N. 221 ORDINANZA (Atto di promovimento) 24 gennaio 1995

                                N. 221
 Ordinanza  emessa  il  24  gennaio  1995  dal  pretore  di  Terni nel
 procedimento penale a carico di Rosi Ivana, n.q.
 Ambiente (tutela dell')  -  Inquinamento  -  Rifiuti  (nella  specie:
    sostanze residue da ciclo produttivo) - Esclusione dalla categoria
    se quotati in borse merci o in listini mercuriali istituiti presso
    le locali Camere di commercio - Conseguente inapplicabilita' della
    disciplina penale in tema di rifiuti - Disparita' di trattamento a
    seconda  che il materiale sia o meno incluso nei listini ufficiali
    della Camera di commercio  nelle  diverse  regioni  -  Lesione  di
    certezza  e  di  riserva  di  legge del diritto penale, nonche' di
    adeguamento dell'ordinamento  giuridico  italiano  alle  norme  di
    diritto    internazionale    generalmente   riconosciute   e,   in
    particolare, con le direttive CEE - Mancata  tutela  della  salute
    pubblica  e  dell'ambiente  -  Penalizzazione  per  le imprese che
    abbiano affrontato ingenti investimenti  per  lo  smaltimento  dei
    rifiuti in armonia con le esigenze dell'ambiente.
 (D.-L. 7 gennaio 1995, n. 3).
 (Cost., artt. 3, 9, 10, 25, 32 e 41).
(GU n.17 del 26-4-1995 )
                              IL PRETORE
    Ha  pronunciato  la  seguente ordinanza nel procedimento penale n.
 1461/1994 a carico di Rosi Ivana, imputata "del reato di cui all'art.
 25,  primo  comma,  del  d.P.R.  n.  915/1982  perche'  quale  legale
 rappresentante   della   ditta   Center  Plast  gestiva  impianto  di
 innocuizzazione  e  spaltimento di rifiuti speciali prodotti da terzi
 quali plastica senza autorizzazione" (in Terni, accertato nel  giugno
 1993), osserva quanto segue.
    La  difesa  ha preliminarmente richiesto immediata declaratoria di
 non doversi procedere per il reato citato assumendo che il fatto  non
 e' piu' previsto dalla legge come reato ai sensi del decreto-legge n.
 3 del 7 gennaio 1995, art. 12, in quanto i rifiuti (materie plastiche
 ed altro) per cui e' processo sono considerati residui riutilizzabili
 dal d.m.  5 settembre 1994.
    Il  p.m.  di  udienza,  dott.ssa Rinaldi Cristina, si e' opposto a
 detta istanza ed ha richiesto a  questo  pretore  di  dichiarare  non
 manifestamente  infondata la questione di legittimita' costituzionale
 del decreto-legge citato, nella sua stesura integrale,  intesa  nella
 sinergia  inscindibile di tutti gli articoli interconnessi, in quanto
 in contrasto con gli artt. 3, 9, 10, 25, 32 e 41 della Costituzione e
 con le direttive CEE in materia di rifiuti.
    Asseriva il p.m.:
    "Rilevato  che  nell'odierno  processo  la   difesa   ha   chiesto
 l'applicazione  della  normativa  di  cui al d.-l. n. 3 del 7 gennaio
 1995 in relazione all'imputazione  contestata  e  che  pertanto  tale
 normativa  deve  ritenersi  potenzialmente  applicabile,  seppur  non
 citata, nel capo  in  contestazione,  ritiene  che  il  d.-l.  stesso
 contenga  precetti in contrasto con la Costituzione della Repubblica.
 In particolare  ritiene  il  p.m.  che  il  d.-l.  citato  nella  sua
 integrita'   normativa,   in   quanto   contenente   norme  tra  loro
 inscindibilmente connesse e comunque in particolare  il  precetto  di
 cui  agli artt. 2 e 12 e degli articoli in essi richiamati, del d.-l.
 piu' volte citato, come  tali  applicabili  al  d.P.R.  n.  915/1982,
 contrasti  con  gli  artt.  3, 9, 10, 25, 32 e 41 della Costituzione.
