N. 155 ORDINANZA (Atto di promovimento) 2 febbraio 1995

                                N. 155
 Ordinanza  emessa  il  2  febbraio  1995 dal pretore di Roma, sezione
 distaccata  di  Bracciano  nel  procedimento  penale  a   carico   di
 Marchionne Maria Teresa ed altro
 Edilizia  e  urbanistica  -  Reati  urbanistici  - Condono edilizio -
    Previsione  della  sospensiva  di  tutti  i  procedimenti   penali
    relativi  a costruzioni abusive ultimate entro il 31 dicembre 1993
    ed estinzione dei reati dopo l'avvenuto pagamento  -  Possibilita'
    di  beneficiare di detto istituto di clemenza anche per coloro che
    abbiano usufruito del condono del 1985:  per  coloro  che  abbiano
    costruito   in  aree  paesaggisticamente  vincolate,  anche  se  a
    condizione di ottenere parere favorevole degli enti preposti  alla
    gestione  del  vincolo,  nonche'  per  coloro i cui immobili siano
    stati acquisiti di diritto gratuitamente al  patrimonio  comunale,
    purche'  non  destinati  ad attivita' di pubblica utilita' e salvi
    eventuali diritti di terzi sugli immobili stessi -  Irrazionalita'
    -  Lesione  del  principio di eguaglianza tra cittadini - Indebita
    rinuncia dello Stato alla pretesa  punitiva  senza  la  prescritta
    maggioranza  dei  due terzi dei componenti - Lesione del principio
    di obbligatorieta' dell'azione  penale  -  Sottrazione  agli  enti
    pubblici del controllo del territorio - Violazione delle autonomie
    locali  -  Mancata tutela del paesaggio e del patrimonio storico e
    artistico della nazione - Mancata  osservanza  del  principio  che
    l'iniziativa economica privata non sia in contrasto con l'utilita'
    sociale,  la liberta' e la dignita' umana - Violazione del diritto
    di proprieta' dei comuni - Richiamo alla sentenza n. 369/1988.
 (Legge 23 dicembre 1994, n. 725 (recte: n. 724), art.  39;  legge  28
    febbraio 1985, n. 47, capi IV e V).
 (Cost., artt. 2, 3, 9, 41, 42, 79, 112, 117, 118, 119 e 128).
(GU n.13 del 29-3-1995 )
                              IL PRETORE
    Ha  pronunciato la seguente ordinanza. Sentite le parti, visti gli
 atti;
                             O S S E R V A
    1. - Sulla rilevanza del rilievo, d'ufficio, della  non  manifesta
 infondatezza delle questioni di costituzionalita' della normativa del
 c.d. condono edilizio in ordine alla presente fattispecie.
    La questione si pone in primo luogo relativamente alla sospensione
 del  procedimento  penale  in  virtu'  della norma dell'art. 44 della
 legge n. 47/1985  applicabile  al  giudizio  attraverso  il  richiamo
 fattone dall'art. 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 725.
   Il  pretore,  aderendo  agli  autorevoli principi giurisprudenziali
 formatisi in occasione dell'emanazione della legge n.  47/1985  (cfr.
 Corte  costituzionale  31  marzo 1988, n. 369 in F.I. 1989, I, 3383 e
 ss.; Cass. 23 giugno 1987, Amici  in  F.I.  rep.  voce  "edilizia  ed
 urbanistica"  m. 818; Cass. 10 novembre 1987 D'Ambrosio, in F.I. rep.
 1989 voce cit. m. 846; Cass. 7 giugno 1988 Zingaro in F.I. rep.  1989
 voce  cit. m. 850; Cass. 2 maggio 1988 Mascolo in F.I. rep. 1989 voce
 cit. m. 853; Cass. 30 maggio 1988 Romagnoli in F.I.  rep.  1989  voce
 cit.  m.  859)  che  non  possono  non  valere stante la analogia dei
 presupposti  anche  per  l'attuale  normativa,  ritiene  che   l'iter
 corretto  che  il  giudice  penale  deve  adottare, dopo l'entrata in
 vigore della legge n. 725/1994, ed in presenza di un processo  penale
 per fatti di urbanistica, sia il seguente: accertamento relativo alla
 sussistenza o meno di cause di proscioglimento ai sensi dell'art. 129
 del  c.p.p.  (cfr.  in  termini, Cass. 9 dicembre 1989 Salvatore F.I.
 rep. voce cit. m. 839); in caso negativo accertamento dei presupposti
 che astrattamente consentano l'applicazione della  normativa  di  cui
 all'art.   39  della  legge  n.  725/1994  (in  particolare  data  di
 ultimazione delle opere, nella accezione di cui all'art. 31,  secondo
 comma,  legge  n.  47/1985,  che secondo quanto disposto dall'art. 39
 della legge n. 725/1994 non deve essere  successiva  al  31  dicembre
 1993,  salvo  che  la mancata ultimazione sia dipesa da provvedimenti
 amministrativi o giurisdizionali; dimensioni delle opere in relazione
 a quanto prescritto dall'art. 39 della legge n. 725/1994  ed  a  tale
 proposito  va  evidenziato  che  in  base  al  combinato disposto del
 sedicesimo comma, dell'art. 39, della legge n. 725/1994  e  dell'art.
 34,  settimo  comma,  della  legge n. 47/1985 solo per le costruzioni
 residenziali valgono i limiti di cubatura di cui al primo  comma  del
 citato  art.  39;  assenza  di  cause  ostative  all'applicazione del
 condono come nel caso di costruzioni abusive realizzate  da  soggetti
 condannati  per  il reato di cui all'art. 416- bis ovvero nel caso di
 costruzioni abusive che creano limitazioni alle proprieta'  finitime,
 cfr.  art.  39 della legge n. 725/1994); e solo nel caso di scrutinio
 positivo (sicche' le opere abusive potrebbero in astratto beneficiare
 delle procedure previste dalla legge n. 725/1994, il che non equivale
 alla possibilita' di ottenere la concessione in sanatoria, cfr.  art.
 39  della  legge  n.  47/1985) sospensione del procedimento penale ai
 sensi dell'art. 44 della legge n.  47/1985  fino  alla  scadenza  del
 termine  utile  per  la presentazione della domanda di concessione in
 sanatoria.
    Dopo  tale  termine  il   mantenimento   della   sospensione   del
 procedimento  penale (art. 38 della legge n. 47/1985) e' condizionata
 da  ulteriori  fattori.  Il  procedimento   penale   dovra'   infatti
 necessariamente  riprendere  il  suo  corso  laddove  non  risulti la
 presentazione tempestiva della domanda di concessione  in  sanatoria,
 la  legittimazione  al  conseguimento  della  sanatoria, il pagamento
 delle somme dovute a titolo di oblazione (e di contributi concessori?
 Cosi' sembrerebbe coordinando la norma  dell'art.  38,  primo  comma,
 della  legge n. 47/1985 con quella del nono comma dell'art. 39, della
 legge n. 725/1994)  nella  misura  prevista,  da  versare  nei  tempi
 previsti  dalla  legge  e  la  cui  prova  del versamento deve essere
 allegata alla domanda di sanatoria, la mancanza  di  omissioni  e  di
 inesattezze  nella  domanda  che  la  facciano  ritenere  dolosamente
 infedele.
    Nel caso in esame, effettuati i  riscontri  necessari  secondo  il
 modulo  procedimentale  teste'  ricordato, il pretore ritiene che non
 possa dubitarsi che il procedimento penale dovrebbe  essere  sospeso,
 in  virtu' dell'art. 44, della legge n. 47/1985, essendo certo che le
 opere sono state ultimate, nella accezione di cui all'art.  31  della
 legge  n.  47/1985 e visto anche l'art. 43, ultimo comma, della legge
 n. 47/1985, entro il 31 dicembre 1993 e che le stesse,  riferite  (in
 imputazione) ad immobile ad uso abitativo, non impegnano una cubatura
 superiore a quella massima consentita dalla legge.
