N. 302 SENTENZA 26 giugno - 6 luglio 1995

 
 
 Giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato.
 
 Credito  industriale  -  Corte  dei  conti  -  Controllo preventivo -
 Competenza - Nuovi criteri cui devono conformarsi gli enti e i gruppi
 creditizi nella detenzione di partecipazioni in imprese - Decreto del
 Ministro del tesoro 22 giugno 1993, n. 242632 -  Presunta  natura  di
 atto  generale  di indirizzo - Sottrazione al controllo - Esclusione,
 in base alle norme  vigenti,  del  decreto  quale  atto  generale  di
 indirizzo  nonche'  di atto generale attuativo di norme comunitarie -
 Non spettanza alla Corte dei conti
 
(GU n.33 del 9-8-1995 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Antonio BALDASSARRE;
 Giudici: prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi
    MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato  GRANATA,  prof.  Giuliano
    VASSALLI,  prof.  Francesco  GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof.
    Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo  VARI,  dott.  Cesare  RUPERTO,
    dott. Riccardo CHIEPPA;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel giudizio promosso con ricorso della Corte dei conti notificato il
 27  gennaio  1995,  depositato in Cancelleria il 2 febbraio 1995, per
 conflitto di attribuzione sorto in  relazione  alla  sottrazione  del
 decreto  del  Ministro  del  tesoro  22  giugno  1993,  n. 242632, al
 controllo preventivo della Corte dei conti, in  violazione  dell'art.
 100,  secondo  comma,  della Costituzione e dell'art. 7, comma 1, del
 decreto-legge 15 maggio 1993, n. 143 e dell'art.  7,  comma  10,  del
 decreto-legge   17   luglio   1993,   n.  232,  nonche'  al  connesso
 comportamento del Governo consistente nella modifica del citato  art.
 7,  comma 10, del decreto-legge 17 luglio 1993, n. 232, in violazione
 dell'art. 77, secondo comma, e dell'art. 100,  secondo  comma,  della
 Costituzione  e  alla  connessa  illegittimita' costituzionale, sotto
 vari profili e in subordine, degli artt. 3, comma 13, e 8,  comma  1,
 della  legge  14 gennaio 1994, n. 20 ed iscritto al n. 2 del registro
 conflitti 1995;
    Visto l'atto di costituzione  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri;
    Udito nell'udienza pubblica del 30 maggio 1995 il Giudice relatore
 Enzo Cheli;
    Uditi  l'avv.  Alessandro Pace per la Corte dei conti e l'Avvocato
 dello Stato Antonino  Freni  per  il  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Con  ricorso  del  14  ottobre  1994 la Corte dei conti, in
 persona del Presidente pro-tempore - in forza dei poteri conferitigli
 con la determinazione della Sezione  del  controllo  sugli  atti  del
 Governo  del  12  agosto  1993,  n.  135  - ha sollevato conflitto di
 attribuzione tra poteri dello Stato nei  confronti  del  Governo,  in
 persona  del Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione alla
 sottrazione del decreto del Ministro del tesoro 22  giugno  1993,  n.
 242632,  al controllo preventivo della Corte dei conti, in violazione
 dell'art. 100, secondo comma, della Costituzione  e  degli  artt.  7,
 comma 1, del decreto-legge 15 maggio 1993, n. 143, e 7, comma 10, del
 decreto-legge   17   luglio   1993,   n.  232,  nonche'  al  connesso
 comportamento del Governo, consistente nella modifica del citato art.
 7, comma 10, in violazione degli artt.  77,  secondo  comma,  e  100,
 secondo  comma,  della  Costituzione  ed alla connessa illegittimita'
 costituzionale degli artt. 3, comma 13, e 8, comma 1, della legge  14
 gennaio  1994,  n. 20, per violazione degli artt. 77, secondo e terzo
 comma, e 100 secondo comma,  della  Costituzione.    Nel  ricorso  si
 espone  che  con  il decreto n. 242632 del 22 giugno 1993 il Ministro
 del tesoro, in attuazione del decreto legislativo 14  dicembre  1992,
 n.  481  (art.  22,  comma  1,  lettere  a) e c)), ha fissato i nuovi
 criteri cui devono uniformarsi gli enti e i  gruppi  creditizi  nella
 detenzione  di partecipazioni in imprese.  Tale decreto si verrebbe a
 configurare sia come "atto generale di  indirizzo",  sia  come  "atto
 generale attuativo delle norme comunitarie" contenute nella direttiva
 n.  89/646,  risultando,  di conseguenza, assoggettabile al controllo
 preventivo della Corte dei conti, ai  sensi  dell'art.  7,  comma  1,
 lettere  c)  ed e), del decreto-legge n. 232 del 1993, che ha dettato
 nuove norme in tema  di  controlli.    Ciononostante  -  prosegue  il
 ricorso  - il Ministro del tesoro non ha ritenuto di dover sottoporre
