N. 691 ORDINANZA (Atto di promovimento) 11 luglio 1995

                                N. 691
 Ordinanza   emessa  l'11  luglio  1995  dal  pretore  di  Rovigo  nel
 procedimento penale a carico di Zuolo Alberto Sante
 Acque pubbliche e private - Acquedotti - Controlli -  Acqua  per  uso
    umano,  risultata  alle  analisi  non  conforme alla normativa del
    settore - Punibilita' dei gestori di tali acquedotti  soltanto  in
    caso  di  mancata  tempestiva  adozione delle misure necessarie ad
    adeguarne la qualita' o a prevenirne il consumo e  l'erogazione  -
    Lamentata   introduzione   di   norma   di  favore  -  Conseguente
    irragionevole disparita' di trattamento rispetto ad altri soggetti
    -  Mancata  osservanza  della  normativa  CEE  in  materia  e,  in
    particolare, con la direttiva n. 80/778.
 (Legge 5 gennaio 1994, n. 36, art. 26, terzo comma).
 (Cost., artt. 3 e 11).
(GU n.44 del 25-10-1995 )
                              IL PRETORE
    Ha  pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento n. 115/1995
 r.g. a carico di Zuolo Alberto  Sante;  imputato  del  reato  di  cui
 all'art.  21  del  d.P.R.  24 maggio 1988, n. 236 all'udienza dell'11
 luglio 1995.
    All'esito dell'odierno processo le parti hanno chiesto che  questo
 giudicante  pronunciasse sentenza di assoluzione perche' il fatto non
 e' piu' previsto dalla legge come  reato,  in  virtu'  dell'art.  26,
 legge 5 gennaio 1994, n. 36.
    Tale decisione trova pero' nel suo cammino l'esame della questione
 di  legittimita'  costituzionale della norma in virtu' della quale si
 invoca l'assoluzione.
    Invero questo pretore  condivide  il  dubbi  di  costituzionalita'
 dell'art.   26   espressi   dalla   dottrina   che   si  e'  occupata
 dell'argomento. Al di la' della obiettiva modestia del caso di specie
 occorre quindi farsi carico dell'onere di prospettare le questioni di
 rilevanza nel presente processo al giudice delle leggi.
    1. - Rilevanza della questione nel giudizio a quo.
    L'art. 26, ultimo comma,  della  legge  5  gennaio  1994,  n.  36,
 recita: "le sanzioni previste dall'art. 21 del d.P.R. 24 maggio 1988,
 n.  236  si applicano al responsabile della questione dell'acquedotto
 soltanto nel caso in cui,  dopo  la  comunicazione  dell'esito  delle
 analisi,  egli non abbia tempestivamente adottato le misure idonee ad
 adeguare  la  qualita'  dell'acqua  o  a  prevenire  il   consumo   o
 l'erogazione di acqua idonea".
    A   differenza   delle   norme  contenute  nei  decreti-legge  non
 convertiti che si erano succeduti anteriormente alla legge de quo, e'
 indubbio che l'introduzione dell'avverbio "soltanto"  esclude  che  i
 gestori   degli  acquedotti  continuino  ad  essere  puniti  a  mente
 dell'art. 21 del d.P.R. n. 236/1988.
    L'erogazione di acqua  superante  i  limiti  massimi  ammessi  dal
 d.P.R.  n.  236/1988, anteriormente alla comunicazione dell'organo di
 controllo sanitario esterno, diventa  per  tali  soggetti  del  tutto
 irrilevante  (sia  sotto  il  profilo  penale  che  quello  civile od
 amministrativo). La loro responsabilita' penale e' ridotta  solamente
 nel caso di inerzia mantenuta dopo aver ricevuto la comunicazione del
 superamento  delle  concentrazioni  massime  ammissibili  (CMA;  c.d.
 "stabellamenti").
    La  dottrina  non  e'  concorde  nel  ritenere   se   tale   nuova
 disposizione   introduca   una   semplice   condizione  obiettiva  di
 punibilita' rispetto il reato originario di cui all'art. 21.
    Chi propende per tale scelta ritiene che essa consista in sostanza
 nella comunicazione del primo  "stabellamento"  e  nella  conseguente
 (quanto  meno)  colpevole  inerzia  mantenuta  rispetto  l'obbligo di
 attivarsi  prescritto  dall'art.  26  della  legge  n.  36/1994.   La
 valutazione positiva in merito all'idoneita' delle soluzioni adottate
 ascluderebbe,  per il solo gestore, la punibilita' del reato previsto
 dall'art. 21 del d.P.R. n. 236/1988.