    Si  potrebbe  obiettare che la dimostata rilevanza della questione
 di  costituzionalita'   atterrebbe   solo   alla   disciplina   della
 sospensione  del  processo  prevista  dall'art.  44  della  legge  n.
 47/1985, mentre non sarebbe dato allo stato affermarne  la  rilevanza
 in  ordine  alla  intera  (e  sostanziale) disciplina contenuta nelle
 norme del c.d. condono edilizio, posto che l'imputato potrebbe  anche
 non  presentare  la  domanda  di  concessione in sanatoria (come pure
 potrebbero  verificarsi  le  condizioni  negative  impeditive,   alla
 stregua  dei parametri suindicati, all'applicazione della sospensione
 ulteriore, quella ai sensi dell'art. 38 della legge n. 47/1985),  con
 il  conseguente  obbligo  della prosecuzione del giudizio penale e la
 irrilevanza  delle  questioni  di  costituzionalita'  relative   alla
 disciplina sostanziale dettata dalle norme in questione.
    V'e'  per  contro  da  osservare  che  il  ragionamento  pecca per
 difetto.  Ed  invero  se  cosi'  si   opinasse,   neppure   dopo   la
 presentazione  della domanda di concessione in sanatoria (che produce
 una sospensione del procedimento penale di ben piu' ampio respiro) il
 giudice    sarebbe   abilitato   a   sollevare   una   questione   di
 costituzionalita' posto che e' impossibile sapere ex ante quale siano
 gli esiti del procedimento amministrativo (ad es.  l'interessato,  in
 prosieguo,  potrebbe  non  corrispondere  gli  ulteriori  importi  di
 oblazione dovuti).
    Cio' che ad avviso del remittente rileva e' che nel momento in cui
 il giudice e' tenuto ad applicare  la  sospensione  del  procedimento
 penale si e' gia' instaurata, in virtu' dell'applicazione delle norme
 del  c.d.  condono  edilizio,  una  situazione  processuale che (come
 accadra' nella maggior parte dei casi) non potra' che sfociare  nella
 estinzione dei reati contestati agli imputati.
    In  ogni  caso,  questi  ultimi  hanno  chiesto la sospensione del
 giudizio (producendo  copia  della  oblazione  pagata)  in  relazione
 all'esistenza   della  normativa  in  esame  e  tale  circostanza  e'
 sufficiente,  come  condivisibilmente  riteneva   la   stessa   Corte
 costituzionale con la sentenza 31 marzo 1988, n. 369 cit., a radicare
 la  rilevanza delle sollevate questioni di costituzionalita' anche in
 relazione ad articoli diversi dall'art. 44 della legge n. 47/1985.
    2. - Va precisato che le  eccezioni  di  incostituzionalita'  sono
 dirette  nei  confronti del condono edilizio di cui all'art. 39 della
 legge n. 725/1994 e nei confronti delle norme  del  condono  edilizio
 della legge n. 47/1985 nella misura in cui dalla legge n. 725/1994 si
 citano e si fanno proprie (espressamente o meno) le norme di cui alla
 legge n. 47/1985.
    3.  -  La normativa impugnata, ad avviso del remittente, confligge
 con l'art. 3, primo e secondo comma, della Costituzione per  svariati
 profili.
    Come  e'  noto  il primo comma dell'art. 3 stabilisce che "tutti i
 cittadini hanno pari dignita' sociale  e  sono  eguali  davanti  alla
 legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione,
 di  opinioni  politiche,  di  condizioni  personali  e sociali" ed il
 secondo che "e' compito della Repubblica rimuovere  gli  ostacoli  di
 ordine  economico  e  sociale  che, limitando di fatto, la liberta' e
 l'eguaglianza dei  cittadini  impediscono  il  pieno  sviluppo  della
 personalita' umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
 all'organizzazione politica economica e sociale del paese".
    Come  e'  noto  le  norme  del condono edilizio di cui all'art. 39
 della legge n. 725/1994 non fanno distinzione fra  abusi  sostanziali
 ed  abusi  formali  (nel  senso cioe' che anche gli abusi sostanziali
 possono beneficiare del condono).
    Cio' con  eccezioni  (art.  39,  secondo  comma,  della  legge  n.
 725/1994  per le opere abusive che creano limitazioni alle proprieta'
 finitime; l'art. 33 della legge n.  47/1985  che  non  esclude  pero'
 l'estinzione del reato), che non mutano la fondatezza dell'assunto.
    In  altre  parole,  di  regola, anche un'opera in contrasto con le
 previsioni degli strumenti urbanistici puo' beneficiare degli effetti
 del condono edilizio.
    E cosi', con riferimento alla fattispecie in  giudizio,  le  opere
 realizzate  dagli  imputati, secondo la impostazione accusatoria, non
 avrebbero quelle  caratteristiche  di  struttura  agricola  richieste
 dalla  concessione  edilizia e dagli strumenti urbanistici per l'area
 (agricola) in questione.
    Di  conseguenza  e sempre restando alla tesi accusatoria, le opere
 di  cui  alla  imputazione  non  avrebbero  mai  potuto  essere   ivi
 lecitamente realizzate.
    In  tal  modo il soggetto interessato puo', in base alle norme del
 condono edilizio, ottenere una serie di benefici e di vantaggi che ad
 altri cittadini che pur si  trovano  in  un'analoga  situazione  (che
 hanno  ad es. un terreno disponibile nella stessa area e delle stesse
 dimensioni) sono negati.
    Si pensi a concessioni rilasciate per depositi e magazzini in aree
 agricole dove  sono  invece  stati  costruiti  manufatti  per  civile
 abitazione;  a  superfici,  altezze, cubature, destinazioni d'uso non
 consentite e via dicendo.
    Tali opere potrebbero essere realizzate  solo  in  virtu'  di  una
 concessione  illegittima  ovvero  di  in comportamento abusivo, senza
 concessione.
    A tale  stregua  pero'  non  vi  sarebbe  nessuna  violazione  del
 principio  di eguaglianza, essendo assolutamente evidente a tutti che
 il cittadino onesto, che si astiene dal realizzare  opere  abusive  o
 con  concessione illegittima, non viene in senso proprio discriminato
 rispetto alle predette ipotesi proprio in quanto quelle  sono  contra
 legem, con tutto cio' di negativo che questo implica.
    Viceversa,  a  seguito  dell'applicazione  delle  norme in tema di
 condono,  la  discriminazione  che  si   determina   e'   palese   ed
 ingiustificata.
    In  punto  di  diritto  e'  indubbio che il soggetto che ha sanato
 l'abuso si trova  in  una  condizione  di  piena  legittimita'  della
 titolarita' e della disponibilita' del bene (puo' ottenere l'allaccio
 di utenze; puo' validamente alienarlo, ecc.).
    Vi  sono  motivazioni  ragionevoli  (in  termini costituzionali) a
 sostegno di tali trattamenti differenziati?  In prima approssimazione
 si potrebbe  opinare  per  la  risposta  positiva  pensando  che  chi
 beneficia  del  condono  paga  un  prezzo  (l'oblazione).    Ma a ben
 pensarci  non  e'  questa  una  differenza  che  possa  escludere  la
 sussistenza  di  una  irrazionale  discriminazione.  Quanti cittadini
 onesti (che non hanno commesso abusi edilizi) sarebbero interessati a
 realizzare ville su terreni agricoli, pagando le somme corrispondenti
 all'oblazione?
