N. 442 ORDINANZA (Atto di promovimento) 3 marzo 1995

                                N. 442
 Ordinanza emessa  il  3  marzo  1995  dal  pretore  di  Grosseto  nel
 procedimento penale a carico di Pulcini Francesco
 Ambiente  (Tutela  dell')  -  Inquinamento  - Scarichi provenienti da
    pubbliche  fognature  che  superino   limiti   di   accettabilita'
    stabiliti  dalle  regioni,  scarichi  provenienti  da insediamenti
    produttivi eccedenti limiti di accettabilita' delle tabelle di cui
    alla legge n. 319/1976 o, se recapitano  in  pubbliche  fognature,
    quelli  fissati  dall'art.  12,  primo  comma, n. 2, stessa legge,
    nonche'  scarichi  che  superino  i   limiti   di   accettabilita'
    inderogabili  per  i  parametri  di  natura  tossica persistente e
    bioaccumulabile - Lamentata depenalizzazione per la prima  ipotesi
    e   riduzione  della  pena  per  le  altre  -  Irragionevolezza  -
    Disparita' di trattamento  rispetto  ad  ipotesi  meno  gravi,  ma
    punite  con maggior severita', nonche' tra regioni e rispetto alla
    disciplina dettata con altre leggi sempre sull'inquinamento  delle
    acque   -  Lesione  del  diritto  all'ambiente  salubre  -  Omesso
    adeguamento  con  le  norme   del   diritto   internazionale,   in
    particolare con quelle CEE (direttiva n. 271/1991).
 (D.-L. 16 gennaio 1995, n. 9, art. 3).
 (Cost., artt. 3, 9, 10 e 32).
(GU n.35 del 23-8-1995 )
                              IL PRETORE
    Ha  emesso  la  seguente ordinanza dibattimentale nel procedimento
 penale n. 595/94 reg. dibattimento a  carico  di  Pulcini  Francesco,
 imputato  del  reato  di  cui agli artt. 21, primo comma, e 21, terzo
 comma, legge n. 319/1976, osserva che gia' in precedenza questo  pre-
 tore  si  e'  pronunciato  in  ordine  all'ipotesi  di  non manifesta
 infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art.
 3 del d.-l. 17 settembre 1994, n. 537  con  trasmissione  degli  atti
 alla  Corte  costituzionale,  argomentando  che  detto  articolo  che
 modificava il terzo comma dell'art.  21  legge  Merli  prevedeva  una
 manifesta  disparita'  di  trattamento  tra coloro che scaricando non
 osservavano i limiti di  accettabilita'  previsti  dalle  tabelle,  e
 coloro  che  ai  sensi  del  primo  comma  dell'art.  21  legge Merli
 scaricavano in difetto di prescritta autorizzazione, fattispecie  per
 la  quale  il  legislatore  aveva  previsto  l'obbligatorieta'  della
 sanzione penale. A parere dello scrivente la norma citata  si  poneva
 in contrasto con l'art. 3 della Costituzione per manifesta disparita'
 di   trattamento  sanzionatorio  che  il  legislatore  prevedeva  per
 fattispecie analoghe ed anzi di  maggiore  gravita'  sostanziale  per
 quanto   in  particolare  concerneva  la  modifica  del  terzo  comma
 dell'art. 21 legge Merli come novellato dal decreto-legge citato.
    In contrasto altresi' con l'art. 9 della Costituzione in relazione
 al  secondo  comma  dell'articolo  stesso  in   quanto   la   mancata
 applicazione   della   sanzione  penale  nella  fattispecie  prevista
 dall'art.  3  del  decreto-legge  citato  appariva  insufficiente   a
 tutelare  il paesaggio nell'accezione piu' lata che recenti pronuncie
 delle Corti supreme hanno dato alla nozione del paesaggio; infine  la
 norma in questione appariva in contrasto altresi' con l'art. 10 della
 Costituzione che impone allo Stato italiano di conformarsi alle norme
 del  diritto  internazionale generalmente riconosciute laddove omette
 la sostanziale applicazione  e  attuazione  delle  direttive  CEE  in
 materia di inquinamento ambientale.
