N. 438 SENTENZA 18 ottobre 1995

 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Pena - Persona  affetta  da  infezione  HIV  -  Detenzione  -  Rinvio
 obbligatorio  dell'esecuzione  della  pena - Accertamento in concreto
 circa  le  effettive  condizioni  di  salute  del  condannato  e   di
 compatibilita'  o  meno  con  lo  stato  detentivo  -  Preclusione  -
 Irragionevolezza - Differimento della pena  anche  nel  caso  in  cui
 l'espiazione  possa  avvenire  senza  pregiudizio  della  salute  del
 soggetto e di quella degli altri detenuti - Spettanza al giudice  del
 potere  di  verifica  caso  per caso circa l'eseguibilita' della pena
 senza pregiudizio  per  la  salute  della  popolazione  carceraria  -
 Illegittimita' costituzionale.
 
 (C.P., art. 146, primo comma, n. 3, aggiunto dall'art. 2 del d.-l. 14
 maggio 1993, n. 139, convertito dalla legge 14 luglio 1993, n. 222)
 
 (Cost., artt. 2, 3, 27, primo e terzo, e 32).
(GU n.44 del 25-10-1995 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Vincenzo CAIANIELLO;
 Giudici: avv. Mauro FERRI, prof. Luigi  MENGONI,  prof.  Enzo  CHELI,
    dott.  Renato  GRANATA,  prof.  Giuliano VASSALLI, prof. Francesco
    GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, avv. Massimo  VARI,  dott.  Cesare
    RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 146, primo
 comma, numero 3, del codice penale, promosso con ordinanza emessa  il
 13  ottobre  1994  dal  Tribunale  di  sorveglianza  di Palermo sulle
 istanze proposte da Corrao Antonino, iscritta al n. 15  del  registro
 ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
 n. 5, prima serie speciale, dell'anno 1995;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri;
    Udito nella camera di consiglio del 28 settembre 1995  il  Giudice
 relatore Giuliano Vassalli.
                           Ritenuto in fatto
    1.   -  Il  Tribunale  di  sorveglianza  di  Palermo  solleva,  in
 riferimento agli artt. 2, 3, 27, primo e  terzo  comma,  e  32  della
 Costituzione,  questione  di legittimita' dell'art. 146, primo comma,
 numero 3, del codice penale, aggiunto dall'art. 2  del  decreto-legge
 14 maggio 1993, n. 139, convertito, con modificazioni, dalla legge 14
 luglio 1993, n. 222.
    Il  giudice  a  quo  trae  spunto  dalle  considerazioni  poste  a
 fondamento delle sentenze nn. 70 e 308 del 1994, ove venne affrontata
 la disciplina stabilita in favore  dei  condannati  affetti  da  AIDS
 conclamata  o  da grave deficienza immunitaria, per dedurre anzitutto
 un profilo di irragionevolezza della norma censurata, in quanto se la
 relativa  funzione  e'  quella  di  tutelare  il  bene  della  salute
 collettiva  nelle  carceri,  tale  scopo doveva essere perseguito nei
 confronti di tutti i condannati sieropositivi, in quanto e' questa la
 condizione da cui dipende il rischio  di  contagio  e  non  certo  lo
 stadio   raggiunto   dalla   malattia.  Nell'ipotesi  prevista  dalla
 disposizione  impugnata,  poi,  risulterebbero  obliterate  tutte  le
 finalita'  che  la Costituzione assegna alla pena. Totalmente svilita
 sarebbe, infatti, la funzione general-preventiva, giacche' la  rigida
 e  prevedibile  sospensione del momento esecutivo esclude che la pena
 irrogata  possa  svolgere  alcuna   funzione   di   intimidazione   e
 dissuasione.   Del   tutto   vanificato   sarebbe  anche  il  profilo
 retributivo-afflittivo della pena, posto che  la  rinuncia  sine  die
 alla  relativa  esecuzione  lascia  sostanzialmente impunito il reato
 commesso, in una prospettiva di deresponsabilizzazione che si pone in
 contrasto con il principio sancito dall'art. 27, primo  comma,  della
 Costituzione.  Allo  stesso modo risulterebbe del tutto obliterata la
 finalita' di prevenzione speciale e di rieducazione della  pena,  dal
 momento   che   la   norma   produce   effetti  meramente  liberatori
 prescindendo del tutto dalle esigenze che appaiono riferibili al caso
 concreto. A cio' va aggiunto - osserva il giudice a  quo  -  che  "la
 violazione  del  personalismo  e  finalismo  rieducativo  della pena"
 appare tanto piu' grave in  considerazione  del  fatto  che  il  bene
 tutelato,  vale  a  dire la salute collettiva carceraria, si presenta
 estraneo rispetto alle finalita' costituzionali della  pena,  ponendo
 cosi' la norma in contrasto con l'art. 27, primo e terzo comma, della
 Costituzione.
