N. 313 SENTENZA 28 giugno - 12 luglio 1995

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Reati in genere - Diffamazione a  corpo  politico,  amministrativo  o
 giudiziario  -  Minimo  edittale  della pena inadeguato per eccesso -
 Accesso ai riti alternativi - Difficolta' - Ragionevolezza - Richiamo
 alla giurisprudenza della Corte (v.  sentenze nn. 341/1/994, 376/1993
 e ordinanza n. 275/1994 - Non fondatezza.
 
 (C.P., artt. 342 e 343).
 
 (Cost., artt. 3, 24, 27, terzo comma e 97, primo comma).
 
(GU n.33 del 9-8-1995 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Antonio BALDASSARRE;
 Giudici: prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Enzo
    CHELI,  dott.  Renato  GRANATA,  prof.  Giuliano  VASSALLI,  prof.
    Francesco   GUIZZI,   prof.   Cesare   MIRABELLI,  prof.  Fernando
    SANTOSUOSSO,  avv.  Massimo  VARI,  dott.  Cesare  RUPERTO,  dott.
    Riccardo CHIEPPA;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nei giudizi di legittimita' costituzionale:
       a)  dell'art.  342  del  codice  penale  promosso con ordinanze
 emesse il 9 novembre 1994 dal Pretore di Cremona  e  il  14  febbraio
 1995  dal Pretore di Trieste, rispettivamente iscritte ai nn. 3 e 232
 del registro ordinanze 1995 e  pubblicate  nella  Gazzetta  Ufficiale
 della Repubblica nn. 4 e 18, prima serie speciale, dell'anno 1995;
       b)  dell'art.  343  del  codice  penale  promosso con ordinanze
 emesse il 27 ottobre 1994 dalla Corte di appello di Reggio  Calabria,
 il  1  dicembre 1994 dal Pretore di Potenza e il 30 novembre 1994 dal
 Pretore di Trieste, rispettivamente iscritte ai nn. 10, 69 e 187  del
 registro  ordinanze  1995 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
 Repubblica nn. 4, 7 e 15, prima serie speciale, dell'anno 1995;
    Udito nella camera di consiglio del  14  giugno  1995  il  Giudice
 relatore Giuliano Vassalli;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Il  Pretore di Cremona impugna l'art. 342 del codice penale
 per contrasto con gli artt. 3 e 27  della  Costituzione.  L'ordinanza
 prende  le  mosse  dalle  considerazioni che indussero questa Corte a
 dichiarare,  con  la  sentenza  n.  341  del  1994,  l'illegittimita'
 costituzionale  dell'art.  341 c.p. nella parte in cui prevedeva come
 minimo edittale la pena di mesi sei di reclusione.
    Alla stregua di quelle considerazioni, il giudice  a  quo  ritiene
 che  anche  l'identico  minimo  edittale  previsto dall'art. 342 c.p.
 debba   ritenersi   frutto   di   un   bilanciamento   manifestamente
 irragionevole  tra  la tutela dell'onore e del prestigio dei soggetti
 investiti di pubblica funzione e la liberta' del cittadino.
    Osserva poi il rimettente  che  la  tutela  penale  dell'onore  e'
 assicurata,  in  via  generale,  dalle  figure  dell'ingiuria e della
 diffamazione, fattispecie, queste, il  cui  tratto  differenziale  e'
 rappresentato  dalla  presenza  o meno dell'offeso e che qualifica in
 termini di maggior  gravita'  l'ipotesi  che  si  realizza  allorche'
 l'offeso  sia assente. Per le offese al prestigio di organi pubblici,
 invece, tale criterio viene abbandonato, perche'  la  diffamazione  a
 corpo  politico  amministrativo e giudiziario determina solo, a norma
 dell'art. 595, ultimo comma, c.p., l'aumento della pena base,  mentre
 l'offesa  che  si  realizzi "al cospetto" dei medesimi organi integra
 una fattispecie "punita in maniera significativa" nonostante  che  in
 quest'ultimo  caso l'offesa si presenti piu' circoscritta, e, dunque,
 con una diffusivita' ridotta. Da qui la censura di irragionevolezza e
 la violazione della funzione rieducativa della pena atteso il livello
 eccessivo della sanzione minima comminata.