 Cio' perche' opera  preliminarmente  una  disparita'  di  trattamento
 inconciliabile  con  i  principi  generali  dettati dall'art. 3 della
 Costituzione. Infatti premesso che i materiali  derivanti  dal  ciclo
 produttivo  dell'azienda  sono  stati  fino  ad  oggi considerati per
 costante indirizzo giurisprudenziale  come  rifiuti  dalla  Corte  di
 cassazione,  si  rileva  che  oggi invece se gli stessi sono indicati
 come residui e risultano inseriti nel listino mercuriale della camera
 di commercio locale, consegue che questi materiali sfuggono al regime
 dei rifiuti  e  sono  di  fatto  depenalizzati;  mentre  coloro  che,
 producendo  medesimi  rifiuti  in  localita'  differenti,  oggetto di
 diversa determinazione da parte della  camera  di  commercio  locale,
 potrebbero  vedere  in  base a tale diversa valutazione soggiacere la
 propria posizione a diversa sanzione anche penale. Ritiene il p.m. il
 contrasto tra il d.-l.   citato e  l'art.  9  della  Costituzione  in
 quanto  antitetico  con i principi generali concernenti la tutela del
 paesaggio e del patrimonio  ambientale  del  Paese  considerato  alla
 stregua della piu' recente giurisprudenza della Corte di cassazione e
 della  Corte costituzionale; ancora rispetto all'art. 10 in quanto in
 contrasto  con  i  principi  dettati  dalle  normative  e   direttive
 comunitarie  in materia. Infine in contrasto con i rimanenti articoli
 sopra citati per la non osservanza dei precetti ivi  contenuti.  Cio'
 premesso  ritiene il p.m. rilevante e non manifestamente infondata la
 questione  di  costituzionalita'  sollevata  nel  presente   giudizio
 chiedendo  altresi' che la questione venga portata a conoscenza della
 Corte  di  giustizia europea con richiesta di sentenza interpretativa
 nel merito della materia in relazione alle direttive europee".
    Rileva il pretore che la questione sollevata dal p.m. merita esame
 in quanto  direttamente  pertinente  e  pregiudiziale  rispetto  alla
 materia processuale in questione.
    Al riguardo osserva il pretore quanto segue.
    1) La disciplina giuridica del settore ha fino ad oggi considerato
 come  rifiuti tutti i residui derivanti da processi produttivi, anche
 se  riutilizzabili,  escludendo,  allo  stato,  la  possibilita'   di
 evoluzione diretta dei rifiuti in materie prime secondarie.
    Costituisce  cristallizzazione  di  questo  principio  la basilare
 sentenza delle sezioni unite della Cassazione n. 5 in data 29  maggio
 1992 - Ud. 27 marzo 1992 - lmp. Viezzoli:
    "In  tema  di  smaltimento  di rifiuti industriali, con il d.-l. 9
 settembre 1988, n. 397, conv. in legge 9 novembre 1988, n. 475, si e'
 inteso riservare un regime  giuridico  diverso  da  quello  cui  sono
 sottoposti  i  rifiuti  in  generali  residui  derivanti  da processi
 produttivi,  suscettibili  di  riutilizzazione,  qualificabili,  come
 materie   prime   secondarie   ai   sensi   dell'art.   2  del  detto
 decreto-legge. Peraltro nel  menzionato  art.  2  il  legislatore  ha
 dettato  solo  una  normativa-quadro,  di tal che, perche' a siffatti
 residui sia applicabile la nuova disciplina in deroga, e'  necessario
 che  siano  prima emanate le norme di cui ai commi quarto e sesto del
 predetto articolo. Ne consegue che sino a tale momento  alle  materie
 prime  secondarie  continua  ad applicarsi la disciplina generale sui
 rifiuti di cui al d.P.R. 10 settembre 1982, n.  915.  (Nell'affermare
 il principio di cui in massima la Cassazione ha anche evidenziato che
 le  materie prime secondarie, proprio perche' si tratta pur sempre di
 sostanze di cui il donatore si disfa o ha l'intenzione  di  disfarsi,
 non  rappresentano  una categoria autonoma ed alternativa rispetto ai
 rifiuti veri e propri, ma ne costituiscono solo una specie, sia  pure
 particolare,  attesa  la  loro  provenienza  e  la loro attitudine ad
 essere utilizzate come materie prime in altri processi produttivi)".
    In tale contesto la giurisprudenza ha fino ad oggi  affermato  che
 nella generale categoria dei rifiuti rientrano non solo le sostanze e
 gli  oggetti che si possono considerare tali sin dall'origine (ad es.
 immondizie), ma anche quelle sostanze ed oggetti non  piu'  idonei  a
 soddisfare i bisogni cui essi erano originariamente destinati, pur se
 non   ancora  privi  di  valore  economico,  sicche'  "abbandonato  o
 destinato all'abbandono" va inteso non nel senso civilistico  di  res
 nullius o di res derelicta, disponibile alla apprensione di chiunque,
 sebbene  di  sostanza  od oggetto ormai inservibile alla sua funzione
 originaria, dismesso o destinato ad essere dismesso da colui  che  lo
 detiene, anche mediante un negozio giuridico. (cfr Cass. sez. III, 26
 febbraio 1991, n. 2607 - imp. Lunardi).