    La  disposizione  impugnata  genererebbe  poi  una  ingiustificata
 disparita'  di  trattamento  tra  i  malati   di   AIDS   socialmente
 pericolosi, in quanto, se gli stessi devono ancora espiare in tutto o
 in  parte  la  pena,  non  possono  essere  sottoposti alla misura di
 sicurezza   detentiva,   mentre  nell'ipotesi  in  cui  abbiano  gia'
 integralmente scontato la pena possono invece  soggiacervi,  giacche'
 non  e'  prevista la sospensione della misura di sicurezza per motivi
 di salute.
    Sarebbe poi violato l'art. 32 della Costituzione dal  momento  che
 il   legislatore,   "trasferendo   il  malato  di  AIDS  dal  carcere
 all'ambiente libero e salvaguardando il bene della salute  collettiva
 carceraria,  ha  esposto  a  grave  e  maggior  pericolo", perche' il
 condannato resterebbe totalmente incontrollato, il bene della  salute
 della  intera  collettivita'  e,  dunque,  un bene "quantitativamente
 maggiore" perche' riferibile ad  un  numero  assai  piu'  elevato  di
 soggetti.
    2.  -  Nel giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei
 ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato
 chiedendo dichiararsi inammissibile o infondata la questione  essendo
 la  stessa  identica  ad  altra  gia' decisa con ordinanza n. 292 del
 1993.
    3. - Con ordinanza istruttoria del 2  giugno  1995,  la  Corte  ha
 disposto  richiedersi  al  Ministro di grazia e giustizia di fornire,
 entro novanta giorni dalla comunicazione, i seguenti dati:
      il numero  dei  condannati  che  hanno  beneficiato  del  rinvio
 obbligatorio della esecuzione della pena a norma dell'art. 146, primo
 comma, numero 3, del codice penale o, trattandosi di sieropositivi, a
 norma dell'art. 147, primo comma, numero 2, del medesimo codice;
      il numero dei condannati che, dopo aver beneficiato di un rinvio
 obbligatorio  o  facoltativo  dell'esecuzione  della  pena, in quanto
 affetti da infezione da HIV o trovandosi  comunque  nelle  condizioni
 ivi  previste, sono o sono stati sottoposti a procedimento penale per
 reati commessi dopo la sentenza di condanna;
      il  numero  delle  persone  affette  da  infezione  da  HIV  che
 risultano in atto ristrette negli istituti penitenziari;
      il numero e la capienza di strutture adeguatamente attrezzate in
 ambito  penitenziario  in  grado  di  accogliere  e  di  prestare  la
 necessaria assistenza alle persone affette da infezione da HIV;
      il numero e la capienza di altre strutture idonee ad  accogliere
 ed  assistere  persone  affette  da  infezione  da  HIV  in  stato di
 detenzione domiciliare.
    4. - Il Ministero di grazia e giustizia ha fornito parte dei  dati
 richiesti, con note del 2 e del 21 settembre 1995.