 l'atto in questione al controllo preventivo, ma ha invece ritenuto di
 potervi dare esecuzione per il tramite della Banca d'Italia,  che  ha
 provveduto ad impartire agli enti e gruppi creditizi le istruzioni di
 propria  competenza.  Inoltre,  lo  stesso  Ministero  non ha aderito
 all'invito dell'Ufficio di controllo di astenersi da  ulteriori  atti
 di   esecuzione  e,  a  spiegazione  del  proprio  comportamento,  ha
 affermato - dapprima con la nota n. 242771 del 27 luglio 1993  e  poi
 con  una memoria richiamata nell'intervento orale all'adunanza del 12
 agosto 1993 della Sezione del controllo della Corte dei conti  -  che
 il   decreto   ministeriale  in  questione  doveva  ritenersi  esente
 dall'assoggettamento  al  controllo  preventivo  in   ragione   della
 clausola   derogatoria   prevista   dall'art.     7,  comma  10,  del
 decreto-legge n. 232 del 1993, secondo la quale le  disposizioni  sul
 controllo  preventivo di cui all'art 7, comma 1, del medesimo decreto
 non si applicano nei  confronti  degli  enti  che  svolgono  la  loro
 attivita'   nelle   materie   contemplate  nell'art.  1  del  decreto
 legislativo del Capo provvisorio dello Stato 17 luglio 1947,  n.  691
 (cioe'   nelle   materie   relative   alla   tutela   del  risparmio,
 all'esercizio del credito ed alla valuta). Ad  avviso  del  Ministero
 gli "enti" cui si fa riferimento nella clausola derogatoria di cui al
 citato  art. 7, comma 10, non sarebbero - come ritenuto dalla Sezione
 del controllo della Corte dei conti - gli enti e i gruppi  creditizi,
 bensi'  il  complesso apparato politico-amministrativo costituito dal
 Comitato interministeriale  per  il  credito  ed  il  risparmio,  dal
 Ministero  del  tesoro e dalla Banca d'Italia, titolare dei poteri di
 indirizzo e vigilanza nel settore del credito.  Nel ricorso si espone
 poi che in epoca successiva all'adunanza della Sezione del  controllo
 del 12 agosto 1993, il Governo, nel reiterare il decreto-legge n. 232
 del  1993,  adottava  il decreto-legge 14 settembre 1993, n. 359, che
 seppure di contenuto pressoche' identico, modificava il  testo  della
 clausola  derogatoria  prevista  dall'art.  7, comma 10, riferita non
 piu'  agli  "enti  che  svolgono  la  loro  attivita'  nelle  materie
 contemplate  nell'art. 1 del decreto legislativo del Capo provvisorio
 dello  Stato  17  luglio  1947,  n.  691",  ma  agli  "atti   ed   ai
 provvedimenti  emanati nelle materie monetaria, creditizia, mobiliare
 e valutaria": con l'evidente conseguenza, ad avviso della ricorrente,
 di  rendere  legittimo,  a  partire  dall'entrata   in   vigore   del
 decreto-legge  n.  359,  il  rifiuto  del  Governo  di  sottoporre  a
 controllo preventivo il decreto in questione.  La narrativa dei fatti
 esposta  nel  ricorso  si  completa  con  il  richiamo  all'ulteriore
 reiterazione  avvenuta con l'emanazione del decreto-legge 15 novembre
 1993, n. 453, pedissequamente ripetitivo del precedente, che per  una
 parte  veniva  convertito  nella legge 14 gennaio 1994, n. 19, mentre
 per  la  parte  restante  veniva  trasformato  in  disegno  di  legge
 governativo approvato come legge 14 gennaio 1994, n. 20. Questa legge
 contiene,  all'art.  3,  comma  13,  una previsione identica a quella
 prevista dall'art. 7, comma 10, dei decreti-legge nn. 359 e  453  del
 1993,  e, all'art. 8, comma 1, una clausola di sanatoria di tutti gli
 effetti prodotti medio-tempore dai decreti non convertiti.
    2. - Per quanto concerne i presupposti soggettivi  del  conflitto,
 il  ricorso  richiama  le sentenze di questa Corte nn. 406 del 1989 e
 466 del 1993, che hanno riconosciuto alla Sezione del controllo della
 Corte  dei  conti  la  legittimazione   a   proporre   conflitto   di
 attribuzione,  mentre  la  legittimazione  passiva  del Governo viene
 affermata in relazione al fatto  che  i  comportamenti  dei  ministri
 connessi  all'interpretazione di un decreto-legge vanno imputati alla
 responsabilita' collegiale  del  Governo  (ord.  n.  242  del  1993).
 Inoltre, nel caso di specie, il Governo ha fatto propria la posizione
 del   Ministro  del  tesoro,  modificando  in  via  d'urgenza  con  i
 decreti-legge nn. 359 e  453  del  1993,  l'art.  7,  comma  10,  del
 decreto-legge  n.  232  del  1993.    In  riferimento  ai presupposti
 oggettivi si  rileva  poi  che  la  lesione  lamentata  attiene  alla
 funzione  di  controllo  preventivo  di  legittimita'  sugli atti del
 Governo, prevista dall'art. 100, secondo comma, della Costituzione.