    La risposta e' intuitiva.   E perche' invece  tali  cittadini  non
 possono  pagare  e  costruire?    Anche  qui  la  risposta, nella sua
 crudezza, e' ovvia: perche' viene valorizzato (se non  si  vuol  dire
 premiato)  l'atto  illecito.  E'  l'atto  illecito  infatti che viene
 trasformato, merce il pagamento di somme, in situazione secundum ius.
 L'onesto rimane, ancora una volta, al palo ed in lui ardera' amaro  e
 forte il sospetto che l'onesta' non paghi.
    L'art.  39  della  legge n. 725/1994, poi, consente di beneficiare
 dei suoi effetti anche a soggetti che hanno gia' usufruito, per altre
 opere abusive, del condono del 1985.   E' ad  avviso  del  remittente
 difficile   immaginare,   nel   settore  urbanistico  ed  ambientale,
 discriminazione piu' bruciante e stridente.
    In definitiva, cio' che emerge con forza e' la irrazionalita'  del
 trattamento  differenziato. Non si nega invero che le situazioni (fra
 chi ha commesso l'abuso e chi non l'ha  commesso)  siano  differenti:
 cio'  e'  in re ipsa. Quello che e' irragionevolmente discriminatorio
 e' il trattamento riservato all'un soggetto e negato all'altro.
    Si  potrebbe  obiettare  che  cio'  che  il  pretore  lamenta come
 discriminatorio  e'  all'incirca  cio'  che  accade  in  presenza  di
 un'amnistia,  ma l'eccezione non apparirebbe fondata sol che si pensi
 che l'amnistia e' prevista, come istituto ad hoc  dalla  Costituzione
 italiana  (oltre che dal codice penale), ed i suoi effetti diretti ed
 indiretti, le sue conseguenze ed implicazioni individuali  e  sociali
 sono  stati  preventivamente  ed  ab origine valutati e accettati dai
 padri costituenti.  E di cio' vi e' riprova nel fatto  che  la  legge
 concessiva  dell'amnistia  deve  essere  approvata  dal Parlamento "a
 maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera  in  ogni
 suo  articolo  e  nella votazione finale".  L'amnistia, proprio per i
 gravi  effetti  che  comporta  e'  disciplinata  espressamente  dalla
 Costituzione che per essa prevede una procedura rigorosa ed una larga
 maggioranza  in  modo  da  ridurre quanto possibile gli squilibri che
 l'istituto,  specialmente   se   usato   con   troppa   frequenza   e
 disinvoltura, puo' comportare nel tessuto sociale del paese.  Ora, in
 conclusione,  secondo  la  Corte  costituzionale  (cfr.   sentenza n.
 369/1988  citata)  il  c.d.  condono  edilizio  non  e'   un'amnistia
 cosicche',  se  si  segue  tale  tesi, la discriminazione (come sopra
 illustrata) che l'art. 39 della legge n. 725/1994 determina, non puo'
 neppure essere giustificata nell'ottica del bilanciamento fra  valori
 (e precetti) costituzionali che puo' valere per l'amnistia.
    4.  -  Il  c.d. condono edilizio come atto di clemenza.  Avuti ben
 chiari i limiti che deve avere la presente ordinanza (che sono quelli
 di sottoporre al giudizio dell'organo competente la  valutazione  dei
 motivi  di  sospetta  incostituzionalita'  che  l'ufficio  remittente
 nutre)  occorre  partire  proprio  dagli  insegnamenti  della   Corte
 costituzionale  in  materia.  A  tale proposito si deve fare primario
 riferimento alla gia' citata sentenza 31 marzo 1988, n. 369.  In essa
 la Corte ha escluso che le norme del c.d. condono  edilizio  (quello,
 ovviamente,  di cui alla legge n. 47/1985) integrassero un'amnistia e
 che quindi la legge del 1985 potesse essere incostituzionale per  non
 essere  stato  il  provvedimento  adottato  con  le  garanzie  di cui
 all'art. 79 della Costituzione.   Si tratta  di  operare  un  riesame
 dell'intera  questione  alla  luce  degli  atti  e  degli avvenimenti
 successivi al 1985 che potrebbe  portare  a  conclusioni  diverse  da
 quelle a suo tempo assunte dall'alto consesso in relazione al condono
 del   1985:   in   relazione  a  cio'  non  pare  inutile  sollevare,
 formalmente, come si  fa',  eccezione  di  incostituzionalita'  anche
 sotto il profilo della violazione dell'art.  79 della Costituzione, a
 maggior  ragione nell'attuale testo che manifesta, con la qualificata
 maggioranza richiesta, il vasto consenso sociale (come riflesso dalle
 opinioni espresse dai rappresentanti del popolo nel  Parlamento)  che
 si    ritiene    costituzionalmente   necessario   per   l'emanazione
 dell'amnistia e dell'indulto; nonche'  degli  artt.  3  e  112  della
 Costituzione,  in relazione al vigente principio dell'obbligatorieta'
 per tutti i cittadini dell'azione penale.
    Orbene, escluso che nel c.d. condono possa  essere  ravvisata  una
 forma  particolare  di  oblazione  extraprocessuale  (per  il  che si
 concorda pienamente con quanto  espresso  nella  citata  sentenza  n.
 369/1988  delle  Corte  costituzionale),  sembra  al  pretore  che la
 questione del raffronto fra le ipotesi di amnistia condizionata (cfr.
 art. 151, terzo comma, del c.p. e, fra i casi  concreti,  ad  es.  il
 d.P.R.  9  agosto  1982,  n.  525  "concessione di amnistia per reati
 tributari") e le norme  premiali  del  c.d.  condono  edilizio  debba
 prendere   le   mosse   dalla   stessa  collocazione  di  tali  norme
 significativamente inserite fra le  disposizioni  varie  della  legge
 finanziaria  n.  725/1994  e  quindi  in un ambito che nulla ha a che
 vedere con l'amnistia o l'indulto.  Occorre allora accertare,  al  di
 la' della nomenclatura usata (non basta attribuire a qualcosa un nome
 per  trasformarla in altro che, nella sostanza, non e'), quali siano,
 realmente, il contenuto, la natura e la finalita' delle norme.
    Quanto al contenuto pare difficilmente contestabile che un  titolo
 diverso (appunto di "amnistia ed indulto") che fosse stato attribuito
 alle  norme  impugnate non avrebbe affatto sfigurato, come suggerisce
 ad es. il raffronto con il citato  d.P.R.  n.  525/1982  in  tema  di
 amnistia   per   i   reati   tributari,   che  opera  con  meccanismi
 procedimentali non dissimili da  quelli  contenuti  nelle  norme  del
 condono  edilizio.    Questo  perche'  in  entrambi  i casi (amnistia
 condizionata, condono edilizio) l'effetto estintivo del reato dipende
 nella sostanza, oltre che dalla sussistenza di determinati  requisiti
 oggettivi  e temporali, la cui sussistenza il giudice deve accertare,
 fondamentalmente  da  un  comportamento  positivo  e  volontario  del
 destinatario  delle  norme (che per il c.d. condono edilizio consiste
 nel pagamento di  tutte  le  somme  dovute  per  legge  a  titolo  di
 oblazione  ovvero dell'esplicarsi del meccanismo alternativo previsto
 dal dodicesimo comma dell'art. 35 della legge n. 47/1985 se  ritenuta
 tale  norma  ancora  vigente  alla luce del disposto del quarto comma
 dell'art. 39 della legge n.  725/1994).  D'altra parte se non si puo'
 negare che con la legge ordinaria si possano istituire nuove forme di
 estinzione del reato oltre quelle  gia'  previste  e  codificate  nel
 codice penale, vi e' pero' pur sempre un limite assoluto invalicabile
 e tale limite va individuato nel rispetto della Costituzione.
