N. 673 ORDINANZA (Atto di promovimento) 16 febbraio - 14 settembre 1995
N. 673 Ordinanza emessa il 16 febbraio 1995 (pervenuta alla Corte costituzionale il 14 settembre 1995) dal pretore di Ferrara nel procedimento penale a carico di D'Alessandro Vincenzo ed altro Ambiente (tutela dell') - Inquinamento - Scarichi di pubbliche fognature provenienti da depuratore con parametri superiori ai limiti di accettabilita' previsti dalla tabella A) allegata alla legge n. 319/1976 - Lamentata depenalizzazione - Irragionevolezza - Disparita' di trattamento rispetto ad ipotesi meno gravi, ma punite con maggior severita' - Lesione del diritto all'ambiente salubre - Omesso adeguamento con le norme del diritto internazionale, in particolare con quelle CEE (dir. n. 271/1991) - Violazione del principio di riserva di legge in materia penale per reiterazione a catena dei decreti-legge - Conseguente sottrazione del potere legislativo al Parlamento - Carenza dei presupposti costituzionali di necessita' ed urgenza. (D.-L. 16 gennaio 1995, n. 9, art. 3). (Cost., artt. 3, 9, secondo comma, 10, 25, 32, 41 e 77).(GU n.43 del 18-10-1995 )
IL PRETORE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale a carico di D'Alessandro Vincenzo e Graldi e Ivano, imputati del reato p. e p. dall'art. 2, comma terzo, legge n. 319/1976 perche', D'Alessandro quale presidente, Graldi quale direttore generale dell'Acosea, effettuavano scarico di acque provenienti dal depuratore di Quartesana nello scolo Rovere-Seraglio con superamento dei parametri di cui alla tabella A) della legge quanto a azoto nitroso. O S S E R V A Che il p.m. di udienza dott. Marcello Rambaldi ha richiesto pronuncia di questo pretore in ordine all'ipotesi di non manifesta infondatezza e rilevanza della questione di legittimita' degli artt. 3 e segg. d.-l. n. 9/1995 per violazione degli artt. 3, 9, 32, 10, 41, 25 e 77 della Costituzione, con trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Osserva il pretore che la richiesta e' fondata e ritiene pertanto di dover dichiarare rilevante e non manifestamente infondata, per violazione degli artt. 3, 9, 32, 10, 41, 25 e 77 della Costituzione, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 3 del d.-l. 16 gennaio 1995 n. 9. 1.- Violazione dell'art. 3 della Costituzione. L'art. 3 del d.-l. n. 9/1995 ha depenalizzato tutte le ipotesi di superamento dei limiti di accettabilita' di cui alle tabelle allegate alla legge n. 319/1976, fatta eccezione per gli scarichi provenienti da insediamenti produttivi. Nel contesto sanzionatorio della legge n. 319/1976, per come si delineava prima delle diverse modifiche apportate con i decreti-legge succedutisi dal 15 novembre 1993 ad oggi, il reato piu' grave appariva essere quello previsto dal comma 3, dell'art. 21. Tale normativa, anche alla luce della sentenza n. 1766/1993 delle s.u. della Cassazione era applicabile a tutti gli scarichi, quale che ne fosse la provenienza. Ora, se puo' essere ritenuto ragionevole l'intento legislativo di sanzionare solo amministrativamente gli scarichi provenienti dagli insediamenti civili (potendosi presumere che gli stessi siano normalmente caratterizzati da un carico inquinante minore rispetto agli scarichi degli insediamenti produttivi e quindi meno dannosi per l'ambiente). Non altrettanto puo' dirsi con riferimento agli scarichi delle pubbliche fognature. Infatti, a queste ultime possono affluire anche scarichi provenienti da insediamenti produttivi (evenienza, questa disciplinata gia' nel corpo normativo della legge Merli e poi, sotto il profilo piu' squisitamente tecnico, dalla delibera 30 dicembre 1980 del Comitato interministeriale per la tutela delle acque dell'inquinamento e recentemente dalla direttiva CEE n. 271 del 21 maggio 1991) per cui non e' possibile fondare un giudizio preventivo e generale di minor pericolosita'. Alla stregua della disciplina sanzionataria introdotta con il d.