    Osserva  il  pretore  che  le  argomentazioni  richiamate  possono
 riproporsi con riferimento all'art. 3 del d.-l. 16 gennaio 1995, n. 9
 e  si  ritiene,  pertanto,  di  dover  dichiarare  rilevante  e   non
 manifestamente infondata, la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art.  3  del  d.-l.  16  gennaio  1995, n. 9 il quale, nella sua
 integrale stesura  prevede,  in  modifica  globale  del  terzo  comma
 dell'art.  21  della legge n. 319/1976 e successive modificazioni che
 "Fatte salve le disposizioni penali di cui  al  primo  e  al  secondo
 comma,  l'inosservanza  dei  limiti di accettabilita' stabiliti dalle
 regioni ai sensi dell'art. 14, secondo  comma,  ove  non  costituisca
 reato  o  circostanza  aggravante,  e'  punita  con  la sola sanzione
 amministrativa pecuniaria da lire tre milioni a lire trenta  milioni,
 salvo diversa disposizione della legge regionale. Per gli scarichi da
 insediamenti  produttivi,  in  caso  di  superamento  dei  limiti  di
 accettabilita' delle tabelle  allegate  alla  presente  legge  e,  se
 recapitano  in pubbliche fognature, di quelli fissati ai sensi del n.
 2, del primo comma, dell'art. 12, si applica la pena dell'ammenda  da
 lire  quindici  milioni  a lire centocinquanta milioni o dell'arresto
 fino ad un anno. Si applica la pena dell'ammenda da lire  venticinque
 milioni  a  lire  duecentocinquanta milioni o la pena dell'arresto da
 due mesi a due anni qualora siano superati i limiti di accettabilita'
 inderogabili  per  i  parametri  di  natura  tossica  persistente   e
 bioaccumulabile,  di cui al n. 4 del documento unito alla delibera 30
 dicembre 1980 del Comitato  interministeriale  previsto  dall'art.  3
 della presente legge, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 9 del 10
 gennaio  1981,  e  di  cui  all'elenco  dell'allegato 1 alla delibera
 medesima.   Ai   fini   della   quantificazione    della    pena    e
 dell'ammissibilita'  dell'oblazione  ai  sensi  dell'art. 162-bis del
 codice penale, il giudice tiene conto  dell'entita'  del  superamento
 dei limiti di accettabilita'".
   La  valutazione  del  caso  in  questione richiede un riesame degli
 aspetti giuridici della tutela ambientale, cosa non  agevole  per  la
 vastita' dei problemi sollevati dalle due fondamentali leggi che sono
 state  promulgate  in  merito,  e  precisamente dalla legge 10 maggio
 1976, n. 319, meglio conosciuta sotto il nome di legge Merli, e della
 successiva legge 24 dicembre 1979,  n.  650,  comunemente  denominata
 Merli bis.
    La  citata  legislazione  speciale  non  si  inseriva  in un vuoto
 normativo, poiche' gia' prima della legge Merli, e  della  successiva
 legge 24 dicembre 1979, n. 650, comunemente denominata Merli bis.
    La  citata  legislazione  speciale  non  si  inseriva  in un vuoto
 normativo, poiche' gia' prima  della  legge  Merli  esistevano  degli
 scarichi  inquinanti, anche se il bene giuridico protetto era il piu'
 vario. Basti pensare alle norme del testo  unico  delle  leggi  sulla
 pesca  del  1931,  che nell'art. 9 prescrivevano l'autorizzazione del
 presidente  della  giunta  provinciale  per   l'effettuazione   degli
 scarichi  industriali  in  acque  pubbliche, conferendo alla predetta
 autorita' il potere di imporre prescrizioni atte  ad  impedire  danni
 all'ittio   fauna   e   ad  obbligare  chi  determinava  fenomeni  di
 inquinamento ad eseguire opere di ripopolamento ittico.
    L'art. 6 della stessa legge, poi, vietava, tra l'altro di  gettare
 o  di  infondere nelle acque materie atte ad intorpidire, stordire od
 uccidere i  pesci,  con  la  conseguenza  che  attraverso  la  tutela
 dell'ittiofauna     veniva    preservato    il    corso    dell'acqua
 dall'inquinamento  o  comunque  da  forme  di  inquinamento  che  non
 consentissero la vita dei pesci.
    Le norme del testo unico sanitario che disciplinavano direttamente
 l'igiene  e la salubrita' dell'ambiente svolgevano parimenti un ruolo
 importante, ad esempio in  relazione  allo  smaltimento  delle  acque
 immonde,  delle materie escrementizie e di altri rifiuti che ai sensi
 dell'art.  218  dovevano  avvenire  in  modo  da  non  inquinare   il
 sottosuolo, o in relazione al divieto di immissione nei corsi d'acqua
 che  attraversavano  l'abitato di fogne o canali di raccolta di acque
 immonde,  tra  cui  le  acque  inquinate  provenienti   da   scarichi
 industriali, previsto dall'art. 227.