                        Considerato in diritto
    1.   -  Il  Tribunale  di  sorveglianza  di  Palermo,  chiamato  a
 pronunciarsi su di una richiesta di  rinvio  della  esecuzione  della
 pena   formulata   da  un  condannato  affetto  da  AIDS  conclamata,
 nuovamente sottopone all'esame della Corte questione di  legittimita'
 costituzionale  dell'art.  146,  primo  comma,  numero  3, del codice
 penale, ove e' stabilito  il  rinvio  obbligatorio  della  esecuzione
 della pena se questa deve aver luogo nei confronti di persona affetta
 da  infezione  HIV  nei  casi  di  incompatibilita'  con  lo stato di
 detenzione ai  sensi  dell'art.  286-bis,  comma  1,  del  codice  di
 procedura  penale. Attento a rimarcare le considerazioni ed i rilievi
 svolti da questa Corte in particolare nelle sentenze n. 70 e  n.  308
 del  1994,  il  giudice  a  quo  svolge una approfondita disamina dei
 numerosi e  spesso  drammatici  problemi  che  ruotano  attorno  alla
 discussa  norma oggetto di impugnativa, per giungere, all'esito di un
 articolato  percorso  argomentativo,  alla  individuazione  di   piu'
 profili  di  illegittimita'  costituzionale.  A  parere del Tribunale
 rimettente, infatti, risulterebbe  innanzi  tutto  violato  l'art.  2
 della   Costituzione   in  quanto,  la  "automatica,  obbligatoria  e
 indiscriminata concedibilita'" del  beneficio  genera,  come  effetto
 sostanziale,  quello  di  esporre  ad  elevato  pericolo fondamentali
 valori  della  collettivita'  e   dei   singoli,   quali   la   vita,
 l'incolumita',  il  patrimonio  e  la  stessa  salute  individuale  e
 collettiva. Compromesso sarebbe anche  l'art.  3  della  Costituzione
 sotto  un  duplice profilo: per un verso, infatti, la norma impugnata
 contrasterebbe con il canone di ragionevolezza in quanto, se  il  suo
 scopo  e'  quello  di  preservare la salute collettiva nelle carceri,
 l'identica disciplina dovrebbe trovare applicazione nei confronti  di
 tutti  i  portatori  del  virus  HIV, essendo questa, e non lo stadio
 raggiunto dalla malattia, a rappresentare la condizione soggettiva da
 cui dipende il rischio di contagio. Sotto altro profilo,  osserva  il
 giudice a quo, dalla disposizione oggetto di censura scaturirebbe una
 ingiustificata   disparita'   di   trattamento  tra  malati  di  AIDS
 socialmente  pericolosi,  in  quanto,  mentre   nei   confronti   dei
 condannati che debbono
  ancora  espiare  l'intera  pena il rinvio della esecuzione impedisce
 l'applicazione della misura di sicurezza  detentiva,  ove  invece  la
 pena  sia  stata integralmente scontata la misura stessa puo' trovare
 applicazione non essendo prevista la relativa sospensione per  motivi
 di    salute.    Risulterebbe   poi   vanificata   "ogni   dimensione
 retributiva-afflittiva della pena" giacche', osserva  il  rimettente,
 "la  rinunzia  sine die all'esecuzione di essa lascia sostanzialmente
 impunito il reato commesso, in  un'ottica  di  deresponsabilizzazione
 che  contraddice  il  principio  sancito dal primo comma dell'art. 27
 della Costituzione", cosi' come totalmente obliterata  sarebbe  anche
 la  finalita'  di  prevenzione  sociale e di rieducazione della pena,
 giustificabile soltanto da  parte  di  chi  coltivi  una  "concezione
 pseudo-umanitaria,  costituzionalmente  inaccettabile, che vede nella
 condizione detentiva  sempre  e  soltanto  un  momento  repressivo  e
 antieducativo  e nella condizione libera sempre e comunque un momento
 rieducativo  e  risocializzativo".  La  disposizione   impugnata   si
 porrebbe  infine  in  contrasto, secondo il giudice rimettente, anche
 con l'art. 32 della Costituzione, giacche' se da  un  lato  la  norma
 tende  a salvaguardare il bene della salute nel consorzio carcerario,
 il trasferimento del condannato in  una  condizione  di  liberta'  in
 nessun  modo  coercibile  finisce  per  esporre ad elevato rischio la
 salute della intera collettivita', cosi' da offendere l'identico bene
 ma in una dimensione "quantitativamente maggiore, essendo  riferibile
 ad un numero enormemente piu' elevato di soggetti".
