N. 68 SENTENZA 22 febbraio - 1 marzo 1995

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Ordinamento  penitenziario - Benefici - Permessi premio e liberazione
 condizionale - Concessione - Requisiti - Condotta  di  collaborazione
 con  la  giustizia  -  Giudicato  formatosi  a  seguito  di  sentenza
 irrevocabile di condanna per taluni  delitti  che  renda  impossibile
 un'utile  collaborazione con la giustizia ma che escluda l'attualita'
 di collegamenti con la criminalita' mafiosa  -  Omessa  previsione  -
 Violazione  del  principio  di  eguaglianza e dei principi volti alla
 rieducazione del condannato - Illegittimita' costituzionale.
 
 (Legge 26 luglio 1975, n. 354, art.  4-  bis,  primo  comma,  secondo
 periodo,  come  sostituito  dall'art.  15, primo comma, lett.  a) del
 d.-l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n.
 356;d.-l. 13 maggio 1991, n. 152, art.   2, primo  comma,  convertito
 nella legge 12 luglio 1991, n. 203)
 
 (Cost., artt. 3, 25 e 27).
(GU n.10 del 8-3-1995 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
 Giudici: avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo
    CAIANIELLO,  avv.  Mauro  FERRI,  prof.  Luigi MENGONI, prof. Enzo
    CHELI,  dott.  Renato  GRANATA,  prof.  Giuliano  VASSALLI,  prof.
    Francesco   GUIZZI,   prof.   Cesare   MIRABELLI,  prof.  Fernando
    SANTOSUOSSO,  avv.  Massimo  VARI,  dott.  Cesare  RUPERTO,  dott.
    Riccardo CHIEPPA;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nei  giudizi  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 4-bis, primo
 comma, della legge 26 luglio 1975,  n.  354  (Norme  sull'ordinamento
 penitenziario  e sulla esecuzione delle misure privative e limitative
 della liberta'), come modificato dal decreto-legge 8 giugno 1992,  n.
 306  (Modifiche  urgenti  al  nuovo  codice  di  procedura  penale  e
 provvedimenti di contrasto alla  criminalita'  mafiosa),  convertito,
 con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, promossi con n.
 2  ordinanze emesse il 15 aprile e il 13 luglio 1994 dal Tribunale di
 sorveglianza di Roma nei procedimenti relativi alle istanze  proposte
 da  Baddar  Alaa  Eddine,  iscritte  ai  nn.  541  e 542 del registro
 ordinanze 1994 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
 n. 39, prima serie speciale, dell'anno 1994;
    Visti gli atti di costituzione di Baddar Alaa Eddine  nonche'  gli
 atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
    Udito  nell'udienza  pubblica  del  7  febbraio  1995  il  Giudice
 relatore Giuliano Vassalli;
    Uditi l'avv. Alberto Pisani per Baddar Alaa  Eddine  e  l'avvocato
 dello  Stato  Nicola  Bruni  per  il  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri.
                           Ritenuto in fatto
   1. - Il Tribunale di  sorveglianza  di  Roma,  nell'ambito  di  una
 procedura  di  reclamo  ex art. 30-bis della legge 26 luglio 1975, n.
 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e  sulla  esecuzione  delle
 misure privative e limitative della liberta'), avverso il decreto con
 il   quale   il   Magistrato   di   sorveglianza   aveva   dichiarato
 inammissibile, per difetto del presupposto della  collaborazione  con
 la giustizia, la domanda di permesso premio presentata da Baddar Alaa
 Eddine,  detenuto  condannato alla pena di anni tredici di reclusione
 per il delitto di cui all'art. 75 della legge n.  685  del  1975,  ha
 sollevato,  in  riferimento  agli artt. 3, secondo comma, 25, secondo
 comma,  e  27,  terzo  comma,  della   Costituzione,   questione   di
 legittimita'  costituzionale  dell'art.  4-bis,  primo  comma,  della
 citata legge n. 354  del  1975,  come  sostituito  dall'art.  15  del
 decreto-legge  8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto
 1992, n. 356, nella parte in cui prevede, relativamente ai condannati
 per  determinati  reati,  che  il  beneficio  suddetto  possa  essere
 concesso   solo  a  coloro  che  abbiano  prestato  una  condotta  di
 collaborazione con la giustizia nei termini  indicati  dall'art.  58-
 ter dell'ordinamento penitenziario (r.o. n. 541 del 1994).
    L'organo rimettente sottolinea essere stata accertata l'assenza di
 collegamenti  attuali dell'istante con la criminalita' organizzata, e
 che, tenuto conto del positivo percorso rieducativo  seguito  durante
 l'espiazione  della pena, nonche' dell'entita' della pena da espiare,
 non sussisterebbero ostacoli, al di fuori di quello  derivante  dalla
 norma sottoposta a censura, alla concessione del beneficio.