    3.  - Passando all'esame del merito, nel ricorso si osserva che il
 comportamento  omissivo  del  Governo  risulta  fondato  sull'assunto
 secondo  il  quale  gli  enti  che  svolgono  la loro attivita' nelle
 materie indicate all'art. 1 del decreto legislativo n. 691  del  1947
 (cui  si  riferisce  la  deroga  espressa  nell'art. 7, comma 10, del
 decreto-legge n. 232 del 1993) sarebbero le autorita' che  esercitano
 poteri  pubblicistici nella materia del credito (Ministro del tesoro,
 Comitato interministeriale per il  credito  ed  il  risparmio,  Banca
 d'Italia), mentre la ricorrente sostiene che con il termine "enti" la
 norma ha inteso riferirsi alle banche e agli intermediari finanziari.
 A supporto di questa interpretazione nel ricorso si richiama l'art. 1
 del decreto legislativo n. 385 del 1993, recante il testo unico delle
 leggi in materia bancaria e creditizia, che qualifica il Ministro del
 tesoro,  il Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio
 e la Banca d'Italia come "autorita' creditizie" e  non  come  "enti".
 Ne'  potrebbe  condividersi il diverso assunto del Governo secondo il
 quale gli enti cui fa riferimento l'art. 7,  comma  10,  non  possono
 essere  quelli  creditizi,  dal momento che la Corte dei conti non ha
 mai esercitato il controllo  su  tali  enti.  Questa  obbiezione  del
 Governo  -  sempre  secondo  la ricorrente - non terrebbe conto della
 collocazione sistematica della clausola limitativa prevista dall'art.
 7, comma 10, del decreto-legge n. 232, dal momento che tale  clausola
 e'  riferita all'insieme delle disposizioni contenute nell'articolo e
 quindi  non  necessariamente  a  quelle   concernenti   i   controlli
 preventivi  e  successivi  sugli atti, i quali risultano circoscritti
 alla   sfera   provvedimentale   del   Governo   e   della   pubblica
 amministrazione  statale  (art. 7, commi 1 e 4).  Dopo aver osservato
 che, nell'ambito della riforma dei controlli voluta dal  legislatore,
 accanto  alla  nuova  disciplina  del  controllo  sugli  atti, assume
 particolare rilievo il controllo sulla gestione (art. 7, commi  5-9),
 nel  ricorso  si  sostiene che in tale contesto sarebbero agevolmente
 individuabili  occasioni  e  ragioni  di  verifiche,  accertamenti  e
 valutazioni da parte della Corte dei conti anche nei riguardi di enti
 e   gruppi   creditizi,  al  fine  di  verificare  l'efficacia  degli
 investimenti azionari pubblici e lo  stato  patrimoniale  degli  enti
 bancari  partecipati.  Pertanto,  neppure  la  clausola  di sanatoria
 prevista dall'art. 8, comma 1, della successiva legge n. 20 del  1994
 -  che  ha sancito la validita' degli atti adottati e delle attivita'
 poste in essere in base ai decreti-legge nn. 54, 143, 232, 359 e  453
 del  1993 - potrebbe convalidare il contestato comportamento omissivo
 del Governo, dal momento che  tale  clausola  non  potrebbe  comunque
 sanare  un  comportamento che deve considerarsi illegittimo in quanto
 in  contrasto  con  un  decreto-legge  non  convertito,  ma   vigente
 all'epoca  del  comportamento  medesimo.    Nella  seconda  parte del
 ricorso, esaminando la fase  successiva  all'entrata  in  vigore  del
 decreto-legge  14  settembre  1993,  n.  359,  si osserva che durante
 questa fase il comportamento omissivo del Governo si e'  fondato  sul
 nuovo  testo  della clausola derogatoria di cui all'art. 7, comma 10,
 dove si prevede la non applicabilita' del controllo preventivo  "agli
 atti ed ai provvedimenti emanati nelle materie monetaria, creditizia,
 mobiliare  e  valutaria".  Tale  clausola  e'  stata  riprodotta  nel
 decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453, e, infine, nell'art. 3, comma
 13, della legge 14  gennaio  1994,  n.  20,  attualmente  in  vigore.
 Secondo la ricorrente, questa modifica della clausola derogatoria non
 farebbe   venir  meno  il  conflitto  in  esame,  ma  ne  cambierebbe
 semplicemente il parametro di riferimento: infatti se,  inizialmente,
 l'illegittimita'  lamentata  nel  ricorso consisteva nella violazione
 sia dell'art. 100, secondo comma, della Costituzione,  sia  dell'art.
