N. 487 SENTENZA 8 - 20 novembre 1995

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Confisca - Soggetti indiziati di appartenenza ad associazioni di tipo
 mafioso - Riesame del merito  del  provvedimento  -  Possibilita'  di
 proporre   le  impugnazioni  previste  e  con  gli  effetti  indicati
 dall'art.  3-ter, secondo comma, della legge  n.  575/1965  -  Omessa
 previsione  per altri soggetti che subiscano l'identico provvedimento
 in  base  alla  disposizione  oggetto  di  censura  -  Illegittimita'
 costituzionale  -  Giustificazione del provvedimento ablatorio per il
 solo fatto di riferirsi a  beni  "oggettivamente  pericolosi"  -  Non
 fondatezza.
 
 (Legge 31 maggio 1965, n. 575, art. 3-quinquies, secondo comma).
 
 (Cost., art. 27, primo comma).
(GU n.49 del 29-11-1995 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
   Presidente:   avv. Mauro FERRI;
   Giudici:    prof.  Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano
 VASSALLI, prof.  Francesco  GUIZZI,  prof.  Cesare  MIRABELLI,  prof.
 Fernando  SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott.
 Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY;
 ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel giudizio di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  3-quinquies
 della  legge  31  maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia),
 inserito dall'art. 24  del  decreto-legge  8  giugno  1992,  n.  306,
 convertito,  con  modificazioni,  dalla  legge 7 agosto 1992, n. 356,
 promosso con ordinanza emessa il 21 marzo 1995 dalla Corte di appello
 di Palermo nel procedimento di prevenzione nei confronti  di  Agnello
 Rosario  ed  altri,  iscritta al n. 424 del registro ordinanze 1995 e
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  29,  prima
 serie speciale, dell'anno 1995;
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri;
   Udito nella camera di consiglio del  18  ottobre  1995  il  Giudice
 relatore Giuliano Vassalli.
                            Ritenuto in fatto
   1.  -  La Corte di appello di Palermo, dopo aver premesso di essere
 stata  investita  a  seguito   di   ricorso   proposto   avverso   un
 provvedimento   di   confisca   delle   quote   di   una  societa'  a
 responsabilita' limitata disposto dal Tribunale di  Trapani  a  norma
 dell'art. 3-quinquies della legge 31 maggio 1965, n. 575, ha posto in
 risalto  la circostanza che i soggetti cui tale norma si riferisce, a
 differenza di quelli previsti dall'art.  2-ter,  sesto  comma,  della
 stessa  legge,  sono  gli  effettivi  titolari dei beni oggetto della
 sospensione provvisoria dell'amministrazione e del  provvedimento  di
 confisca;  provvedimento,  quest'ultimo, adottabile ove alla scadenza
 della misura provvisoria si abbia  motivo  di  ritenere  che  i  beni
 stessi  siano  il  frutto di attivita' illecite o ne costituiscano il
 reimpiego. Nonostante le  gravi  conseguenze  patrimoniali  che  tali
 soggetti  possono  subire,  il  legislatore  ha omesso di prevedere -
 secondo il giudice a quo - la possibilita' di  ricorrere  in  appello
 avverso  il  provvedimento  in  questione,  giacche' non risulterebbe
 applicabile al caso di specie la disciplina dettata  dall'art.  3-ter
 della legge n. 575 del 1965, la quale, nel richiamare i commi ottavo,
 nono,  decimo  e undicesimo dell'art. 4 della legge 27 dicembre 1956,
 n.  1423,  consente  il  ricorso  in  appello  soltanto   "contro   i
 provvedimenti   di  confisca  emessi  a  norma  dell'art.  2-ter  nei
 confronti  dei  soggetti  indicati  nell'art.     1   (indiziati   di
 appartenenza  ad  associazioni  di tipo mafioso)". Atteso, dunque, il
 principio   di   tassativita'   delle   impugnazioni,   avverso    il
 provvedimento  di confisca previsto dall'art. 3-quinquies della legge
 n. 575 del 1965 sarebbe esperibile soltanto il ricorso per cassazione
 a  norma  dell'art.  111  della  Costituzione.  Da cio' scaturirebbe,
 secondo  il  giudice  a  quo,  una  violazione  dell'art.   3   della
 Costituzione stante "l'evidente disparita' di trattamento a danno dei
 soggetti  che  subiscono  il  provvedimento  di confisca ai sensi del
 citato art.  3-quinquies della legge n. 575  del  1965,  i  quali,  a
 differenza  degli  indiziati  di  associazione  mafiosa, sottoposti a
 misura  di  prevenzione,  che  godono  di   tale   possibilita'   con
 riferimento  ai  provvedimenti  di  cui  all'art.  2-ter, non possono
 ricorrere  in  appello  contro  il  provvedimento  su  indicato  onde
 ottenere  un  riesame  del fatto, ben piu' ampio di quello ammesso in
 sede di legittimita'".