    Il  codice  penale,  infine sotto il titolo VI dedicato ai delitti
 contro l'incolumita' pubblica sanzionava  penalmente  l'avvelenamento
 doloso  o  colposo  di acque destinate all'alimentazione umana, prima
 che fossero attinte o distribuite per il  consumo  (vedi  i  problemi
 collegati all'uso di atrazina).
    Altre  norme  del  codice  penale che non sembrano disciplinare il
 fenomeno dell'inquinamento, neanche indirettamente, furono  applicate
 dai   pretori   cosiddetti   di  "assalto",  attraverso  un'opera  di
 intelligente   interpretazione   giurisprudenziale,   sostanzialmente
 recepita dalla suprema Corte di cassazione.
    Fu  cosi'  ritenuto  applicabile  l'art. 635 del codice penale che
 sanziona la condotta di  chiunque  distrugge,  disperde  deteriora  o
 rende, in tutto o in parte inservibili come mobili o immobili altrui,
 con  la  contestazione  frequente  dell'aggravante  di  cui  al n. 3,
 secondo  comma,  della  norma,  in  relazione  all'ipotesi   prevista
 dall'art. 625, n. 7, c.p., per la natura pubblica, la destinazione ad
 uso  pubblico  o  per  la  esposizione  alla  pubblica fede del corso
 d'acqua inquinata.
    Fu la stessa giurisprudenza di merito a ritenere applicabile anche
 l'art. 674  c.p.  che  unisce  il  getto  pericoloso  di  cose  e  in
 particolare  la  condotta  di  colui che getta o versa in un luogo di
 pubblico transito o in luogo privato ma di comune o  di  altrui  uso,
 cose  atte ad offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei
 casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di  vapori
 o  di  fumo,  atti  a  cagionare tali effetti, in tutti i casi in cui
 dallo svernamento  delle  sostanze  inquinanti  potesse  derivare  un
 pericolo  per  la  salute  o anche per la decorosa parvenza esteriore
 della persona umana.
    Ora  appare  evidente  che  tutte  le norme richiamate, la maggior
 parte delle quali devono ritenersi ancora  vigenti,  non  assolvevano
 pero'  all'esigenza,  da  piu' parti sentita, di disciplinare in modo
 organico  la  materia  degli  scarichi  per   una   migliore   tutela
 dell'ambiente.
    Questo  obiettivo  risulta  appunto  consacrato  nell'art. 1 della
 legge 10 maggio 1976, n. 319, il quale alla lettera A),  testualmente
 recita "la presente legge ha per oggetto la disciplina degli scarichi
 di qualsiasi tipo, pubblici e privati diretti e indiretti in tutte le
 acque  superficiali e sotterranee interne e merine, sia pubbliche che
 private, nonche' in fognature, sul suolo e nel sottosuolo".
    Occorre subito chiarire che la legge non fornisce  la  nozione  di
 scarico   e  che,  contrariamente  a  quanto  potrebbe  apparire,  il
 significato del termine non e' riferibile a tutti i tipi  di  scarico
 in senso assoluto.
    La  giurisprudenza e la dottrina, attraverso lo studio sistematico
 della normativa,  compresa  la  legge  di  parziale  modifica  dell'8
 ottobre  1976, n. 690, e la delibera del comitato dei Ministri per il
 rilevamento delle caratteristiche dei  corpi  idrici  e  dei  criteri
 metodologici  per  la  formazione e l'aggiornamento dei catasti del 4
 febbraio 1977, hanno precisato il concetto nei seguenti termini:
       a) deve trattarsi innanzitutto di sostanze di scarto, cioe'  di
 rifiuti derivanti dall'utilizzazione di altre sostanze, b) in secondo
 luogo,  le sostanze devono essere liquidate o quanto meno solubili in
 acqua, poiche' solo in tali condizioni  e'  possibile  realizzare  la
 misurazione   dei   limiti   di  accettabilita'  degli  scarichi  con
 riferimento alle tabelle allegate alla legge  cosi'  come  prescritto
 dall'art. 9.
    Cio'  che viene misurato infatti, e' l'acqua la quale non puo' che
 essere l'acqua di rifiuto dell'insediamento.
    Cio' risulta evidente dalla lettura del titolo quarto della  legge
 ed in particolare dagli artt. 9, 10, 12 e 15.