 7,  comma  10,  del  decreto-legge  n.  232 del 1993, in seguito tale
 l'illegittimita'   verrebbe   a   derivare   dall'applicazione    dei
 decreti-legge  nn.  359 e 453 del 1993, nonche' della legge n. 20 del
 1994, in quanto atti contrastanti con  l'art.  77,  secondo  e  terzo
 comma, e con l'art. 100, secondo comma, della Costituzione.  La Corte
 dei  conti,  infatti,  pur riconoscendo che il comportamento omissivo
 tenuto dal Governo in epoca  successiva  all'entrata  in  vigore  del
 decreto-legge  n.  359  non  sarebbe  in  contrasto con la disciplina
 prevista da tale decreto e da quello che lo ha reiterato, ritiene che
 il fondamento  della  persistente  illegittimita'  del  comportamento
 governativo  risiederebbe  nella  illegittimita'  costituzionale  dei
 decreti ora richiamati, nonche' della legge n. 20 del 1994. Pertanto,
 la ricorrente sollecita la Corte costituzionale a sollevare dinanzi a
 se' la questione di costituzionalita' della disciplina attualmente in
 vigore, prevista dall'art. 3, comma 13, e dall'art. 8, comma 1, della
 legge n. 20 del 1994, per violazione dell'art.  100,  secondo  comma,
 della  Costituzione.    Ad  avviso della ricorrente la sottrazione al
 controllo  preventivo  non  potrebbe  discendere  altro   che   dalla
 impossibilita'  materiale  o  giuridica  di  sottoporre  a  controllo
 determinati atti, dal momento  che  la  Costituzione,  all'art.  100,
 imporrebbe  in  forma  assoluta,  senza  alcun  rinvio alla legge, il
 controllo in questione. Dall'inesistenza di sufficienti motivi per la
 sottrazione al controllo preventivo deriverebbe, secondo la Corte dei
 conti,  l'illegittimita',  per  cattivo  uso  della  discrezionalita'
 spettante  al  legislatore,  dell'art. 3, comma 13, della legge n. 20
 del 1994.   Infine, un  ulteriore  profilo  di  illegittimita'  della
 disposizione  ora  citata  e dell'art. 8 della stessa legge n. 20, e'
 sviluppato nell'ultima parte del ricorso, in riferimento all'art. 77,
 secondo e terzo  comma,  della  Costituzione,  nonche'  in  relazione
 all'art.  15, commi 2, lettera b), e 3 della legge 23 agosto 1988, n.
 400. La ricorrente  esclude  che  la  legge  n.  20  del  1994  possa
 considerarsi   una   legge   di   conversione,  dal  momento  che  il
 decreto-legge n. 453 e' formalmente decaduto nella parte considerata,
 e pertanto l'approvazione della legge medesima  non  assolverebbe  il
 Governo   dalla   responsabilita'   che  si  e'  assunto  emanando  i
 decreti-legge, con l'effetto di lasciare spazio  al  sindacato  della
 Corte  costituzionale.    Nel  ricorso  viene, infatti, contestata la
 sussistenza dei requisiti di necessita' ed urgenza per procedere alla
 riforma per decreto-legge della Corte dei  conti,  nonche'  il  fatto
 che,   attraverso   piu'  decreti-legge  reiterati,  il  Governo  sia
 intervenuto "in causa propria", al solo  scopo  di  sottrarsi  ad  un
 controllo   della  stessa  Corte.  Il  che  avrebbe  determinato  uno
 sviamento di potere  rispetto  alla  disciplina  dell'art.  77  della
 Costituzione    e   la   conseguente   lesione   delle   attribuzioni
 costituzionali spettanti alla ricorrente.
    4. - Con l'ordinanza n. 21 del 1995, questa  Corte  ha  dichiarato
 ammissibile  il  conflitto  in esame, affermando che il comportamento
 del Ministro del tesoro, oggetto di censura,  e'  da  riferirsi  alla
 responsabilita'  collegiale  del  Governo, e che va riconosciuta alla
 Corte   dei   conti,   nell'esercizio  della  funzione  di  controllo
 preventivo di legittimita' sugli atti del Governo, la  legittimazione
 a sollevare conflitto di attribuzione tra poteri.
    5. - Nel giudizio si e' costituito il Presidente del Consiglio dei
 ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato, per chiedere che il ricorso sia  dichiarato  inammissibile  o,
 comunque,   infondato.      In   riferimento  all'ammissibilita'  del
 conflitto, l'Avvocatura osserva che  il  ricorso  e'  stato  proposto
 dalla  Corte  dei  conti,  in  persona del Presidente pro-tempore, in
 forza dei poteri asseritamente conferitigli con la determinazione  n.
 135  del  12  agosto 1993 della Sezione del controllo della Corte dei
 conti. Nella memoria si rileva che, invece, dalla  determinazione  n.
 135  del  1993  risulta  che  la  Sezione,  deliberando il ricorso in
 oggetto, ha affermato la propria legittimazione a stare in giudizio a
 mezzo del proprio  Presidente.    L'Avvocatura  osserva  poi  che  il
 contenuto del ricorso in epigrafe non corrisponde al contenuto e alle
 conclusioni del ricorso deliberato dalla Sezione del controllo e che,
 di  conseguenza, dovendosi tener conto solo di quanto affermato nella
 citata determinazione della Sezione, il conflitto  non  sarebbe  piu'
 attuale   a   seguito   dello  ius  superveniens.  Nella  memoria  di
 costituzione  si   rileva   che,   mentre   il   ricorso   si   fonda
 sull'interpretazione dell'art.  7, comma 10, del decreto-legge n. 232
 del 1993, a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 3 della legge 14
 gennaio  1994,  n.  20 - che ha espressamente escluso dalla categoria
 degli atti soggetti al controllo quelli in materia  creditizia  -  il
 conflitto   sollevato   non   sarebbe   piu'  attuale.     Ad  avviso
 dell'Avvocatura  deve  comunque  escludersi   che   l'interpretazione
 dell'art.  7, comma 10, del decreto-legge n. 232 sia quella sostenuta
 dalla  Corte  dei  conti,  dal  momento  che   dall'esame   di   tale
 disposizione  emerge che i primi quattro commi dell'art. 7 riguardano
 il controllo preventivo di legittimita' sugli atti del Governo e  che
 i  rimanenti  commi  si riferiscono al controllo sulla gestione, alla
 relazione sull'esito del controllo e ai poteri della Corte dei  conti
 nell'esercizio  del  controllo. Nella memoria si osserva che tutte le
 citate disposizioni riguardano le  amministrazioni  pubbliche  e,  di
 conseguenza,  risulterebbe arbitrario voler riferire il solo comma 10
 agli  enti  creditizi,  che  sono  in  gran  parte  imprese  private.