    2. - Analoghe censure sono  state  svolte  anche  dal  Pretore  di
 Trieste,  il  quale impugna l'art. 342 del codice penale sempre nella
 parte in cui prevede un minimo edittale di mesi  sei  di  reclusione,
 per contrasto con gli artt. 3, 27, terzo comma, 24 e 97, primo comma,
 della  Costituzione.  Partendo  dalla  sentenza  n.  341 del 1994, il
 rimettente osserva che l'oggetto specifico  della  tutela  penale  e'
 comune  a  tutti  i  delitti  di oltraggio e che la maggiore o minore
 gravita' dei diversi titoli di reato e' ben delineata dal legislatore
 con  la  previsione  di  pene  diversificate:  tuttavia,   nel   caso
 contemplato  nell'art.  342  del  codice penale, e' stato previsto un
 minimo  edittale uguale a quello stabilito per l'oltraggio a pubblico
 ufficiale. Cio' posto, rileva il giudice a quo,  il  mutamento  della
 "scala gerarchica dei valori morali e giuridici" prodottosi nel tempo
 non  giustifica piu' la sanzione edittalmente prevista nel minimo per
 il reato in  esame,  impedendo  al  giudice  di  applicare  una  pena
 "effettivamente  proporzionata all'entita' della lesione ed idonea ad
 essere meglio  accettata  dal  condannato  e  dalla  maggioranza  dei
 consociati"  nelle  ipotesi  di  modesta rilevanza, e cio' tanto piu'
 dopo la declaratoria di illegittimita' costituzionale  dell'art.  341
 del codice penale. La irrogazione di una pena sproporzionata al grado
 di  effettivo disvalore del fatto comprometterebbe dunque, secondo il
 giudice a quo, la finalita' rieducativa della pena e l'art.  3  della
 Costituzione  "in  quanto  si  avrebbe  violazione  del  principio di
 eguaglianza sostanziale". Risulterebbero poi violati gli artt.  24  e
 97  della  medesima  Carta in quanto l'inadeguatezza in eccesso della
 sanzione ostacolerebbe,  nei  casi  meno  gravi,  l'accesso  ai  riti
 alternativi "essendo piu' difficile teoricamente riuscire ad ottenere
 pene  pecuniarie sostitutive di quelle detentive", a tutto discapito,
 conclude il giudice a quo, "del buon andamento  e  imparzialita'  dei
 pubblici uffici".
    3.  -  La  Corte  di  appello  di Reggio Calabria solleva, invece,
 questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  343  del  codice
 penale  nella  parte  in  cui prevede come minimo edittale la pena di
 anni uno di reclusione. L'ordinanza di rimessione fa  anch'essa  leva
 sulla  sentenza  n.  341 del 1994 e ritiene che le considerazioni ivi
 svolte in tema di oltraggio a pubblico ufficiale si  attaglino  anche
 alla  fattispecie  prevista  dall'art.  343  c.p., considerato che il
 ragionevole   bilanciamento   di   interessi   che   presiede    alla
 determinazione  della  pena  deve  tener  conto  del mutato rapporto,
 rispetto al codice del 1930, tra amministrazione  della  giustizia  e
 societa'. Da qui il corollario che nei casi piu' lievi il prestigio e
 il  buon  andamento  dell'amministrazione  della  giustizia  appaiono
 colpiti in modo cosi' irrisorio da non giustificare una  pena  minima
 tanto   elevata.   Il  profilo  censurato,  poi,  determinerebbe  una
 violazione anche dell'art. 97, primo comma,  della  Costituzione,  in
 quanto - osserva il giudice a quo - l'inadeguatezza in eccesso di una
 sanzione  penale determina costi processuali rilevanti e tale effetto
 contrasta con  il  principio  del  buon  andamento  ed  imparzialita'
 dell'amministrazione.