    Il  primo  stabilisce,  in  proposito,  che  la  misurazione degli
 scarichi si intende effettuata subito a monte del punto di immissione
 nei corpi ricettori di cui all'art. 1, lettera A), che  gli  scarichi
 devono   essere  resi  accessibili  per  il  campionamento  da  parte
 dell'autorita'   autorizzata   ad   effettuare   all'interno    degli
 insediamenti   produttivi   tutte   le  ispezioni  che  essa  ritenga
 necessarie per l'accertamento delle condizioni che danno  luogo  alla
 formazione degli scarichi.
    Le  altre norme poi, nel disciplinare le modalita' per il rilascio
 dell'autorizzazione allo  scarico  degli  insediamenti  produttivi  e
 civili, esistenti o di nuova realizzazione presuppongono tutte che vi
 sia  un  impianto  di scarico, funzionante con una certa continuita'.
 Cio' viene anche confermato dal contenuto dell'art. 5 della legge che
 attribuisce alle province il compito  di  effettuare  il  catasto  di
 tutti gli scarichi pubblici e privati nei corsi d'acqua superficiali.
    La legge, pertanto, secondo taluni non trova applicazione nei casi
 di  scarico  di  sostanze  solide non solubili in acqua e nei casi di
 scarichi occasionali non  ricollegabili  immediatamente  ad  impianti
 stabili.  Tali  ipotesi  sarebbero  applicabili  altre  norme, sia di
 natura amministrativa, quali ad esempio la legislazione regionale  in
 materia di rifiuti solidi, sia di natura penale qualora ne sussistono
 i  presupposti  (ad  es.  l'art. 674 del c.p. nel caso di pericolo di
 imbrattamento o comunque di offesa alla persona, gli artt. 439 e  452
 del  c.p.,  qualora  dal  fatto  derivi  l'avvelenamento  delle falde
 acquifere, e secondo taluni, l'art. 6 del testo unico sulla pesca, se
 ne sia derivato un pericolo per la vita dei pesci e cosi' via).
    Secondo  altri  per  definire  il  concetto  di  scarico   occorre
 riconsiderare  la  nozione di scarichi che compare nella norma di cui
 all'art. 21 della legge n. 319, onde realizzare il superamento  della
 definizione    restrittiva   prevalente   in   dottrina   sino   alla
 promulgazione della legge n.  650/1979.  In  effetti  all'art.  1  il
 legislatore  ha  disciplinato, come si e' detto, gli scarichi ma tale
 previsione va collegata con quella contenuta nell'art. 26, che abroga
 ogni  altra  norma  che  disciplina  la  materia  in  questione,  sia
 direttamente  che  indirettamente.  Il  precetto  comune e' contenuto
 nell'art. 9, secondo il  quale  "tutti  gli  scarichi  devono  essere
 autorizzati".
    Dalla  modifica  operata da parte della legge 29 dicembre 1979, n.
 650, all'art. 11 possono ricavarsi concreti elementi a sostegno della
 posizione che si sta  illustrando,  imponendosi  una  interpretazione
 lata  dalla  nozione di scarico, e quindi dell'ambito di applicazione
 dell'intera normativa dell'inquinamento idrico.
    La  modifica  in  questione   ha   determinato   la   soppressione
 dell'espressione   "immissione  diretta  di  rifiuti  di  lavorazioni
 industriali o provenienti da servizi pubblici o  da  insediamenti  di
 qualsiasi specie" con quella innicomprensiva di "scarichi".
    Ove  si  sia  d'accordo  nel ritenere che la nozione soppressa sia
 compresa nel termine con il quale si e' operata la  sostituzione,  la
 conseguenza  sul  piano  pratico  sara'  che  nel concetto di scarico
 andra' compreso anche quello derivante da singoli episodi  isolati  o
 periodici, oltre quello proveniente da insediamento.
    Tutto  cio'  comporta  la  positiva conseguenza di un allargamento
 della sfera di applicazione delle norme antinquinamento, dotando  gli
 operatori di sempre maggior strumenti.
    Quanto  alla  disciplina  degli  scarichi,  la  legge prescrive in
 particolare che:
       a) gli scarichi degli insediamenti produttivi (art. 12  e  art.