    Precisato  che l'istituto del permesso premio integra una concreta
 modalita'    del    trattamento    penitenziario,     necessariamente
 individualizzato   ex  art.  13  dell'ordinamento  penitenziario,  il
 giudice  a  quo  osserva  che  la  norma  impugnata  possa  ritenersi
 confliggente,   in   primo   luogo,  con  gli  artt.  3  e  27  della
 Costituzione, in quanto l'uguaglianza  dinanzi  alla  pena  significa
 innanzi   tutto   proporzione  della  pena  rispetto  alle  personali
 responsabilita' ed alle esigenze che ne conseguono, e il  trattamento
 penitenziario deve, per espresso dettato normativo, essere improntato
 ai  criteri  di  proporzionalita' ed individualizzazione nel corso di
 tutta l'esecuzione della pena.
    Considerato poi che "l'irretroattivita' della legge penale sancita
 dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione si estende a tutte le
 norme che si riferiscono al quadro sanzionatorio", e che  al  momento
 dell'entrata in vigore della normativa in questione l'istante vantava
 tutti  i  requisiti  di  legge  perche'  fosse valutata nel merito la
 concedibilita'  del  beneficio  richiesto,  puo'  altresi'  ritenersi
 configurata,  secondo  il  rimettente,  la  violazione  del  suddetto
 precetto costituzionale.
    Quanto  all'ammissibilita'  della  questione,  il  giudice  a  quo
 osserva che la natura giurisdizionale del procedimento di reclamo  in
 esame  e' avvalorata ora da "un significativo mutamento di indirizzo"
 nella giurisprudenza della Corte costituzionale: cio' deriverebbe sia
 dalla sent. n. 306 del 1993,  con  la  quale  e'  stata  disposta  la
 restituzione  degli  atti  per  jus superveniens di numerose analoghe
 questioni sollevate  nell'ambito  di  procedure  di  reclamo  avverso
 declaratorie  di  inammissibilita' di domande di permessi premio, sia
 dalla motivazione della sent. n. 53 del 1993, che ha affermato,  come
 derivante  dalla  direttiva  ex  art.  2  n. 96 della legge-delega 16
 febbraio 1987, n. 81,  il  principio  di  giurisdizionalizzazione  di
 tutti   i   provvedimenti,   emessi   nella  fase  della  esecuzione,
 concernenti le pene, tra i quali rientrerebbero senza  dubbio  quelli
 relativi ai permessi premio.
    2.   -   Si   e'   costituito  in  giudizio  Baddar  Alaa  Eddine,
 rappresentato e difeso dall'avv. Alberto Pisani, che ha insistito per
 l'accoglimento della questione.
    Osserva la parte privata in una  memoria  illustrativa,  in  primo
 luogo,   che   l'ammissibilita'  della  questione,  fondantesi  sulle
 pronunce cui  ha  fatto  riferimento  l'ordinanza  del  Tribunale  di
 sorveglianza,  alle  quali va aggiunta anche la sentenza n. 349/1993,
 non e' contraddetta dalle precedenti decisioni  della  Corte  con  le
 quali  si  era  affermata  la  inammissibilita' della questione della
 inoppugnabilita' della decisione del  tribunale  di  sorveglianza  in
 sede  di  reclamo  avverso il provvedimento di diniego di un permesso
 premio, in quanto nel caso di specie il "giudice competente si  duole
 al  contrario proprio di non potere esprimere la propria valutazione,
 avente  natura  indiscutibilmente  giurisdizionale,  sull'istanza  di
 permesso avanzata dal condannato".
    In  punto  di rilevanza, si ribadisce che, al momento dell'entrata
 in vigore della nuova normativa, l'interessato aveva gia' maturato  i
 termini  per  beneficiare di permessi premio, e che era stata d'altra
 parte  indiscutibilmente  acquisita   la   prova   dell'assenza   dei
 collegamenti attuali del medesimo con la criminalita' organizzata.
    Nel   merito,   si  sottolinea  che  il  condannato,  pur  essendo
 disponibile  a   una   condotta   collaborativa,   si   trova   nella
 impossibilita'   di   fornire  un  contributo  rilevante  ai  termini
 dell'art. 58-ter dell'ordinamento penitenziario, posto che i fatti  e
 le  responsabilita'  inerenti  al sodalizio criminoso per il quale si
 era proceduto erano stati compiutamente accertati.
    Dopo aver ripreso e  ulteriormente  sviluppato  le  censure  mosse
 dall'ordinanza  del  Tribunale  rimettente  alla  norma impugnata, la
 difesa della parte privata  sottolinea  che  dalla  recente  sentenza
 della  Corte costituzionale n. 357/1994 si ricava che l'irragionevole
 discriminazione con essa dichiarata ha ad oggetto solo  la  posizione
 di   colui   che,   pur  non  avendo  potuto  legalmente  beneficiare
 dell'attenuante di cui all'art. 114 cod. pen., risulti comunque  aver
 avuto  una limitata partecipazione al fatto criminoso. A parere della
 parte privata, tale situazione  non  puo'  non  essere  parificata  a
 quella  di chi, come nel caso in esame, "si trovi nell'impossibilita'
 di fornire una qualsivoglia collaborazione per  essere  stati  ormai,
 fatti e responsabilita', definitivamente accertati".