    Consegue  che,  nella  dottrina  e  giurisprudenza  fino  ad  oggi
 tracciata, se quello sopra delineato e' il concetto  di  rifiuto,  e'
 evidente  allora che "le materie prime secondarie, proprio perche' si
 tratta pur sempre di sostanze di cui  il  detentore  si  disfa  o  ha
 l'intenzione  di  disfarsi,  lungi  dal  rappresentare  una categoria
 autonoma ed alternativa dei rifiuti veri e propri,  ne  costituiscono
 solo  una  specie, sia pure particolare, attesa la loro provenienza e
 la loro attitudine ad essere utilizzate come materie prime  in  altri
 processi   produttivi".  (cfr  motivazione  citata  sentenza  sezioni
 unite).
    2)  La giurisprudenza italiana, e comunitaria, ha sempre rifiutato
 di accogliere la tesi che un rifiuto, se riutilizzabile, non e'  piu'
 un  rifiuto, con la conseguente deregolamentazione e sottrazione alla
 disciplina specifica in materia (in Italia, il d.P.R. n. 915/1982).
    Va rilevato  che  la  sentenza  "interpretativa"  n.  359  del  14
 febbraio  1988  della  Corte  europea di giustizia precisava che "una
 normativa nazionale  la  quale  adotti  una  definizione  di  rifiuto
 escludente  le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione
 economica  non  e'  compatibile  con  le  direttive  CEE"  (riportata
 integralmente in Amendola - "Inquinamento ed industria" - Roma 1992).
    3)  Le  direttive  CEE  n.  156  del 18 marzo 1991 e n. 689 del 12
 dicembre 1991 ed il regolamento n. 259 del 1 febbraio 1993, ancora da
 recepire in Italia, hanno impostato un criterio a livello europeo per
 disciplinare alla radice il  concetto,  creando  il  principio  delle
 materie prime secondarie con connesse procedure semplificate per quei
 residui destinati al riutilizzo o alla produzione di energia.
    Va   sottolineato,  al  riguardo,  che  in  particolare  la  nuova
 direttiva-quadro 91/156 (per la quale e' scaduto il 1 aprile 1993  il
 termine  ultimo  per  il recepimento in Italia) delinea da un lato in
 modo particolareggiato l'ambito dei rifiuti  recuperabili,  definendo
 sia  le  operazioni  di  recupero  sia  i rifiuti che ad esse possono
 essere   sottoposti   (senza   equivoci   di   carattere   soggettivo
 unilaterale),  e dall'altro autorizza adempimenti semplificati per le
 operazioni che li riguardano. (cfr Amendola -  "I  rifiuti  normativa
 italiana e comunitaria" - Milano 1992).
    4)  In  detto  contesto  si  inserisce  la  decretazione d'urgenza
 operata nel nostro Paese in materia, il cui ultimo  provvedimento  e'
 costituito dal decreto-legge n. 3 del 7 gennaio 1995.
    Ad   avviso  dello  scrivente  pretore  il  citato  decreto-legge,
 prevedendo principi che tendono a sottrarsi alla disciplina  fino  ad
 oggi  delineata  dalla  dottrina  e  dalla giurisprudenza nazionale e
 comunitaria come sopra esposta, si pone in contrasto con le direttive
 CEE in materia.
    5) In primo luogo si rileva che sussiste netto  contrasto  con  le
 normative  di settore esistenti e le sentenze della Cassazione, della
 Corte costituzionale e della Corte europea di giustizia  laddove  con
 un  semplice  espediente  terminologico  si  sottraggono in blocco ed
 all'improvviso alla disciplina del d.P.R.  n.  915/1982  (che  regola
 anche  i  rifiuti  da  recuperare  e riutilizzare) ed alla disciplina
 comunitaria (che li chiama "rifiuti  destinati  al  recupero")  tutti
 quei  rifiuti  che  vengono ribattezzati "residui" e non si chiarisce
 mai espressamente se essi rientrano nella categoria dei "rifiuti".