    D'altro canto si opina che la norma contenuta nell'art. 26 sia  in
 sostanza   una   "norma  penale  di  favore",  una  disposizione  che
 ridisegnando un reato gia' esistente, introduca nuovi elementi (oltre
 al superamento delle  CMA  viene  richiesto  anche  il  comportamento
 omissivo  successivo  alle comunicazioni) e renda in definitiva assai
 piu' ardua la configurabilita' del  reato  a  carico  di  determinati
 soggetti.
    Secondo  tale  opinione  dottrinale  l'art.  26,  terzo comma, non
 introduce una  condizione  obiettiva  di  punibilita'  per  il  reato
 "originario"  e  cio'  per  i  seguenti motivi: perche' la condizione
 obiettiva  di  punibilita'  deve  concretarsi   in   un   avvenimento
 estrinseco  al  fatto che costituisce reato, in ogni caso estraneo al
 precetto giuridico; perche' tale non puo' essere  ritenuto  l'obbligo
 di attivarsi tempestivamente, obbligo gia' riconducibile anche per il
 gestore  dell'acquedotto  per  il  precetto imposto dall'art. 21 - il
 quale vieta l'erogazione di acqua priva dei  requisiti  -  norma  che
 implica   il   dovere  di  attivarsi  tempestivamente  per  prevenire
 l'erogazione senza attendere supinamente i controlli ed  i  riscontri
 esterni;  perche' il dovere di attivarsi per fornire unicamente acqua
 avente i requisiti di legge e' imposto innanzi tutto inderogabilmente
 dalla direttiva CEE; perche'  dunque  il  divieto  di  realizzare  la
 condotta  che  si  pretende  costituisca  una condizione obiettiva di
 punibilita' e'  invece  desumibile  gia'  dal  precetto  delle  norme
 incriminatrici.
    E' indubbio quindi che i gestori degli acquedotti non possano piu'
 commettere  il  reato  di  cui all'art. 21 del d.P.R. n. 236/1988, ma
 solamente quello di cui all'art. 26 della legge n. 36/1994.
    Nel caso  di  specie,  quindi,  correttamente  le  parti  invocano
 l'applicabilita'  dell'art.  2,  secondo  comma,  c.p. Il superamento
 della CMA addebitata all'odierno  imputato,  gestore  dell'acquedotto
 consorziale  di  Rovigo, risulta fatto privo attualmente di rilevanza
 penale, talche' questi dovrebbe essere mandato assolto  dall'addebito
 con  la  formula  "il  fatto  non  e'  piu' previsto dalla legge come
 reato".
    E' stata accertata difatti la  tempestivita'  delle  procedure  di
 lavaggio  adottate  dall'ente consorziale, e le stesse, al loro esito
 hanno mostrato che gli "stabellamenti" erano rientrati  (prelievo  n.
 373  del pomeriggio del 12 novembre 1993) confermando l'idoneita' dei
 trattamenti.
    Si  osserva comunque che la rilevanza della questione non verrebbe
 meno anche nel caso in  cui  si  ritenesse  che  la  norma  impugnata
 introduca  una  condizione  obiettiva  di  punibilita'.  In tale caso
 troverebbe difatti applicazione il  terzo  comma  dell'art.  2  c.p.:
 antrambe  le  norme  sono  applicabili  all'imputato  in  qualita' di
 gestore dell'acquedotto, e quindi si dovrebbe comunque valutare quale
 delle due norme succedutesi nel tempo sia quella  caratterizzata  dal
 miglior favore verso l'imputato.
    Anche  in  tale  prospettiva  la norma impugnata troverebbe quindi
 inevitabilmente applicazione nel giudizio a quo.  Tuttavia,  sembrano
 fondati  i  dubbi  di illegittimita' della norma sotto il profilo del
 contrasto  con  l'art.  3  della  Costituzione,  stante  la  evidente
 disparita'  di  trattamento  verso  gli  altri  soggetti  diversi dai
 gestori che rimangono punibili a mente  dell'art.  21  citato,  tanto
 piu'  in  considerazione  che  tale  disciplina  sopravvenuta viene a
 violare la direttiva CEE in materia.
    Si deve subito dire che la questione  e'  rilevante  nel  caso  di
 specie,    nonostante    essa   sia   diretta   ad   evidenziare   la
 incostituzionalita'  di  una  norma  penale  favorevole,   e   quindi
 prospetti una eccezione in malam partem nei confronti dell'imputato.