    3.  -  Con  altra  ordinanza  (r.o.  n.  542  del  1994) lo stesso
 Tribunale di sorveglianza di Roma ha sollevato, in termini del  tutto
 analoghi  a  quelli  del  precedente  atto introduttivo, questione di
 legittimita'   costituzionale   dell'art.   4-bis    dell'ordinamento
 penitenziario,   in   sede   di   esame  di  domanda  di  liberazione
 condizionale proposta dal medesimo soggetto.
    4. - Anche in questo giudizio si  e'  costituito  il  Baddar  Alaa
 Eddine,  rappresentato e difeso dall'avv. Alberto Pisani, concludendo
 per l'accoglimento della questione.
    Nel riportarsi a quanto dedotto relativamente  alla  questione  di
 cui  all'ordinanza  r.o. n. 541 del 1994, in una memoria illustrativa
 si puntualizza che nessun rilievo puo' essere  dato  all'aspetto  del
 livello  di  partecipazione  del  soggetto  nel  sodalizio criminoso,
 vertendosi  in  una  situazione  in  cui  la  collaborazione  risulta
 obiettivamente  impossibile per il pregresso documentato accertamento
 di fatti e responsabilita'.
    Con   specifico   riferimento   all'istituto   della   liberazione
 condizionale,  si  osserva  poi  che  dalla  natura sostanziale e non
 processuale del beneficio, e dal dato giurisprudenziale  secondo  cui
 la gravita' del reato e la capacita' a delinquere palesatasi con esso
 non    possono    influenzare   negativamente   il   giudizio   sulla
 concedibilita'  della  liberazione  condizionale  medesima,   essendo
 rilevante esclusivamente il comportamento successivo alla commissione
 del  reato,  appare  ancora  piu'  stridente il contrasto della norma
 impugnata con i princip/' costituzionali indicati.
    5. - E' intervenuto  in  entrambi  i  giudizi  il  Presidente  del
 Consiglio  dei Ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello
 Stato,  concludendo  per  l'infondatezza  della  questione   di   cui
 all'ordinanza r.o. n. 541 del 1994 e per la manifesta infondatezza di
 quella  di cui all'ordinanza r.o. n. 542 del 1994. L'Avvocatura si e'
 a tal fine riportata  ad  altri  atti  di  intervento  depositati  in
 precedenti giudizi.
    La  difesa  dello  Stato  ha  successivamente depositato memoria a
 sostegno delle gia' rassegnate conclusioni.
    In tale atto si rileva, anzitutto, l'impossibilita' per  la  Corte
 di  delibare  le  deduzioni  svolte dalla parte privata nella memoria
 illustrativa (estensione dei principi  enunciati  nella  sentenza  n.
 357/1994  anche  a  chi  si trovi nella impossibilita' di collaborare
 essendo stati i fatti e le responsabilita' definitivamente accertati)
 in quanto incentrate su profili diversi da  quelli  affrontati  nella
 ordinanza  di rimessione. D'altra parte, osserva ancora l'Avvocatura,
 l'entita'  della  pena  inflitta  nel  caso   di   specie   impedisce
 l'applicazione  del  medesimo trattamento che la sentenza n. 357/1994
 ha stabilito per coloro che hanno avuto una partecipazione  marginale
 ai fatti.
    Nel  merito  delle  questioni,  la  difesa dello Stato, passate in
 rassegna le evoluzioni normative ed osservato come  la  piu'  recente
 disciplina  costituisca il "naturale sviluppo della linea di fermezza
 iniziata con il d.-l. n. 152 del 1991" ha rilevato che le esigenze di
 prevenzione generale poste in  risalto  nella  sentenza  n.  306/1993
 giustificano il regime retroattivo della disciplina di rigore oggetto
 di   impugnativa.  Porre  la  collaborazione  a  presupposto  per  la
 concessione dei  benefici  previsti  dall'ordinamento  penitenziario,
 anche  se  i  reati  sono  stati  commessi  in epoca antecedente alla
 entrata in vigore della norma  censurata,  "e'  un  modo  -  sostiene
 l'Avvocatura  -  per  agevolare la collaborazione stessa e percio' e'
 uno strumento di politica penale che non puo' non essere rimesso alla
 prudente volonta' del legislatore".  A  cio'  va  aggiunto,  conclude
 l'Avvocatura,  che  l'art.  4-bis  dell'ordinamento penitenziario non
 puo' considerarsi ne' una norma penale  agli  effetti  dell'art.  25,
 secondo  comma,  della  Costituzione,  ne' una norma che incide sulla
 pena, "ma una norma che regola modalita' di esecuzione della pena  in
 presenza  di  certi  comportamenti", cosicche' non puo' profilarsi un
 problema di irretroattivita'.