    4.  -  Anche  il  Pretore  di  Potenza  ha svolto analoghe censure
 ponendo a base delle stesse la sentenza  n.  341  del  1994,  e  cio'
 perche', osserva il rimettente, tanto l'art. 341 c.p., preso in esame
 nella  richiamata  sentenza  della  Corte,  quanto  l'art.  343 c.p.,
 oggetto della presente impugnativa, "sono apprestati a  tutela  dello
 stesso  bene  giuridico,  individuato  nel  prestigio  della pubblica
 amministrazione, come e' dimostrato anche dalla  parificazione  delle
 due  ipotesi rispetto alla applicazione della scriminante speciale di
 cui all'art. 4 D. Lgs. Lgt. 14 settembre 1944, n. 288". Gli argomenti
 svolti dalla Corte nella  sentenza  n.  341  del  1994  varrebbero  a
 fortiori  nel  caso  previsto  dall'art. 343 c.p. considerato il piu'
 elevato minimo edittale ivi previsto a fronte di quello stabilito per
 il reato di  cui  all'art.  341  c.p.  prima  della  declaratoria  di
 incostituzionalita'.  D'altra parte, rileva il giudice a quo, neppure
 possono soccorrere elementi di specialita'  a  giustificare  la  pena
 edittalmente  stabilita  nel  minimo  per  la  fattispecie oggetto di
 censura, giacche' la stessa non  e'  volta  a  tutelare  "l'esercizio
 della  funzione giurisdizionale nei suoi profili di stretta rilevanza
 costituzionale",  trovando  la   stessa   riconoscimento   in   altre
 previsioni normative (ad es. art. 290 c.p.).
    5. - L'identica questione e' stata infine sollevata dal Pretore di
 Trieste, il quale deduce profili del tutto analoghi di illegittimita'
 costituzionale  in forza delle considerazioni svolte nella piu' volte
 citata sentenza n. 341 del 1994. Anche il Pretore di  Trieste  rileva
 che  gli  artt.  341  c.p.  e 343 c.p. presentano un identico oggetto
 giuridico  cosicche'  anche  a  quest'ultima   fattispecie   dovrebbe
 estendersi  la  declaratoria di incostituzionalita', tenuto conto che
 il minimo edittale  ivi  previsto  "ammonta  ora  -  dopo  la  citata
 sentenza  della  Corte costituzionale - a ben 24 volte la pena minima
 prevista per il reato di oltraggio di cui all'art. 341 c.p.".
                        Considerato in diritto
    1. - Le ordinanze di rimessione sottopongono all'esame della Corte
 questioni fra loro intimamente connesse:  i  relativi  giudizi  vanno
 pertanto riuniti per essere decisi con un'unica sentenza.
    2.  - Il Pretore di Cremona e il Pretore di Trieste impugnano, per
 profili solo in parte coincidenti, l'art. 342 del codice penale nella
 parte in cui prevede come minimo edittale la  pena  di  mesi  sei  di
 reclusione.  Comune ad entrambe le ordinanze e' la dedotta violazione
 degli artt. 3 e 27 della Costituzione: a parere dei giudici a quibus,
 infatti, ponendo la norma a raffronto con la sanzione  stabilita  per
 il   reato   di  diffamazione  a  corpo  politico,  amministrativo  o
 giudiziario e tenendo conto del mutamento della "scala gerarchica dei
 valori morali e giuridici", la previsione del minimo edittale sancita
 dalla norma oggetto di censura appare eccessiva e  tale,  quindi,  da
 vulnerare  il  principio  di  "uguaglianza sostanziale" e la funzione
 rieducativa della pena. A parere del Pretore di Trieste la  norma  si
 porrebbe  poi  in  contrasto  anche  con  gli  artt.  24  e  97 della
 Costituzione, in quanto, a  suo  dire,  l'inadeguatezza  per  eccesso
 della  sanzione  edittalmente  stabilita nel minimo ostacolerebbe nei
 casi  meno  gravi  l'accesso   ai   riti   alternativi   per   essere
 "teoricamente"   piu'   difficile   ottenere   pene   pecuniarie   in
 sostituzione di  quelle  detentive,  con  conseguente  compromissione
 anche "del buon andamento e imparzialita' dei pubblici uffici".