-l. n. 9/1995 dunque, mentre l'esercizio di un singolo scarico da insediamento produttivo, in violazione delle tabelle allegate alla legge n. 319/1976, viene sanzionato penalmente anche qualora il superamento dei limiti tabellari sia modesto, costituisce, invece, semplice illecito amministrativo l'esercizio dello scarico di una pubblica fognatura alla quale affluisce una pluralita' di scarichi provenienti da insediamenti produttivi, anche qualora lo scarico terminale superi in maniera rilevante i limiti tabellari ed apporti quindi un concreto nocumento alla situazione ambientale. Pertanto la nuova normativa fonda la differenziazione della disciplina sanzionatoria non gia', come sarebbe ragionvole, sulla potenzialita' inquinante (sia pure presunta) degli scarichi e quindi sulla gravita' del fatto ma, in ultima analisi, sulla qualifica del soggetto titolare dello scarico terminale (imprenditore ovvero amministrazione pubblica). Ancora piu' corposo si manifesta il sospetto di violazione dell'art. 3 della della Costituzione ove si confronti la condotta depenalizzata dall'art. 3 del d.-l. n. 9 con quella dallo stesso non modificata, prevista dall'art. 23, primo comma, della legge 319/1976 e per la quale e' prevista la pena dell'ammenda fino a lire 5 milioni. Tale ultima norma, infatti, prevede la sanzione sopra indicata per "chiunque apre o comunque effettua nuovi scarichi prima che l'autorizzazione da lui richiesta nelle forme prescritte sia stata concessa". Ne deriva la paradossale conseguenza che una condotta in concreto inquinante come quella di effettuare scarichi di pubbliche fognature superando i limiti di tollerabilita' e' punita con una mera sanzione amministrativa mentre una violazione formale, quale quella rappresentata dall'avere attivato uno scarico (non necessariamente inquinante) prima che l'autorizzazione, gia' richiesta, sia stata rilasciata, costituisce una fattispecie di rilievo penale. Infine un'ulteriore violazione del limite della ragionevolezza deriva dalla circostanza che l'art. 3 del d.-l. n. 9/1995 prevede il pagamento di un somma da lire 3 milioni a lire 30 milioni per l'inosservanza dei limiti di accettabilita' di cui all'art. 21, comma terzo, della legge n. 319/1976, mentre l'art. 6 prevede la diversa maggiore sanzione del pagamento di una somma da lire 10 milioni a lire 100 milioni per chi apre o comunque effettua scarichi delle pubbliche fognature, servite o meno da impianti pubblici di depurazione, senza avere richiesto l'autorizzazione. Con riferimento al caso di specie, quindi, verrebbe punito piu' severamente l'amministratore pubblico che non chiede l'autorizzazione quando deve consentire l'apertura di un nuovo scarico fognario (che potrebbe in ipotesi non avere carattere inquinante) rispetto all'amministratore che, indipendentemente dalla richiesta di autorizzazione, dispone l'effettuazione di uno scarico fognario sicuramente inquinante. 2. - Violazione degli artt. 9, secondo comma, e 32 della Costituzione. Secondo la giurisprudenza costituzionale il concetto di paesaggio deve intendersi come "ambiente naturale", come ecosistema. Ora, la mancata previsione di una norma penale che sanzioni comportamenti profondamente incidenti sulla qualita' dell'ambiente, come l'effettuazione di scarichi di pubbliche fognature che superino i limiti di accettabilita'; o l'attivazione dei predetti scarichi senza avere richiesto la preventiva autorizzazione, determina una diminuzione dell'efficacia preventiva e dissuasiva della disciplina di cui si tratta. Tale disciplina, inoltre, poiche' non differenzia il trattamento sanzionatorio a seconda della natura delle acque che recapitano nelle pubbliche fongature e, quindi, in base alla loro effettiva potenzialita' inquinante, ma solo in base al dato formale della provenienza (da insediamenti produttivi o da pubbliche fognature), non permette una adeguata e sostanziale tutela del paesaggio. Da quanto sopra esposto deriva pure il sospetto di contrasto tra le norme ordinarie e l'art. 32 della Costituzione che tutela il diritto alla salute giacche' tale diritto ricomprende per costante giurisprudenza costituzionale il diritto all'ambiente salubre. 