                        Considerato in diritto
    1. - Le ordinanze  sottopongono  alla  Corte  questioni  fra  loro
 intimamente  connesse:  i relativi giudizi vanno pertanto riuniti per
 essere decisi con un'unica sentenza.
    2.  -  Con  due  ordinanze  di   analogo   contenuto   pronunciate
 rispettivamente  il  15  aprile  ed il 13 luglio 1994 in procedimenti
 riguardanti, il primo, un reclamo proposto in tema di permesso premio
 a norma dell'art. 30-bis dell'ordinamento penitenziario, e il secondo
 l'esame  della  domanda  di  liberazione  condizionale  proposta  dal
 medesimo   condannato,  il  Tribunale  di  Sorveglianza  di  Roma  ha
 sollevato questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  4-bis,
 primo   comma,   della   legge   26   luglio   1975,  n.  354  (Norme
 sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle   misure
 privative  e limitative della liberta'), come sostituito dall'art. 15
 del  decreto-legge  8  giugno   1992,   n.   306,   convertito,   con
 modificazioni,  dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, nella parte in cui
 prevede che nei confronti dei  condannati  per  determinati  reati  i
 benefici  previsti  dall'ordinamento  penitenziario  e la liberazione
 condizionale (quest'ultima in virtu' del richiamo enunciato dall'art.
 2  del  decreto-legge  13  maggio  1991,  n.  152,  convertito,   con
 modificazioni,  dalla  legge  12  luglio 1991, n. 203) possano essere
 concessi  solo  a  coloro  che  abbiano  prestato  una  condotta   di
 collaborazione  con  la  giustizia nei termini indicati dall'art. 58-
 ter dell'ordinamento penitenziario.
    Rileva anzitutto il giudice a  quo  in  punto  di  fatto  che  nei
 confronti  del  condannato  puo'  ritenersi  accertata  l'assenza  di
 collegamenti  attuali  con  il  crimine  organizzato,  cosi'  come  a
 risultati  ampiamente  positivi  ha  condotto il percorso rieducativo
 scaturito dalla fattiva partecipazione  del  condannato  medesimo  al
 trattamento  intramurario:  un  trattamento, soggiunge il rimettente,
 del quale gli  istituti  del  permesso  premio  e  della  liberazione
 condizionale - oggetto dei procedimenti a quibus - costituiscono con-
 crete  modalita'  volte  ad  assecondare  il  reinserimento  sociale.
 Ancorare,  dunque,  pregiudizialmente  la  concedibilita'   di   tali
 benefici   nei   confronti   dei   condannati   per   taluni  delitti
 all'esclusivo presupposto della  condotta  collaborativa,  determina,
 secondo  il  giudice  a  quo, una irragionevole preclusione idonea ad
 eludere la funzione rieducativa della pena quale piu' volte delineata
 dalla giurisprudenza di questa Corte, non potendosi  intravedere  una
 correlazione   necessaria  tra  scelta  collaborativa  ed  evoluzione
 comportamentale  del  soggetto  nel  corso  della  espiazione   della
 condanna. Sarebbero quindi violati, ad avviso del giudice rimettente,
 gli  artt. 3 e 27 della Costituzione, in quanto l'uguaglianza dinanzi
 alla pena significa innanzi tutto  proporzione  della  pena  rispetto
 alle  personali responsabilita' ed alle esigenze che ne conseguono, e
 il  trattamento  penitenziario  deve  essere improntato, per espresso
 dettato   normativo,    ai    criteri    di    proporzionalita'    ed
 individualizzazione nel corso di tutta l'esecuzione della pena.
    La  norma  censurata si porrebbe poi in contrasto con il principio
 di irretroattivita' della legge penale sancito dall'art. 25,  secondo
 comma,  della  Costituzione,  trattandosi  di principio applicabile a
 tutte le norme che si riferiscono al  quadro  sanzionatorio,  fra  le
 quali,  dunque,  vanno  annoverate  anche  quelle che disciplinano il
 trattamento penitenziario, in  quanto  incidenti  sulla  quantita'  e
 qualita'  in  concreto  della pena inflitta. Nei casi di specie, con-
 clude il rimettente, le modifiche apportate dalla normativa del  1992
 hanno   sostanzialmente   determinato   una   nuova  valutazione  del
 comportamento tenuto dal condannato sulla base di parametri  estranei
 al  processo  rieducativo  o  comunque  non  necessariamente a questo
 correlati, modificando in tal  modo  nei  suoi  aspetti  fondamentali
 l'entita'  della  pena  inflitta sotto forma delle relative modalita'
 esecutive.
    3. - Nello sviluppare le considerazioni svolte dal giudice a  quo,
 la  difesa  della  parte  privata  ha posto in particolare risalto la
 circostanza che, essendo  stati  nel  caso  di  specie  compiutamente
 accertati  i fatti e le responsabilita', il condannato si trova nella
 oggettiva  impossibilita'  di  prestare  la  condotta   collaborativa
 prevista  dall'art.  58-ter  dell'ordinamento penitenziario; sicche',
 osserva la difesa, una simile ipotesi non puo' che essere  parificata
 a  quella  gia' esaminata da questa Corte nella sentenza n. 357/1994,
 con  la  quale  e'  stata  affermata  l'applicabilita'  dei  benefici
 penitenziari  anche  nel  caso  in cui non possa essere fornita utile
 collaborazione per la limitata partecipazione al fatto criminoso.