    3. - Per profili del tutto analoghi, la Corte di appello di Reggio
 Calabria,  il  Pretore  di  Potenza  ed  il  Pretore di Trieste hanno
 sollevato questione di legittimita' costituzionale dell'art. 343  del
 codice penale nella parte in cui prevede come minimo edittale la pena
 di anni uno di reclusione. Ad avviso dei giudici rimettenti, infatti,
 la  previsione  di  una  pena  stabilita  nel  minimo in misura tanto
 elevata verrebbe a porsi in contrasto con gli artt.  3  e  27,  terzo
 comma,  della Costituzione per le stesse ragioni che indussero questa
 Corte a dichiarare, con la sentenza n.  341  del  1994,  la  parziale
 illegittimita'  costituzionale dell'art. 341, primo comma, del codice
 penale. A tali  censure  la  Corte  di  appello  di  Reggio  Calabria
 aggiunge  anche  la  violazione  dell'art.  97,  primo  comma,  della
 Costituzione, in quanto - osserva il giudice a quo - "l'inadeguatezza
 in  eccesso  di  una  sanzione  penale  determina  costi  processuali
 rilevanti  e  tale  effetto  viola  il principio del buon andamento e
 dell'imparzialita' dell'amministrazione".
    4.  -  Comune  a  tutte  le ordinanze di rimessione e' l'insistito
 richiamo ai principi enunciati da questa Corte nella sentenza n.  341
 del   1994,   con  la  quale  e'  stata  dichiarata  l'illegittimita'
 costituzionale dell'art. 341, primo  comma,  del  codice  penale,  in
 riferimento  agli  artt.  3  e  27,  terzo comma, della Costituzione,
 proprio  nella  parte  in  cui  prevedeva  come  minimo  edittale  la
 reclusione  per  mesi  sei. In tale sentenza, come i giudici a quibus
 rammentano,  questa  Corte,  pur  ribadendo  i  rigorosi  limiti  che
 presiedono  al  controllo  delle discrezionali scelte del legislatore
 circa la determinazione della quantita'  e  qualita'  della  sanzione
 penale,  ebbe  a rilevare, con specifico riferimento alla fattispecie
 allora esaminata, come "la rigidita' e severita' del minimo  edittale
 previsto   dal   legislatore   del  1930"  apparisse  "frutto  di  un
 bilanciamento   ormai   manifestamente   irragionevole   tra   tutela
 dell'onore  e  del  prestigio  del  pubblico  ufficiale  (e  del buon
 andamento dell'amministrazione) anche nei casi di minima  entita',  e
 quello  della  liberta'  personale del soggetto agente", evidenziando
 come "la manifesta irragionevolezza" della norma censurata  emergesse
 "anche  dal  raffronto  con  il  trattamento  sanzionatorio  previsto
 dall'art. 594 del codice penale".
    Perche'  sia  dunque   possibile   operare   uno   scrutinio   che
 direttamente investa il merito delle scelte sanzionatorie operate dal
 legislatore, e' pertanto necessario che l'opzione normativa contrasti
 in  modo manifesto con il canone della ragionevolezza, vale a dire si
 appalesi, in concreto, come espressione  di  un  uso  distorto  della
 discrezionalita'  che  raggiunga  una  soglia  di  evidenza  tale  da
 atteggiarsi alla stregua di una figura per cosi' dire sintomatica  di
 "eccesso   di   potere"   e,   dunque,  di  sviamento  rispetto  alle
 attribuzioni che l'ordinamento assegna alla funzione legislativa. Non
 e',  quindi,  qualsiasi  mutamento  del  costume  o  della  coscienza
 collettiva  a  poter  indurre  nuove  gerarchie  di  valori  idonee a
 compromettere,  sul  piano  della  ragionevolezza  costituzionalmente
 rilevante,  la  ponderazione che dei beni coinvolti sia stata operata
 in  sede  normativa  attraverso   l'individuazione   delle   condotte
 penalmente  rilevanti e la determinazione del conseguente trattamento
 sanzionatorio, giacche', ove cosi'  fosse,  alla  relativita'  di  un
 giudizio  di valore - quello legislativo - finirebbe ineluttabilmente
 per sovrapporsi un controllo di ragionevolezza anch'esso relativo  e,
 come  tale, idoneo a realizzare una funzione eminentemente "creativa"
 che sicuramente fuoriesce  dai  compiti  riservati  a  questa  Corte.
