N. 818 ORDINANZA (Atto di promovimento) 19 settembre 1995

                                N. 818
 Ordinanza  emessa  il  19  settembre  1995  dal tribunale militare di
 Padova nel procedimento penale a carico di Michel Carlo
 Reati militari -  Reato  permanente  gia'  interrotto  giudizialmente
    (mancanza   alla   chiamata   e   diserzione)  -  Possibilita'  di
    reiterazione   dei   giudizi   e   delle   sanzioni   a    seconda
    dell'efficienza degli uffici giudiziari procedenti - Irrogabilita'
    di  un  complessivo  trattamento  sanzionatorio superiore a quello
    edittalmente stabilito (fino a tre volte il massimo ex art. 81 del
    c.p.) - Lesione dei principi di eguaglianza,  di  legalita'  della
    pena e di personalita' della responsabilita' penale.
 (C.P.M.P., art. 68).
 (Cost., artt. 2, 3, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma).
(GU n.49 del 29-11-1995 )
                          IL TRIBUNALE MILITARE
   Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  nella causa contro Michel
 Carlo, nato il 26 luglio 1955 a Rivoli (Torino), atto di  nascita  n.
 154/A/I   e   residente  a  Schoten  (Belgio)  Heihantsstraat  n.  6;
 coniugato,  operaio,  censurato;  soldato  nella  forza  assente  del
 distretto  militare  di  Torino, libero, imputato di diserzione (art.
 148 n. 2 c.p.m.p.)  perche' perdurava nell'arbitraria  assenza  anche
 posteriormente  alla  sentenza  di condanna del tribunale militare di
 Padova del 4 maggio 1993 e fino a tutt'oggi.
   In esito al pubblico ed orale dibattimento.
                            Fatto e diritto
   Con sentenza del 28 maggio 1991 (irrevocabile l'8 febbraio 1993) il
 militare Michel Carlo veniva condannato da questo tribunale  militare
 per  il  reato  di  diserzione  (art.  148 c.p.m.p.), in relazione ad
 assenza dal servizio che, iniziata il 1 gennaio 1976, ancora non  era
 cessata alla data del giudizio.
   Il   procuratore   militare   in   sede,  a  fronte  del  perdurare
 dell'assenza, instaurava un secondo procedimento contro il Michel per
 un altro reato di diserzione (art. 148 c.p.m.p.), decorrente  dal  28
 maggio   1991,  data  della  prima  pronuncia;  procedimento  che  si
 concludeva con condanna pronunciata il 4 maggio 1993 (irrevocabile il
 4 dicembre 1993).
   Ancora   protraendosi   l'assenza,   il   procuratore  militare  ha
 instaurato  un  terzo  procedimento  per  la  diserzione  (art.   148
 c.p.m.p.)  in  epigrafe,  in  relazione  ad  assenza decorrente dal 4
 maggio 1993, data del secondo giudizio. L'assenza a tutt'oggi non  e'
 cessata.
   A conclusione del dibattimento, il p.m. ha chiesto la condanna e la
 difesa  si  e'  pronunciata per un minimo aumento di pena ex art.  81
 cpv. c.p.
   Secondo costante giurisprudenza regolatrice e del giudice  militare
 d'appello,  la  prosecuzione dell'assenza arbitraria dopo la sentenza
 di primo grado costituisce ad  ogni  effetto  un  nuovo  ed  autonomo
 reato,  come  tale  da  giudicare senza che per cio' venga violato il
 principio del ne bis in idem di cui  all'art.  649  c.p.p.  Dovrebbe,
 pertanto, essere accolta la richiesta del p.m.