 Inoltre,  il  riferimento  alla materia della tutela del risparmio (e
 non alla raccolta del risparmio), contenuto nell'art.  7,  comma  10,
 confermerebbe  che tale norma derogatoria riguarda le amministrazioni
 che esercitano l'alta vigilanza nelle  materie  indicate,  mentre  la
 riformulazione  della  stessa  disposizione  prevista  nel successivo
 decreto-legge n. 359  del  1993  conforterebbe  ulteriormente  questa
 interpretazione.   Infine, nella memoria si ribadisce che l'art. 100,
 secondo comma, della Costituzione deve essere integrato da  norme  di
 legge  ordinaria,  allo  scopo  di  individuare  gli atti soggetti al
 controllo, e che tali norme, per la funzione  alla  quale  assolvono,
 non  incorrono  nella  illegittimita'  costituzionale,  salvo che, in
 ipotesi estrema, non vengano a comprimere la sfera costituzionalmente
 tutelata  fino  ad  essere  sostanzialmente  elusive  del  controllo.
 L'Avvocatura  esclude che questa ipotesi ricorra nel caso di specie e
 che la norma in questione possa essere  censurata  sotto  il  profilo
 della    ragionevolezza,    sottolineando   la   funzione   di   alta
 specializzazione  tecnica  svolta  dalle  "autorita' creditizie" e la
 necessita' di una immediata applicazione delle loro decisioni.
    6.  -  In  prossimita'  dell'udienza  entrambe  le   parti   hanno
 depositato memorie illustrative.  Nella memoria della Corte dei conti
 si eccepisce, in primo luogo, la mancata costituzione in giudizio del
 Governo,  essendosi  costituito  solo il Presidente del Consiglio dei
 ministri, in persona del  Presidente  in  carica,  che,  pur  potendo
 essere  parte  di  taluni  conflitti  di  attribuzione,  e' da tenere
 distinto dal Governo, identificabile con il Consiglio  dei  ministri.
 In   riferimento   alle  eccezioni  di  inammissibilita'  prospettate
 dall'Avvocatura, nella memoria si precisa che ai sensi  dell'art.  1,
 terzo  comma,  del  regio decreto 12 luglio 1934, n. 1214, confermato
 dall'art. 3, comma 10, della legge n.  20  del  1994,  il  Presidente
 della  Corte  dei conti presiede anche la Sezione del controllo sulle
 amministrazioni dello Stato. Pertanto,  il  mandato  contenuto  nella
 determinazione  n.  135/93 della Sezione del controllo deve ritenersi
 indirizzato al Presidente della Corte dei conti, che si e' costituito
 nel presente giudizio.  Inoltre, la Corte dei conti osserva che,  una
 volta   sollevato   il  conflitto,  l'indicazione  delle  motivazioni
 giuridiche che lo sostengono spetta al difensore.    Nel  merito,  la
 Corte  dei  conti ribadisce che la lesione delle proprie attribuzioni
 non e' venuta meno a causa dell'entrata in vigore  dei  decreti-legge
 di reiterazione del decreto-legge n. 232 del 1993, e che tale lesione
 risulta  aggravata dal successivo comportamento del Governo, il quale
 ha  conferito  valore  normativo  alla   precedente   interpretazione
 estensiva dell'art. 7, comma 10, del decreto-legge n. 232.
    7.  - Nella memoria illustrativa dell'Avvocatura si ribadiscono le
 precedenti conclusioni, sottolineando, innanzitutto, che  il  decreto
 del quale la ricorrente rivendica la soggezione al controllo e' stato
 emanato durante la vigenza di un decreto-legge non convertito, che ha
 quindi  perso  efficacia  ex tunc, e che non puo' essere invocato per
 introdurre un controllo non previsto dalla normativa preesistente  di
 cui  al regio decreto 12 luglio 1934, n. 1214: normativa che, secondo
 l'Avvocatura, sarebbe rimasta  vigente  fino  all'entrata  in  vigore
 della  legge  n.  20 del 1994.   Dopo aver ricordato che la Corte dei
 conti non aveva mai rivendicato in passato che fossero  sottoposte  a
 controllo   preventivo   le   direttive   impartite  dalle  autorita'
 creditizie alla  Banca  d'Italia,  dal  momento  che  tali  atti  non
 rientravano  tra  quelli  elencati  agli  artt. 17, 18 e 19 del regio
 decreto n. 1214 del 1934, l'Avvocatura  contesta  che  il  richiamato
 decreto  del  Ministro  del  tesoro  22 giugno 1993, n. 242632, possa
 considerarsi "atto generale di indirizzo" ovvero "atto  attuativo  di
 direttive   comunitarie",  non  trattandosi  di  atto  amministrativo
 generale rivolto ad una pluralita' di destinatari, in quanto  rivolto
 soltanto  alla  Banca d'Italia, ed avendo le direttive comunitarie in
 materia bancaria avuto gia' attuazione con il decreto legislativo  n.