 L'apprezzamento  in  ordine  alla  manifesta  irragionevolezza  della
 quantita'  o  qualita'  della  pena  comminata  per  una  determinata
 fattispecie  incriminatrice finisce, dunque, per saldarsi intimamente
 alla verifica circa l'effettivo uso  del  potere  discrezionale,  nel
 senso  che,  ove  uno  o  piu'  fra  i  valori  che  la norma investe
 apparissero sviliti al punto da risultare in concreto compromessi  ad
 esclusivo  vantaggio  degli altri, sara' la stessa discrezionalita' a
 non potersi dire correttamente esercitata, proprio perche' carente di
 alcuni dei termini sui quali la stessa poteva e doveva fondarsi.
    In una simile prospettiva diviene allora agevole avvedersi di come
 i principi enunciati nella sentenza  n.  341  del  1994  non  possano
 affatto  determinare  -  come pretenderebbero i giudici a quibus - un
 automatico trasferimento del relativo decisum alle  ipotesi  previste
 dagli  artt.  342  e  343  del codice penale, dal momento che, per un
 verso,  le  strutture  delle  norme  che  vengono  ora in discorso si
 distinguono non poco dalla figura dell'oltraggio a pubblico ufficiale
 allora esaminata,  mentre,  sotto  altro  profilo,  sono  proprio  le
 connotazioni    fortemente    "storicizzate"    che    caratterizzano
 quest'ultima ipotesi delittuosa ad impedire una qualsiasi  estensione
 della  richiamata pronuncia al di fuori del circoscritto tema che con
 essa si e' inteso affrontare  e  risolvere.  E'  di  tutta  evidenza,
 infatti,  che l'offesa all'onore o al prestigio di un corpo politico,
 amministrativo o giudiziario o di una pubblica  autorita'  costituita
 in  collegio  non puo' affatto ricondursi, sul piano della lesivita',
 ad  una  mera  ipotesi  di  oltraggio   "plurimo",   giacche'   nella
 fattispecie descritta dall'art. 342 del codice penale e' la specifica
 qualita'   dell'organo  e  delle  attribuzioni  che  esso  esprime  a
 rappresentare la connotazione tipizzante  e,  dunque,  un  valore  da
 tutelare  adeguatamente  anche  sotto  il  profilo  dell'onore  e del
 prestigio, per i naturali riverberi negativi che l'offesa puo' in se'
 determinare sul corretto e sereno svolgimento delle funzioni  che  il
 corpo  o  il  collegio  e'  chiamato  a esercitare. Ne' a contrastare
 simili rilievi puo' soccorrere, come ha invece ritenuto il Pretore di
 Cremona, il diverso e piu' blando trattamento previsto per  il  reato
 di  diffamazione  a  corpo  politico,  amministrativo  o  giudiziario
 dall'art. 594, quarto comma, del codice penale, dal  momento  che  e'
 proprio   l'offesa  "al  cospetto"  ad  integrare  una  condotta  che
 direttamente aggredisce il bene tutelato, esponendolo, quindi, ad una
 lesione certo piu' grave rispetto a  quella  che  scaturisce  da  una
 offesa  soltanto  "indiretta"  realizzata  comunicando  con  altri, i
 quali, a loro volta, tali offese possono  anche  non  condividere  o,
 addirittura, contrastare.