    A  parte  il  fatto che la dottrina da tempo ha manifestato il suo
 favore  per  questioni  di  costituzionalita'  che  siano  dirette  a
 contrastare   "odiose   forme   di   privilegio,  oppure  ragioni  di
 opportunita' politico-criminale  che  nessun  riscontro  trovino  nei
 valori  costituzionalmente  garantiti",  e'  evidente che nel caso di
 specie la rilevanza della questione  non  troverebbe  l'ostacolo  dei
 principi costituzionali di irretroattivita' e di legalita'.
    Si  deve  difatti  rammentare  che  nel  caso  di  specie il fatto
 contestato all'imputato venne commesso nel 1993 quindi  anteriormente
 all'entrata  in vigore della legge n. 36/1994, e sotto la vigenza del
 d.P.R. n. 236/1988.
    Pertanto, la eventuale invalidazione  costituzionale  della  norma
 penale  di  favore, e dunque la sua mancata applicazione nel giudizio
 de quo, porterebbe all'applicazione della legge vigente al tempo  del
 fatto  (la pronuncia della Corte non avrebbe quindi nemmeno l'effetto
 di creare una nuova norma incriminatrice).
    Verrebbe meno diversamente la  sola  applicabilita'  del  criterio
 dettato  dall'art.  2,  secondo  e  terzo  comma,  norma  che  - come
 osservato  in  dottrina   -,   seppur   coerente   con   i   principi
 costituzionali  non  puo' certo dirsi "costituzionalizzata" nella sua
 interezza ed in ogni caso non e' riconducibile (ma anzi derogante) al
 principio di irretroattivita'.
    E comunque sia, essendo evidente  che  la  norma  della  quale  si
 dubita  la  costituzionalita'  introduce  una disciplina speciale, di
 maggior favore, per una categoria particolare di soggetti, alla Corte
 sarebbe comunque  consentito  (come  la  stessa  ha  riconosciuto  in
 passato)   di  pronunciare  una  pura  e  semplice  dichiarazione  di
 illegittimita' costituzionale dell'intera disposizione impugnata  che
 avesse  come  effetto quello di ricondurre nell'ambito delle norme di
 diritto comune la fattispecie disciplinata dalla norma di favore.
    La rilevanza della questione non sarebbe poi inficiata  per  altro
 verso  dalla successione di numerosi decreti-legge (dal 1991 al 1993:
 ad es.: d.-l. 18 novembre 1991, 20 gennaio  1992,  n.  13,  17  marzo
 1992,  n.  135,  20 maggio 1992, n. 291, 21 luglio 1992, n. 344 e poi
 ancora nn. 101/1993 e 235/1993 ..)  mai  convertiti,  precedentemente
 all'entrata in vigore della legge n. 36/1994.
    Difatti,  come  e'  stato  riconosciuto  anche dalla suprema Corte
 (opinione  condivisa  dalla  dottrina)   la   norma   contenuta   dai
 decreti-legge  in  questione (nella sostanza i vari decreti-legge non
 convertiti che si susseguirono  dal  1991  al  1993,  esprimevano  un
 precetto equivalente), non aveva introdotto un caso di successione di
 leggi penali nel tempo, ne' possedeva valore interpretativo dell'art.
 21  del  d.P.R.  n.  236/1988;  i  suddetti  decreti-legge  piuttosto
 introducevano  una  diversa  norma  penale  incriminatrice   che   si
 affiancava  a  quella  gia'  contenuta  nell'art. 21 citato, la quale
 rimaneva  in  vigore  ed  era  applicabile  anche  ai  gestori  degli
 acquedotti.  Si introduceva insomma una fattispecie contravvenzionale
 di pura omissione che rendeva punibile, con le sanzioni dell'art. 21,
 ed in virtu' del principio di specialita' (art.  15  c.p.),  condotte
 che dopo le comunicazioni sarebbero ricadute nell'ambito del reato di
 rifiuto, omissione di atti d'ufficio.
    L'introduzione  dell'avverbio "soltanto" nella legge n. 36/1994 ha
 invece mutato (come si e' visto) i termini della questione.
    2. - Illegittimita'  costituzionale  dell'art.  26,  terzo  comma,
 della  legge n. 36/1994 per contrasto con l'art. 3 della Costituzione
 sotto  il  profilo  della  irragionevole  disparita'  di  trattamento
 rispetto altri soggetti diversi dal gestore di acquedotto.
    La  norma  impugnata accorda un irragionevole favore ed una facile
 impunita' ai  soli  soggetti  che  rivestano  la  figura  di  gestori
 dell'acquedotto.