   Con  varie  ordinanze emesse il 12 aprile 1994 e in date successive
 questo  tribunale  sollevava  tuttavia  questione   di   legittimita'
 costituzionale  dell'art. 649 c.p.p., nella parte in cui consente che
 per un unico reato  permanente,  una  o  piu'  volte  "giudizialmente
 interrotto",  sia irrogabile un complessivo trattamento sanzionatorio
 superiore a quello edittalmente stabilito per il reato  medesimo,  in
 relazione  agli artt.  3, 25, secondo comma, e 27, primo comma, della
 Costituzione. In tal modo questo giudice remittente,  nell'alveo  del
 principio  di  civilta'  giuridica  sancito  dall'art.  649 c.p.p., e
 prendendo atto inoltre - come di un dato di diritto vivente  -  della
 permanenza  dei  reati  di  assenza  dal servizio, intendeva porre in
 risalto  che  dall'"interruzione  della  permanenza"  conseguente  al
 giudizio derivano seri problemi di legittimita', con violazione delle
 citate disposizioni costituzionali.  E nell'occasione era apparso che
 l'istituto    dell'"interruzione    giudiziale   della   permanenza",
 individuato  quale  responsabile  delle   lamentate   illegittimita',
 trovasse il suo riscontro normativo nel citato art. 649 c.p.p.
   Con  l'ordinanza n. 150 del 4-5 maggio 1955 la Corte costituzionale
 ha  dichiarato  la  manifesta   inammissibilita'   della   questione,
 rilevando  innanzitutto  che  l'effetto dell'"interruzione giudiziale
 della  permanenza"  non  discende   affatto   dall'applicazione   del
 principio   contenuto   nell'art.  649  c.p.p.;  ma  soprattutto  che
 l'origine delle asserite incostituzionalita'  non  e'  l'interruzione
 giudiziale,   bensi'   il  fatto  che  il  reato  sia  configurato  e
 disciplinato come permanente. Sul punto la Corte ha poi precisato che
 la permanenza  si  collega,  oltre  che  alle  caratteristiche  delle
 disposizioni  incriminatrici  e all'art. 158, primo comma, c.p., alla
 disposizione dell'art. 68  c.p.m.p.,  secondo  cui  per  i  reati  di
 assenza  dal  servizio  il  termine  di  prescrizione,  se  l'assenza
 perduri, decorre dal giorno in cui il militare ha compiuto l'eta' per
 la quale cessa in modo assoluto l'obbligo del servizio militare, e  a
 quella  infine dell'art. 9 d.P.R. 14 febbraio 1964, n. 237, che per i
 militari di truppa  stabilisce  di  norma  l'estinzione  dell'obbligo
 militare  alla  data  del  31  dicembre  dell'anno del compimento del
 quarantacinquesimo anno di eta'.
   La  Corte ha, dunque, giustamente riportato la problematica ai suoi
 profili originari e fondamentali. Il  quesito  se  i  reati  omissivi
 propri  (nel cui ambito vanno compresi quelli di assenza dal servizio
 perche' consistenti nell'inottemperanza al  dovere  di  presentazione
 alle  armi, o di riassunzione del servizio al termine della legittima
 assenza o a seguito dell'allontanamento arbitrario)  siano,  o  meno,
 permanenti  ha  avuto varie soluzioni in giurisprudenza e soprattutto
 in dottrina.  Oltre  ad  orientamenti  intermedi,  sono  presenti  in
 quest'ultima  anche  concezioni  estreme: quella secondo cui il reato
 omissivo proprio mai potrebbe essere permanente; quella  secondo  cui
 il   reato   omissivo   proprio   sarebbe  il  reato  permanente  per
 antonomasia.  Quanto  alle  assenze  dal  servizio,  secondo  l'ormai
 prevalente  dottrina  (Venditti  e  di  recente  Brunelli e Mazzi) si
 tratterebbe di reati istantanei, mentre in giurisprudenza unanime  e'
 l'idea che siano reati permanenti.