    Conclusivamente,  il  giudice  a  quo  ritiene  tuttavia  di dover
 dedurre, quale "profilo secondario di incostituzionalita' della norma
 denunziata,  ampiamente  assorbito"  dalle  censure   precedentemente
 svolte,   un   ulteriore  aspetto  che  contribuirebbe  a  minare  la
 legittimita' della norma stessa: vale a dire la mancata previsione di
 qualsiasi  possibilita'  di  operare  una  "verifica  giurisdizionale
 dell'inesistenza,  nel caso concreto, delle condizioni che dovrebbero
 giustificare il sacrificio degli interessi postergati e la precedenza
 accordata all'interesse tutelato dalla norma,  come  nell'ipotesi  di
 pena   detentiva   che   devesi   concretamente  espiare  in  carcere
 adeguatamente  attrezzato,  con  strutture  sanitarie  e   logistiche
 interne  e  con  collegamenti  con strutture esterne, tali da rendere
 pienamente tutelati i beni della  salute  del  singolo  condannato  e
 della collettivita' carceraria".
    A  ben vedere e' proprio l'ultimo dei profili che il giudice a quo
 affronta in chiave "secondaria" a  rappresentare  l'effettivo  nucleo
 attorno  al  quale  si  snoda  l'intera  rassegna delle doglianze e a
 costituire, al tempo stesso, il petitum che il rimettente  mostra  di
 perseguire,  giacche'  e'  agevole avvedersi di come tutti i dubbi di
 legittimita' che vengono sottoposti all'esame della  Corte  finiscano
 ineluttabilmente  per  radicarsi  e  trarre  alimento proprio da quel
 "rigido  automatismo  giudiziale"  che  l'ordinanza   di   rimessione
 contesta e che caratterizza l'operativita' della disposizione oggetto
 di  impugnativa.  Su  tale  aspetto,  quindi,  dovra'  incentrarsi la
 disamina della questione, per verificare se e in che  misura  possano
 ritenersi  tuttora  validi  i  rilievi  che  indussero questa Corte a
 disattendere la fondatezza di analoghi quesiti.
    2. - Come il giudice a quo puntualmente sottolinea,  questa  Corte
 e' stata infatti chiamata piu' volte a pronunciarsi sul delicato tema
 del  rinvio obbligatorio della pena nei confronti dei malati di AIDS,
 pervenendo  a   conclusioni   condizionate   dai   rigorosi   confini
 all'interno    dei    quali    deve   svolgersi   lo   scrutinio   di
 costituzionalita'. Nella sentenza n. 70 del  1994,  infatti,  non  si
 manco'  di  rilevare che l'alternativa tra immediata esecuzione della
 pena detentiva o  la  sua  temporanea  "inesigibilita'"  a  causa  di
 condizioni di salute che il legislatore stesso ritiene di qualificare
 come incompatibili con la detenzione, non comporta soluzioni univoche
 sul  piano costituzionale, "dovendosi necessariamente ammettere spazi
 di   valutazione   normativa    che    ben    possono    contemperare
 l'obbligatorieta'  della  pena con le specifiche situazioni di chi vi
 deve  essere  sottoposto".  Nella  stessa  sentenza  si  auspico'  un
 tempestivo    intervento    del    legislatore    che   adeguatamente
 salvaguardasse   le   fondamentali   esigenze   di    tutela    della
 collettivita'.  Al  fondo  della  normativa  censurata si individuo',
 dunque, sulla base di quanto espressamente affermato nella  relazione
 accompagnatoria del disegno di legge di conversione del decreto-legge
 n.  139  del  1993 (sesto, dopo una serie di precedenti decreti-legge
 tutti decaduti), il valore della  salute  nel  particolare  consorzio
 carcerario come bene da porre a raffronto con gli altri coinvolti, un
 bene,  per  di  piu',  la  cui  tutela  assumeva peculiare risalto in
 considerazione  della  "eccezionalita'"  che  il  fenomeno  dell'AIDS
 presentava  in  sede  penitenziaria. Concetti, questi, che sono stati
 poi ribaditi nella sentenza n. 308 del 1994, ove si osservo' come  il
 binomio  "carcere-malati di AIDS" fosse stato normativamente dissolto
 sulla base di "un presupposto di fatto non  valutabile  in  astratto:
 vale  a  dire  l'eccezionale  situazione  di  pericolo  per la salute
 pubblica  nel  contesto  delle  carceri  dovuta  a  due  fenomeni  di
 'concentrazione' fra loro interagenti, quali sono, da un lato, l'alto
 numero  di  detenuti  all'interno  degli  istituti  e, dall'altro, la
 massima   presenza,   fra   questi,   di   soggetti    a    rischio",
 giustificandosi,  cosi',  una  disciplina  "che  assume  i  connotati
 sostanziali  di  ius  singulare".  Dunque,  un  regime  profondamente
 derogatorio,  il  quale  trova la propria ragion d'essere soltanto se
 riferito  ad  un  quadro  di eccezionalita' che, per esser tale, deve
 necessariamente  correlarsi  ad  una  situazione  di  emergenza   che
 qualunque  societa' civile e' portata ad apprezzare come fenomeno per
 sua natura contingente e, quindi, temporaneo.