    La  Corte  costituzionale nella sentenza del 1988 affermava che il
 c.d.  condono  edilizio  "costituisce  senza  dubbio  'specie'  d'una
 generale nozione di misura di clemenza".
    Ed  allora, viene da riflettere, se si ammette che il c.d. condono
 edilizio opera nello stesso modo in cui operano (ed hanno in concreto
 operato o possono operare) le amnistie condizionate e se  si  ritiene
 che  il  c.d.  condono  edilizio e' senz'altro una forma di clemenza,
 quali sono le ragioni logiche per negare che necessariamente  debbano
 valere,  anche  per  tale  mezzo,  le  procedure garantistiche di cui
 all'art. 79 della Costituzione.
    La  considerazione,  espressa  dalla  Corte  costituzionale,   che
 determinati  provvedimenti,  come  quelli  del c.d. condono edilizio,
 sono adottati al fine di orientare i comportamenti di chi ha  violato
 la  legge  in  una  determinata  direzione,  non  sembra,  in un tale
 contesto,  con  la  sola   valorizzazione   delle   motivazioni   del
 provvedimento,  poter  autolegittimare e dare forza giuridica propria
 all'atto di condono ne'  poter  mutare  i  termini  della  questione,
 almeno nella misura in cui sia esatto affermare che anche una formale
 amnistia  che  fosse  adottata  per  orientare  il  comportamento dei
 soggetti  devianti  in  una  certa  direzione  dovrebbe  pur   sempre
 rispettare  le  regole e le garanzie di forma che la Costituzione per
 essa impone.  Ma v'e' un altro ed ulteriore  profilo  che  merita  di
 essere  affrontato.  La Corte costituzionale nella citata sentenza 31
 marzo 1988, n.  369 affermava, fra l'altro, che "il  legislatore  del
 1985  nel  tentativo  di  porre  ordine  nell'intricata,  farraginosa
 materia dell'edilizia, preso atto della illegalita' di massa in  tale
 materia  verificatasi  ha  inteso chiudere un passato illegale; ed ha
 ritenuto con valutazioni insindacabili  in  questa  sede  di  indurre
 autori  e  non  di  violazioni  edilizie a chiedere la concessione in
 sanatoria relativa ad opere realizzate abusivamente". Il  legislatore
 ha  usato, rilevava la Corte, della "punibilita' in materia autonoma,
 svincolata dalle relazioni con il reato commesso".  Affermava  ancora
 la Corte che "tutte le volte che si rompe il nesso costante fra reato
 e  punibilita'  e quest'ultima viene usata per fini estranei a quelli
 relativi alla difesa dei beni tutelati attraverso  la  incriminazione
 penale,  tale  uso  puo'  incidere  negativamente  sul  principio  di
 uguaglianza ex art. 3  della  Costituzione  e  deve  trovare  la  sua
 giustificazione nel quadro costituzionale che determina il fondamento
 ed i limiti dell'intervento punitivo dello Stato.  La non punibilita'
 o  la  non  procedibilita' dovuta a situazioni successive al commesso
 reato, come nel caso  del  condono  edilizio,  deve  comunque  essere
 valutata   in  funzione  delle  finalita'  proprie  della  pena:  ove
 l'estinzione della punibilita' irrazionalmente contrastasse con  tali
 finalita',  ove risultasse variamente arbitraria, tale, come e' stato
 esattamente  sottolineato,  da  svilire   il   senso   stesso   della
 comminatoria  edittale  e  della  punizione non potrebbe considerarsi
 costituzionalmente legittima".
    Cio',  in  particolare,  osserva  la  Corte   laddove   "l'effetto
 estintivo  debba spiegarsi nei confronti di reati che, direttamente o
 indirettamente, violano precetti costituzionalmente sanciti, posti  a
 tutela di fondamentali esigenze della comunita'. La non punibilita' e
 la non procedibilita' di cui ai moderni condoni penali, specie quando
 cancellano reati lesivi di beni fondamentali della comunita' va usata
 negli   stretti   limiti   consentiti   dal  sistema  costituzionale;
 quest'ultimo precisa ed in maniera non generica fondamento, finalita'
 e  limiti  dell'intervento   punitivo   dello   Stato.   Contraddire,
 vanificare,   sia   pure  temporaneamente,  le  ragioni  prime  delle
 punibilita', attraverso l'esercizio arbitrario della non  punibilita'
 equivale  non  soltanto  a  violare l'art. 3 della Costituzione ma ad
 alterare con il principio della  obbligatorieta'  dell'azione  penale
 l'intero  volto  del  sistema  costituzionale in materia penale".  Il
 significato, di grande valenza  culturale  oltre  che  giuridica,  di
 quanto affermato dalla sentenza della Corte costituzionale, in questi
 fondamentali  passi  riportati,  e'  di  una  chiarezza  cristallina.
 L'estinzione della pena deve in qualche modo e misura giustificarsi e
 ricollegarsi in funzione di tutela (e cio' anche  nella  materia  del
 territorio  e  dell'ambiente,  che  sono  beni  che  la  Costituzione
 considera e valorizza quali patrimonio  di  tutta  la  collettivita')
 all'oggetto delle norme sul cui precetto penale si e' inciso.
    Per  quanto  riguarda  il  condono  edilizio  del 1985 la Corte ha
 scrutinato, sotto tale visuale, favorevolmente la  legge  n.  47/1985
 ritenendo che con la legge in questione il legislatore avesse "inteso
 chiudere  un  passato  di illegalita' di massa alla quale aveva anche
 contribuito  la  non  sempre  perfetta  efficienza  delle  competenti
 autorita'  amministrative  ed  avesse  mirato  a  porre  sicure  basi
 normative per la repressione futura di fatti che violano fondamentali
 esigenze  sottese  al  governo  del  territorio,  come  la  sicurezza
 dell'esercizio  dell'iniziativa  economica  e  privata,  la  funzione
 sociale della proprieta', la tutela del paesaggio  e  del  patrimonio
 storico ed artistico".
    Tali  beni  il  legislatore  del  1985  riteneva  potessero essere
 "difesi validamente per il futuro solo  attraverso  la  cancellazione
 del  notevole  ingombrante  carico  pendente  relativo  alle  passate
 illegalita' di massa".  Orbene proprio alla luce di quanto  insegnato
 dalla  Corte  costituzionale  vanno svolte alcune considerazioni.  Il
 punto  fermo,  l'a'ncora  di  costituzionalita'  delle  normative  di
 condono  edilizio  riposa  dunque  in  una qualche forma di tutela di
 ritorno (del territorio e dell'ambiente) che deve essere  prodotta  o
 favorita  dalle  normative  stesse.    Invero,  e  gia'  in  linea di
 principio, e' lecito dubitare che il bilancio definitivo di  siffatti
 condoni  edilizi  possa  essere  attivo  a  favore  dei beni protetti
 (territorio-ambiente).  Ed infatti, anche in presenza di  un  qualche
 effetto  positivo,  appare assai piu' probabile, come conseguenza del
 condono, la conseguente caduta di credibilita'  del  precetto  penale
 che  assiste  la  normativa urbanistica, nonche' il diffondersi della
 convinzione (fondata,  come  l'intera  vicenda  dei  condoni  edilizi
 citati esemplarmente dimostra) che ad un condono ne seguira' un'altro
 e  che  l'abuso  nell'urbanistica, in definitiva ed alla lunga, paghi
 piu' dell'osservanza della legge.  In ogni caso  si  puo'  senz'altro
 opinare  che la legge del 1985 (pur avendo delle non lievi ambiguita'
 e lacune, si pensi, per tutte, alla timida disciplina delle modifiche
 di  destinazione  d'uso)  contenesse  (specialmente   per   l'assetto
 normativo  dell'epoca) una corpo di norme, non soltanto premiali, che
 rielaborando e riordinando (almeno in  parte)  la  materia  edilizia,
 dettava  nuovi, importanti e forti principi di disciplina e di tutela
 del territorio.  Si puo', a poco meno di dieci anni  di  distanza  da
 quella legge, considerare costituzionalmente l'art. 39 della legge n.