   La  tesi della permanenza del reato omissivo proprio chiaramente si
 basa   sul   perdurare   dell'obbligo   extrapenale   (c.d.   obbligo
 sottostante)   la   cui  inosservanza  e'  penalmente  sanzionata,  e
 corrisponde  dunque  alla  concezione   del   diritto   penale   come
 ulteriormente  sanzionatorio  di  precetti  propri  di  altre branche
 dell'ordinamento giuridico.  Per  quanto  specificamente  riguarda  i
 reati  di  assenza  dal servizio, lo stretto collegamento tra diritto
 penale e precetti dell'ordinamento militare e' anche  particolarmente
 sottolineato  dalla  disposizione  dell'art. 68 c.p.m.p., sulla quale
 giustamente si sofferma la stessa  Corte  costituzionale  nella  gia'
 citata  ordinanza  n.  150 del 1995.  Nel caso di assenza che non sia
 ancora terminata, la prescrizione del reato comincia a decorrere  dal
 giorno  in  cui  per  il  militare  cessa  in modo assoluto l'obbligo
 militare: norma che, in quanto correlata all'art. 158,  primo  comma,
 c.p.,  viene  esattamente,  o quanto meno correntemente (cosi' da dar
 luogo a diritto vivente), intesa quale  configurazione  autentica  (e
 del  resto  l'art. 377 c.p.m.p. testualmente parlava di "permanenza")
 di reati non istantanei e per di  piu'  con  una  permanenza  che  ha
 termine  con la cessazione dell'obbligo militare.  In definitiva, per
 diretta statuizione dello stesso legislatore i reati di  assenza  dal
 servizio sono delineati come permanenti e piu' particolarmente con un
 periodo  di consumazione che puo' anche durare venticinque anni circa
 (dall'eta' del servizio di leva sino al congedo assoluto).
   ÿ da questa situazione normativa che scaturiscono  -  come  per  il
 Michel  -  le  conseguenze  gia'  da  questo  giudice denunciate come
 trasgressive di basilari principi costituzionali; conseguenze che qui
 e' bene ancora brevemente illustrare.
   Si consideri innanzitutto come, dato che dal giudizio  in  costanza
 della  permanenza prende vita un nuovo fatto di reato che a sua volta
 richiede   un   ulteriore   giudizio,   si   instaura   la    spirale
 fatto-giudizio-fatto,   e  cosi'  via,  per  cui  la  responsabilita'
 dell'imputato non dipende soltanto  dal  suo  operato,  bensi'  -  in
 patente  violazione dell'art.   27, primo comma, della Costituzione -
 anche  dal  funzionamento  dell'apparato  giudiziario  militare.   La
 pluralita'  delle condanne per un unico reato permanente giudicato in
 piu' riprese comporta, inoltre, un progressivo aumento della  pena  e
 un  trattamento  sanzionatorio  che diviene una prova di forza tra lo
 Stato ed il condannato, chiaramente in contraddizione con la liberta'
 di  coscienza  garantita  dall'art.  2  Cost.  e  con  la   finalita'
 rieducativa  della  pena  di  cui  all'art.  27,  terzo  comma, della
 Costituzione.  Ed  ancora: la moltiplicazione dei giudizi comporta un
 innalzamento della pena, praticamente indeterminato, sino  al  limite
 del  triplo del massimo della pena edittale, in contraddizione con il
 principio di legalita'  della  pena  sancito  dall'art.  25,  secondo
 comma,  della  Costituzione.  Ne  risulta,  infine,  violato anche il
 principio di uguaglianza di  cui  all'art.  3  Cost.,  in  quanto,  a
 parita'   di   periodo   di  assenza  dal  servizio,  il  trattamento
 sanzionatorio complessivo viene a derivare dal  grado  di  efficienza
 dell'apparato  giudiziario  competente a conoscere del reato nei vari
 autonomi episodi che si creano con l'interruzione giudiziale.
   Responsabile  di  quest'inaccettabile  risultato  -  che  gia'   il
 legislatore  del 1941 aveva scongiurato con la previsione di un unico
 giudizio a norma dell'art. 377 c.p.m.p. - appare, come si  e'  detto,
 l'art.    68  c.p.m.p.,  in  difetto del quale i reati di assenza dal
 servizio, in adesione alle piu' accreditate  concezioni  dottrinarie,
 sarebbero  da  considerare  istantanei;  oppure  sarebbero  ancora da
 considerare permanenti, ma secondo ben diverse  modalita'  e  cadenze
 temporali,  tali  da  non comportare quella spirale delle condanne su
 cui si incentrano le censure di incostituzionalita'.
