N. 504 SENTENZA 11 - 14 dicembre 1995

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Ordinamento  penitenziario  - Condannati per uno dei delitti indicati
 nel primo periodo del comma 1 dell'art. 4-bis della legge  26  luglio
 1975,  n.  354,  nel testo sostituito ad opera dell'art. 15, comma 1,
 del d.-l. 8 giugno 1992, n. 306,  convertito  dalla  legge  7  agosto
 1992,  n.  356  - Permessi premio - Concessione - Soggetti che non si
 trovino nelle condizioni per l'applicazione dell'art.   58-ter  della
 legge  26  luglio  1975,  n. 354, e gia' ammessi a fruire di benefici
 anche quando non sia accertata la sussistenza di collegamenti con  la
 criminalita' organizzata - Esclusione di ulteriori permessi - Valenza
 dell'elemento  collaborativo  con  la  giustizia  -  Riferimento alle
 sentenze della Corte nn. 357/1994, 306/1993 e 227/1995 - Esigenza che
 il magistrato di sorveglianza operi una  verifica  caso  per  caso  -
 Illegittimita' costituzionale.
 
 (Legge  26  luglio  1975,  n. 354, art. 4-bis, primo comma, nel testo
 sostituito ad opera dell'art. 15, primo comma,  del  d.-l.  8  giugno
 1992, n. 306, convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356).
 
(GU n.52 del 20-12-1995 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
   Presidente: avv. Mauro FERRI;
   Giudici: prof.  Luigi  MENGONI,  prof.  Enzo  CHELI,  dott.  Renato
 GRANATA,  prof.  Giuliano  VASSALLI,    prof. Cesare MIRABELLI, prof.
 Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO,  dott.
 Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY;
 ha pronunciato la seguente
                               Sentenza
 nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 4-bis legge 26
 luglio 1975, n. 354 (Norme  sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla
 esecuzione  delle  misure  privative  e  limitative  della liberta'),
 promosso con ordinanza emessa il  16  marzo  1995  dal  Tribunale  di
 sorveglianza  di  Bari nel procedimento di sorveglianza nei confronti
 di Ghirardini Pasqualino, iscritta al n. 331 del  registro  ordinanze
 1995  e  pubblicata  nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24,
 prima serie speciale, dell'anno 1995;
   Udito nella camera di consiglio del  18  ottobre  1995  il  Giudice
 relatore Giuliano Vassalli.
                           Ritenuto in fatto
   1.  - Adito in sede di reclamo ex art. 30-bis della legge 26 luglio
 1975, n. 354, da Ghirardini Pasqualino avverso il decreto con cui  il
 locale  Magistrato  di sorveglianza aveva dichiarato inammissibile la
 sua domanda volta ad ottenere la concessione di un  permesso  premio,
 il  Tribunale  di sorveglianza di Bari ha, con ordinanza del 16 marzo
 1995, sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione,
 questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4-bis della  legge
 26  luglio  1975, n. 354, sostituito dall'art. 15 del decreto-legge 8
 giugno 1992, n. 306, convertito dalla legge 7 agosto  1992,  n.  356,
 "nella  parte  in  cui prevede il divieto di concessione dei permessi
 premio ai condannati per i delitti indicati  nel  primo  periodo  del
 primo  comma  dello  stesso  art. 4-bis gia' ammessi a fruire di tali
 benefici che non abbiano prestato o non prestino  collaborazione  con
 la  giustizia  ex  art.  58-ter"  della stessa legge n. 354 del 1975,
 anche quando non sia stata accertata la sussistenza  di  collegamenti
 attuali dei medesimi con la criminalita' organizzata.
   2.  -  L'ordinanza  osserva,  in  primo  luogo,  che il Ghirardini,
 condannato per il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione
 con sentenza della Corte di appello di Milano, era stato detenuto dal
 23 dicembre 1982 al 17 giugno  1988  e  dal  13  ottobre  1988  al  5
 dicembre  1991 e successivamente dal 7 maggio 1992, con scadenza pena
 al  22  novembre 1997. Nel corso della sua detenzione aveva fruito di
 oltre venticinque permessi premio (il primo concesso il  28  febbraio
 1987, l'ultimo l'8 novembre 1991) ed era stato pure ammesso al lavoro
 all'esterno dall'11 aprile 1988 al 17 giugno dello stesso anno.