 725/1994,  alla  luce delle considerazioni fin qui svolte?  Affermare
 questa volta che vi e' la possibilita' di ancorare le norme impugnate
 a ragioni (anche) di tutela  ambientale  appare  francamente  impresa
 ardua.
    Con  l'art.  39  della  legge  in  questione  si  traccia una riga
 continua (almeno per quanto riguarda la sanzione penale e nei  limiti
 delle  cubature  previste)  su  tutti  gli  abusi  edilizi, formali e
 sostanziali (contrariamente a quanto il  legislatore  aveva  promesso
 con  l'art.  13  della  legge n. 47/1985, per il futuro), commessi ed
 ultimati dai temi passati ad oggi.
    Con la conseguenza di creare le migliori condizioni, soggettive ed
 oggettive, per la realizzazione di altri  abusi  e  altri  reati  (si
 pensi, in una sorta di "dejavu'" di quanto accaduto in un passato non
 remoto,  al  prevedibile  e  gia' da molti sindaci d'Italia lamentato
 aumento dei casi di abusivismo; agli innumerevoli casi di atti notori
 falsi in cui si assevereranno come ultimate entro il 31 dicembre 1993
 opere che ultimate non erano a quella data; e cio' sulla convinzione,
 fondata su cio' che e' accaduto con il precedente condono, che  assai
 difficilmente  i  comuni  saranno  in grado di far fronte nel termine
 indicato dal  decreto  alle  incombenze  di  natura  burocratica,  ai
 controlli  sul  campo ed a quant'altro occorrerebbe per una effettiva
 seria applicazione delle  norme.  E  di  cio',  per  il  passato,  e'
 lapidaria  testimonianza  la  procedura  introdotta con il dodicesimo
 comma dell'art. 35 della legge n. 47/1985).
    Il presente condono  e'  la  esatta  e  completa  negazione  della
 filosofia  attribuita  alla legge n. 47/1985. Con la legge n. 47/1985
 si affermava in modo che piu' chiaro non potrebbe che per  il  futuro
 abusi  sostanziali,  vale  a  dire violazioni edilizie contrarie alle
 previsioni  degli strumenti urbanistici, non sarebbero stati mai piu'
 perdonati   con   la   inesorabile   applicazione   delle    sanzioni
 amministrative  e penali, come pure delle severe conseguenze previste
 sul piano negoziale dalla legge.
    Questo e  non  altro  e'  il  significato,  spogliato  del  freddo
 tecnicismo giuridico, dell'art. 13 della legge n. 47/1985.
    In  tale  ottica  il  condono  del 1985 poteva quindi avere quella
 giustificazione costituzionale indispensabile affinche'  non  fossero
 vulnerati,   con   l'offesa   al   principio   di  eguaglianza  e  di
 obbligatorieta' della legge penale, i beni (territorio  ed  ambiente)
 oggetto  della  norma penale urbanistica.  Il condono del 1994 invece
 va in senso diametralmente opposto:  smentendo in modo  clamoroso  le
 promesse  e  gli  impegni  del legislatore del 1985 vengono ammessi a
 sanatoria abusi formali ma anche abusi sostanziali (fino al  dicembre
 1993)   cosicche'  viene  a  cadere  proprio  il  salvifico  sostegno
 costituzionale che la Corte  con  la  sentenza  n.    369/1988  aveva
 individuato.   Poche altre considerazioni da esporre sul punto.  Qual
 e' la giustificazione (nei termini costituzionali  cui  si  e'  fatto
 riferimento) di questo nuovo condono?
    E' lecito chiedersi se l'effettiva e malcelata motivazione non sia
 solo  o  prevalentemente  quella di reperire fondi per le casse dello
 Stato, cfr. pure quanto argomentato al paragrafo  7  infra  circa  la
 portata logica degli artt. 32 e 33 della legge n. 47/1985 per il caso
 di  opere  non  sanabili  e  che  pure  merce'  pagamento  di  denaro
 conseguono la estinzione del reato.
    Potrebbe essere questo un valido sostegno costituzionale?
    Al remittente, proprio in base all'autorevole  insegnamento  della
 Corte, non sembra proprio.
    Si puo' forse ipotizzare che vi siano nuove "illegalita' di massa"
 da chiudere?
    E  pur  ipotizzando  una  risposta  positiva  e' accettabile, alla
 stregua dello scrutinio  costituzionale  richiesto  dalla  Corte  nei
 termini  sopra  ricordati,  un  nuovo  condono  e piu' specificamente
 quello contenuto nella legge n. 725/1994?   A tale  domanda  solo  la
 Corte  costituzionale  puo' dare adeguata ed autorevole risposta.  Il
 remittente  puo'  solo  esporre  alcuni  dubbi  relativi  alle  norme
 impugnate.  L'art. 39, che e' la fonte diretta dell'attuale normativa
 premiale,   e'  collocato  nelle  "disposizioni  varie"  della  legge
 finanziaria 23 dicembre 1994. Come e' noto a tutti, per essere  stato
 ripetuto  in  ogni  occasione e sede dagli ispiratori del condono, la
 sua ragion d'essere  riposa  nella  necessita'  di  reperire  cespiti
 finanziari attraverso vie diverse dalla tassazione diretta.
    Se  cosi'  fosse,  v'e'  da  temere  una  disordinata svendita del
 territorio, nel senso che, con l'unico  reale  obiettivo  di  reperir
 soldi, si rinuncierebbe da parte dello Stato alla tutela dei beni che
 le norme urbanistiche sono deputate a proteggere.
    Abusivismo  significa,  fra l'altro, costruzioni fatte dai privati
 con la massimizzazione del profitto, con lo  sfruttamente  esasperato
 dei  lotti  disponibili,  con  immobili  vicini  fra  loro,  senza il
 rispetto degli standards urbanistici, con assenza di  spazi  adeguati
 per  strade, parcheggi, parchi e giardini, servizi pubblici in genere
 e quant'altro caratterizza il vivere  in  un  contesto  ambientale  a
 misura  d'uomo.  In  tale  ambito  vengono  spesso a mancare o essere
 carenti  luoghi e occasioni di lecita aggregazione per i giovani e si
 crea un favorevole terreno per lo sviluppo della delinquenza.
    Non si vede proprio in qual modo le norme censurate possano avere,
 anche indirettamente, un effetto positivo per  il  territorio  e  per
 l'ambiente.    Qualsiasi  tentativo di individuare un qualche effetto
 positivo di ritorno per il territorio e l'ambiente da tali  norme  e'
 destinato a naufragare sol se si considera che, non operando le leggi
 premiali,  di  regola,  distinzioni  fra  abusi  sostanziali  e abusi
 formali e' impedito agli  enti  territoriali  di  adottare  qualsiasi
 efficace manovra di intervento e di governo del territorio, dovendosi
 essi  nella sostanza limitare a prendere atto degli abusi perpetrati.