 13) devono rispettare direttamente le tabelle. Fanno eccezione i soli
 scarichi  gia' esistenti al 13 giugno 1976 (data di entrata in vigore
 della legge) immessi in pubbliche fognature provviste di impianto  di
 depurazione   funzionante.   In  tal  caso  il  comune  che  gestisce
 l'impianto puo' prescrivere limiti piu' permissivi;
       b)  gli  scarichi  degli  insediamenti  civili   in   pubbliche
 fognature   sono  sempre  ammessi  purche'  osservino  i  regolamenti
 comunali (art. 14, primo comma);
       c) gli scarichi da pubbliche fognature (art. 14, secondo comma)
 sono disciplinati dalle regioni, le quali devono  tener  conto  delle
 direttive  statali  (emesse  con  delibera del 30 dicembre 1980), dei
 limiti delle tabelle e delle situazioni locali.  In  particolare,  le
 citate  direttive  statali,  mentre  sono  molto elastiche e nulla di
 preciso prescrivono in relazione a questi insediamenti civili  (salvo
 la  predisposizione  di incentivi per favorirne l'allaccio in fogna),
 stabiliscono invece per le pubbliche fognature  che  le  regioni  non
 possono  mai  derogare  ai  limiti  piu'  restrittivi  previsti dalle
 tabelle in relazione ai parametri di natura  tossica,  persistente  e
 bioaccumulabile  (specificati  in un elenco) e che, quanto agli altri
 parametri, deroghe (permissive) alle  tabelle  sono  consentite  solo
 quando  "la  presenza  degli  scarichi  provenienti  da  insediamenti
 produttivi  non  sia  tale  da  conferire  il  liquame  in   ingresso
 all'impatto     di     depurazione     caratteristiche    qualitative
 sostanzialmente  diverse  da  quelle   attribuibili   agli   scarichi
 provenienti  da  soli  insediamenti  civili". Solo quando, cioe', gli
 scarichi  industriali  siano  di  minima  entita'   o   siano   stati
 efficacemente pretrattati a monte.
    Quanto  alle  sanzioni,  la  omessa richiesta di autorizzazione e'
 punita alternativamente con l'ammenda da 1.500.000 a 10.000.000 o con
 l'arresto da due mesi a due anni (art. 21, primo  e  secondo  comma),
 mentre,  per  il  superamento  dei  limiti,  l'art.  21, terzo comma,
 prevede che "si applica sempre la pena dell'arresto (da  due  mesi  a
 due anni) se lo scarico supera i limiti di accettabilita' di cui alle
 tabelle  allegate  alla  legge,  nei  rispettivi  limiti  e  modi  di
 applicazione", con l'ulteriore pena  accessoria  dell'incapacita'  di
 contrattare con la pubblica amministrazione.
    In  conclusione,  la  legge  Merli basa la sua operativita' su tre
 ordini di obblighi, tutti penalmente  sanzionati  e  tutti  fra  loro
 connessi,  nei  confronti  dei  titolari  di  scarichi:  l'obbligo di
 richiedere l'autorizzazione, l'obbligo di rispettare le  prescrizioni
 dell'autorizzazione  e  l'obbligo  di  rispettare  limiti prefissati,
 direttamente o indirettamente, dalla legge.
    Con riferimento a tale quadro normativo venivano emessi una  serie
 di decreti-legge l'ultimo dei quali redatto dal governo Berlusconi il
 16 settembre 1995 con il n. 9. Le principali modifiche apportate alla
 legge Merli dal citato decreto sono:
       A)  in  relazione all'obbligo di richiedere autorizzazione dopo
 18 anni, si riaprono i termini per tutti gli inadempimenti e, per  il
 passato, si riazzera tutto e si estingono i reati di commessi purche'
 i  contravventori  presentino,  oggi,  domanda  di  autorizzazione in
 sanatoria entro 90 giorni dalla legge di  conversione  e  paghino  da
 500.000 a 3.000.000 (art. 7);
       B) quanto ai limiti da rispettare nello scarico, scompaiono una
 serie  di  obblighi  (validi  a  livello  nazionale).  Ad esempio gli
 scarichi da pubbliche fognature e quelli  degli  insediamenti  civili
 non   in  pubbliche  fognature  devono  rispettare  limiti  non  piu'
 prefissati ma rimessi alla discrezionalita' di regioni o comuni,  che
 possono   tranquillamente   derogare   alle  tabelle;  anche  se  per
 l'immediato e fino a nuove direttive, "restano ferme le  prescrizioni
 adottate  anteriormente ed in particolare quelle di cui alla delibera
 del 30 dicembre 1980". Di modo che vengono penalizzate le regioni che
 a  questa  delibera  si  erano  adeguate  e   vengono   premiate   le
 inadempienti;
       C)  la  inosservanza  dei  limiti tabellari e non e' punita, di
 regola, non piu' con l'arresto ma con sanzione alternativa.