    Va osservato che la categoria dei "residui" (definiti dall'art.  3
 -  g  -  "sostanze  residuali  suscettibili di essere utilizzate come
 materia prima e fonti di energia") rientra senza ombra di dubbio  tra
 quelli che il d.P.R. n. 915/1982 e la normativa comunitaria 1991-1993
 chiamano "rifiuti da recuperare".
    Del  resto,  ad  esempio,  l'art.  7  del  decreto  sui  movimenti
 transfrontalieri ammette che i "residui" sono disciplinati, quanto ad
 import-export, dal  regolamento  CEE  n.  259  il  quale  riguarda  i
 "rifiuti";  ed  ancora  l'art.  1  -  comma  IV - premette che queste
 disposizioni sui residui si applicano in attesa dell'attuazione delle
 direttive  CEE  sui  rifiuti  e  richiama  espressamente  proprio  la
 "definizione  e  la  classificazione  dei  rifiuti  effettuate  dalle
 direttive CEE".
    Questi punti confermano ulteriormente l'identita' di  fatto  e  di
 principio tra "residui" e "rifiuti".
    6)  Il  decreto-legge  in esame sottrae in primo luogo a qualsiasi
 procedura ed obbligo tutti quei  "materiali"  che  siano  quotati  in
 borse  merci o in listini e mercuriali ufficiali costituiti presso le
 camere di commercio  dei  capoluoghi  di  regione,  nonche'  tutti  i
 semilavorati  non  costituenti  residui di produzione e di consumo; e
 con cio' si supera anche la categoria dei "residui" creando una  zona
 franca  completamente  deregolamentata.   Quindi per sottrarre quello
 che fino ad oggi e' stato considerato un "rifiuto" addirittura  dalla
 gia'  blanda  categoria  dei "residui" e' sufficiente un attestato di
 quotazione di una camera di commercio e una  "ricognizione  positiva"
 del  Ministero  dell'ambiente;  ed  in  detto  contesto,  secondo  le
 evoluzioni del caso, possono in linea teorica e potenziale  rientrare
 gran parte dei rifiuti industriali.
    Si tende cosi' a creare di fatto una sottrazione alla fino ad oggi
 attuata   disciplina  penale  di  detti  materiali  con  la  semplice
 annotazione  nel  corpo  di  un  listino  ufficiale   amministrativo,
 peraltro potenzialmente diverso da regione a regione.
    L'elenco  dei  materiali  predisposto  dal Ministero dell'ambiente
 contiene molti di quelli che la direttiva CEE qualifica come "rifiuti
 recuperabili", unitamente a rifiuti  storicamente  oggetto  di  forte
 contenzioso  penale  a  carico delle aziende produttrici nel contesto
 della disciplina sui rifiuti ex  d.P.R.  n.  915/1982  (si  pensi,  a
 titolo di esempio, alle ceneri ed al caprolattame).
    7)  Il  decreto-legge in esame in secondo luogo crea, in attesa di
 future evoluzioni  regolamentative,  una  disciplina  transitoria  ed
 immediata  che  di  fatto  sottrae  al regime di gestione dei rifiuti
 (inclusi obblighi e doveri) tutti i residui, anche tossici e  nocivi,
 definiti  come  materie  prime secondarie dall'allegato 1 del d.m. 26
 gennaio 1990, incurante del fatto che la Corte costituzionale con  la
 sentenza  n.  512  del 15 ottobre 1990 ha in gran parte cancellato il
 testo del d.m. stesso argomentando, tra l'altro, che l'individuazione
 di quelle materie prime secondarie non poteva essere compiuta "con le
 garanzie di certezza richiesta".
   8) Va ancora rilevato che viene ancora allargato l'ambito di questi
 residui "identificati" e delle relative operazioni di "recupero"  con
 il  d.m.  5  settembre 1994 perche' l'allegato 3 di questo decreto e'
 vastissimo e, di fatto, estende l'ambito dei residui a quasi tutti  i
 rifiuti industriali. Le caratteristiche previste rischiano di restare
 lettera  morta  a  livello  di  fatto  se  si  considera  la  carenza
 strutturale, numerica  e  professionale  degli  organi  di  controllo
 tecnici.  E' facile prevedere che in detto contesto, nel quale ancora
 peraltro non e' stata resa operante l'Agenzia  per  l'ambiente,  gran
 parte  dei  rifiuti  industriali  saranno  trasformati in "materiali"
 deregolamentati in toto o, al massimo, in "residui". Con  azzeramento
 di  tutta la disciplina sui rifiuti fino ad oggi seguita ex d.P.R. n.