    Circa l'ammissibilita' della questione  sollevata  nel  corso  del
 procedimento  promosso  a  norma  dell'art.  30-bis  dell'ordinamento
 penitenziario, peraltro neppure contestata  dall'Avvocatura  Generale
 dello  Stato,  la difesa del condannato ha ribadito le considerazioni
 svolte dal giudice a quo  sottolineando  come,  alla  luce  del  piu'
 recente  orientamento  di  questa  Corte  (sentenze  nn. 53 e 349 del
 1993), debba oramai ritenersi pacificamente  riconosciuta  la  natura
 giurisdizionale del procedimento in questione.
    4.  -  Sono  fin  troppo note le ragioni di politica criminale che
 indussero il legislatore dapprima ad introdurre e poi  a  modificare,
 secondo  una  linea  di  progressivo inasprimento, l'art. 4-bis della
 legge 26 luglio 1975, n. 354. Bastera', infatti,  anche  un  sommario
 esame  dei  lavori  parlamentari  che  si  svilupparono  in  sede  di
 conversione del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, con il quale la
 norma - gia' enunciata nei precedenti decreti nn. 5 e  76  del  1991,
 entrambi   decaduti   -  fu  per  la  prima  volta  iscritta  fra  le
 disposizioni che dettano i princip/' direttivi in tema di trattamento
 penitenziario, e porre a raffronto i risultati di quel dibattito  con
 l'attivita'  parlamentare  svoltasi  per  la conversione in legge del
 successivo decreto n. 306 del  1992,  per  avvedersi  agevolmente  di
 come,  al  fondo di scelte sempre piu' regressive rispetto alla linea
 gia'  tracciata  dalla  legge  10  ottobre  1986,  n.   663,   stesse
 l'avvertita  esigenza di adeguare l'intero sistema penitenziario agli
 ormai intollerabili livelli di pericolosita'  sociale  raggiunti  dal
 triste fenomeno della criminalita' organizzata.
    Ma  se unitaria puo' ritenersi la ragione ispiratrice che sostenne
 tanto la primitiva stesura quanto la successiva modifica della  norma
 oggetto  di  impugnativa,  sono proprio i "passaggi" che la stessa ha
 subi'to a mostrare come alla  identita'  degli  obiettivi  perseguiti
 abbiano  poi  finito  per corrispondere "strategie" fra loro non poco
 differenti.
    L'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario, nel testo  introdotto
 dall'art.  1  del  decreto-legge n. 152 del 1991, prevedeva, infatti,
 due distinte "fasce" di  condannati  a  seconda  della  piu'  o  meno
 diretta  riconducibilita' dei titoli di reato a fatti di criminalita'
 organizzata od  eversiva,  e  stabiliva  che  l'ammissione  a  taluni
 benefici  previsti  dallo  stesso  ordinamento  penitenziario potesse
 essere disposta, per i condannati della prima categoria, soltanto  se
 fossero  stati  acquisiti "elementi tali da escludere l'attualita' di
 collegamenti con la criminalita' organizzata o eversiva" e per quelli
 della seconda  solo  ove  non  risultassero  "elementi  tali  da  far
 ritenere  la  sussistenza"  di  tali  collegamenti.  Accanto  a cio',
 singole  previsioni  stabilivano,  quale  ulteriore   requisito   per
 l'ammissione  al lavoro all'esterno e per la concessione dei permessi
 premio, della semiliberta' e della liberazione  condizionale,  che  i
 condannati  di  cui  innanzi  si e' detto avessero espiato un periodo
 minimo di pena  piu'  elevato  dell'ordinario,  a  meno  che  non  si
 trattasse di persone che avevano collaborato con la giustizia secondo
 la   nuova   previsione  dettata  dall'art.  58-ter  dell'ordinamento
 penitenziario che lo stesso  decreto-legge  n.  152  del  1991  aveva
 introdotto nel corpo della legge n. 354 del 1975.
    Il trattamento di maggior rigore, quindi, veniva realizzato su due
 piani  fra  loro  complementari:  da  un lato, infatti, si stabiliva,
 quale presupposto generale per l'applicabilita' di alcuni istituti di
 favore, la necessita' di accertare (alla stregua di  una  graduazione
 probatoria  differenziata  a  seconda  delle  "fasce"  di condannati)
 l'assenza di collegamenti con la criminalita' organizzata o eversiva;
 dall'altro, si postulava, attraverso l'introduzione o  l'innalzamento
 dei  livelli  minimi di pena gia' espiata, un requisito specifico per
 l'ammissione  ai  singoli  benefici,  fondato  sulla  necessita'   di
 verificare  per  un  tempo  piu'  adeguato  l'effettivo  percorso  di
 risocializzazione  di  quanti  si  fossero   macchiati   di   delitti
 iscrivibili  nell'area  della  criminalita'  organizzata  o eversiva.