   In merito a quest'ultimo punto, non puo' infatti  sottacersi  dalla
 sfasatura  logica  e temporale esistente tra gli obblighi che vengono
 sanzionati con le varie norme penali militari da un lato, e l'obbligo
 dalla  cui  estinzione  dipende  ex  art.  68  la  cessazione   della
 permanenza nel reato dall'altro.
   L'obbligo   sanzionato   dall'art.   151   c.p.m.p.  e'  quello  di
 presentarsi ad un determinato reparto militare per  intraprendere  il
 servizio di ferma; obbligo che, con possibili evidenti conseguenze in
 ordine  alla cessazione della permanenza nel reato, muta di contenuto
 (divenendo mero obbligo di  mettersi  a  disposizione  del  distretto
 militare di appartenenza per una nuova chiamata alle armi) non appena
 con il trascorrere del tempo si abbia nell'organizzazione militare un
 nuovo  ciclo  addestrativo,  e  quindi  una nuova chiamata alle armi.
 L'obbligo sanzionato dagli artt. 148 e 149  c.p.m.p.  in  materia  di
 diserzione e' quello della presenza nel reparto militare; obbligo che
 analogamente  si  modifica,  con  la  possibilita'  che  ne derivi la
 cessazione della permanenza nel reato, con il transito del disertore,
 trascorsi novanta giorni di assenza (circ. 40049/40 SD del 15  luglio
 1967),  nella  forza  assente del distretto militare di appartenenza.
 L'obbligo cui, vigendo l'art. 68 c.p.m.p., e' collegata la cessazione
 della permanenza e' invece, come si evince dagli artt. 9 e 10  d.P.R.
 14 febbraio 1964, n. 237, quello militare nella sua globalita', della
 durata  di  venticinque  anni  circa  e  comprensivo  di vari doveri,
 soggezioni, limitazioni di diritti.  Si  tratta  quindi  di  un  dato
 normativo  onnicomprensivo,  della  prestazione  militare  nella  sua
 globalita', che esula dai piu' limitati obblighi che stanno alla base
 delle varie figure di reato.
   E  dunque  le  descritte  incostituzionalita'  sono  da  attribuire
 all'art.   68 c.p.m.p. non solamente perche' impedisce di considerare
 come istantanei i reati di assenza  di  servizio;  ma  anche  perche'
 configura  una permanenza sui generis, un periodo di consumazione che
 si promulga sino a coincidere con l'obbligazione militare  nella  sua
 interezza.
   Pertanto questo tribunale, anche cogliendo le indicazioni contenute
 nella  citata  ordinanza  della  Corte,  ritiene  di  dover sollevare
 questione di legittimita' costituzionale dell'art.  68  c.p.m.p.,  in
 relazione  agli  artt.  2,  3, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo
 comma, della Costituzione.
   La questione e' rilevante nel presente giudizio in quanto,  con  la
 caducazione  della  norma  impugnata,  sarebbe  evitata  un'ulteriore
 condanna per il Michel.
   Ma alla dichiarazione di illegittimita' dell'art. 68 potrebbe anche
 pervenirsi, a parere di questo tribunale, per semplice estensione,  a
 norma  dell'art.  27, legge 11 marzo 1953, n. 87, dell'illegittimita'
 dell'art. 377 c.p.m.p., gia' pronunciata con sentenza della Corte  n.
 469  del  1990.  ÿ evidente il nesso dell'art. 68 con la disposizione
 secondo cui, per garantire un'unica sentenza, il giudizio per i reati
 di assenza era sospeso sino alla cessazione della permanenza. Essendo
 venuto   meno   l'art.   377,   dovrebbe   pertanto      pronunciarsi
 l'illegittimita' anche dell'art. 68.
                                P. Q. M.
   Letto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
   Dichiara  non  manifestamente infondata e rilevante la questione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 68 del c.p.m.p.,  in  relazione
 agli  artt. 2, 3, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma, della
 Costituzione;
   Dispone la sospensione del procedimento  e  la  trasmissione  degli
 atti alla Corte costituzionale;
   Dispone  che  l'ordinanza sia notificata alle parti e al Presidente
 del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti  dei  due  rami
 del Parlamento.
     Padova, addi' 19 settembre 1995
                    Il presidente estensore:  Rosin
 95C1485