 915/1982 ed in palese contrasto con le direttive specifiche della CEE
 in materia.
    9) Si  deve  inoltre  registrare  una  modifica  ad  un  principio
 portante del d.P.R. n. 915/1982 eliminando, a determinate condizioni,
 l'obbligo   di   autorizzazione  e  di  iscrizione  all'albo  per  lo
 "stoccaggio   provvisorio"   dei    rifiuti    tossici    e    nocivi
 nell'"insediamento  di  produzione o trattamento". E' che trattasi di
 principio-cardine, uno degli assi portanti del sistema di  disciplina
 sui  rifiuti  fino  ad  oggi  impostato  dal  d.P.R.  n. 915/1982, e'
 confermato dal fatto che la Corte costituzionale (2 novembre 1992  n.
 437) aveva bocciato tentativo analogo perche', trattandosi di rifiuti
 pericolosi,  si  elimina  questo obbligo vengono meno quei "requisiti
 specifici affinche' sia garantita l'eliminazione di ogni pericolo per
 la salute ed il degrado ambientale".
    10) Il sistema sanzionatorio penale e' del  tutto  svuotato  nella
 sua  portata di fondo perche' le sanzioni penali introdotte dall'art.
 12 del decreto, in non chiaro parallelo con il  d.P.R.  n.  915/1982,
 partono  dal  presupposto di comun denominatore che i rifiuti-residui
 sono scarsamente pericolosi per la salute pubblica e per l'ambiente e
 dunque  traccia  norme  ben  piu'  benevole  in  senso  deterrente  e
 repressivo.
    Va  notato,  peraltro,  che trattasi delle stesse sostanze fino ad
 oggi soggette al severo sistema sanzionatorio penale  del  d.P.R.  n.
 915/1982  e  che  hanno  perso  pericolosita'  soltanto grazie ad una
 modifica terminologica di definizione.
    Uno dei punti-cardine  e'  costituito  dal  fatto  che  molti  dei
 residui  elencati  nell'allegato 3, per i quali non e' previsto alcun
 tipo di trattamento ne' e' prevista con precisione la destinazione  a
 cui  essi  possono  essere  indirizzati,  vengono  considerati sic et
 simpliciter residui  non  soggetti  al  d.P.R.  n.  915/1982  perche'
 "destinabili"  ad  un  "possibile"  riutilizzo  che  pero'  non viene
 precisato.
    Va ancora  rilevato  che  molti  dei  rifiuti  vengono  ad  essere
 classificati  come  residui  prevedendo per la loro utilizzazione dei
 processi che si possono ricondurre tutti alla combustione,  cosicche'
 nell'ambito  di tali processi vengono ad eliminarsi tutte le sostanze
 organiche in esse contenute appunto mediante  combustione  o,  se  si
 applicasse  la  normativa  sui rifiuti, mediante incenerimento; tutto
 cio' determina che il processo di incenerimento a cui questi  residui
 sono  sottoposti  viene  pero'  sottratto  alla  disciplina  ed  alla
 normativa tecnica precisa che riguarda  l'incenerimento  che  sarebbe
 invece  applicabile  se  tali residui fossero considerati rifiuti; in
 pratica  la  nozione  di  riciclo  viene  di   fatto   a   mascherare
 l'incenerimento   delle  sostanze  inquinanti  presenti  nel  rifiuto
 iniziale.
    Molti dei rifiuti, inoltre, vengono ad essere  denominati  residui
 non  perche' riutilizzabili in reali cicli di produzione come materie
 prime o come energia, ma ammettendo semplicemente  che  essi  possano
 essere   utilizzati  per  riempire  depressioni  del  terreno  o  per
 realizzare  rilevati  e  quindi  di  fatto  possono  essere   attuate
 attivita'  che  se  soggette  alla  normativa  prevista dal d.P.R. n.
 915/1982 sarebbero da considerare  discariche  in  depressione  o  in
 rilevato.
    Anche  in  questo  caso,  come  nel  precedente  in  cui  veniva a
 determinarsi  una  deregulation  dell'incenerimento,  si  attua   una
 deregulation   della   discarica  che  viene  ad  essere  denominata,
 paradossalmente, ripristino ambientale.