   Osserva, poi, il rimettente che il provvedimento ablatorio previsto
 dalla   norma   oggetto   di    impugnativa    colpirebbe    soggetti
 "sostanzialmente  incolpevoli" in quanto trattasi di persone rispetto
 alle quali, a norma dell'art. 3-quater della legge n. 575  del  1965,
 "non  ricorrono  i  presupposti  per  l'immediata applicazione di una
 misura di prevenzione personale".
   Tali soggetti, quindi, conclude il giudice a quo, per  il  semplice
 fatto   di  essere  titolari  di  beni  "oggettivamente  pericolosi",
 sopporterebbero le conseguenze pregiudizievoli  di  un  comportamento
 altrui,  in contrasto con l'art. 27, primo comma, della Costituzione,
 in virtu' del quale, anche in sede di procedimento di prevenzione, e'
 necessaria l'esistenza di un rapporto tra il bene ritenuto pericoloso
 e la persona che deve subire il provvedimento sanzionatorio.
   2. - Nel giudizio e' intervenuto il Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
   L'Avvocatura,  analizzate  diffusamente  le  finalita'   cui   sono
 ispirati  gli  istituti  previsti  dagli artt. 3-quater e 3-quinquies
 della legge n. 575 del 1965, osserva che i presupposti della confisca
 sono identici a quelli previsti dall'art. 2-ter della medesima legge:
 una identita', questa, che escluderebbe la fondatezza  delle  censure
 in  ordine  alla carenza di "colpevolezza" dei soggetti che subiscono
 il provvedimento.   L'intento perseguito  dal  legislatore,  infatti,
 sarebbe  sempre  quello  di  "pervenire  all'individuazione  del vero
 patrimonio del mafioso, onde  mettere  quest'ultimo  di  fronte  alla
 necessita' di dimostrare la legittima provenienza". Analogamente alle
 ipotesi   previste  dall'art.    2-ter,  dunque,  la  "situazione  di
 alterita'" sarebbe frutto "di una schermatura giuridica destinata  ad
 essere travolta in presenza di un ulteriore momento investigativo che
 stabilisca  l'effettiva appartenenza dei beni", eliminando, cosi', la
 premessa stessa  (l'asserita  diversita'  di  appartenenza  del  bene
 colpito  da confisca) su cui si e' fondata la censura del rimettente.
 Considerata,  poi,  l'identita'  dei  presupposti  della  confisca  e
 l'identita'  del  giudice competente a disporla, l'Avvocatura ritiene
 che uguale debba essere anche il regime delle impugnazioni, cosicche'
 si renderebbe applicabile  anche  alla  confisca  prevista  dall'art.
 3-quinquies  della  legge  n.  575  del 1965 la disposizione prevista
 dall'art. 3-ter, secondo comma, della medesima legge che prevede  non
 solo  la  ricorribilita'  in  appello  del provvedimento di ablazione
 disposto dal tribunale ma anche  l'effetto  sospensivo  del  ricorso.
 Anche   sotto  questo  profilo,  quindi,  conclude  l'Avvocatura,  la
 questione sollevata sarebbe priva di fondatezza.
                         Considerato in diritto
   1.  - La Corte di appello di Palermo solleva due distinte questioni
 di legittimita' costituzionale relative, entrambe,  alla  particolare
 ipotesi  di  confisca prevista dall'art.  3-quinquies, secondo comma,
 della legge 31  maggio  1965,  n.  575,  inserito  dall'art.  24  del
 decreto-legge  8  giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni,
 dalla legge 7 agosto 1992, n. 356.