 481  del  1992.    In  relazione alla legittimita' delle disposizioni
 contestate della legge n. 20 del 1994, l'Avvocatura ribadisce che  e'
 pacifico  che  l'art.  100,  secondo  comma,  della Costituzione deve
 essere integrato dalla legislazione ordinaria al fine di  individuare
 gli  atti del Governo sottoposti al controllo. Nel caso di specie, le
 norme di cui all'art. 3, commi 1 e 13, della legge n. 20 del 1994,  e
 le  corrispondenti  disposizioni dei decreti precedenti, concorrono a
 definire l'area del controllo preventivo, seguendo una ratio  analoga
 a  quella  che in passato aveva escluso dall'applicazione delle norme
 della legge 21 marzo 1958, n. 259 gli istituti di credito  sottoposti
 alla vigilanza della Banca d'Italia.
                        Considerato in diritto
    1.  -  La  Corte dei conti, in persona del suo Presidente, solleva
 conflitto di attribuzione contro il Governo della Repubblica al  fine
 di  sentir  dichiarare: " a) che spetta alla Corte dei conti, Sezione
 del controllo sugli atti del Governo, la competenza a controllare  il
 decreto del Ministro del tesoro 22 giugno 1993, n. 242632, previa, se
 necessaria,  la proposizione, dinanzi a se stessa, della questione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 3, comma  13,  e  dell'art.  8,
 comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, per violazione dell'art.
 100,  secondo comma, della Costituzione; b) che, ai sensi degli artt.
 77, secondo comma, e 100,  secondo  comma,  della  Costituzione,  non
 spettava  al  Governo il potere di sostituire l'art. 7, comma 10, del
 decreto-legge  n.  232  del  1993  con  l'art.  7,  comma   10,   dei
 decreti-legge  n.  359 e 453 del 1993; c) in subordine alla richiesta
 sub b), nella contestata ipotesi che si qualificasse la legge  n.  20
 del  1994  come  legge  di  conversione,  dichiarare l'illegittimita'
 costituzionale degli artt. 3, comma 13, e 8, comma 1, della legge  n.
 20   del  1994  per  violazione  dell'art.  77,  terzo  comma,  della
 Costituzione".  Resiste al ricorso il Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri   per   chiedere   che  il  ricorso  stesso  sia  dichiarato
 inammissibile o, comunque, infondato.
    2. - Va preliminarmente verificata, la sussistenza dei presupposti
 soggettivi e oggettivi idonei a giustificare, ai sensi  dell'art.  37
 della  legge 11 marzo 1953, n. 87, la proposizione di un conflitto di
 attribuzione tra i poteri dello Stato.  Come gia' rilevato in sede di
 giudizio sulla ammissibilita' del ricorso (ord. n. 21 del  1995),  la
 presenza  di tali presupposti ricorre nel caso di specie.  Per quanto
 concerne i requisiti soggettivi, da un lato va, infatti, riconosciuta
 alla Corte dei conti,  nell'esercizio  della  funzione  di  controllo
 preventivo  di legittimita' sugli atti del Governo, la legittimazione
 a  sollevare  conflitto,  stante  la  piena   autonomia   dell'organo
 investito  di  tale funzione (v. sentt. 406 del 1989 e 466 del 1993);
 dall'altro, va  individuato  nel  Governo  il  soggetto  passivo  del
 conflitto  in esame, dal momento che il comportamento omissivo tenuto
 dal  Ministro  del  tesoro,  che  forma  l'oggetto  principale  della
 censura, deve intendersi riferito alla responsabilita' collegiale del
 Governo  in ordine all'interpretazione di atti di normazione primaria
 quali il decreto-legge 15 maggio 1993, n. 143 ed il decreto-legge  17
 luglio 1993, n. 232 (v. ord. n. 242 del 1993), mentre i comportamenti
 consistenti nell'adozione dei decreti-legge 14 settembre 1993, n. 359
 e  15  novembre 1993, n. 453, oggetto di ulteriore censura, risultano
 anche essi  imputabili  al  Governo  nella  sua  collegialita'.    La
 presenza  dei  requisiti oggettivi viene, d'altro canto, a trovare la
 sua giustificazione nel fatto che il ricorso contesta  la  violazione
 di  una  sfera  di  attribuzioni determinata da norme costituzionali,
 quale quella spettante alla Corte dei conti,  in  tema  di  controllo
 preventivo  di  legittimita',  dall'art.  100,  secondo  comma, della
 Costituzione.
    3. - L'Avvocatura dello  Stato  eccepisce  l'inammissibilita'  del
 ricorso  sotto  due  profili  diversi e cioe': a) per essere stato lo
 stesso ricorso proposto dalla Corte dei  conti  in  persona  del  suo
 Presidente anziche' - secondo quanto previsto nella determinazione n.