    Altro   elemento   da   considerare   e'  che  in  molti  casi  le
 caratteristiche  sia  dei  prodotti  di  partenza   che   di   quelli
 riutilizzabili,  nel  caso questi differiscano dai primi, non sono in
 alcun modo precisate e  quindi  il  loro  utilizzo  resta  del  tutto
 indefinito   perche'  unico  elemento  di  riferimento  e'  la  frase
 ricorrente  "nelle  forme  usualmente   commercializzate"   che,   in
 considerazione dei notevoli interessi economici che vengono coinvolti
 nelle attivita' di smaltimento rifiuti, e' del tutto irrilevante.
    Sempre   nell'ambito   della   deregulation   delle  attivita'  di
 smaltimento, oltre quanto gia' indicato per  gli  inceneritori  e  le
 discariche,  vengono  ad  essere  anche  sottratte alla normativa dei
 rifiuti anche le attivita' di trattamento finalizzate non al recupero
 ma alla semplice inertizzazione del  rifiuto  stesso  senza  che  per
 questo successivamente sia previsto un qualsiasi riutilizzo.
    11)  Il  decreto,  sempre  a  livello  sanzionatorio, introduce un
 pericoloso  ed   opinabile   elemento   di   valutazione   soggettiva
 unilaterale laddove prevede nel comma 6 ultima parte dell'art. 12 che
 le  sanzioni  del  d.P.R. n. 915/1982 si applicano "qualora i residui
 non siano destinati in modo effettivo ed oggettivo al riutilizzo".
    E si riapre cosi' un  contenzioso  interpretativo  antico  che  la
 dottrina  e  la  giurisprudenza avevano cancellato prevedendo il gia'
 sopra esposto concetto dell'impossibilita' del passaggio diretto  tra
 rifiuti  e materie prime secondarie e relegando nel concetto comunque
 di rifiuti anche i materiali suscettibili di riutilizzo.
    Le  citate  direttive  CEE  dettano  invece  norme   oggettive   e
 risolutive in questo campo.
    Il  concetto  di  destinazione  "in modo effettivo ed oggettivo al
 riutilizzo" ricollega di fatto primaria importanza alle dichiarazioni
 unilaterali  e  soggettive  dell'imprenditore,  posto  che  spettera'
 all'accusa provare il contrario e cioe' che non vi e' stato ne' sara'
 possibile  potenzialmente  il  citato riutilizzo. L'opinabilita' e la
 infinita possibilita' di interpretazioni diversificate caso per caso,
 materiale  per  materiale,  creano  di  fatto  una   prospettiva   di
 contenzioso infinito dai contorni e dagli estremi privi di ogni punto
 di riferimento di certezza e limite oggettivo.
    12)  Si  rileva  ancora  che  il  decreto  "sana"  qualsiasi reato
 commesso in tema di "residui" in passato utilizzando in bonam  partem
 anche  il  d.m.  del 1990, annullato dalla Corte costituzionale, e le
 norme regionali di  favore;  cosi'  creando  comunque  una  moratoria
 penale  in  un settore di gravissima incidenza sul campo della salute
 pubblica e della tutela dell'ambiente.
    13) Si rileva inoltre che la modifica  in  esame,  sulla  base  di
 quanto  sopra esposto, si pone in evidente contrasto con il principio
 "chi inquina paga", oggi chiaramente presupposta da diverse decisioni
 della Corte di cassazione (tra le  altre,  Cass.  pen.  sez.  III,  2
 febbraio 1994, n. 2525 e Cass. pen. sez. III, 6 aprile 1993 n. 3148).
 La  norma  denunciata infatti favorisce apertamente chi ha violato la
 legge e penalizza, invece, anche  sul  piano  della  concorrenza  tra
 imprese,   proprio   le   aziende   che  hanno  affrontato  rilevanti
 investimenti per adeguare i propri impianti e le proprie procedure di
 stoccaggio,  deposito  e  smaltimento   alle   esigenze   di   tutela
 ambientale;  e cio' appalesa, ad avviso dello scrivente, un contrasto
 con l'art. 41 della Costituzione.
    14)   In  detto  svuotamento  sanzionatorio  di  uno  dei  sistemi
 normativi piu' importanti in materia di tutela ambientale, cosi' come
 tracciato nei punti precedenti, si profila ad avviso dello  scrivente
 pretore  una violazione del disposto dell'art. 9, secondo comma della
 Costituzione, laddove la tutela del paesaggio, inteso secondo le piu'
 recenti  pronunce  della  Corte   di   cassazione   e   della   Corte
 costituzionale, non deve essere inteso solo come bellezza estetica da
 cartolina ma come ambiente naturale in senso lato, quindi comprensivo
 anche degli inevitabili ed inscindibili aspetti bionaturalistici.