   Ebbene, lungi dal recepire gli auspici di questa Corte e delle  non
 poche  voci  levatesi nel medesimo senso, il legislatore ha omesso di
 riequilibrare il sistema  lasciandolo  sbilanciato  sul  piano  della
 doverosa  salvaguardia  delle esigenze di sicurezza collettiva, cosi'
 finendo per accreditare l'opinione di quanti  hanno  individuato  nei
 beneficiari  di  una  disciplina, gia' in se' fortemente discussa sul
 piano della validita'  delle  stesse  premesse  scientifiche  da  cui
 muove,  una  singolare  categoria di "penalmente immuni", senza che a
 cio' neppure corrisponda una verifica in concreto  circa  l'effettiva
 rispondenza  di  un siffatto regime alle reali esigenze della salute,
 individuale e collettiva, che pur dovrebbero  costituirne  il  nucleo
 portante.  L'assenza  di  iniziative  intese  a pervenire ad una piu'
 adeguata ponderazione dei numerosi principi'  costituzionali  che  il
 giudice  a  quo  ha puntualmente passato in rassegna, denota, dunque,
 come l'inerzia  del  legislatore  abbia  finito  col  trasformare  in
 "regime  ordinario"  quella che negli intenti originari doveva essere
 una  disciplina  derogatoria  fondata  sulla   eccezionalita'   della
 situazione.  Una  inerzia,  quella  di cui si e' detto, alla quale si
 sono poi venute a sovrapporre, amplificandone gli  effetti  negativi,
 ulteriori   inadempienze   che   hanno   finito   per   compromettere
 ulteriormente la  perdurante  coerenza  delle  scelte  normative  che
 vengono qui in discorso. Cosi', privo di attuazione e' rimasto l'art.
 4  del  decreto-legge  n.  139 del 1993 (convertito, anche per questa
 parte, dalla legge 14 luglio 1993, n.  222),  ove  si  rinviava  alla
 emanazione di un apposito decreto "la sperimentazione di un programma
 di screening per HIV, in forma anonima, negli istituti penitenziari",
 come  del  pari  inadeguata  e'  stata la concreta realizzazione, sul
 piano strutturale, della nutrita gamma di presid/' e provvidenze  che
 sono  stati stabiliti per i malati di AIDS dalla legge 5 giugno 1990,
 n. 135, e dallo stesso decreto-legge n. 139 del 1993.  D'altra parte,
 e' proprio il rigido automatismo  che  caratterizza  la  disposizione
 oggetto  di impugnativa ad aver generato preoccupanti conseguenze per
 la sicurezza collettiva, giacche' dalla documentazione trasmessa  dal
 Ministro  di grazia e giustizia in risposta all'ordinanza istruttoria
 pronunciata  da  questa  Corte,  e'  emerso  che,  fra  quanti  hanno
 beneficiato   del   rinvio  della  esecuzione  della  pena,  una  non
 trascurabile percentuale ha nuovamente commesso reati.  La  scarsita'
 di  adeguati presidi' terapeutici e di supporto, la totale assenza di
 strumenti preventivi e la peculiare condizione soggettiva di  chi  e'
 portatore  di  una  malattia  indubbiamente  gravissima,  per di piu'
 circondata da non  pochi  pregiudizi  che  fortemente  ostacolano  il
 reinserimento  sociale,  hanno  cosi'  finito  per  rappresentare  un
 coacervo di problematiche che la  norma  censurata  ha  integralmente
 trasferito sulla intera collettivita'.
