N. 351 ORDINANZA (Atto di promovimento) 2 marzo 1995

                                N. 351
 Ordinanza emessa il 2 marzo 1995 dal tribunale militare di Padova nel
 procedimento penale a carico di Ferrazini Corrado
 Reati  militari  -  Criterio  di riconoscimento della militarita' del
 reato - Possibilita' di considerare "reato militare" ogni  violazione
 della legge penale militare - Esclusivo riferimento al dato formale -
 Conseguenze  -  Assoggettamento  di  reati ontologicamente identici a
 differenti regimi giuridici e a diverse giurisdizioni -  Possibilita'
 che,  all'esito  del  giudizio,  un  reato,  inizialmente qualificato
 "militare"  (nella  specie:  abuso  d'ufficio   "militare")   risulti
 "comune"  con  conseguente  competenza dell'a.g.o. e duplicazione del
 processo - Irragionevolezza - Lesione del principio di buon andamento
 dell'amministrazione della giustizia.
 (C.P.M.P., art. 37).
 (Cost., artt. 3 e 97).
(GU n.25 del 14-6-1995 )
                         IL TRIBUNALE MILITARE
    Ha  pronunciato la seguente ordinanza nella causa contro Ferrazini
 Corrado, nato il 18 ottobre 1939 a Castelmassa (RO), atto di  nascita
 n.  134/  ./I,  residente  a  Legnago  (VR)  in  via De Sanctis n. 4;
 coniugato, incensurato; ten. col. e.i. in servizio presso la 5a  Dir.
 genio  militare  di  Padova,  libero,  imputato  di  abuso  d'ufficio
 continuato (art. 323, comma primo, del c.p. in relazione all'art.  37
 del  c.p.m.p.,  art. 81 del c.p.m.p.) perche' maggiore e.i. dirigente
 della sezione staccata genio marina  militare  di  Venezia,  abusando
 dell'ufficio  ricoperto,  con piu' azioni distinte ma esecutive di un
 medesimo disegno criminoso, disponeva affinche' la ditta Penzo Angelo
 Restauri S.a.s. effettuasse presso l'alloggio A.S.I.  n.  4  sito  in
 palazzo  Fantasia  a Venezia (da assegnarsi al col. Conti Arturo) una
 copiosa serie di lavori non previsti nell'obbligazione privata n. 106
 del 23 maggio 1989 (il cui importo era di 44 milioni circa) stipulata
 tra la suddetta impresa e la sezione genio M.M.  di  Venezia  da  lui
 diretta,  con aggravio di costi per l'a.m. di circa lire 115 milioni,
 cio' facendo al fine di procurare al col. Conti  Arturo  un  ingiusto
 vantaggio  non  patrimoniale.  Fatti  commessi  in  date distinte tra
 l'ottobre 1989 e il 10 gennaio 1990.
    In esito al pubblico ed orale dibattimento.
                             O S S E R V A
    1. - Prima della dichiarazione di apertura  del  dibattimento,  la
 difesa   ha   chiesto  che  il  tribunale,  rilevato  il  difetto  di
 giurisdizione in ordine al reato di  abuso  d'ufficio  (art.  323  in
 relaz.  all'art.  37  del  c.p.m.p.), ascritto al ten. col. Ferrazini
 Corrado, disponga la trasmissione degli atti all'a.g.o.
    Il p.m. si e' associato.
    2. - Cio'  premesso,  ritiene  il  collegio  di  dovere  sollevare
 d'ufficio  la  questione  di legittimita' costituzionale dell'art. 37
 del c.p.m.p. in relazione all'art. 3 della Costituzione, nei  termini
 che seguono.
    Il  detto  art.  37  afferma che "qualunque violazione della legge
 penale militare e' reato militare".
    Questa  enunciazione  e'  stata  comunemente  in  dottrina  ed  in
 giurisprudenza  -  ad eccezione di rare pronuncie di merito, smentite
 dalla suprema Corte  -  identificata  nella  "definizione"  di  reato
 militare.
    Ne  e'  derivata  un'interpretazione estremamente formalistica, in
 base alla quale e' solo il dato dell'inclusione in una  legge  penale
 militare  -  definita  tale  dal  legislatore - a comportare, in modo
 vincolante per l'interprete,  la  qualificazione  di  un  fatto  come
 "reato  militare",  con negazione di spazi interpretativi finalizzati
 ad una nozione piu' sostanziale ed appagante che ponga come epicentro
 il bene giuridico leso.