    L'incertezza  del  diritto  derivante  dalla  sinergia del sistema
 creato dal decreto in esame favorisce potenzialmente  la  dispersione
 di  rifiuti, anche pericolosi, nell'ambiente naturale con conseguenze
 grave nocumento per l'integrita' dell'ambiente.
    15) Per gli stessi motivi esposti in relazione  all'art.  9  della
 Costituzione,  si ritiene che la norma in esame si ponga in contrasto
 anche con l'art. 32 della Carta costituzionale. Infatti nel  concetto
 di  tutela  della  salute come principio costituzionalmente garantito
 deve, per forza di cose, ricomprendersi il piu' vasto concetto  della
 salute  pubblica nel senso della salubrita' dell'ambiente naturale ed
 urbano ove ciascun cittadino vive.  Il  diritto  alla  salute  inteso
 anche  come diritto all'ambiente salubre e' stato ormai ripetutamente
 accertato in giurisprudenza (si veda per  tutte  la  famosa  sentenza
 delle  sezioni  unite  n.  517  del  6 ottobre 1979, nonche' la Corte
 costituzionale in data 30 dicembre 1987 n. 641 ed in  data  16  marzo
 1990  n.  127).  E'  fuor  dubbio che la diminuita, ed anzi per certi
 versi  di  fatto  del  tutto  caducata,  possibilita'  di  intervento
 deterrente/punitivo   in   sede   di   illeciti   da  rifiuti,  anche
 potenzialmente pericolosi, crea  i  presupposti  per  una  evoluzione
 incontrollata  del  fenomeno,  incoraggiata  dall'abbassamento  della
 guardia in sede di controlli di p.g.  e  possibilita'  di  intervento
 processuale; e tutto questo si traduce in via diretta in un danno per
 la  salute  e  salubrita'  pubblica  in  un  ambiente che resta cosi'
 maggiormente ed incontrollatamente esposto al degrado inquinante.
    16) Si deve quindi argomentare che, con la  chiave  di  volta  del
 ricorso  alla differenziazione terminologica "residui" e "materiali",
 il decreto-legge in esame opera una deregolamentazione  sulle  stesse
 identiche  materie  che  la normativa europea qualifica come "rifiuti
 destinati al recupero" e dunque si  pone,  a  livello  di  fatto,  in
 contrasto  con  le  direttive  CEE sopra citate prevedendo rispetto a
 detti testi normativi un trattamento ben piu' generoso  e  per  certi
 versi del tutto deregolamentato.
    Il  contrasto  si sviluppera' in tutta la sua portata allorquando,
 entro il marzo 1995 (vedi legge comunitaria n. 146  del  22  febbraio
 1994),  il  Governo dovra' dare attuazione alle due direttive CEE del
 1991 "uniformando la disciplina nazionale alle  definizioni  ed  alle
 classificazioni  dei  rifiuti  individuati  come tali dalla normativa
 comunitaria" e con particolare  attenzione  proprio  al  settore  dei
 rifiuti recuperabili (art. 38, primo comma).
    17)   Premesso   quanto   sopra,   questo   pretore  dichiara  non
 manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
 del  decreto-legge  n.  3  del  7  gennaio  1995  nella  sua  stesura
 integrale, intesa nella sinergia inscindibile di tutti  gli  articoli
 interconnessi,  in  relazione  agli artt. 3, 9, 10, 25, 32 e 41 della
 Costituzione.
    In  relazione  agli  artt. 3 e 25 richiama le argomentazioni sopra
 esposte con particolare riferimento al fatto che il decreto in  esame
 ha  attribuito  di  fatto  alle  camere  di  commercio  il  potere di
 sottrarre alla disciplina dettata per i rifiuti i materiali  inseriti
 nei  listini  ufficiali,  con  la conseguenza di sottrarre gli stessi
 alla  regolamentazione  prevista   dallo   stesso   decreto   o,   in
 alternativa, al trattamento sanzionatorio del d.P.R. n. 915/1982, con
 cio'  creando  di fatto un contrasto con i principi costituzionali di
 parita' di trattamento e riserva di  legge  penale  atteso  che,  tra
 l'altro,  dall'inclusione  nei listini ufficiali operata dalla camera
 di  commercio  in  una  regione  e  non  in   un'altra   dipenderebbe
 l'operativita'  o  meno  degli  obblighi  sanciti nel decreto, con le
 relative sanzioni, e specularmente di quelli stabiliti nel d.P.R.  n.