    La questione non perde rilevanza nemmeno se si ritenesse possibile
 procedere  ad  estensione  analogica in bonam partem anche a soggetti
 diversi i quali, seppur non propriamente possiedano  la  qualita'  di
 "gestori",  siano  tuttavia  ricompresi  all'interno  della compagine
 organizzativa dell'ente titolare della  gestione,  con  incarichi  di
 responsabilita'   per   delega   o  per  ripartizione  interna  delle
 competenze.
    Rimane  difatti  sempre  evidente  che  l'art.  21   continuerebbe
 diversamente  ad  applicarsi  a  tutti i soggetti comunque estranei a
 tale struttura organizzata, che  abbiano  fornito  al  consumo  umano
 acqua  priva dei requisiti prescritti. Ad esempio, il titolare di una
 casa di cura (come gia' trattato dalla giurisprudenza di merito),  il
 titolare   di   un   rifugio   alpino   che   non   si  approvvigioni
 all'acquedotto, oppure anche coloro che abbiano impiegato tali  acque
 per  la  preparazione  industriale  di  prodotti destinati al consumo
 umano.
    Il  favore,  ed  in  molti   casi   la   pratica   impunita',   e'
 irragionevolmente ed incomprensibile sotto numerosi punti di visita.
    Innanzi  tutto  perche'  viene  a  "scriminare" proprio le ipotesi
 suscettibili di maggiori effetti nocivi sulla salute dei consumatori.
 Difatti e' indubbio che  attraverso  le  strutture  degli  acquedotti
 pubblici  vengano destinate al consumo le maggiori quantita' di acque
 potabili, le quali in molti casi costituiscono l'unica risorsa idrica
 degli abitanti di intere zone.
    Perche'   proprio   la   struttura   tecnica   ed    organizzativa
 dell'acquedotto  e  l'attivita'  interna  di monitoraggio e controllo
 imposti dalla legge consentirebbero al gestore di prevenire al meglio
 eventuali forniture di acque non conformi ai requisiti.
    Perche' tutta la disciplina normativa e' diretta in primis proprio
 alle  strutture  organizzate  che forniscono acqua potabile, le quali
 sono fatte carico di molteplici  obblighi  al  fine  di  adeguare  la
 qualita'  del  servizio  offerto  agli  standards imposti dalla norma
 comunitaria, dove gli eventuali "stabellamenti" non  sono  altro  che
 epifenomeni  di  un servizio evidentemente inadeguato, con impiego di
 strutture obsolete, comunque negligente.
    Perche' diversamente l'art. 26 consentirebbe in pratica agli  enti
 di  gestione  di  non  curarsi  piu'  adeguatamente  di  mantenere la
 qualita' del servizio offerto ed un'adeguata  sorveglianza,  ma  solo
 una struttura minima in grado di porre in qualche misura rimedio agli
 stabellamenti  che venissero comunicati dal controllo esterno. E cio'
 si verificherebbe proprio quando invece  la  stessa  legge  impone  a
 tutti  i  gestori  del  servizio  idrico  un  particolare  dovere  di
 controllo con la dotazione  di  un  adeguato  servizio  di  controllo
 territoriale   e  di  un  laboratorio  di  analisi  per  i  controlli
 dell'acqua.
    Tale imposizione non costituisce difatti  un  "contrappreso"  alla
 conseguita  impunita', in quanto l'art. 26 diversamente vanifica tale
 nuovo rinnovato obbligo: nello stesso momento in cui  il  legislatore
 riconosce  la necessita' e rilevanza di tale dovere di controllo, del
 tutto irragionevolmente priva di ogni rilevanza e sanzionabilita'  la
 violazione di tale dovere e rende del tutto lecito quel comportamento
 omissivo e negligente che avrebbe per effetto proprio l'evento che il
 comportamento diligente vorrebbe evitare.
    Perche'   l'erogazione  ad  una  vasta  popolazione  di  quantita'
 ingentissime  di  acque  -  anche  gravemente  prive  dei   requisiti
 prescritti  -  rimarrebbe  del  tutto  impunita  e  priva di sanzione
 alcuna, mentre continuerebbero ad essere puniti casi anche  di  minor
 rilevanza e diffusivita'.
    3.  -  Illegittimita' costituzionale dell'art. 26, terzo comma, in
 riferimento all'art. 11 della  Costituzione,  per  contrasto  con  la
 direttiva  CEE  80/778 e con la giurisprudenza in materia della Corte
 di giustizia della comunita' europea.