    Se,   quindi,   la  salute  collettiva  nel  particolare  contesto
 carcerario -  che  costituisce,  come  si  e'  detto,  il  dichiarato
 obiettivo perseguito dalla norma - rappresenta un bene sicuramente da
 preservare,  giacche'  il  diritto  alla  salute di ciascun individuo
 implica il relativo bilanciamento  "con  il  dovere  di  tutelare  il
 diritto  dei  terzi che vengono in necessario contatto con la persona
 per  attivita'  che  comportino un serio rischio, non volontariamente
 assunto, di contagio" (v. sentenza n. 218 del 1994), devesi al  tempo
 stesso   affermare   che   in   tanto   puo'   ritenersi  ragionevole
 "l'allontanamento" dal carcere dei  malati  di  AIDS,  in  quanto  la
 relativa permanenza negli istituti cagioni in concreto un pregiudizio
 per   la   salute   degli  altri  detenuti,  posto  che,  altrimenti,
 risulterebbero   senza   giustificazione   compromessi   altri   beni
 riconosciuti come primari dalla Carta fondamentale.
    3.  -  La tutela della salute di quanti si trovino ristretti negli
 istituti penitenziari non rappresenta, pero', l'unico valore  che  il
 legislatore   ha   inteso  salvaguardare  con  la  norma  oggetto  di
 impugnativa, dal momento che, come ha  osservato  lo  stesso  giudice
 rimettente,   ove  cosi'  fosse,  l'identico  regime  avrebbe  dovuto
 prendere in considerazione l'intera  e  ben  piu'  estesa  gamma  dei
 portatori  di  infezione da HIV, essendo questo, e non la malattia in
 se' considerata, il presupposto di insorgenza del rischio di contagio
 e, dunque, di pericolo per la salute  della  popolazione  carceraria.
 L'aver  quindi la norma preso in considerazione, attraverso il rinvio
 all'art. 286-bis, comma 1, del codice di procedura penale,  i  malati
 di  AIDS  conclamata e i soggetti che presentino una grave deficienza
 immunitaria secondo i parametri stabiliti  con  decreto  ministeriale
 del  25  maggio  1993, equivale alla individuazione, fra quanti siano
 portatori di infezioni  da  HIV,  di  una  particolare  categoria  di
 persone  rispetto  alle  quali  l'incompatibilita'  con  lo  stato di
 detenzione  e'  presunta  ex  lege.  Accanto,  dunque,  alla   salute
 collettiva,  la  norma  di cui qui si discute ha evidentemente inteso
 tutelare anche la salute del singolo condannato, adottando  tuttavia,
 pure  sotto  questo  profilo,  un  modulo  strutturato  in termini di
 rigoroso automatismo che nessuno spazio lascia alla  possibilita'  di
 verificare  in  concreto la compatibilita' delle condizioni di salute
 del condannato con la esecuzione della pena.
    D'altra parte, che la tutela della salute dei malati  di  AIDS  in
 sede  carceraria  fosse  sicuramente  uno  fra i principali obiettivi
 perseguiti dal legislatore, si ricava con certezza non  soltanto  dai
 lavori   parlamentari  svoltisi  per  la  conversione  in  legge  del
 decreto-legge  n.  139  del  1993,  ma  anche  da  talune  autorevoli
 valutazioni  espresse  in sede scientifica che, recepite dalla stessa
 amministrazione penitenziaria, non hanno certo mancato di ispirare le
 reiterate iniziative legislative del Governo e le scelte  finali  del
 Parlamento. Sin dal marzo del 1989, infatti, la Commissione nazionale
 per  la  lotta all'AIDS, istituita presso il Ministero della sanita',
 aveva formulato un giudizio -  ribadito,  poi,  nella  seduta  del  7
 giugno  1990  -  di assoluta incompatibilita' dei soggetti affetti da
 AIDS conclamata con  il  regime  carcerario,  osservando  come  detto
 regime  comporti  "per il malato di AIDS, il rischio di una riduzione
 del tempo di sopravvivenza, e per gli operatori che vivono e lavorano
 con lui e per i condetenuti, rischi di contagio  delle  patologie  ad
 alta  trasmissibilita'". Ad ulteriore e definitiva conferma di quanto
 si e' dianzi osservato, sta, infine, la scelta di iscrivere la  nuova
 previsione  nel corpo dell'art. 146 del codice penale, vale a dire di
 una norma la cui stessa "storia" chiaramente ne  denota  le  eminenti
 finalita'  di  tutela  della  salute  dell'individuo.  L'istituto del
 rinvio della esecuzione della pena, infatti, ha trovato  collocazioni
 diverse  ma  disciplina  sostanzialmente  analoga nelle codificazioni
 postunitarie: era, infatti, l'art. 586 del codice di procedura penale
 del  1865  a stabilire che "l'esecuzione delle sentenze di condanna a
 pena restrittiva della liberta' personale, passate in  giudicato,  e'
 sospesa  se  il condannato si trovi in stato di demenza o di malattia
