anche perche', ormai superata, come gia' detto, dalla stessa evoluzione del costume, la presunzione (da cui a sua volta in gran parte, anche se non esclusivamente, dipende quella muciana) per cui, quando il marito sia imprenditore, la moglie viva in posizione subordinata, e quando sia la moglie ad esercitare attivita' commerciale, il marito si trasformi in uomo "atto a casa", ne risulta eccessiva, ed ingiustificatamente gravatoria della famiglia legittima, la riferita misura di tutela dei creditori, a fronte di un pericolo di commistione di patrimoni e fittizie intestazioni analogamente, e con non diversa intensita', verificabile anche in altre parallele forme di convivenza in ipotesi prescelta dell'imprenditore. (Considerazioni, queste, per altro non dissimili da quelle che, a fronte di presunzione analogamente strutturata (ancorche' senza prefissazione del limite temporale del quinquennio) esistente nel Par. 45.K.O., ha indotto la Corte tedesca a dichiararne, con sentenza del 24 luglio 1968, il contrasto con l'art. Abs.1 della Grundgesetz, sostanzialmente corrispondente all'art. 31 della nostra Costituzione). 3) Violazione dell'art. 3, primo comma. Per la disparita' di trattamento non agevolmente giustificabile che ne deriva, alla stregua di tutte le considerazioni di che precedono (ed agli effetti della disciplina delle revocatorie fallimentari), in danno delle famiglie che abbiano scelto il regime di separazione dei beni od altro regime convenzionale (e che per cio' dovrebbero continuare a risentire l'applicazione della presunzione in esame), per un verso, all'esterno, rispetto a famiglie di fatto od altre forme di libera convivenza) e per altro verso, all'interno stesso della famiglia legittima, rispetto ai nuclei che hanno optato per il regime di comunicazione legale: tutti del pari sottratti alla sfera di operativita' della norma suddetta. III. - Tutto cio' premesso e considerato poi: che le accennate riflessioni, nella misura in cui autorizzano il sospetto di violazione di parametri costituzionali evocati, in relazione ai profili sottolineati, assolvono con cio' all'obbligo di motivazione sulla "non manifesta infondatezza" della questione che si intende sollevare (ogni ulteriore approfondimento dei profili medesimi rischiando di travalicare nel proprium del sindacato, sulla "fondatezza", riservato alla Corte costituzionale); che, per altro, gli odierni rilievi sulla legittimita' del denunciato art. 70 l.f. non coincidono con le censure - di violazione dell'art. 24, dell'art. 3 (per disparita' di trattamento tra "moglie" e marito) e, genericamente, dell'art. 29 della Costituzione - gia' esaminate con la precedente sentenza della Corte n. 195/1975, dei cui temi l'odierna ordinanza non presuppone pertanto il riesame; che e' innegabile, infine, la rilevanza della questione di cui sopra, perche' l'art. 70 l.f. e' proprio la norma che (in relazione alla situazione, in fatto pacifico, come in narrativa premessa) occorre applicare ai fini della decisione della controversia; e che tale rilevanza sussiste indipendentemente dallo scrutinio del precedente motivo di ricorso ex art. 360 n. 5 del c.p.c., in punto di denegato assolvimento della prova liberatoria, poiche' - ove pur in tesi fondata siffatta censura - la cassazione della sentenza di appello, che ne deriverebbe, per vizi di motivazione nell'applicazione di norma legittima, avrebbe portata ed effetti innegabilmente diversi da quello, per applicazione di norma illegittima, quale invece conseguente all'eventuale accoglimento della quaestio legitimitatis.
P. Q. M. Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 70 del regio decreto 1942, n. 267 (legge fallimentare) in relazione agli artt. 3, 29, 31 della Costituzione; Dispone la sospensione del presente giudizio e la rimessione degli atti alla Corte costituzionale; Nonche' la notifica della presente ordinanza alle parti ed al Presidente del Consiglio dei Ministri, e la sua comunicazione ai Presidenti dei due rami del Parlamento. Roma, addi' 23 settembre 1994 Il presidente: CANTILLO 95C0245