3. - Violazione dell'art. 10 della Costituzione. Deve rilevarsi la mancata conformazione alle norme adottate in sede comunitaria in materia di acque reflue urbane con la direttiva Cee n. 271 del 21 maggio 1995 in quanto norme cui il nostro ordinamento giuridico e' tenuto costituzionalmente ad uniformarsi e che, ai sensi della predetta direttiva, avrebbe gia' dovuto recepire dal 30 giugno 1993. In particolare l'art. 2 della direttiva pone una netta distinzione nell'ambito delle acque reflue urbane, tra le acque reflue domestiche e le acque reflue industriali. Distinzione alla quale e' collegata poi una diversa disciplina fondata sulla necessita' per le acque reflue industriali che affluiscono in reti fognarie, di regolamentazione ed autorizzazioni specifiche nonche' di specifici controlli (artt. 11 e 13). Inoltre, la direttiva Cee, stabilisce, al fine di evitare negative conseguenze sull'ambiente, specifici requisiti per le sole acque reflue industriali che confluiscono in reti fognarie e non invece per le acque domestiche che hanno il medesimo sbocco (All. 1C). Ora, poiche', nell'ambito della direttiva cominitaria sopra indicata la natura delle acque che confluisono nelle pubbliche fognature rappresenta elemento qualificante ai fini della normativa che ne regolamenta lo scarico, deve concludersi che l'attuale disciplina statuale, con riferimento in particolare all'art. 3 del d.-l. n. 9/1995, in quanto prescinde completamente dalla considerazione dell'elemento discriminante dinanzi indicato, riservando un identico trattamento sanzionatorio per qualsiasi scarico delle pubbliche fognature, quale che sia la natura delle acque che in esse affluiscono, e' in evidente contrasto con la direttiva comunitaria. Del resto il legislatore appare ben consapevole di tale contrasto, atteso che ha precisato all'art. 1, comma quarto, del d.-l. n. 9/1995 che "le disposizioni del presente decreto si applicano in attesa dell'attuazione della direttiva 91/271 Cee del 2 maggio 1991. Ed e' particolarmente grave che lo Stato italiano, gia' due volte condannato dalla Corte europea di giustizia per la permissivita' del sistema autorizzatorio e per l'inadeguatezza delle sanzioni contemplate dall'art. 22 della legge Merli (Corte di gius. 28 febbraio 1991 e 13 dicembre 1990), ed ormai inadempiente rispetto al termine del 30 giugno 1993, previsto per l'adeguamento della normativa nazionale alla direttiva Cee 271 del 21 maggio 1991, continui a legiferare in via d'urgenza in contrasto con la predetta disciplina, azzerando del tutto gli obblighi autorizzatori. E cio' accade in una situazione in cui la costante giurisprudenza della Corte costituzionale afferma che tutti i soggetti competenti a dare esecuzione alle leggi sono giuridicamente tenuti a disapplicare le norme interne incompatibili con la normativa comunitaria direttamente applicabile nell'ordinamentointerno (Corte cost. 11 luglio 1989 n. 389). 4. - Violazione dell'art. 41 della Costituzione. L'art. 41, secondo comma, della Costituzione prevede che l'iniziativa economica privata non puo' svolgersi in contrasto con l'utilita' sociale e a tale norma viene generalmente ricondotto, al fine di fornirgli veste costituzionale, il principio comunitario espresso in numerose direttive in materia ambientale del "chi inquina paga". In proposito e' anche da ricordare la sentenza della Corte costituzionale n. 127 del 16 marzo 1990 la quale ha negato che "il costo eccessivo" possa giustificare la mancata adozione, da parte delle imprese, delle migliori tecnologie disponibili per ridurre le emissioni inquinanti. Ora, appare chiaro che le citate norme del decreto, laddove escludono la sanzionabilita' penale per gli scarichi delle pubbliche fognature, pur se agli stessi, affluiscano scarichi da insediamenti produttivi, vengono di fatto a penalizzare anche sul piano della libera concorrenza, quelle imprese che, servite da scarichi che non recapitano in pubbliche fognature abbiano affrontato rilevanti investimenti per adeguare i propri impianti alla normativa in vigore e si trovino magari esposte al rischio della sanzione penale (art. 23, legge n. 319/1976) per avere iniziato l'attivita' prima di avere formalmente ottenuto l'autorizzazione richiesta. 