 grave", e l'identica impronta processuale era stata  mantenuta  anche
 nel   codice  di  rito  del  1913,  il  cui  art.  583  prevedeva  la
 possibilita' di sospendere l'esecuzione di una sentenza di  condanna,
 fra  l'altro, "se una pena restrittiva della liberta' personale debba
 essere espiata da persona che, secondo il  giudizio  di  uno  o  piu'
 periti  nominati  d'ufficio, si trovi in tali condizioni d'infermita'
 di mente o di corpo da rendere necessaria la sospensione", ovvero  se
 la  pena  "debba  essere  espiata  da  donna  che sia incinta o abbia
 partorito da meno di tre mesi". Soltanto con l'entrata in vigore  del
 codice  penale  del  1930,  dunque,  l'istituto  fu  trasferito dalla
 tradizionale  sede  processuale  in  quella  del  codice  di  diritto
 sostanziale,  il  tutto  secondo  l'opzione  dogmatica tipica di quel
 legislatore, opzione che peraltro non  manco'  di  registrare  vivaci
 resistenze  in  dottrina,  ove si ritenne da parte di alcuni immutata
 l'originaria fisionomia dell'istituto stesso.  Ma  al  di  la'  delle
 scelte  di  sistema,  che  qui direttamente non rilevano, sta il dato
 costante rappresentato dal fatto che nelle pur mutevoli  formulazioni
 il  rinvio  o la sospensione della esecuzione della pena detentiva si
 e' sempre saldamente attestato attorno a un  presupposto  unificante:
 vale  a  dire le particolari condizioni di salute del condannato e la
 ritenuta inconciliabilita' delle stesse con  l'altrettanto  peculiare
 regime  carcerario.  Illuminanti,  a  questo  proposito  sono  alcuni
 passaggi della Relazione ministeriale sul progetto del codice penale,
 ove, appunto, si giustifica il rinvio obbligatorio  della  esecuzione
 della pena nel caso della donna incinta o che ha partorito da meno di
 sei mesi, proprio con le difficolta' di assistenza negli stabilimenti
 carcerari che quelle condizioni personali necessariamente richiedono.
    Ma  se  le  concorrenti  esigenze  di  tutela  del nascituro e del
 neonato possono razionalmente giustificare una  presunzione  assoluta
 di  incompatibilita'  col  carcere  per  la donna incinta o che abbia
 partorito da meno di sei mesi, nei confronti dei malati di AIDS o  di
 quanti  presentino  uno stato di grave deficienza immunitaria (per di
 piu' limitata all'ipotesi in cui questa derivi da infezione da  HIV),
 occorrerebbe  presupporre, con altrettanta linearita' logica, che gli
 stessi versino in tutti i casi in condizioni di salute  tali  da  non
 poter  essere  adeguatamente affrontate ne' con gli appositi presidi'
 di diagnosi e cura esistenti all'interno degli istituti penitenziari,
 ne' attraverso provvedimenti di ricovero in luoghi  esterni  a  norma
 dell'art.  11  dell'ordinamento  penitenziario. Ebbene, e' proprio la
 rigida presunzione stabilita dal legislatore, ad  apparire  priva  di
 adeguato  fondamento e tale, dunque, da rendere del tutto evanescente
 la razionalita' di una norma dalla cui concreta applicazione  possono
 pertanto  generarsi  inaccettabili  disparita'  di  trattamento e, di
 riflesso, la compromissione di quegli altri valori che il  giudice  a
 quo  ha  evocato  a  parametro  delle dedotte questioni. Se, infatti,
 l'istituto del rinvio obbligatorio della esecuzione della  pena  deve
 tendere  nel  caso di specie a preservare le condizioni di salute del
 condannato, e' evidente, allora, che sono soltanto  queste  ultime  a
 dover  essere  prese in considerazione dal legislatore e non certo la
 malattia in quanto tale, giacche', a  fronte  di  un  identico  stato
 morboso,  qualunque  esso  sia,  le variabili cliniche possono essere
 tante quanto l'intera casistica  e'  in  grado  di  offrire.  D'altra
 parte,  non  e'  senza  significato a tal proposito che anche fra gli
 studiosi della materia si sia giunti ad affermare che la stessa  fase
 dell'AIDS  conclamata  presenti quadri clinici molto vari, alcuni dei
 quali, specie se ben trattati,  possono  regredire  anche  per  lungo
 tempo,   cosi'   come   e'  altrettanto  sintomatico  che  la  stessa
 Commissione  nazionale  per  la  lotta  all'AIDS  abbia  finito   per
 riconoscere  che  "il  quadro  clinico  delle  infezioni  da  HIV  e'
 caratterizzato  da  una  estrema  dinamicita'   e   variabilita'   di
 situazioni",  al  punto  che "pazienti affetti dalla infezione HIV in
 uno stato epidemiologicamente non classificabile come AIDS .. versano
 in condizioni clinicamente gravi",  tali  da  necessitare  di  quegli
 stessi  provvedimenti  che  la  Commissione  medesima  indicava per i
 soggetti in fase di AIDS.