    Cosi', il reato di abuso d'ufficio - che nella  specie  rileva  -,
 non  essendo  previsto nei codici penali militari, ne' in altre leggi
 qualificate penali militari, bensi' nel codice  penale  comune  (art.
 323),  dovrebbe  essere  sempre  qualificato come reato comune, anche
 qualora - come appare ipotizzato in imputazione - l'abuso concerna un
 ufficio militare.
    Cio' implica rilevanti conseguenze, da un lato,  sul  piano  della
 disciplina sostanziale applicabile, che sara' la legge penale comune:
 dall'altro,   della   giurisdizione,   che   apparterra'  al  giudice
 ordinario.
    Eppure,  il  reato  in  questione  e'  norma  penale sussidiaria e
 residuale nella quale, come si evince dal dato testuale "salvo che il
 fatto non costituisca un piu' grave reato", sono riconducibili figure
 criminose non sussumibili in altre  fattispecie  penali  -  comuni  o
 militari - punite piu' gravemente.
    Tra  queste  ultime,  indubbiamente rientrano il peculato militare
 (art. 215 del c.p.m.p.), la  malversazione  militare  (art.  216  del
 c.p.m.p.),  l'abuso  di  autorita'  (artt.  195  e 196 del c.p.m.p.),
 l'abuso  nelle  requisizioni  (art.  134   del   c.p.m.p.),   l'abuso
 nell'imbarco  di  merci  o  di  passeggeri  (art.  135 del c.p.m.p.),
 l'abuso nel lavoro delle officine (art. 136 del c.p.m.p.) etc.; reati
 tutti che pur  comportano  una  illecita  strumentazione  dei  poteri
 connessi alla qualita' di p.u. e quindi abuso d'ufficio.
    Ma la sussidiarieta' della norma dell'art. 323 del c.p. implica il
 seguente  effetto:  che  qualora  non  trovino  applicazione le norme
 militari speciali, abbia vigenza, in presenza di un abuso piu'  lieve
 riconducibile  in quelle fattispecie, la norma penale di cui all'art.
 323 del c.p.
    Un  significativo  esempio,  riguardante  proprio  la  prospettata
 situazione,   e'   stato   recentemente   sottolineato   dalla  Corte
 costituzionale (sent. n.  448/1991),  la  quale,  nel  dichiarare  la
 illegittimita' costituzionale del peculato militare per distrazione -
 a  seguito  dell'entrata  in  vigore  della legge n.   86/1990 che ha
 innovato solo rispetto nella disciplina comune -, ha affermato che le
 condotte dei  militari  prima  punite  a  tale  titolo,  in  avvenire
 "saranno  punibili se ed in quanto integrano le fattispecie descritte
 nei novellati artt. 314, comma secondo, e 323 del c.p., (omissis)".
    Dal ragionamento si desume percio' un rapporto  di  persistente  e
 biunivoca   specialita'   reciproca,   in  tema  di  abusi  dei  p.u.
 (militari), tra disciplina penale comune e militare,  in  virtu'  del
 quale  l'applicazione  dell'una o dell'altra normativa emerge in modo
 accidentale ed irragionevole pur a  fronte  di  fatti  lesivi  di  un
 medesimo bene giuridico.
    Il  che  comporta  che,  mentre  alle  piu' gravi figure criminose
 contenute   nella   legge   penale   militare   (peculato   militare,
 malversazione  militare,  etc.)  si  applichera' la disciplina penale
 militare, all'ipotesi sussidiaria (art. 323 del c.p.)  quella  penale
 comune.
    Le  conseguenze  sul  piano pratico sono notevoli: esse riguardano
 l'applicazione delle pene militari o comuni (corrispondenti a diverse
 finalita' ed obbedienti a differenti  regimi),  delle  speciali  pene
 accessorie  (rimozione,  sospensione  dall'impiego, dal grado, ecc.),
 delle attenuanti previste dal codice penale  militare  (significativa
 quella  dell'ottima  condotta  militare),  delle scriminanti speciali
 (artt. 42 e 44 del c.p.m.p.),  delle  sanzioni  sostitutive  di  pene
 detentive  brevi,  ex legge 24 novembre 1981, n. 689 (secondo recente
 decisione della suprema Corte,  non  ammissibili  in  materia  penale
 militare).  E  cio',  nonostante  si  tratti di fatti ontologicamente
 uguali,  sostanzialmente  consistenti  tutti   in   abusi   d'ufficio
 militare.