   L'interessato   aveva   proposto  successivamente  due  domande  di
 permesso, nella seconda delle  quali  aveva  invocato  l'applicazione
 della  sentenza  costituzionale  n.  306  del  1993,  in relazione ai
 precedenti permessi premio di cui aveva usufruito, "esperienza questa
 che gli sarebbe stata irragionevolmente  (perche'  senza  sua  colpa)
 preclusa  dal  sopravvenire della nuova disciplina". Ma il Magistrato
 di sorveglianza aveva confermato il provvedimento di diniego  perche'
 sarebbe da ritenere privo di rilievo il richiamo alla sentenza n. 306
 del  1993,  avendo  tale pronuncia "disposto in tema di benefici gia'
 concessi, non gia' di concessione dei benefici".
   3. - Dopo aver sottolineato  che  il  permesso  premio  costituisce
 parte  del  programma  di  trattamento,  ai  fini  della  progressiva
 risocializzazione del detenuto, "anche  quale  momento  di  passaggio
 verso  benefici  piu'  ampi",  il  giudice  a  quo  ricorda come, con
 l'entrata  in  vigore  del  decreto-legge  8  giugno  1992,  n.  306,
 convertito  dalla  legge  7 agosto 1992, n. 356, l'interessato non e'
 piu' ammesso  ad  usufruire  dei  permessi  premio,  salvo  che  alle
 condizioni indicate dal "novellato" art. 4-bis della legge n. 354 del
 1975.  A  questo  proposito l'ordinanza del Tribunale di sorveglianza
 richiama la sentenza n. 306 del 1993 di questa Corte, con la quale e'
 stata,  fra  l'altro,  dichiarata   l'illegittimita'   costituzionale
 dell'art.  15,  comma  2,  del  decreto-legge  8 giugno 1992, n. 306,
 convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356,  "nella  parte  in  cui
 prevede  che  la  revoca delle misure alternative alla detenzione sia
 disposta, per i condannati per i delitti indicati nel  primo  periodo
 del  comma  1  che non si trovano nella condizione per l'applicazione
 dell'art. 58-ter della legge 26 luglio 1975, n.   354,  anche  quando
 non   sia   stata   accertata  l'esistenza  di  collegamenti  con  la
 criminalita' organizzata"; e ricorda che,  proprio  con  riguardo  al
 reato  di cui all'art. 630 del codice penale, la sentenza stessa ebbe
 a  sottolineare  come  tale  reato   "puo'   bensi'   far   capo   ad
 organizzazioni  criminali  stabili,  ma  non  di rado e' il frutto di
 aggregazioni  occasionali   o   comunque   di   strutture   criminali
 circoscritte,   che   tendono   a  dissolversi  con  la  cattura  dei
 compartecipi"; senza contare che la mancata  collaborazione  potrebbe
 derivare  da  valutazioni "non ragionevolmente rimproverabili", quali
 il timore di gravi ritorsioni ai danni del collaboratore e  dei  suoi
 familiari.
   Rileva   poi  il  giudice  a  quo  che,  nel  caso  in  esame,  nel
 "sopravvenuto impedimento alla fruizione  dei  permessi"  e'  assente
 ogni  colpa del Ghirardini, il quale ha utilizzato i permessi tenendo
 sempre una condotta corretta; d'altro canto il reclamante non e' piu'
 collegato alla criminalita' organizzata, "sia  per  la  durata  della
 carcerazione  sofferta  ed  il  lungo  lasso di tempo trascorso dalla
 commissione del reato" sia "per le stesse caratteristiche del reato",
 perpetrato  "da  una   banda   di   nomadi   giostrai"   e   non   da
 un'organizzazione collegata alla grande criminalita'. Quanto, poi, ai
 precedenti penali, ne risulta uno soltanto per il reato di furto.