    Pur dovendosi quindi annettere al particolare e grave morbo di cui
 qui si tratta tutto il risalto che lo stesso  merita  e  che  l'ampia
 normativa  di  settore  e la stessa coscienza collettiva gli ha ormai
 riconosciuto, la disposizione impugnata deve ritenersi  non  conforme
 al  canone  della  ragionevolezza  nella parte in cui non consente di
 accertare in concreto se, ai fini della  esecuzione  della  pena,  le
 effettive   condizioni   di   salute  del  condannato  siano  o  meno
 compatibili con lo stato detentivo. Allo stesso  modo,  spettera'  al
 giudice   verificare  caso  per  caso  in  relazione  alle  strutture
 disponibili  se  l'esecuzione  della  pena   possa   avvenire   senza
 pregiudizio  per la salute della restante popolazione carceraria che,
 come si e' detto, costituisce l'altro dei  valori  che  la  norma  ha
 inteso  tutelare.  Accertamenti e verifiche del giudice, quelli sopra
 esposti, che porranno  le  pubbliche  amministrazioni,  ciascuna  nel
 quadro  delle proprie competenze ed opportunamente giacche' la rigida
 e prevedibile sospensione del momento esecutivo esclude che  la  pena
 irrogata   possa   svolgere   alcuna   funzione  di  intimidazione  e
 dissuasione.  Del  tutto  vanificato   sarebbe   anche   il   profilo
 retributivo-afflittivo  della  pena,  posto  che la rinuncia sine die
 alla relativa esecuzione lascia  sostanzialmente  impunito  il  reato
 commesso, in una prospettiva di deresponsabilizzazione che si pone in
 contrasto  con  il principio sancito dall'art. 27, primo comma, della
 coordinate tra loro, di  fronte  all'esigenza  di  tenere  conto  del
 bisogno  di  cura  del  singolo  e  dell'attitudine  della condizione
 restrittiva rispetto alla salvaguardia della salute della popolazione
 carceraria, predisponendo o incrementando le  strutture  idonee  allo
 scopo,  sia in ambito penitenziario sia nei presidi' sanitari esterni
 cui ricorrere a norma dell'art. 11 dell'ordinamento penitenziario.
    In tal modo viene pertanto ad essere integralmente soddisfatto  il
 petitum  perseguito  dal  giudice  a  quo  e restano conseguentemente
 assorbiti gli ulteriori profili di illegittimita' costituzionale  dal
 medesimo dedotti.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara   l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  146,  primo
 comma, numero 3, del codice penale, aggiunto dall'art. 2 del d.-l. 14
 maggio 1993, n. 139, convertito dalla legge 14 luglio 1993,  n.  222,
 nella  parte in cui prevede che il differimento ha luogo anche quando
 l'espiazione della pena possa avvenire senza pregiudizio della salute
 del soggetto e di quella degli altri detenuti.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 18 ottobre 1995.
                       Il Presidente: CAIANIELLO
                        Il redattore: VASSALLI
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 18 ottobre 1995.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
 95C1343