 915/1982,  con  la  conseguenza  che  uno  stesso  materiale potrebbe
 ricevere un diverso trattamento a seconda  del  luogo  ove  la  legge
 viene applicata.
    Quanto  alla  violazione  della riserva di legge, il meccanismo in
 questione rende  possibile,  diversamente  configurando  un  elemento
 della  fattispecie penale, la rilevanza penale di un medesimo fatto (
 sub d.-l. n. 619/1994 e sub d.P.R. n.  915/1982)  in  relazione  alla
 diversa e non definitiva classificazione dei materiali da parte delle
 locali camere di commercio.
    Si  rileva  peraltro  che  non  sana  detto  problema  il  decreto
 ministeriale 5 settembre 1994 perche' trattasi di  d.m.  modificabile
 in  ogni  momento  e  quindi  dalle  sue  modifiche,  in sinergia con
 l'attivita' delle camere di commercio, dipende  l'applicazione  della
 legge penale con totale incertezza del diritto in sede relativa.
    In  relazione  all'art.  10 della Costituzione si richiama in modo
 integrale quanto sopra esposto in riferimento al contrasto  di  fondo
 generale tra il decreto-legge in esame e la normativa CEE in materia,
 fatto   che   determina   in   via   diretta  una  possibile  mancata
 conformazione dell'ordinamento  giuridico  italiano  alle  norme  del
 diritto internazionale riconosciute.
    In  ordine  agli  altri  articoli  della  Costituzione si richiama
 quanto espresso nei punti precedenti.
    Su detti temi si sottopone la questione alla Corte  costituzionale
 affinche'  stabilisca  se  il  dettato  del  decreto-legge n. 3 del 7
 gennaio 1995 nella  sua  stesura  integrale,  intesa  nella  sinergia
 inscindibile  di  tutti  gli  articoli interconnessi, con particolare
 riferimento agli artt. 2 e 12 ed agli  articoli  ivi  richiamati,  si
 ponga  in  contrasto  con  gli  artt.  3,  9,  10,  25, 32 e 41 della
 Costituzione.
    Da quanto sopra esposto, emerge che in  applicazione  della  norma
 oggetto  del  giudizio di costituzionalita' alla Corte costituzionale
 dovrebbe procedersi a verifica in ordine al capo di  imputazione  per
 appurare  se la richiesta della difesa debba essere accolta ritenendo
 legittima la classificazione dei materiali in  questione  cosi'  come
 proposta  dalla  difesa stessa in relazione al decreto-legge in esame
 (con conseguente proscioglimento dell'imputata in via preliminare)  o
 se,  invece,  debba  procedersi  a  giudizio ordinario sulla base dei
 principi antitetici sopra tracciati e secondo i  canoni  di  certezza
 del diritto fino ad oggi seguiti in materia.
    Dalle  considerazioni  esposte  si desume che il presente giudizio
 non puo' essere  definito,  allo  stato  e  vigente  i  principi  del
 decreto-legge   n.  3/1995  in  esame,  in  modo  indipendente  dalla
 risoluzione della questione di legittimita' costituzionale.
                               P. Q. M.
   Dichiara  rilevante  e non manifestamente infondata, per violazione
 degli artt. 3, 9, 10, 25, 32 e 41 della Costituzione, la questione di
 legittimita' costituzionale del decreto-legge n. 3 del 7 gennaio 1995
 avente per titolo "Disposizioni in materia di riutilizzo dei  residui
 derivanti  da  cicli  di  produzione  o  di  consumo  in  un processo
 produttivo o in un processo di combustione,  nonche'  in  materia  di
 smaltimento  dei  rifiuti", nella sua stesura integrale, intesa nella
 sinergia  inscindibile  di  tutti  gli  articoli  interconnessi,  con
 particolare  riferimento  agli  artt.  2  e  12  ed agli articoli ivi
 richiamati;
    Sospende il giudizio in corso;
    Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
 costituzionale;
    Ordina  che,  a  cura della cancelleria, la presente ordinanza sia
 notificata agli imputati, ai loro difensori,  al  pubblico  ministero
 nonche'  al  Presidente  del  Consiglio  dei Ministri e comunicata al
 Presidente della Camera dei deputati  ed  al  Presidente  del  Senato
 della Repubblica.
      Terni, addi' 23 gennaio 1995
                         Il pretore: SANTOLOCI
 
 95C0477