 Requisito, a sua volta, dal quale il legislatore  riteneva  di  poter
 prescindere  in  tutti  i  casi  in cui fosse lo stesso condannato ad
 offrire  prova  dell'intervenuto  distacco  dal  circuito   criminale
 attraverso la propria condotta collaborativa.
    Ben  diverso  e'  lo  scenario scaturito dalle modifiche apportate
 all'art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 ad opera dell'art. 15  del
 decreto-legge  n.  306  del 1992. Un primo dato e' gia' offerto dalla
 rassegna  dei  delitti  per  i  quali  trova  applicazione  la  nuova
 disciplina.  Fra  le  fattispecie  di  reato  che  l'originario testo
 iscriveva nella prima "fascia" di condannati, scompare,  infatti,  il
 riferimento  ai  delitti  commessi  per  finalita' di terrorismo o di
 eversione  dell'ordinamento  costituzionale,  rendendo  cosi'  subito
 evidente  come lo spirito della novella, attraverso la "degradazione"
 delle fattispecie di tipo eversivo rispetto  a  quelle  riconducibili
 alla  criminalita'  organizzata,  fosse teso ad incentrare proprio su
 quest'ultimo fenomeno il regime di maggior rigore  che  si  intendeva
 delineare.  Nei  confronti  dei condannati della prima "fascia", poi,
 viene  stabilito che l'assegnazione al lavoro all'esterno, i permessi
 premio e le misure alternative alla detenzione,  ad  eccezione  della
 liberazione  anticipata,  possono  essere  concessi  solo nei casi di
 collaborazione con la giustizia, fatte salve alcune  ipotesi  per  le
 quali  i benefici sono applicabili anche se la collaborazione offerta
 risulti oggettivamente irrilevante e sempre che  sussistano  elementi
 tali  da escludere in maniera certa l'attualita' dei collegamenti con
 la criminalita' organizzata.
    Il mutamento di prospettiva e',  dunque,  evidente.  Pur  restando
 infatti  sullo  sfondo, quale generale presupposto per la concessione
 dei  benefici,  la  verificata  assenza  di   collegamenti   con   la
 criminalita'  organizzata,  il  decreto-legge  8 giugno 1992, n. 306,
 convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356  ha  obliterato  fino  a
 dissolverli  i  parametri  probatori  alla  cui  stregua  condurre un
 siffatto accertamento, per assegnare invece un risalto  esclusivo  ad
 una  condotta  -  quella  collaborativa  - che si assume come la sola
 idonea  a   dimostrare,   per   facta   concludentia,   l'intervenuta
 rescissione  di  quei collegamenti. Si passa, pertanto, da un sistema
 fondato  su  di  un  regime  di  prova   rafforzata   per   accertare
 l'inesistenza  di  una  condizione negativa (assenza dei collegamenti
 con la criminalita' organizzata), ad un  modello  che  introduce  una
 preclusione per certi condannati, rimuovibile soltanto attraverso una
 condotta  qualificata  (la collaborazione). Da cio' consegue, quindi,
 che, essendo la funzione rieducativa della pena valore insopprimibile
 che permea l'intero trattamento penitenziario, in tanto e'  possibile
 subordinare  ad  una  determinata condotta l'applicazione di istituti
 che di quel trattamento sono parte integrante, in quanto la  condotta
 che  si  individua  come presupposto normativo risulti oggettivamente
 esigibile, giacche', altrimenti, residuerebbe nel sistema  null'altro
 che  una  preclusione  assoluta,  del  tutto  priva  di bilanciamento
 proprio sul piano dei valori costituzionali coinvolti.
    5.  -  Piu'  volte  chiamata  a   pronunciarsi   sull'art.   4-bis
 dell'ordinamento   penitenziario,  questa  Corte  ha  avuto  modo  di
 affrontare tematiche assai prossime a quelle che formano oggetto  del
 presente  giudizio.  Con  la  sentenza  n. 306/1993, infatti, vennero
 anzitutto  poste  in  risalto,   in   linea   generale,   le   "serie
 perplessita'"  cui  dava  luogo  -  secondo  l'originario  testo  che
 compariva nel decreto-legge n. 306 del 1992, solo in parte  temperato
 nella  conversione  in  legge  - la vanificazione dei programmi e dei
 percorsi   rieducativi   che   sarebbe   conseguita   alla   drastica
 impostazione  del decreto, "particolarmente nei confronti di soggetti
 la cui collaborazione sia  incolpevolmente  impossibile  o  priva  di
 risultati  utili  e,  comunque, per i soggetti per i quali la rottura
 con le organizzazioni criminali sia  adeguatamente  dimostrata".  Ma,
 soprattutto,  si  sottolineo'  come alla ipotesi della collaborazione
 oggettivamente irrilevante  introdotta  dalla  legge  di  conversione
 potesse  "agevolmente  assimilarsi, per identita' di ratio, quella in
 cui  un'utile  collaborazione  non  sia  possibile  perche'  fatti  e
 responsabilita'  sono gia' stati completamente acclarati o perche' la
 posizione marginale nell'organizzazione  non  consente  di  conoscere
 fatti e compartecipi pertinenti al livello superiore".