    Appare evidente a questo giudicante che il legislatore italiano si
 sia posto in netto ed insanabile  contrasto  rispetto  al  dovere  di
 attuazione  imposto  dalla  direttiva  CEE menzionata, in particolare
 venendo meno  all'obbligo  imposto  dall'art.  7  (sesto  comma)  che
 prescrive di adottare tutte le disposizioni necessarie per permettere
 in  ogni  momento esclusivamente l'erogazione di acqua che possieda i
 requisiti di qualita' determinati nell'Allegato n. 1.
    Diversamente, con la disposizione  contenuta  nell'art.  26  della
 legge  n.  36/1994  si  consente  l'erogazione  di  acqua  priva  dei
 requisiti da parte degli acquedotti sino  a  quando  gli  stessi  non
 vengano avvertiti dai responsabili del controllo esterno.
    Si  rimette  quindi  ad  un  evento  successivo l'interruzione del
 fenomeno vietato;  si  priva  di  ogni  sanzione  tutta  la  fase  di
 erogazione   precedente   alla   comunicazione   delle   analisi;  si
 deresponsabilizza  lo  stesso  gestore   e   la   struttura   interna
 scoraggiando  sia  i controlli interni che l'adozione di una adeguata
 struttura  tecnica  idonea  a  svolgere   una   efficace   opera   di
 prevenzione.
    Diversamente,  la  direttiva  CEE non consentiva assolutamente, se
 non per casi particolarissimi e specificamente indicati, l'erogazione
 di acqua non conforme ai requisiti richiesti.
    In  tal  senso  vale  richiamare anche la decisione della Corte di
 giustizia in data 22 settembre 1988; tale  decisione  riaffermava  la
 natura  assoluta degli obblighi e dei divieti imposti dalla direttiva
 e limitava la possibilita'  di  introdurre  deroghe  da  parte  degli
 ordinamenti  interni  in  soli  casi caratterizzati dalle particolari
 condizioni "tassative"  e  comunque  ricollegabili  a  situazioni  di
 urgenza  e circostanze accidentali gravi, per tempi comunque limitati
 e corrispondenti al tempo normalmente necessario al ripristino  della
 qualita'  delle  acque  interessate; comunque senza che i superamenti
 autorizzati possano comportare rischi  inaccettabili  per  la  salute
 pubblica.  Nessuno  dei  suddetti  criteri e' diversamente rispettato
 dall'art.  26,  terzo  comma,   che   prescinde   da   ogni   aspetto
 qualitativo-quantitativo  dello  "stabellamento" ed e' svincolato dal
 rispetto del  "tempo  strettamente  necessario  al  ripristino  della
 qualita'  delle  acque"  ma rimesso unicamente ad un evento futuro ed
 incerto quale il controllo esterno da parte degli organi  competenti.
 Con  l'art.  26 della legge n. 36/1994 quindi il legislatore italiano
 e' venuto successivamente meno (dopo avervi dato una prima attuazione
 con il d.P.R. n. 236/1988) agli obblighi imposti dalla direttiva  CEE
 80/778,  esimendo da sanzione una determinata categoria di soggetti e
 consentendo  l'erogazione  di  acque  prive  dei  requisiti  per  una
 generalita' di ipotesi di primario rilevanza.
    Tale  norma  quindi  viene  a  porsi  in ineludibile contrasto con
 l'obbligo ricavabile dalla citata direttiva, cosi' come  interpretato
 dalla  Corte  di  giustizia,  obbligo  che  possiede  forza  e tutela
 privilegiata nel nostro ordinamento  in  virtu'  dell'art.  11  della
 Costituzione.
    Per mezzo di tale disposizione si concreta una elusione successiva
 della  precedente  attuazione  della  norma  comunitaria,  si crea un
 contrasto irrisolvibile dal giudice a quo che  deve  quindi  pertanto
 essere   forzatamente   rimesso   per   la   soluzione   alla   Corte
 costituzionale.
                                P. Q. M.
    Visti gli artt. 134 della Costituzione e 23 della legge  11  marzo
 1953,  n.  87,  ritenuta  rilevante e non manifestamente infondata la
 questione di legittimita' costituzionale dell'art. 26,  terzo  comma,
 della legge 5 gennaio 1994, n. 36 per contrasto con gli artt. 3 ed 11
 della  Costituzione  nei limiti e nel senso precisati in motivazione,
 solleva d'ufficio la predetta questione;
    Sospende il giudizio in corso;
    Dispone che la  presente  ordinanza,  letta  all'udienza  odierna,
 venga notificata a cura della cancelleria al Presidente del Consiglio
 dei  Ministri  e comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e
 del Senato;
    Dispone che gli atti vengano trasmessi alla Corte costituzionale.
      Rovigo, addi' 11 luglio 1995
                          Il pretore: NOVELLI
 
 95C1295