   La Corte rimettente espone in fatto di  essere  stata  investita  a
 seguito  di  ricorso  in  appello  proposto  avverso un provvedimento
 adottato dal Tribunale di Trapani con il quale e' stata  disposta  la
 confisca,  a norma del richiamato art. 3-quinquies della legge n. 575
 del 1965, di  tutte  le  quote  di  una  societa'  a  responsabilita'
 limitata; provvedimento, questo, a sostegno del quale i primi giudici
 avevano  addotto  la circostanza che le quote assoggettate a confisca
 si riferivano ad impresa attraverso la  quale  una  pericolosa  cosca
 mafiosa,  dopo  essere riuscita a prevalere con sanguinosi scontri su
 di  un  contrapposto  gruppo  criminale,  "si  era,  con   la   forza
 intimidatrice   dalla   stessa   promanante,  saldamente  assicurata,
 realizzando cospicui proventi in gran parte reinvestiti nella  stessa
 azienda,  la  gestione,  in  regime  di  monopolio,  del  mercato del
 calcestruzzo che le aveva  consentito  anche  un  efficace  controllo
 dell'attivita'   edilizia   esercitata   nel   territorio,  risultati
 costituenti finalita' tipiche dell'associazione mafiosa,  secondo  la
 previsione normativa dell'art. 416-bis, terzo comma, cod. pen. ".
   Nell'analizzare  la disciplina oggetto di impugnativa, il giudice a
 quo sottolinea come la stessa  si  saldi  intimamente  alla  nuova  e
 peculiare  ipotesi  di sospensione temporanea dall'amministrazione di
 beni prevista  dall'art.  3-quater  della  legge  n.  575  del  1965,
 disposizione  che,  osserva  il  rimettente,  il  legislatore avrebbe
 introdotto allo scopo di fornire  "un  efficace  strumento  di  lotta
 contro   la  criminalita'  organizzata  in  ambiti,  suscettibili  di
 infiltrazioni  mafiose,  nei  quali   le   tradizionali   misure   di
 prevenzione  si  erano  rivelate  inapplicabili".    La posizione dei
 soggetti nei confronti dei quali puo' essere adottata la misura della
 sospensione temporanea dall'amministrazione dei beni, che a sua volta
 costituisce la premessa necessaria per l'applicazione del  definitivo
 provvedimento  di confisca, presenta tuttavia, a parere del giudice a
 quo, due caratteristiche salienti. Da un lato, infatti, si tratta  di
 persone   che,  seppure  titolari  di  attivita'  economiche  che  si
 ritengono "agevolatrici" della attivita'  svolta  da  quanti  versino
 nella  condizione  di  "sospetto"  che  la norma stessa prevede, sono
 comunque  al  di  fuori  della  sfera  applicativa  delle  misure  di
 prevenzione  di  cui all'art. 2 della legge n. 575 del 1965, giacche'
 per essi risultano per definizione carenti  i  relativi  presupposti.
 Sotto  altro profilo, la posizione di costoro si distingue nettamente
 anche dai "terzi" presi  in  considerazione  dall'art.  2-ter,  sesto
 comma  (recte:  quinto  comma),  della  stessa legge n. 575 del 1965:
 questi ultimi, infatti, sono ritenuti titolari soltanto apparenti dei
 beni sequestrati,  sicche'  il  provvedimento  di  confisca  mira  in
 realta'  a  sottrarre  i beni medesimi dal patrimonio del mafioso; le
 persone, invece, cui si riferisce  il  provvedimento  di  sospensione
 temporanea  dalla  amministrazione,  sono  gli effettivi titolari dei
 beni assoggettabili alla misura, con  la  conseguenza  che  nei  loro
 diretti  confronti  verranno  a  prodursi gli effetti pregiudizievoli
 della confisca allorche', alla scadenza della misura provvisoria,  si
 abbia  motivo di ritenere che tali beni "siano il frutto di attivita'
 illecite o ne costituiscano il reimpiego".
   Da qui un primo dubbio di costituzionalita'. Considerato,  infatti,
 osserva  il rimettente, che il provvedimento ablatorio si riflette su
 persone "sostanzialmente incolpevoli", trattandosi, come si e' detto,
 di soggetti per i quali "non ricorrono i presupposti per  l'immediata
 applicazione  di una misura di prevenzione personale", la confisca si
 giustificherebbe per il sol fatto di riferirsi a beni "oggettivamente
 pericolosi", con conseguente violazione dell'art.  27,  primo  comma,
 della  Costituzione, giacche' dovrebbe sempre sussistere "un rapporto
 tra la cosa ritenuta pericolosa e  la  persona  che  deve  subire  il
 provvedimento sanzionatorio".