   4.  - Il giudice a quo richiama, poi, le sentenze costituzionali n.
 357 del 1994 e n. 68 del 1995 per affermarne l'inapplicabilita'  alla
 posizione  del  Ghirardini.  Da un lato, non risulta che la posizione
 del condannato si  sia  differenziata  da  quella  dei  suoi  correi;
 dall'altro  lato,  e' emerso che al fatto parteciparono altre persone
 non identificate - ma  sicuramente  note  al  Ghirardini  -  riguardo
 all'identificazione  delle  quali  il  reclamante  non ha prestato il
 minimo contributo. Donde la conclusione che, alla stregua del diritto
 vigente, non resterebbe che confermare il provvedimento reiettivo del
 Magistrato di sorveglianza.
   5. - Di qui la necessita' di sollevare la questione di legittimita'
 costituzionale dell'art. 4- bis della legge 26 luglio 1975,  n.  354,
 sostituito  dall'art.  15  del  decreto-legge  8 giugno 1992, n. 306,
 convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356,  "nella  parte  in  cui
 prevede  il  divieto di concessione dei permessi premio ai condannati
 per i delitti indicati nel primo periodo del primo comma dello stesso
 art. 4-bis gia' ammessi a fruire di tali  benefici  che  non  abbiano
 prestato  o  non  prestino  collaborazione  con  la giustizia ex art.
 58-ter" della stessa legge n. 354 del  1975,  anche  quando  non  sia
 stata  accertata  la sussistenza di collegamenti attuali dei medesimi
 con la criminalita' organizzata.
   Il tutto in una prospettiva volta ad estendere ai permessi premio i
 principi enunciati dalla sentenza n. 306 del 1993. Vero e'  che  tale
 decisione  ha preso in esame - per ragioni attinenti alla rilevanza -
 il regime della sola revoca delle misure alternative, "laddove l'art.
 15,  comma  2,  del  d.-l.  n.  306  prevede  anche,  per  le  stesse
 condizioni,  la  revoca dei permessi premio". Ma, una volta "revocato
 il permesso al momento in  esecuzione  da  parte  del  Magistrato  di
 sorveglianza,   il  detenuto  non  potrebbe  piu'  ottenerne  per  la
 disciplina dell'art.   4-bis". Dunque, poiche'  i  permessi  "non  si
 sostanziano,   come   le  misure  alternative,  in  una  continuativa
 esperienza di risocializzazione, secondo un programma di  trattamento
 che  si  estende  a  tutta la durata della pena, bensi' in reiterate,
 piccole  esperienze  di  liberta'  per  il  detenuto,  che  nel  loro
 complesso  costituiscono  parte  integrante  del trattamento", il non
 poter fruire del permesso premio da parte di un detenuto che  vi  era
 ormai sistematicamente ammesso equivale ad una vera e propria revoca,
 "intesa come revoca del trattamento praticato mediante il permesso".
   In  conclusione, poiche' anche tale revoca deve essere assoggettata
 ai principi costituzionali affermati nella sentenza n. 306  del  1993
 (il  condannato  ha  dato prova, infatti, con il progredire della sua
 risocializzazione,  della   diminuzione   della   sua   pericolosita'
 sociale),  ne  consegue  che  il  privarlo  di tale diritto senza suo
 demerito ed a seguito dello ius superveniens si rivela una disciplina
 irragionevole, oltre che in contrasto con il principio della funzione
 rieducativa della pena.
   6. - Nel giudizio non ha  spiegato  intervento  il  Presidente  del
 Consiglio dei ministri ne' si e' costituita la parte privata.
                        Considerato in diritto
   1.  -  Il  Tribunale di sorveglianza di Bari dubita, in riferimento
 agli  artt.  3  e   27   della   Costituzione,   della   legittimita'
 costituzionale  dell'art.  4-bis  della legge 26 luglio 1975, n. 354,
 nel testo sostituito dall'art. 15 del decreto-legge 8 giugno 1992, n.