 Non vi e' quindi il controllo da parte degli  organi  pubblici  dello
 sviluppo del territorio, ma piuttosto e' il contrario, e' lo sviluppo
 del  territorio, anche quello arbitrario disordinato e abusivo che si
 impone agli organi pubblici, impedendo l'attuazione delle  scelte  di
 programmazione  degli usi e degli insediamenti del territorio.  Posto
 che nella legge n. 725/1994 la normativa  del  condono  e'  riassunta
 nell'art.  39  senza  che vi siano altre norme in tema di edilizia ed
 urbanistica,  c'e'  da  chiedersi  se  a  salvare,  in   termini   di
 costituzionalita',   vale  a  dire  di  benefici  per  il  territorio
 nell'accezione  offerta  dalla   ricordata   sentenza   della   Corte
 costituzionale,  la  normativa in tema di condono possano intervenire
 altre norme, contenute in altre fonti.
    Sono infatti note le vicende dei decreti-legge 26 luglio 1994,  n.
 468,  27 settembre 1994, n. 551 e del successivo 25 novembre 1994, n.
 649.
    In via preliminare v'e' da dubitare che  una  siffatta  operazione
 sia  consentita, posto che cosi' opinando il termine di raffronto (in
 punto di ricerca delle norme che dovrebbero manifestare  l'attenzione
 posta  dal  legislatore  al bene tutelato dalla norma su cui opera il
 condono) di una certa normativa  premiale  diventa  del  tutto  vago,
 generico,  diluibile  in una moltitudine indeterminata nell'oggetto e
 nel tempo di provvedimenti.
    In ogni caso, diversamente opinando, vale allora ricordare  quanto
 osservato  da  questo  pretore nella eccezione di incostituzionalita'
 sollevata nel procedimento penale avverso Luciani Bruna con ordinanza
 del 6 ottobre 1994 (pubblicata  in  Gazzetta  Ufficiale  -  1a  serie
 speciale  n.  49  del  30  novembre  1994) in merito alle altre norme
 contenute nel decreto-legge n. 551/1994 (ed  in  quelli  successivi),
 cui  va  aggiunto il rilievo che solo per le opere abitative e' stato
 posto un limite di cubatura, in ogni altro caso qualsiasi  dimensione
 dell'abuso non rilevando.
    6.  -  La  violazione delle autonomie locali.  Gli artt. 117 e 118
 della  Costituzione  prevedono  che  lo  Stato   detta   in   materia
 urbanistica  principi  fondamentali  mentre  la  normazione diretta e
 primaria   compete   alla   regione,   che   esercita   le   funzioni
 amministrative  in  questa  materia  direttamente  e/o delegandole ai
 comuni.  I comuni (come le province) "sono enti autonomi  nell'ambito
 dei  principi  fissati  da  leggi  generali  della  Repubblica che ne
 determinano le  funzioni"  (art.  128  della  Costituzione).    Nella
 materia  urbanistica  con  il  d.P.R. n. 616/1977 sono state delegate
 alle regioni le relative funzioni amministrative dello Stato e  degli
 enti  pubblici, salve le eccezioni di cui all'art. 80.  Ad avviso del
 remittente e' forte il sospetto che il condono del  1994  violi  tali
 norme  laddove,  anche  in presenza di abusi sostanziali, ne consente
 egualmente e come regola la sanatoria.  In primo luogo va evidenziata
 la rilevanza della questione.  Gli abusi consistenti  nella  mancanza
 della  concessione,  nella  totale  difformita'  e  nelle  variazioni
 essenziali comportano le conseguenze previste dall'art. 7 della legge
 n. 47/1985.  L'abuso contestato all'imputato, e' per la ragione supra
 spiegata, di carattere sostanziale.   Si tratta cioe'  di  violazione
 urbanistica  ordinariamente non sanabile, nel senso che gli strumenti
 urbanistici del comune in questione non consentono in nessun modo  ed
 a  nessuna  condizione  la  realizzazione di un'opera siffatta che se
 esistente non puo' che essere e  rimanere  abusiva  ed  esposta  alle
 sanzioni  previste  dalla  legge (art. 7 della legge n. 47/1985).  Le
 ragioni di cio' sono evidenti: il  governo  del  territorio,  se  non
 vuole essere una parola priva di senso, presuppone la presenza (ed il
 rispetto)  di  precise  programmazioni  dell'uso  del  territorio, il
 rispetto di standards (cfr. sul punto il fondamentale d.m.  2  aprile
 1968),  la  sussistenza o la previsione di infrastrutture adeguate al
 tipo di insediamenti (opere di urbanizzazione primaria e secondaria),
 ecc.
    Con la sanatoria degli abusi sostanziali  si  impongono  da  parte
 dello   Stato   all'ente  territoriale  scelte  altrui  (in  tema  di
 zonizzazione, di cubature, di standards  ecc.)  confliggenti  con  le
 regole   autodettate  dal  comune  stesso  in  tema  di  governo  del
 territorio.
    Non si tratta, in questo caso, di principi fondamentali in materia
 urbanistica, per i quali lo  Stato  avrebbe  competenza,  poiche'  e'
 invece  l'esatto  contrario.  Con  il  condono si impone al comune di
 accettare  e  di  inserire  nella  programmazione  futura   del   suo
 territorio  la  piu' irrazionale casualita' edilizia di opere abusive
 di ogni genere e collocazione.
    E cosi' ad es. una zona che era stata  destinata  all'agricoltura,
 la  legge  dello  Stato,  mediante il condono dei manufatti di civile
 abitazione realizzati illecitamente sul quell'area, destina ad  altro
 e   diverso  uso.     Puo'  tale  normativa  trovare  giustificazione
 costituzionale  in  una  (piu'  o  meno  vera)  inerzia  del   comune
 nell'adozione dei provvedimenti tesi al rispetto della legalita'?
    L'assunto,  la  cui  rispondenza  al vero (specialmente in termini
 quantitativi) e' tutta da dimostrare, come pure da dimostrare  e'  la
 sua  rilevanza ai fini di parare la eccezione di incostituzionalita',
 non ha comunque pregio  posto  che  neanche  la  dimostrata  concreta
 esistenza  di  una  positiva  attivita' di controllo e di repressione
 dell'abusivismo da parte del  comune  serve,  secondo  la  legge,  ad
 impedire  la  sanatoria  (cfr.  art.  43, primo e quinto comma, della
 legge n. 47/1985 e art. 39,  comma  diciannovesimo,  della  legge  n.
 725/1994).
    7. - L'area e l'immobile oggetto del giudizio non sono interessati
 da  vincoli,  cionondimeno ritiene il pretore che ai fini di valutare
 la costituzionalita' delle norme del c.d.  condono  edilizio  occorra
 esaminarne la struttura complessiva.
    L'art.  9  della  Costituzione tutela il paesaggio e il patrimonio
 storico e artistico della Nazione.
    Ad avviso del remittente le norme del condono che hanno ad oggetto
 opere edilizie realizzate in zone vincolate ed  in  particolare  agli
 artt.   32   e   33   della   legge   n.   47/1985  sono  viziati  da
 incostituzionalita'.  Ed invero premesso che l'unico (in  termini  di
 effettiva  rilevanza)  vero  limite assoluto e non discrezionale alla
 sanatoria di opere realizzate in aree vincolate e'  costituito  dalle
 ipotesi  dell'art.  33  della  stessa legge, non si puo' non rilevare
 come il vincolo di inedificabilita' ivi  presupposto  e'  fattispecie
 notoriamente non frequente da riscontrare nella realta'.
    Nei  casi  previsti dall'art. 33 mentre e' esclusa la possibilita'
 di concessione in sanatoria, la  estinzione  del  reato  e'  comunque
 conseguibile  merce'  il  semplice pagamento della oblazione: poiche'
 questo vale anche per i processi in corso o piu' in genere per i casi
 in cui all'entrata in vigore delle norme del  condono  l'abuso  fosse
 stato  gia' in precedenza scoperto dalle pubbliche autorita' vi e' la
 testimonianza incontrovertibile, non  valendo  in  tal  caso  neppure
 l'argomento  della  funzione  che  le  norme  premiali  avrebbero  di
 spingere i privati a denunciare e sanare gli abusi,  che  l'obiettivo
 delle  norme  sul condono e' esclusivamente quello di reperire denaro
 per le casse dello Stato.