    Quanto alle ulteriori conseguenze per il  superamento  di  limiti,
 venuta  gia'  meno  con  il  nuovo  codice  di  procedura  penale  la
 possibilita' di costudia cautelare in caso di recidiva,  il  decreto-
 legge  in  esame  cancella della legge Merli anche la pena accessoria
 della incapacita' di contrattare con la pubblica amministrazione;
       D)  analogamente,  l'inosservanza  delle   prescrizioni   delle
 autorizzazioni  allo scarico, sanzionata penalmente dalla legge Merli
 con arresto o ammenda, comporta, con il decreto-legge in  esame  solo
 una sanzione amministrativa da 2 a 24 milioni.
    In  conclusioni, limiti certi vengono sostituiti da limiti rimessi
 alla discrezionalita' quasi  totale  di  regioni  e  comuni,  con  il
 pericolo  di gravi disparita' di trattamento e di vuoti di tutela; in
 piu',  l'inosservanza  di   questi   limiti,   con   il   conseguente
 inquinamento, di regola puo' comportare o una sanzione amministrativa
 pecuniaria  ovvero  una  ammenda  oblabile senza vero rischio penale.
 Questo  rischio,   paradossalmente,   resta   solo   per   violazioni
 soprattutto  formali  e  "burocratiche" (quali la omessa richiesta di
 autorizzazione allo scarico). Ma, comunque, per esse  dopo  18  anni,
 scatta  una  totale  sanatoria  rispetto  al  passato,  premiando gli
 inottemperanti e penalizzando chi ha rispettato la legge.
    Appare evidente che il d.-l. n. 9/1995, scardina,  o  quanto  meno
 depotenzia in modo rilevante, tutti e tre i capisaldi su cui fonda la
 legge   Merli  (obbligo  di  richiedere  autorizzazione,  obbligo  di
 rispettare  le  prescrizioni  dell'autorizzazione   ed   obbligo   di
 rispettare limiti prefissati).
    Per  tutto quanto sopra detto il decreto-legge in esame, come gia'
 rilevato per i precedenti (cfr. l'ord. del pretore di Vicenza  del  2
 agosto  1994, pretore di Terni 27 settembre 1994, pretore di Grosseto
 11 ottobre 1994, pretore di Grosseto 28  ottobre  1994),  pretore  di
 Grosseto  30  gennaio  1995  e  lucidamente  sostenuto in scritti (G.
 Amendola) viola il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della
 legge  fondamentale  dello  Stato.  Appare  evidente  che,  dopo   le
 modifiche  introdotte  dal  decreto  nel  sistema sanzionatorio della
 legge Merli, la  violazione  di  obblighi  "burocratici"  e  formali,
 certamente non ricollegabili ad un danno all'ambiente quali la omessa
 richiesta  di  autorizzazione  allo  scarico,  viene punita, ai sensi
 dell'art. 21, primo comma, come reato  con  la  pena  dell'arresto  o
 dell'ammenda;   mentre   la  fattispecie  di  ben  maggiore  gravita'
 sostanziale, quale  l'inquinamento  dell'ambiente  provocato  con  il
 superamento dei limiti, prevista dall'art. 21, terzo comma, e proprio
 per questo sanzionata fino al decreto-legge in esame con la pena piu'
 severa  di  tutta  la  legge  (solo  arresto, pena accessoria), viene
 punita come  illecito  amministrativo  con  una  sanzione  pecuniaria
 ovvero,  con  la  pena  alternativa  dell'ammenda o dell'arresto (con
 tutte le conseguenze piu' favorevoli che questo  comporta).  Insomma,
 in  tal  modo, fatti gravi vengono illogicamente puniti in modo molto
 piu' benevolo di fatti certamente piu' lievi. Peraltro, in  tal  modo
 si  introduce una disparita' di trattamento anche rispetto al sistema
 complessivo  della  normativa  di  tutela  ambientale   che   si   e'
 rappresentato  in  precedenza  (cfr.  ad esempio, il d.P.R. 24 maggio
 1988, n. 203, sull'inquinamento  atmosferico  da  industrie),  ed  in
 particolare  con  le  altre  leggi che si occupano, come la Merli, di
 inquinamento delle acque (quale la legge a difesa del mare n. 979 del
 31 dicembre 1981 e il decreto legislativo 27 gennaio  1992,  n.  133,
 sugli  scarichi  di  sostanze  pericolose),  le quali prevedono tutte
 sanzioni penali (e non amministrative) per fatti  di  inquinamento  o
 per violazione delle prescrizioni dell'autorizzazione.