    E'  evidente,  poi,  che cio' intanto si verifica in quanto esiste
 nel codice penale militare la norma di cui all'art. 37  che  lega  al
 dato meramente formale la nozione di reato militare.
    D'altronde  e'  opportuno  rimarcare  che  l'irrazionalita' non e'
 circoscrivibile al solo  caso  in  questione,  ma  che  essa  ricorre
 immanentemente e sistematicamente nella vigente disciplina.
    A  titolo  meramente  esemplificativo,  e' infatti reato militare,
 sulla base dell'interpretazione dominante dell'art. 37 del  c.p.m.p.,
 il  peculato  militare  (art.  215  del  c.p.m.p.)  e non il peculato
 militare d'uso (314, c. secondo, c.); la lesione dolosa tra parigrado
 (art. 223 del c.p.m.p.) e non le lesioni colpose (art. 590 del c.p.);
 l'omicidio volontario a carico del superiore o dell'inferiore, (artt.
 186 e 195 del c.p.m.p.), ma non nei confronti di parigrado (art.  575
 del  c.p.)  e non l'omicidio colposo o preterintenzionale ne' a danno
 di superiore ne' di parigrado; la minaccia (art. 229  del  c.p.m.p.),
 ma non la violenza privata (art. 610 del c.p.) nella quale ultima pur
 sono  inquadrabili  la maggior parte di fatti penalmente rilevanti di
 "nonnismo".
    Si  ribadisce  che   anche   l'irrazionalita'   del   sistema   e'
 addebitabile  alla nozione dell'art. 37 del c.p.m.p. che - si ritiene
 - percio' presenti aspetti di incostituzionalita' con l'art.  3 della
 Costituzione, in quanto obbliga all'assoggettamento a diversi  regimi
 giuridici  sostanziali  per fatti ontologicamente lesivi del medesimo
 bene giuridico.
    3. - Ma  la  violazione  del  detto  parametro  costituzionale  si
 ravvisa,  con  riferimento  all'art. 37, anche sotto il profilo della
 giurisdizione.
    Infatti, secondo l'art. 263 del c.p.m.p.: "appartiene ai tribunali
 militari la cognizione dei reati militari commessi delle persone alle
 quali e' applicabile la legge penale militare".
    Secondo il criterio formalistico proposto dall'art. 37, e'  quindi
 l'inclusione  in  una  legge militare, conferendo la natura di "reato
 militare"  al  fatto,  ad  implicare,  nel  concorso   di   requisiti
 soggettivi   (art.   103   della   Cost.),   la  sottoposizione  alla
 giurisdizione penale militare.
    Ma deve osservarsi, che per fatti - come sopra esemplificati - pur
 uguali dal punto di vista dell'oggettivita'  giuridica,  finisce  con
 l'applicarsi   alternativamente,   in   modo  cieco  e  volubile,  la
 giurisdizione ordinaria o quella speciale, in assenza di  criteri  di
 razionalita'.
    Certo,  vero  e'  che  uguale  rito  ormai  si  applica dinanzi ai
 tribunali militari ed alla giurisdizione ordinaria e che delle stesse
 garanzie d'indipendenza godono i giudici  militari  (leggi  7  maggio
 1981,  n.  180,  e  30  dicembre  1988,  n.  561) rispetto ai giudici
 ordinari.