    La stragrandissima  maggioranza  degli  abusi  comunque,  riguarda
 ipotesi  di vincoli relativi dove la possibilita' di edificare non e'
 del tutto esclusa bensi' condizionata dal rilascio di nulla  osta  ed
 autorizzazioni  (cosi' ad es. per le fattispecie previste dalla legge
 n. 431/1985 nonche' per tutti i decreti ministeriali e  regionali  di
 vincolo  ai  sensi  della  legge  n.  1497/1939).    In  tali casi la
 sanatoria e' condizionata al parere favorevole  degli  enti  preposti
 alla gestione del vincolo.
    In  caso di parere (definitivo) negativo il pagamento della intera
 oblazione comunque estingue  il  reato,  sicche'  valgono  le  stesse
 considerazioni espresse poc'anzi a proposito dell'art. 33.
    Secondo  il remittente le norme impugante ed in particolare l'art.
 32 solo apparentemente riservano ai  beni  sottoposti  a  vincolo  un
 trattamento  normativo  differenziato  rispetto ai beni che vincolati
 non sono; consentendo nella generalita' dei casi e per forza di  cose
 la sanatoria degli abusi commessi nelle zone vincolate.
    Ed  invero  la  legge  non  prevede  per  i pareri (preliminari al
 condono)  di  competenza  degli  organi  tutori  alcun  parametro  di
 riferimento predeterminato e obiettivo.
    Come  si puo', in tale contesto, legittimamente concedere o negare
 un parere? Secondo quale criterio?
    Si deve forse valutare se il territorio avrebbe avuto un  migliore
 assetto  senza  l'abuso in esame con il rischio in tal caso di negare
 ogni parere  favorevole?  Ovvero  bisogna  valutare  se  l'abuso  non
 deturpa  affatto o deturpa si' l'ambiente ma fino a un certo punto? E
 qual e' questo punto? E i piani paesistici (che costituiscono  com'e'
 noto  il  riferimento  d'obbligo  per  le amministrazioni preposte al
 rilascio degli ordinari nulla osta ambientali) che ruolo svolgono  in
 tal  contesto?  Vi  si puo' derogare da parte degli organi tutori?  E
 laddove non si tratta di valutazioni  in  termini  estetici  ma  alla
 stregua di altri parametri (si pensi ad un vincolo di uso civico dove
 e'  improprio fare riferimento alla bellezza dei luoghi) quali sono i
 parametri  da  adottare?      La   assenza   totale   piu'   che   la
 indeterminatezza  di  criteri di riferimento per un parere che quindi
 assomiglia ad un mero passaggio burocratico maschera  in  realta'  la
 pretermissione di una reale attenzione alla tutela dei beni vincolati
 (destinati,  come  la  precedente esperienza del condono edilizio del
 1985  insegna,  a  sanatorie  di  massa direttamente o indirettamente
 anche a seguito della infinita durata dei giudizi di impugnazione dei
 silenzi-rifiuto)  ed  in  cio'  si  sospetta  annidarsi  la  eccepita
 incostituzionalita' delle norme in questione.
    8.  -  L'art.  41  della  Costituzione  prescrive che l'iniziativa
 economica privata non puo'  svolgersi  in  contrasto  con  l'utilita'
 sociale o in modo di recare danno alla sicurezza, alla liberta', alla
 dignita' umana.
    Se  si  ritiene che le norme del condono abbiano un supporto nella
 volonta' di contribuire, tramite esse, allo sviluppo della economia e
 della iniziativa privata (rilancio del settore dell'edilizia) occorre
 chiedersi se per tutte le ragioni espresse nell'ordinanza non vi  sia
 un  vulnus  nella assenza, nelle norme in questioni, di attenzione ai
 beni cui l'art. 41 della Costituzione fa' riferimento.
    Non v'ha dubbio infatti che nei concetti di utilita' sociale e  di
 liberta'  e  di  dignita'  umana  sia  ricompreso  il diritto di ogni
 cittadino di vivere in un ambiente non  degradato  e  di  godere  del
 territorio  in  un  contesto  di  sviluppo dello stesso conforme alle
 leggi ed agli strumenti urbanistici.  Questo vale per i cittadini che
 non hanno commesso abusi edilizi e che si trovano a dovere sopportare
 il peso delle conseguenze  di  illeciti  da  altri  commessi,  ma  in
 definitiva  vale  anche  per gli autori degli illeciti ai quali vanno
 imposti, anche a prescindere dalle loro volonta' trattandosi di  beni
 indisponibili,  regole e modelli di sviluppo territoriale accettabili
 in quanto conformi alle leggi ed alle norme urbanistiche.
    Ne' varrebbe osservare che le norme del condono tendono  anche  ad
 assicurare   l'urbanizzazione   ed   i   servizi  che  proprio  negli
 insediamenti abusivi difettano.
    Cosi' operando ci si immette, ad avviso del remittente nell'aporia
 di una assurda  e  paradossale  spirale  in  cui  si  adattano  e  si
 conformano  le  scelte  dei  pubblici  poteri ai comportamenti, anche
 devianti, dei privati  quando  invece  dovrebbero  accadere  l'esatto
 inverso  ossia  che  siano  i  privati  a  dovere  conformare  i loro
 comportamenti alle leggi. E che gli abusi debbano  essere  perseguiti
 in tutte le forme ed i modi previsti dalle leggi.
    Tali     rilievi    sembrano    dar    forza    alla    sospettata
 incostituzionalita' delle norme del condono oltre che in  riferimento
 all'art.  41  della  Costituzione anche in relazione agli artt. 2 e 3
 della Costituzione nel senso che nella materia  in  cui  trattasi  le
 norme   impugnate  confliggono  con  la  necessaria  tutela  di  beni
 (diritti) di rango costituzionale, favorendo irrazionalmente condotte
 illecite dei privati.
    9. - L'ultimo profilo di incostituzionalita'  che  questo  pretore
 sottopone  al  giudizio  della Corte si articola in censure attinenti
 alla violazione del diritto di proprieta'  dei  comuni  in  relazione
 agli  artt.  3,  42,  119  e  128  della  Costituzione;  nonche' alla
 violazione dell'art.  3  della  Costituzione  sotto  l'aspetto  della
 contraddittorieta'  ed  irrazionalita'  della normativa impugnata che
 consente ad un soggetto non titolare del diritto  di  farlo  tuttavia
 valere  contro chi ne e' invece il titolare.  L'art. 7 della legge n.