    Con la sentenza n. 357/1994, invece, questa Corte, nell'affrontare
 la questione della preclusione ai benefici penitenziari riguardante i
 condannati  che,  per  la limitata partecipazione al fatto criminoso,
 non  sono  in  grado  di  prestare  un'utile  collaborazione  con  la
 giustizia,  ha  affermato  l'irragionevolezza  di  una previsione che
 determinava effetti discriminatori nei confronti del  condannato  che
 "per il suo limitato patrimonio di conoscenze di fatti o persone" non
 fosse in grado di prestare un'utile collaborazione con la giustizia a
 norma  dell'art.  58-ter dell'ordinamento penitenziario, ribadendosi,
 nella   circostanza,   come   alla   collaborazione    oggettivamente
 irrilevante   dovesse   essere   interpretativamente   equiparata  la
 collaborazione impossibile, derivante, tra l'altro, dalla circostanza
 che fatti e responsabilita' erano gia' stati completamente acclarati.
 A simili conclusioni la Corte e' pervenuta essenzialmente sulla  base
 della   considerazione  che  il  requisito  della  collaborazione  e'
 richiesto dalla disciplina in esame "quale dimostrazione del distacco
 del condannato dal mondo della  criminalita'  organizzata",  sicche',
 ove  un  utile  contributo  non  possa  essere  offerto a causa della
 limitata partecipazione al fatto criminoso,  non  possono,  per  cio'
 solo,  scaturirne  effetti pregiudizievoli sul piano della ammissione
 ai benefici penitenziari.   Ancorche' successiva  alle  ordinanze  di
 rimessione,   la   pronuncia   da   ultimo  ricordata  appare  quindi
 intimamente  connessa  ai  profili  che  il  giudice  a  quo  deduce,
 cosicche'   nell'esame   e   nello  sviluppo  di  questi  non  potra'
 prescindersi dai risultati cui questa Corte e' da ultimo pervenuta.
    6. - Gia' nella sentenza n. 306/1993 e, come  si  e'  detto  anche
 nella  sentenza  n.  357/1994,  questa  Corte ha dunque avuto modo di
 evidenziare, sia pure in un piu' generale  contesto,  l'equiparazione
 che  e' possibile tracciare sul piano della identita' di ratio tra la
 collaborazione   oggettivamente   irrilevante    e    l'ipotesi    di
 collaborazione impossibile perche' "fatti e responsabilita' sono gia'
 stati  completamente  acclarati",  operando, tuttavia, all'interno di
 uno sviluppo ermeneutico dell'art. 4-bis che faceva comunque salva la
 necessita' che sussistessero "i requisiti legali" che la stessa norma
 presuppone (assenza di collegamenti con la criminalita'  organizzata,
 risarcimento   del   danno   ovvero  applicazione  delle  circostanze
 attenuanti di cui agli artt. 114 o 116, secondo comma, c.p.).
    L'ulteriore passaggio, quindi,  non  puo'  che  essere  quello  di
 condurre  alle  naturali  conseguenze i principi gia' enunciati nella
 richiamata sentenza n. 357/1994. Una  volta  affermata,  infatti,  la
 necessita'  di consentire l'applicazione dei benefici penitenziari al
 condannato che, per il suo limitato patrimonio di conoscenze di fatti
 o persone non sia in grado di prestare un'utile collaborazione con la
 giustizia, e cio' anche a prescindere dai casi di applicazione  degli
 artt.  62 n. 6, 114 e 116, secondo comma, c.p., e' doveroso pervenire
 alle medesime conclusioni, proprio per l'identita' di  ratio  di  cui
 innanzi  si  e'  detto,  anche  nel caso in cui la collaborazione sia
 impossibile perche' i fatti  e  le  responsabilita'  risultano  ormai
 integralmente  accertati  nella sentenza irrevocabile. Collaborazione
 irrilevante  e  collaborazione  impossibile,  dunque,  finiscono  per
 saldarsi   all'interno   di  un  quadro  unitario  di  collaborazione
 oggettivamente inesigibile, che permette di infrangere lo sbarramento
 preclusivo previsto dalla norma proprio perche'  privato,  in  simili
 casi, della funzione stessa che il legislatore ha inteso imprimergli.