   2.  -  La  questione  e'  infondata. Come ha correttamente posto in
 risalto l'Avvocatura dello Stato, il  procedimento  che  si  sviluppa
 sino  alla  adozione del provvedimento di confisca si articola in due
 fasi decisorie fra loro nettamente distinguibili quanto a presupposti
 e finalita'. A fondamento della misura della  sospensione  temporanea
 dall'amministrazione dei beni sta, infatti, la necessita' di impedire
 che  una  determinata  attivita'  economica che presenti connotazioni
 agevolative del fenomeno mafioso, e dunque operi, come nel  caso  del
 quale  il  giudice  a  quo  e' chiamato ad occuparsi, in posizione di
 contiguita' rispetto a soggetti indiziati di appartenere a pericolose
 cosche locali, realizzi o possa comunque contribuire a realizzare  un
 utile strumento di appoggio per l'attivita' di quei sodalizi, sia sul
 piano  strettamente  economico,  sia  su  quello  di  un piu' agevole
 controllo del territorio e  del  mercato,  con  inevitabili  riflessi
 espansivi  della infiltrazione mafiosa in settori ed attivita' in se'
 leciti. Una misura, quindi, destinata  a  svolgere  nel  sistema  una
 funzione  meramente  cautelare  e  che  si  radica  su un presupposto
 altrettanto specifico, quale e' quello del carattere per  cosi'  dire
 ausiliario  che  una  certa  attivita'  economica si ritiene presenti
 rispetto alla realizzazione degli interessi mafiosi.  In  una  simile
 prospettiva,  ci  si  avvede allora agevolmente di come i titolari di
 quelle attivita' non possano affatto ritenersi "terzi" rispetto  alla
 realizzazione   di  quegli  interessi,  considerato  che  e'  proprio
 attraverso   la   libera   gestione   dei   loro   beni   che   viene
 ineluttabilmente   a  realizzarsi  quel  circuito  e  commistione  di
 posizioni dominanti  e  rendite  che  contribuisce  a  rafforzare  la
 presenza,  anche economica, delle cosche sul territorio. Alla scelta,
 dunque, di  svolgere  una  attivita'  che  presenta  le  connotazioni
 agevolative  di cui innanzi si e' detto, logicamente si sovrappone la
 consapevolezza delle  conseguenze  che  da  cio'  possono  scaturire,
 consentendo  pertanto  di  escludere  quella situazione soggettiva di
 "sostanziale incolpevolezza" sulla quale  il  giudice  a  quo  si  e'
 attestato per dedurre le prospettate censure.  Ove, quindi, all'esito
 della  temporanea sospensione dall'amministrazione dei beni, emergano
 elementi atti a far  ritenere  che  quei  beni  siano  il  frutto  di
 attivita'  illecite  o  ne  costituiscano il reimpiego, e si appalesi
 quindi per questa via ormai realizzata una obiettiva  commistione  di
 interessi  tra  attivita'  di  impresa  e  attivita'  mafiosa, ben si
 spiega, allora, la  funzione  e  la  legittimita'  del  provvedimento
 ablatorio, giacche' gli effetti che ne scaturiscono si riflettono sui
 beni  di  un  soggetto  certamente  non  estraneo  nel  quadro  della
 complessiva  gestione  del  patrimonio  mafioso,  che  a  sua   volta
 rappresenta,  in  ultima  analisi, l'obiettivo finale che la confisca
 mira a comprimere.
   3. - La  norma  sottoposta  a  scrutinio  di  costituzionalita'  e'
 censurata  dal  giudice a quo anche sotto un secondo profilo. Rileva,
 infatti, la Corte rimettente che, avendo  il  legislatore  omesso  di
 prevedere  espressamente  la  possibilita'  di  ricorrere  in appello
 avverso il provvedimento di confisca previsto  dall'art.  3-quinquies
 della  legge  n.  575  del  1965,  non  risulta possibile, "stante il
 principio di tassativita' delle impugnazioni  di  merito",  applicare
 nella  specie il regime di impugnativa previsto dall'art. 3-ter della
 stessa legge, in quanto dettato esclusivamente per i provvedimenti di
 confisca adottati a norma dell'art. 2-ter nei confronti dei  soggetti
 indiziati  di  appartenenza  ad  associazioni  di tipo mafioso. Unico
 rimedio esperibile, osserva il giudice a  quo,  sarebbe  pertanto  il
 ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 della Costituzione, con
 l'ovvia  conseguenza  di  determinare una irragionevole disparita' di
 trattamento tra gli indiziati di associazione  mafiosa,  che  possono
 beneficiare di un riesame del merito del provvedimento di confisca, e
 i  soggetti  che  subiscono  l'identico  provvedimento ai sensi della
 disposizione   censurata,   ai   quali   invece   viene    consentita
 esclusivamente  la facolta' di dedurre i vizi che rilevano in sede di
 legittimita'.