    In questo quadro, appare allora sufficiente richiamare la costante
 giurisprudenza della Corte costituzionale secondo cui il principio di
 eguaglianza  consente  al  legislatore di emanare norme differenziate
 riguardo a situazioni obiettivamente diverse solo  a  condizione  che
 tali  norme  rispondano all'esigenza che la disparita' di trattamento
 sia fondata su presupposti logici obiettivi, i quali razionalmente ne
 giustifichino  l'adozione (cfr. per tutta la sentenza n. 3 del 1963).
 Per cui la Corte ha dichiarato illegittime norme che  prevedevano  un
 trattamento  sanzionatorio  irrazionalmente  differenziato rispetto a
 quello previsto da altre fattispecie, diminuendo, ad esempio, la pena
 edittale minima per l'oltraggio (n. 341 del 1994);  ovvero,  con  una
 decisione  proprio  relativa all'art. 21 della legge Merli (ove si fa
 espresso riferimento anche al complesso della normativa  ambientale),
 eliminando   il  divieto  di  applicazione  di  sanzioni  sostitutive
 (sentenza n. 25 del 20-23 giugno 1994).
    Orbene, in questa sentenza, ricorda  la  Corte  che  si  viola  il
 principio  di eguaglianza qualora con leggi successive si dia vita ad
 un "sistema normativo assolutamente squilibrato",  come  avviene,  ad
 esempio,  quando  si  favorisce  "chi  ha  posto  in  essere, fra due
 condotte gradatamente lesive dell'identico bene, quella connotata  da
 maggiore  gravita',  discriminando  invece che ha realizzato il fatto
 che meno offende lo stesso valore  giuridico  (sentenza  n.  249  del
 1993)".  Esattamente  quello  che ha fatto il governo con il decreto-
 legge in esame.
    Ma l'art. 3 della Costituzione risulta violato anche  sotto  altri
 profili.   La  nuova  formulazione  dell'art.  14,  concedendo  ampia
 discrezionalita' alle regioni per la fissazione di  limiti  comporta,
 con   ogni   evidenza,  la  possibilita'  che  vi  siano  marcate  ed
 irrazionali disparita' di trattamento da regione a regione.
    In  detto  svuotamento  sanzionatorio  di  uno  dei   reati   piu'
 importanti  in  materia  di  tutela  ambientale  (forse il reato piu'
 importante in assoluto in materia  di  inquinamenti)  si  profila  ad
 avviso dello scrivente pretore, una violazione del disposto dell'art.
 9,   secondo   comma,  della  Costituzione,  laddove  la  tutela  del
 paesaggio, inteso secondo le piu' recenti  pronunce  della  Corte  di
 cassazione  e della Corte costituzionale, non deve essere inteso solo
 come bellezza estetica da cartolina  ma  come  ambiente  naturale  in
 senso   lato,   quindi   comprensivo   anche   degli  inevitabili  ed
 inscindibili aspetti bionaturalistici.
    Per gli stessi  motivi  esposti  in  relazione  all'art.  9  della
 Costituzione,  si ritiene che la norma in esame si ponga in contrasto
 anche con l'art. 32 della carta costituzionale.
    Infatti, nel  concetto  di  tutela  della  salute  come  principio
 costituzionalmente  garantito deve, per forza di cose ricomprendersi,
 il  piu'  vasto  concetto  della  salute  pubblica  nel  senso  delle
 salubrita'  dell'ambiente  naturale  ed  urbano ove ciascun cittadino
 vive. Il diritto alla salute inteso anche come  diritto  all'ambiente
 salubre  e' stato ormai ripetutamente accertato in giurisprudenza (si
 veda per tutte la famosa sentenza delle sezioni unite n.  517  del  6
 ottobre  1979,  nonche'  la  Corte costituzionale in data 31 dicembre
 1987, n. 641, ed in data 16 marzo 1990, n. 17). E' fuor dubbio che la
 diminuita, ed anzi per certi  versi  di  fatto  del  tutto  caducata,
 possibilita' di intervento deterrente/punitivo in sede di illeciti da
 inquinamento   idrico   crea   i   presupposti   per  una  evoluzione
 incontrollata  del  fenomeno,  incoraggiata  dall'abbassamento  della
 guardia  in  sede  di  controlli di p.g. e possibilita' di intervento
 processuale; e tutto questo si traduce in via diretta in un danno per
 la salute e salubrita'  pubblica  in  un  ambiente  che  resta  cosi'
 maggiormente ed incontrollatamente esposto al degrado inquinante.