    Considerazioni  analoghe valgono, ovviamente, anche per il delitto
 previsto dall'art. 343 del codice  penale,  ove,  anzi,  il  primario
 risalto  che  nell'ordinamento assume la natura delle funzioni che il
 magistrato  svolge  in  udienza  ancor  piu'   renderebbe   impropria
 qualsiasi  assimilazione  -  sia  pure  sotto il circoscritto profilo
 della individuazione del minimo edittale - alla  figura  di  "genere"
 rappresentata  dall'oltraggio a qualsiasi pubblico ufficiale. D'altra
 parte, se questa Corte non  manco'  di  osservare,  nella  richiamata
 sentenza  n. 341 del 1994, come in altri paesi "di democrazia matura"
 il delitto di oltraggio fosse punito meno  severamente  o  risultasse
 addirittura  "ignorato",  un simile rilievo non puo' certo valere con
 riferimento all'ipotesi prevista dall'art.  343  del  codice  penale,
 posto  che  in  paesi  di antica e consolidata tradizione liberale il
 prestigio degli organi di giustizia  e'  assicurato  da  norme  assai
 rigorose  che  testimoniano come un simile bene assuma un rilievo del
 tutto peculiare nel quadro di qualsiasi assetto democratico.
    Dissolto, quindi,  il  dubbio  di  costituzionalita'  delle  norme
 censurate   con   riferimento  al  principio  di  ragionevolezza,  le
 questioni si rivelano infondate anche in relazione all'art. 27, terzo
 comma, della Costituzione,  essendo  stata  la  funzione  rieducativa
 della  pena  invocata  dai  giudici  a  quibus per i medesimi profili
 dedotti  a  sostegno  dell'asserito  contrasto   delle   disposizioni
 impugnate  con l'art. 3 della Carta fondamentale. Del tutto improprio
 si rivela, poi, il richiamo all'art. 24  della  Costituzione  operato
 dal Pretore di Trieste sul presupposto che la previsione di un minimo
 edittale  inadeguato per eccesso renderebbe meno agevole l'accesso ai
 riti  alternativi, e cio' sia perche' tra editto e scelte processuali
 possono intravedersi esclusivamente  relazioni  di  mero  fatto,  sia
 perche'  si  invocano profili del tutto ipotetici ed eventuali, quali
 la difficolta' "teorica" di "riuscire  ad  ottenere  pene  pecuniarie
 sostitutive di pene detentive".
    Ugualmente  infondata  e', infine, la pretesa violazione dell'art.
 97, primo comma, della Costituzione, che alcuni giudici hanno desunto
 dai "rilevanti costi processuali" e dalla  minor  propensione  per  i
 riti  alternativi  che  scaturirebbero  dagli elevati minimi edittali
 previsti dalle norme oggetto di impugnativa. Questa Corte ha  infatti
 costantemente  affermato  che il principio del buon andamento e della
 imparzialita' dell'amministrazione, alla cui realizzazione l'indicato
 parametro vincola  la  disciplina  dell'organizzazione  dei  pubblici
 uffici, pur potendosi riferire anche agli organi dell'amministrazione
 della  giustizia  (v.  sentenze  n.  18  del  1989 e n. 86 del 1982),
 attiene esclusivamente alle  leggi  concernenti  l'ordinamento  degli
 uffici   giudiziari   e   il   loro   funzionamento  sotto  l'aspetto
 amministrativo, mentre e' del tutto estraneo al  tema  dell'esercizio
 della  funzione  giurisdizionale  nel suo complesso e in relazione ai
 diversi provvedimenti che costituiscono espressione di tale esercizio
 (v., sentenza n. 376 del 1993 e ordinanza n. 275 del 1994).
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Riuniti i giudizi, dichiara non fondate:
       a) la questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  342
 del  codice  penale,  sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 27,
 terzo comma, e 97, primo comma, della Costituzione,  dal  Pretore  di
 Cremona  e  dal  Pretore  di  Trieste  con  le  ordinanze indicate in
 epigrafe;
       b) la questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  343
 del  codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo
 comma, e 97, primo comma, della Costituzione, dalla Corte di  appello
 di  Reggio  Calabria, dal Pretore di Potenza e dal Pretore di Trieste
 con le ordinanze indicate in epigrafe.
    Cosi' deciso in  Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 28 giugno 1995.
                      Il Presidente: BALDASSARRE
                        Il redattore: VASSALLI
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 12 luglio 1995.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
 95C0892