   La questione e' fondata. Non possono infatti  essere  condivise  le
 considerazioni   svolte  dall'Avvocatura  dello  Stato  nell'atto  di
 intervento, ove si afferma, non senza una qualche contraddittorieta',
 che,  da  un  lato,  "sembrerebbe"  applicabile  nel  caso  in  esame
 l'istituto del ricorso in appello e l'effetto sospensivo disciplinato
 dall'art.    3-ter  della  legge  n. 575 del 1965 avuto riguardo alla
 identita' dei presupposti che sostengono i provvedimenti di  confisca
 dell'una  e  dell'altra  specie,  mentre,  sotto  altro  profilo,  si
 contesta piu' radicalmente la fondatezza delle  censure  sul  rilievo
 che    "il    doppio    grado    di   giudizio   non   e'   principio
 costituzionalizzato".  La   possibilita'   di   una   interpretazione
 "estensiva"  della disciplina dettata dall'art.  3-ter della legge n.
 575 del 1965 e', infatti, efficacemente contrastata dal giudice a quo
 sulla base di argomenti che trovano significativa rispondenza in piu'
 pronunce della  Corte  di  cassazione,  la  quale  ha  reiteratamente
 escluso  la  possibilita'  di  applicazioni  analogiche  dei mezzi di
 reclamo in materia di  misure  di  prevenzione  patrimoniali  proprio
 facendo  leva  sul  principio  di tassativita' che presiede al regime
 delle impugnazioni.
   Neppure pertinente e' il secondo e assorbente rilievo svolto  dalla
 Avvocatura, in quanto la non costituzionalizzazione del principio del
 doppio  grado di giudizio, tradizionalmente affermata in relazione al
 parametro  del  diritto  di  difesa,  non   vale   certo   a   sanare
 l'irragionevole   disparita'   di   trattamento  che  la  scelta  del
 legislatore obiettivamente determina attraverso la mancata previsione
 che il giudice a quo ha puntualmente denunciato.
   E' di tutta evidenza, infatti,  che,  essendo  stato  previsto  uno
 specifico  regime di impugnazione avverso i provvedimenti di confisca
 che, a norma dell'art. 2-ter della legge n.  575  del  1965,  possono
 essere  adottati  nei  confronti  delle  persone indicate nell'art. 1
 della stessa legge, non v'e' ragione alcuna per la quale il  medesimo
 regime  non debba trovare applicazione nei confronti dei soggetti che
 subiscano  l'identico provvedimento in base alla disposizione oggetto
 di impugnativa,  con  l'ovvia  conseguenza  di  imporre,  come  unica
 soluzione   costituzionalmente  derivante  dal  quadro  normativo  di
 riferimento,  quella  di  riequilibrare  il  sistema  attraverso  una
 pronuncia  additiva  in parte qua. L'art. 3-quinquies, secondo comma,
 della piu' volte citata legge n. 575 del 1965, deve  pertanto  essere
 dichiarato  costituzionalmente  illegittimo  nella  parte  in cui non
 prevede la possibilita' di proporre le impugnazioni  previste  e  con
 gli  effetti  indicati  dall'art.  3-ter, secondo comma, della stessa
 legge.
                           Per questi motivi
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  3-quinquies,
 secondo  comma,  della  legge  31  maggio  1965, n. 575 (Disposizioni
 contro la mafia), nella parte in  cui  non  prevede  che  avverso  il
 provvedimento di confisca possano proporsi le impugnazioni previste e
 con gli effetti indicati nell'art. 3-ter, secondo comma, della stessa
 legge;
   Dichiara  non  fondata  la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art.  3-quinquies  della  medesima  legge  n.  575   del   1965,
 sollevata,   in   riferimento   all'art.   27,   primo  comma,  della
 Costituzione, dalla Corte di appello di Palermo  con  l'ordinanza  in
 epigrafe.
   Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, l'8 novembre 1995.
                         Il Presidente:  Ferri
                        Il redattore:  Vassalli
                       Il cancelliere:  Di Paola
   Depositata in cancelleria il 20 novembre 1995.
               Il direttore della cancelleria:  Di Paola
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