    Va  ancora  rilevato  che  la  norma in esame pare porsi in totale
 contrasto  con  gli  obblighi  che  derivano  al  nostro  Paese   per
 l'appartenenza all'Unione europea. Gia' due volte la Corte europea di
 giustizia  ha  condannato  il  nostro  Paese  per il contrasto tra la
 "legge Merli" e le direttive comunitarie, tra l'altro  anche  per  la
 permissivita'   del   sistema   autorizzatorio   previsto  e  per  la
 "insufficienza"  delle  sanzioni  penali  previste  dall'art.  22  in
 relazione  all'inosservanza  delle  prescrizioni  dell'autorizzazione
 (Corte di giustizia 28 febbraio 1991 e 13 dicembre  1990).  La  sopra
 esposta  generale  regressione sanzionatoria creata dal decreto-legge
 in esame concretizza di  conseguenza  una  ulteriore  evoluzione  del
 grado  di  inadempienza  italiana  verso  le direttive CEE e verso le
 sentenze della Corte europea.
    Peraltro il decreto stesso, si pone in evidente contrasto  con  la
 direttiva  CEE  n. 271 del 21 maggio 1991 sul trattamento delle acque
 reflue urbane, che lo Stato italiano  avrebbe  dovuto  gia'  recepire
 entro  lo  scorso  giugno  1993  e  che  fissa  obblighi e limiti ben
 precisi, con ben pochi margini  di  discrezionalita'  specie  per  le
 "aree  sensibili".  E del resto il contrasto e' apparso evidentemente
 gia' in sede di redazione del testo in esame se il  decreto  richiama
 espressamente  nell'art.  1  la  direttiva  91/217/CEE  del 21 maggio
 1991". Dunque da un lato l'Italia non ha recepito  la  direttiva  CEE
 nei  termini  stabiliti  e dall'altro ha adottato un decreto-legge in
 antitesi ai prinicpi della direttiva stessa, con una  mora  temporale
 applicata  illogica.  Ove  il  decreto 9 dovesse essere convertito in
 legge, le sue prescrizioni si applicheranno  dunque  finche'  non  si
 sara'  data attuazione alla citata direttiva; attrazione che dovrebbe
 avvenire, secondo la legge comunitaria 1993 n. 146  del  22  febbraio
 1994,  entro  il  marzo  1995  e,  peraltro,  con  rigidi principi di
 attuazione predeterminati dal Parlamento (art. 37,  primo  comma)  in
 evidente  contrasto  con  la elasticita' e genericita' del decreto in
 esame, il che provochera'  ulteriore  confusione  ed  incertezza  del
 diritto.
    Ed  in  ogni  caso  va  sottolineato  che, secondo la citata legge
 comunitaria, il Governo dovrebbe dare attuazione a  questa  direttiva
 provvedendo  all'"adeguamento della normativa vigente alla disciplina
 comunitaria,  apportando  alla  prima  ogni  necessaria  modifica  ed
 integrazione  allo  scopo  di definire un quadro omogeneo ed organico
 delle disposizioni di settore" (art. 36, lett. c)).
    Dato il carattere regressivo in sede sanzionatoria del decreto  n.
 9/1995,  ritiene lo scrivente che si appalesa un contrasto con l'art.
 10 della Costituzione per mancata conformazione alle citate norme del
 diritto internazionale.
    Da quanto  sopra  esposto  emerge  la  rilevanza  della  sollevata
 eccezione  sul  caso  in esame, ove risulta contestato il superamento
 dei limiti tabellari, con le differenze normative richiamate e le di-
 verse strategie processuali percorribili da parte della  difesa,  sia
 in caso di rigetto che di accoglimento della eccezione.
                               P. Q. M.
    Dichiara  rilevante e non manifestamente infondata, per violazione
 degli artt.  3,  9,  10,  32  della  Costituzione,  la  questione  di
 legittimita'  costituzionale dell'art. 3, integrale formulazione, del
 d.-l. 16 gennaio 1995, n. 9;
    Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
 costituzionale;
    Ordine che, a cura della cancelleria, la  presente  ordinanza  sia
 notificata  all'imputato, al difensore, al pubblico ministero nonche'
 al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata  al  Presidente
 della   Camera  dei  deputati  ed  al  Presidente  del  Senato  della
 Repubblica.
      Grosseto, addi' 3 marzo 1995
                         Il pretore: MONTAGNA
 
 95C0912