 47/1985,  quanto  alle  ipotesi  di  opere  eseguite  in  assenza  di
 concessione  edilizia,  in  totale  difformita' ovvero con variazioni
 essenziali, stabilisce che il sindaco debba emettere un'ordinanza  di
 demolizione.   Se   il  responsabile  dell'abuso  non  provvede  alla
 demolizione  ed  al  ripristino dello stato dei luoghi nel termine di
 novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime,  nonche'
 quella necessaria, secondo le vigenti disposizioni alla realizzazione
 di  opere  analoghe  a  quelle  abusive,  sono  acquisiti  di diritto
 gratuitamente al patrimonio  comunale.    Secondo  la  giurisprudenza
 amministrativa  (cfr.  Consiglio  di  Stato,  cfr. sez. V, 23 gennaio
 1991, n. 66 in Giust. Civ. 1991 I, 1599; T.A.R.  Abruzzo  15  gennaio
 1990,  n.  19  in  F.I.  1991,  III,  101) l'acquisizione gratuita al
 patrimonio pubblico comunale delle opere abusive si  verifica,  senza
 che  occorrano  altri  requisiti  oggettivi,  quando  sia  decorso il
 termine  fissato  dalla  legge  dalla  notificazione   dell'ordinanza
 sindacale  di  ripristino dello stato dei luoghi.  Secondo altra tesi
 invece (che ha trovato recente eco in una pronuncia della  Cassazione
 penale)    l'effetto    traslativo   si   verificherebbe   solo   con
 l'accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a demolire e  con
 l'immissione  in  possesso e la trascrizione nei registri immobiliari
 (di cui al comma 4 dell'art. 7  della  legge  n.  47/1985).    Se  si
 condivide  la  prima tesi (che appare del tutto conforme alla lettera
 dell'art. 7 e  alle  regole  del  diritto  civile,  dove  possesso  e
 trascrizione   non  sono  di  regola  funzionali  all'acquisto  della
 proprieta' se non casi eccezionali, ad es. per una particolare specie
 di usucapione), si deve convenire che e' il  comune  il  proprietario
 dell'immobile  oggetto  della  ingiunzione  in tutti i casi in cui il
 provvedimento amministrativo abbia  potuto  validamente  esplicare  i
 suoi   effetti  (non  sia  stato  sospeso  o  annullato  dal  giudice
 amministrativo).   L'art. 43  della  legge  n.  47/1985  prevede  che
 "l'esistenza  di  provvedimenti  sanzionatori  non  ancora  eseguiti,
 ovvero ancora impugnabili o nei cui  confronti  pende  l'impugnazione
 non impedisce il conseguimento della sanatoria".
    Il   senso   della  norma  e'  che  quand'anche  un  provvedimento
 sanzionatorio  sia  divenuto  definitivo   il   conseguimento   della
 sanatoria   e'   ancora   possibile   sol  che  esso  non  sia  stato
 materialmente eseguito.
    Poiche' un provvedimento sanzionatorio per  eccellenza  e'  quello
 con   il  quale  il  comune  ordina  al  responsabile  dell'abuso  la
 demolizione puo' ritenersi che la norma in esame, in relazione ad una
 siffatta situazione (ordinanza di demolizione per la quale e' decorso
 il termine di novanta  giorni  dall'ingiunzione  e  che  e'  divenuta
 definitiva), consenta che il responsabile dell'abuso possa conseguire
 la sanatoria.
   Ma il responsabile dell'abuso non e' piu' proprietario del bene che
 e'  invece del comune, sicche' ogni sua attivita' (come la domanda di
 concessione di sanatoria) relativa all'immobile in questione  avviene
 a  non domino.  La norma che consente cionondimeno ad un soggetto non
 legittimato il conseguimento  della  sanatoria  appare  (almeno  alla
 stregua  di tale interpretazione) un monstrum giuridico, confliggente
 con le norme costituzionali sopra indicate,  ed  incoerente  con  gli
 stessi  presupposti  in  via generale previsti dalla legge n. 47/1985
 (in tema di soggetti abilitati a proporre la domanda, cfr.  art.  31,
 primo  comma),  cui  e' arduo trovare spiegazioni costituzionali.  Il
 comma diciannove dell'art. 39 della legge n.  725/1994  dispone,  con
 esclusione  dei  casi  in  cui  le  opere  siano  state  destinate ad
 attivita' di pubblica utilita' e facendo salvi eventuali diritti  dei
 terzi  sugli immobili, che "per le opere abusive divenute sanabili in
 forza  della  presente  legge,  il proprietario che ha adempiuto agli
 oneri previsti per la sanatoria ha diritto di ottenere l'annullamento
 delle acquisizioni al patrimonio comunale  ..  dietro  esibizione  di
 certificazione  comunale  attestante  l'avvenuta  presentazione della
 domanda  di  sanatoria  ..".    La  norma  pare  conformarsi  ad   un
 orientamento  gia'  emerso  nella giurisprudenza amministrativa (cfr.
 Cons. Stato, 25 ottobre 1993, n.   1080,  in  F.I.  Rep.  1993,  voce
 edilizia ed urbanistica m. 812).  Orbene, posto che proprio in virtu'
 della  consolidata e ricordata giurisprudenza del Consiglio di Stato,
 l'acquisizione al patrimonio comunale si verifica  sulla  base  della
 ordinanza  di  demolizione notificata (e' non sospesa o annullata dal
 giudice competente), non si comprende in termini giuridici come e  in
 che  modo  il tipo di utilizzo fatto delle opere abusive da parte del
 comune possa essere rilevante ed influire su una vicenda  acquisitiva
 gia' definita.
    Premesso  che il concetto giuridico di proprieta' riferito al bene
 acquisito in base al meccanismo di cui  all'art.  7  della  legge  n.
 47/1985  non  ha  nulla  di diverso (se non appunto nel meccanismo di
 acquisizione)   dal   concetto   giuridico   di   proprieta'    quale
 ordinariamente concepito, va segnalato quanto segue.
    Si  parla  di  annullamento,  ma certamente a sproposito posto che
 l'acquisizione ex art. 7 della legge  n.  47/1985  si  e'  verificata
 legittimamente  ed  in  modo conforme ad una norma di legge (l'art. 7
 stesso) vigente ora ed allora.
    Si puo' ipotizzare allora una sorta di espropriazione a danno  del
 comune,  che  si verifica pero' senza alcun corrispettivo a favore di
 questi (e che non vi sia  corrispettivo  e'  fatto  incontrovertibile
 posto  che sia l'oblazione che gli oneri concessori non possono avere
 altro valore che quello loro proprio, come  dimostra  la  circostanza
 che  entrambi sono dovuti anche nei casi di condono diversi da quelli
 disciplinati  dal  diciannovesimo  comma  dell'art.  39  in   esame).
 Ulteriore   aspetto   di  irragionevolezza  della  norma  e'  che  il
 trasferimento  dell'immobile  avviene  sulla  base   della   semplice
 "esibizione   di   certificazione   comunale   attestante  l'avvenuta
 presentazione della domanda di  sanatoria"  sicche'  si  consente  il
 trasferimento  di  proprieta'  dal  comune  al  privato  senza alcuna
 certezza dell'esito favorevole (che potrebbe anche  difettare)  della
 domanda  di  condono.   La questione e' nel processo de quo rilevante
 posto che agli imputati veniva notificata ingiunzione a demolire  dal
 sindaco  del  comune  ove  e' sito l'immobile e il provvedimento, pur
 impugnato davanti al giudice amministrativo non risulta sospeso nella
 sua esecutorieta'.
                               P. Q. M.
    Visto l'at. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara rilevanti e non manifestamente infondate le questioni  di
 legittimita'  costituzionale  dell'art.  39  della  legge 23 dicembre
 1994, n. 725 nonche', in quanto da questo richiamate e fatte proprie,
 le disposizioni di cui al capo IV e V della legge 28  febbraio  1985,
 n.  47  e  successive  modifiche  ed integrazioni in riferimento agli
 artt. 2,  3,  9,  41,  42,  79,  112,  117,  118,  119  e  128  della
 Costituzione italiana per le ragioni espresse in motivazione;
    Ordina  la trasmissione degli atti relativi al procedimento penale
 n. 205/1995 a carico di Marchionne Maria Teresa  e  di  Aiossa  Bruno
 alla Corte costituzionale per il relativo giudizio;
    Ordina  che  a  cura  della  cancelleria la presente ordinanza sia
 comunicata al Presidente del Consiglio dei Ministri e  comunicata  ai
 Presidenti dei due rami del Parlamento.
      Bracciano, addi' 2 febbraio 1995
                         Il pretore: MORICONI
 
 95C0364