    Ma non e' men vero, pero', che il  fondamento  dell'esistenza  dei
 tribunali militari si giustifica anche nella differente composizione,
 rispetto  all'organo ordinario: l'elemento caratterizzante e' infatti
 dato nella presenza di un  ufficiale  delle  FF.AA.  (art.  2,  comma
 secondo,  n.  3,  della  legge n. 180/1981), che, come rilevato dalla
 Corte costituzionale (sent. nn. 192/1976,  49/1989  e  151/1991),  e'
 "chiamato   a   dare   un   qualificato   contributo   inerente  alla
 peculiarita'" della vita e dell'organizzazione  militare;  contributo
 consistente nell'aiutare il collegio a fondare le proprie valutazioni
 sulla piena conoscenza e la piena comprensione dei molteplici aspetti
 del  concreto  atteggiarsi  di  quel settore; delle condizioni che lo
 caratterizzano e dei problemi che vi si pongono.  Aspetti  tutti  che
 non  possono  non riflettersi sulla ricostruzione e valutazione degli
 elementi oggettivi e soggettivi  dei  fatti  -  reati  sottoposti  al
 giudizio  del  tribunale,  anche  alla  luce  di  quei  valori tipici
 dell'ordinamento militare che gia' la Corte ha ritenuto tali  da  non
 correre  a  giustificare  l'esistenza  della  speciale giurisdizione"
 (sent. n. 192/1976).
    Proprio alla stregua delle citate argomentazioni e' evidente  che,
 se   trattasi   di   giurisdizione   speciale   e  specializzata,  la
 sottoposizione alla cognizione dei tribunali militari solo dei  fatti
 riconducibili  nell'art.  37  del  c.p.m.p.,  e  non  anche di quelli
 identici che non possano rientrarvi alla stregua della  "definizione"
 contenutavi,  introduce  un  ulteriore elemento di irrazionalita' che
 appare violare l'art. 3 della Costituzione.
    4. - Vi e' infine da rilevare un ultimo aspetto.
    La sussidiarieta' della norma in questione  comporta  che  la  sua
 applicazione  frequentemente  emerga, in via residuale, solo in esito
 al procedimento, allorche', essendo piena la cognizione del fatto, si
 escluda la sussistenza di "un piu' grave reato".
    Tuttavia, se cio' non comporta rilevanti effetti qualora il  reato
 contestato  ab origine sia reato comune perche' il giudizio ha luogo,
 tutto, dinanzi al giudice ordinario, invece obbliga alla celebrazione
 di un secondo, nuovo processo allorche' si  sia  in  presenza  di  un
 fatto contestato inizialmente come reato militare e consistente in un
 abuso  (artt.  215,  216, 195, 134, 135 e 136 del c.p.m.p., etc.), ma
 emerga, in esito ad un completo esame, la figura sussidiaria  di  cui
 all'art.  323,  non riconducibile della "definizione" di cui all'art.
 37 e, percio', reato comune, di competenza dell'a.g.o.
    Ne deriva che l'art. 37 del c.p.m.p., nella parte in  cui  esclude
 la  riconducibilita'  nel  proprio ambito di fatti di abuso d'ufficio
 "militare", appare violare l'art. 97 della  Costituzione,  in  quanto
 normalmente   vanifica  le  energie  profuse  nel  primo  processo  e
 costringe ad una - inutile - duplicazione di giudizi per il  medesimo
 fatto,  con  conseguente  lesione  del  principio  del buon andamento
 dell'amministrazione della giustizia, costretta a reiterarsi in  piu'
 sedi ed a subire, in violazione delle regole di economia processuale,
 una inutile dilatazione dei tempi di definizione.
    Quanto sopra appare, poi, in particolar modo rilevante nel caso di
 specie  in  cui  gia'  dalla  formulazione  del capo d'imputazione si
 evince la problematicita' dell'inquadramento del  fatto  nella  norma
 incriminatrice  contestata  piuttosto  che in altra, pur prevista dal
 codice penale militare che lede il patrimonio dell'A.M. (art. 215 del
 c.p.m.p.).
                               P. Q. M.
    Letto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara non manifestamente infondata  e  rilevante  nel  presente
 giudizio la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 37 del
 c.p.m.p.  in  relazione  agli  artt.  3  e  97,  primo  comma,  della
 Costituzione;
    Dispone la sospensione del procedimento in corso e la trasmissione
 degli atti alla Corte costituzionale;
    Ordina la notifica dell'ordinanza alle parti ed al Presidente  del
 Consiglio  dei Ministri e la comunicazione ai Presidenti dei due rami
 del Parlamento.
      Padova, addi' 2 marzo 1995
                         Il presidente: ROSIN
                                           Il giudice estensore: BLOCK
 95C0703