5. - Violazione degli artt. 25 e 77 della Costituzione. Il principio della riserva di legge in materia penale possiede, quale primo e fondamentale significato, quello secondo cui le scelte di politica criminale, sono monopolio esclusivo del Parlamento e l'ammissibilita' che nuove norme di diritto penale siano introdotte attraverso decreti-legge o decreti legislativi e connessa alla circostanza che, in entrambi i casi si realizzi e sia assicurato, comunque, l'intervento del Parlamento in posizione straordinaria, ora quale organo delegante (art. 76 della Costituzione). Ora quale organo cui e' rimesso il potere di conferire stabilita' e durevolezza, attraverso la legge di conversione, a disposizioni normative precarie e soggette a decadenza in caso di inutile decorso del termine di 60 giorni dettato dall'art. 77, ultimo comma, della Costituzione Nella materia in questione invece, con la reiterazione di vari decreti-legge mai convertiti si e' realizzata di fatto, la sottrazione al Parlamento della sua esclusiva competenza a disporre in materia penale, con l'inammissibile assunzione da parte dell'esecutivo del relativo potere di bilanciamento e di valutazione degli interessi che in materia penale e di esclusiva competenza dell'organo assembleare rappresentativo della sovranita' popolare. La prassi della reiterazione dei decreti-legge in materia penale con contenuto identico ovvero, talvolta, come nella specie, con contenuto diverso, ha come conseguenza di sottrarre, di fatto, al Parlamento la possibilita' prevista dall'art. 77, ultimo comma, della Costituzione, "di regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti". E' evidente che se la reiterazione dei decreti nella stessa materia si protrae per un anno, si potranno determinare effetti definitivi quale il giudicato, non modificabili in sede giudiziaria, con la conseguente gravissima compressione dei diritti singoli, resa ancora piu' incisiva dalla disparita' di trattamento che potrebbe verificarsi ove due fattispecie identiche, ma giudicate sotto la vigenza di un diverso decreto-legge, vengano diversamente giudicate. Va ulteriorimente osservato che la reiterazione a catena, per circa un anno di diversi decreti-legge in relazione alla stessa materia, denota in modo palese, con specifico riferimento all'ultimo dei decreti emanati, la carenza dei requisiti della "necessita' ed urgenza". Requisiti che, se possono ipotizzarsi come esistenti rispetto al primo dei decreti, certamente sono venuti meno ad un anno di distanza e cioe' dopo un periodo di tempo tale da consentire la normale legiferazione del Parlamento in via ordinaria. In ordine alla rilevanza, ove si ritenesse la legittimita' dell'art. 3 del d.-l. n. 9/1995 quest'ultimo dovrebbe trovare applicazione al caso di specie, con conseguente declaratoria di assoluzione per non essere il fatto imputato previsto dalla legge come reato. Dalle considerazioni esposte, si desume che il presente giudizio, allo stato e vigente del d.-l. n. 9/1995 non puo' essere definito in modo indipendente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale.
P. Q. M. Dichiara rilevante e non manifestamente infondata, per violazione degli artt. 3, 9 e 32, 10, 41, 25 e 77 della Costituzione, la questione di legittimita' costituzionale, dell'art. 3 del d.-l. 16 gennaio 1995 n. 9, concernente "Modifiche alla disciplina degli scarichi delle pubbliche fognature e degli insediamenti civili che non recapitano in pubbliche fognature"; Sospende il processo in corso e dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata all'imputato, al suo difensore, al pubblico ministero, nonche' al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicato al Presidente della Camera dei deputati e al Presidente del Senato della Repubblica. Ferrara, addi' 16 febbraio 1995 Il pretore: BARONCINI 95C1277