 Introdurre,  quindi, come presupposto per la applicazione di istituti
 funzionali alla rieducazione  del  condannato  un  comportamento  che
 obiettivamente non puo' essere prestato perche' nulla aggiungerebbe a
 quanto e' stato gia' accertato con la sentenza irrevocabile, equivale
 evidentemente  ad  escludere  arbitrariamente una serie importante di
 opportunita' trattamentali,  con  chiara  frustrazione  del  precetto
 sancito    dall'art.   27   della   Costituzione   e   senza   alcuna
 "contropartita" sul piano  delle  esigenze  di  prevenzione  generale
 sulle  quali  pure  questa  Corte non ha mancato di soffermarsi nelle
 pronunce piu' volte richiamate. E' evidente, infatti, che le  persone
 condannate  prima  dell'entrata  in  vigore  della  norma  oggetto di
 impugnativa, in tanto possono essere indotte a serbare  una  condotta
 collaborativa,   in   quanto  residui  in  concreto  uno  spazio  per
 collaborare e offrire, per  questa  via,  un  tangibile  segno  della
 propria  dissociazione dal crimine organizzato. Se invece tale spazio
 manchi, come accade nell'ipotesi devoluta all'esame di questa  Corte,
 gli  effetti  della norma sono esattamente opposti agli obiettivi che
 con essa si e' inteso perseguire, giacche'  il  condannato  viene  ad
 essere  posto  in una condizione di sostanziale indifferenza rispetto
 alla scelta se recidere o  meno  i  collegamenti  con  il  mondo  del
 crimine.  Conseguenze,  quelle  appena  accennate,  che ancor piu' si
 appalesano in stridente antinomia con il  sistema  e  con  lo  stesso
 principio  di  uguaglianza ove si consideri che le medesime finiscono
 in concreto per scaturire da  un  profilo  del  tutto  estrinseco  ed
 occasionale,  quale  e'  quello rappresentato dalla maggiore o minore
 ampiezza ed incisivita' degli accertamenti compiuti e  dei  risultati
 conseguiti  nel  corso  del  procedimento  dal  quale  e' derivata la
 condanna.
    La norma va dunque dichiarata  costituzionalmente  illegittima  in
 parte  qua  per  contrasto  con  gli artt. 3 e 27 della Costituzione,
 ferma restando, peraltro, la necessita'  che  siano  stati  acquisiti
 elementi   tali   da  escludere  in  maniera  certa  l'attualita'  di
 collegamenti con la criminalita' organizzata.
    La declaratoria di incostituzionalita' della norma per  violazione
 degli  indicati  parametri  esime  la  Corte  dal  prendere  in esame
 l'ulteriore  censura  avanzata  con  riferimento  all'art.  25  della
 Costituzione.
    Caducata,  poi,  la preclusione normativa prevista dall'art. 4-bis
 della legge n. 354 del 1975,  automatici  ne  risultano  gli  effetti
 anche   per   cio'   che   concerne   l'istituto   della  liberazione
 condizionale,  considerato  che  tanto  il  giudice  a  quo  che   la
 giurisprudenza di legittimita' interpretano come formale il rinvio al
 medesimo  art.  4-bis  enunciato dall'art. 2 del gia' citato decreto-
 legge n. 152 del 1991 (v., in proposito, la sentenza n.  39/1994).
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Riuniti i giudizi:
      dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 4-bis,  primo
 comma,  secondo  periodo,  della  legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme
 sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle   misure
 privative e limitative della liberta'), come sostituito dall'art. 15,
 primo  comma,  lettera  a),  del  decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306
 (Modifiche  urgenti  al  nuovo   codice   di   procedura   penale   e
 provvedimenti  di  contrasto  alla  criminalita' mafiosa), convertito
 nella legge 7 agosto 1992, n. 356, nella parte in cui non prevede che
 i benefici di cui al primo periodo del medesimo comma possano  essere
 concessi  anche  nel caso in cui l'integrale accertamento dei fatti e
 delle   responsabilita'   operato  con  sentenza  irrevocabile  renda
 impossibile un'utile collaborazione  con  la  giustizia,  sempre  che
 siano  stati  acquisiti  elementi  tali da escludere in maniera certa
 l'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata;
      dichiara  l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  2,  primo
 comma,  del  decreto-legge  13  maggio  1991,  n.  152 (Provvedimenti
 urgenti  in  tema  di  lotta  alla  criminalita'  organizzata  e   di
 trasparenza   e   buon   andamento   dell'attivita'  amministrativa),
 convertito nella legge 12 luglio 1991, n. 203, nella parte in cui non
 prevede che i condannati per i delitti indicati nel comma 1 dell'art.
 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, possano essere ammessi alla
 liberazione  condizionale  anche  nel   caso   in   cui   l'integrale
 accertamento  dei  fatti e delle responsabilita' operato con sentenza
 irrevocabile  renda  impossibile  un'utile  collaborazione   con   la
 giustizia,   sempre  che  siano  stati  acquisiti  elementi  tali  da
 escludere  l'attualita'   di   collegamenti   con   la   criminalita'
 organizzata.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 1995.
                        Il Presidente: CASAVOLA
                        Il redattore: VASSALLI
                       Il cancelliere: FRUSCELLA
    Depositata in cancelleria il 1 marzo 1995.
                       Il cancelliere: FRUSCELLA
 95C0293