 135  della  Sezione  del controllo del 12 agosto 1993, concernente la
 proposizione del conflitto - dalla stessa Sezione in persona del  suo
 Presidente;  b)  per  il  fatto  che  il  contenuto  del  ricorso non
 risulterebbe corrispondente al contenuto di quanto  deliberato  dalla
 stessa  Sezione con la suddetta determinazione n. 135.  Ne' l'una ne'
 l'altra di tali eccezioni meritano di essere accolte.   In  proposito
 va,  infatti,  rilevato  che il conflitto, ancorche' deliberato dalla
 Sezione  del  controllo,  non  poteva  essere  sollevato  altro   che
 dall'organo  investito  della  titolarita' del potere di controllo di
 cui all'art. 100, secondo comma, della Costituzione, in relazione  al
 quale la lesione risulta affermata. Tale organo non e' la Sezione del
 controllo,  ma  la  Corte  dei  conti  nella  sua  unita',  della cui
 rappresentanza e' investito il suo Presidente pro-tempore, cui spetta
 anche presiedere la Sezione del controllo (v. art.  1,  terzo  comma,
 regio  decreto  12  luglio 1934, n. 1214 e art. 3, comma 10, legge 14
 gennaio 1994, n. 20).   Per quanto concerne  poi  l'asserita  mancata
 corrispondenza  tra  il  contenuto  del ricorso ed il contenuto della
 determinazione n. 135 del 1993, cio'  che  va  rilevato  e'  che,  in
 relazione  ai  profili essenziali del conflitto, i due atti vengono a
 coincidere nella sostanza, mentre gli svolgimenti ulteriori  espressi
 nel  ricorso  possono  trovare la loro giustificazione nell'autonomia
 che va riconosciuta alla difesa tecnica nello svolgimento delle  tesi
 affermate  dalla  parte,  autonomia  che  ha  indotto il difensore ad
 argomentare anche in  ordine  alla  sopravvivenza  dell'interesse  al
 conflitto pur in presenza di uno ius superveniens.
    4. - La Corte dei conti ha sollevato, nella memoria, una eccezione
 di  inammissibilita'  relativa  alla  costituzione  in  giudizio  del
 Presidente  del  Consiglio  dei  ministri   anziche'   del   Governo,
 identificabile  nel  Consiglio  dei  ministri. Tale eccezione non va,
 peraltro,  presa  in  esame,  avendo  la  difesa   della   ricorrente
 rinunciato alla stessa nel corso dell'udienza.
    5. - Nel merito il ricorso non e' fondato.
    La domanda principale proposta dalla ricorrente investe la mancata
 sottoposizione del decreto del Ministro del tesoro 22 giugno 1993, n.
 242632,  al  controllo  preventivo  di  legittimita'  della Corte dei
 conti. Con tale decreto - adottato in relazione all'art. 22, comma 1,
 lettere a) e c), del decreto legislativo 14 dicembre 1992, n.  481  -
 il   Ministro   del   tesoro,   su   conforme   parere  del  Comitato
 interministeriale per il  credito  ed  il  risparmio,  ha  dettato  i
 criteri  ai  quali la Banca d'Italia deve attenersi nel disciplinare,
 mediante  istruzioni  di  carattere  generale,   la   materia   delle
 partecipazioni  detenibili  da parte degli enti creditizi.  Ad avviso
 della Corte dei conti (v. nota dell'Ufficio di controllo  sugli  atti
 del  Ministero  del  tesoro n. 463 del 14 luglio 1993), il decreto in
 questione  doveva  essere  sottoposto  al  controllo  preventivo   di
 legittimita'   della  stessa  Corte  in  quanto  "riconducibile  alle
 categorie degli atti generali di indirizzo e di quelli  attuativi  di
 norme  comunitarie"  sottoposte  al  visto  di  legittimita' ai sensi
 dell'art. 7, comma 1, lettere c) ed e), del decreto-legge  15  maggio
 1993,  n.  143.   Opposto l'avviso del Ministero del tesoro che, alla
 richiesta della Corte dei conti, replicava  (v.  nota  del  direttore
 generale  del  tesoro  n.  242771 del 27 luglio 1993), richiamando la
 sopravvenienza - dopo la  caducazione  per  mancata  conversione  del
 decreto-legge  n. 143 del 1993 - del decreto-legge 17 luglio 1993, n.
 232, dove all'art. 7, comma  10,  veniva  introdotta  una  deroga  al
 controllo  preventivo  di  legittimita'  della  Corte  dei  conti nei
 confronti degli "enti che svolgono la loro  attivita'  nelle  materie
 contemplate  nell'art. 1 del decreto legislativo del Capo provvisorio
 dello  Stato  17  luglio  1947,  n.  691"  (e  cioe'  nelle   materie
 concernenti  la  tutela  del  risparmio,  l'esercizio  della funzione
 creditizia  e  la  valuta).     Sulla   base   di   tale   divergenza
 interpretativa la Sezione del controllo della Corte dei conti, con la
 determinazione  n. 135 del 12 agosto 1993, deliberava di sollevare il
 conflitto in esame, ma il ricorso relativo veniva  proposto  soltanto
 il  14 ottobre 1994, in presenza di un quadro normativo sensibilmente
 mutato a seguito dell'adozione del decreto-legge 14  settembre  1993,
 n.  359  (reiterato  con  il decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453),
 che, all'art. 7, comma 10, apportava una modifica alla corrispondente
 disposizione contenuta nel decreto-legge n. 232 del 1993;  nonche'  a
 seguito  dell'approvazione  della  legge 14 gennaio 1994, n. 20, che,
 all'art.  3, comma 13, riproduceva il testo dell'art.  7,  comma  10,
 del decreto-legge n. 359 del 1993.
    6.  - Ai fini della soluzione del conflitto in esame - che investe
 l'esistenza  o  meno  di  un  obbligo  del  Ministro  del  tesoro  di
 sottoporre  al  controllo  preventivo di legittimita' della Corte dei
 conti il decreto 22 giugno 1993, n. 242632 - la disciplina in tema di
 controllo che assume rilievo non puo'  essere  altro  che  quella  in
 vigore  alla  data dell'emanazione dell'atto in relazione al quale il
 conflitto stesso e' stato sollevato: disciplina che, nella specie, va
 identificata in quella espressa nel decreto-legge 15 maggio 1993,  n.
 143,  vigente  al momento dell'emanazione dell'atto e successivamente
 convalidata nei suoi effetti - a seguito  della  mancata  conversione
 dello  stesso decreto-legge - dall'art. 8, comma 1, della legge n. 20
 del 1994.  In base a tale disciplina la domanda avanzata dalla  Corte
 dei  conti non puo' essere accolta.  In primo luogo va escluso che il
 decreto del  Ministro  del  tesoro  di  cui  e'  causa  possa  essere
 qualificato,   ai   sensi   dell'art.  7,  comma  1,  lett.  c),  del
 decreto-legge n. 143, come "atto generale di indirizzo".  Il  decreto
 ministeriale  in  questione,  infatti,  non  assume i caratteri della
 "generalita'", dal  momento  che  non  contempla  una  pluralita'  di
 destinatari,   indeterminati   o  indeterminabili,  ma  si  indirizza
 esclusivamente alla Banca d'Italia, cui vengono indicati i criteri da
 seguire nel disciplinare, in conformita' delle direttive del Comitato
 interministeriale del credito  e  del  risparmio,  la  materia  delle
 partecipazioni  detenibili  da  parte  degli  enti  creditizi. Ne' il
 carattere generale delle istruzioni che la Banca d'Italia  e'  venuta
 successivamente  ad  adottare  nei confronti degli enti creditizi, ai
 sensi dell'art. 22, comma 1, del decreto legislativo n. 481 del 1992,
 puo' essere tale da  riflettersi  nella  natura  puntualmente  mirata
 degli  indirizzi impartiti, con il decreto in esame, dal Ministro del
 tesoro a tale ente.  Parimenti va anche escluso che lo stesso decreto
 del Ministro del tesoro possa essere qualificato, ai sensi  dell'art.
 7,  comma  1,  lett.    e), tra gli "atti generali attuativi di norme
 comunitarie". Il decreto in questione, infatti, oltre a non  disporre
 -  per  le  ragioni gia' richiamate - del carattere della generalita'
 non puo' neppure ritenersi "attuativo" di una normativa  comunitaria,
 quale  quella  espressa nella direttiva 89/646 CEE, la cui attuazione
 e'  stata  direttamente operata - in esecuzione della delega espressa
 con l'art.  25 della legge 19 febbraio 1992, n.  142  -  mediante  il
 decreto  legislativo  n. 481 del 1992.  Va, dunque, riconosciuto che,
 alla luce della disciplina in tema di controllo in vigore  alla  data
 dell'adozione dell'atto, non sussistevano le condizioni per affermare
 la  sottoponibilita'  del  decreto  del Ministro del tesoro 22 giugno
 1993, n. 242632, al controllo preventivo di legittimita' della  Corte
 dei conti.
    7.  -  Sulla base di quanto precede non puo' assumere rilievo, per
 la soluzione del conflitto  in  esame,  il  richiamo  alla  normativa
 intervenuta  successivamente  al  decreto-legge  n.  143  del  1993 e
 formulata nei decreti-legge nn. 232, 359 e 453 del 1993 nonche' nella
 legge n. 20 del 1994.  Le domande avanzate nel ricorso  in  ordine  a
 tale  normativa,  anche con riferimento alle prospettate questioni di
 legittimita' costituzionale, non  vanno,  di  conseguenza,  prese  in
 esame.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  che  non  spettava  alla  Corte  dei  conti,  Sezione del
 controllo sugli atti del Governo,  la  competenza  a  controllare  il
 decreto del Ministro del tesoro 22 giugno 1993, n. 242632.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 26 giugno 1995.
                      Il Presidente: BALDASSARRE
                          Il redattore: CHELI
                       Il cancelliere: FRUSCELLA
    Depositata in cancelleria il 6 luglio 1995.
                       Il cancelliere: FRUSCELLA
 95C0871