 306, convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, nella parte in cui
 esclude dal beneficio dei permessi premio i condannati  per  uno  dei
 delitti  indicati  nel  primo  periodo  del comma 1 dello stesso art.
 4-bis, gia' ammessi ad usufruire di tale beneficio, anche quando  non
 sia  accertata  la  sussistenza  di  collegamenti con la criminalita'
 organizzata.
   Chiamato  a  decidere  sul  reclamo  proposto  da  un  detenuto   -
 condannato  per  il  delitto  di  sequestro  di  persona  a  scopo di
 estorsione, che, nel corso della sua detenzione, aveva gia' usufruito
 di venticinque permessi premio  -  avverso  il  decreto  con  cui  il
 Magistrato  di  sorveglianza  aveva  dichiarato  inammissibile la sua
 domanda diretta ad ottenere un nuovo permesso premio,  per  non  aver
 prestato  opera  di collaborazione con la giustizia, il giudice a quo
 ritiene che la posizione del condannato non ammesso per tale  ragione
 al  detto  beneficio  non  sia  dissimile da quella del condannato al
 quale venga revocata una  misura  alternativa  alla  detenzione,  non
 collaborante  a  norma  dell'art. 58-ter della legge n. 354 del 1975.
 Una fattispecie ritenuta non conforme  alla  Costituzione  da  questa
 Corte   con   sentenza   n.   306   del   1993,   che  ha  dichiarato
 l'illegittimita'  costituzionale   dell'art.   15,   comma   2,   del
 decreto-legge  n.  306  del  1992,  convertito dalla legge n. 356 del
 1992, nella parte in cui, appunto, prevede che la revoca delle misure
 alternative alla detenzione sia disposta,  per  i  condannati  per  i
 delitti  indicati  nel  primo  periodo del comma 1 che non si trovano
 nelle condizioni per l'applicazione dell'art. 58-ter della  legge  n.
 354  del 1975, anche quando non sia stata accertata la sussistenza di
 collegamenti attuali dei medesimi con  la  criminalita'  organizzata.
 Una  situazione,  dunque,  equiparabile  a  quella  del  diniego  del
 permesso premio per il detenuto sistematicamente ammesso ad un simile
 beneficio,  costituente  "parte  integrante  del  trattamento".  Tale
 diniego verrebbe, infatti, a coincidere con una vera e propria revoca
 del  trattamento  praticato  al  detenuto,  cosi'  da  impedirgli  di
 progredire nell'opera di risocializzazione.
   2. - La questione e' fondata.
   Come e' noto, l'art. 4-bis della legge n. 354 del 1975,  nel  testo
 attualmente  vigente,  relativamente  ai  detenuti  e internati per i
 delitti previsti dall'ultima parte del primo  periodo  del  comma  1,
 consente  l'assegnazione  al  lavoro  esterno, i permessi premio e le
 misure alternative alla detenzione solo nei casi in cui tali detenuti
 e internati collaborino con la giustizia  a  norma  dell'art.  58-ter
 della  stessa legge n. 354 del 1975, introdotto dall'art. 1, comma 5,
 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito dalla  legge  12
 luglio 1991, n. 203, stando al quale le disposizioni degli artt.  21,
 comma  1 (ammissione all'assegnazione al lavoro all'esterno solo dopo
 l'espiazione di un terzo della pena e, comunque, di non oltre  cinque
 anni),   30-ter,  comma  4  (concessione  dei  permessi  premio  dopo
 l'espiazione di almeno la meta' della pena e, comunque, di non  oltre
 dieci  anni),  50,  comma  2  (ammissione  alla  semiliberta'  per  i
 condannati solo dopo l'espiazione di almeno due  terzi  della  pena),
 concernenti le persone condannate per taluno dei delitti indicati nel
 comma 1 dell'art. 4-bis, non si applicano a coloro che, anche dopo la
 condanna,  si  sono  adoperati per evitare che l'attivita' delittuosa
 sia  portata   a   conseguenze   ulteriori   ovvero   hanno   aiutato
 concretamente  l'autorita' di polizia o l'autorita' giudiziaria nella
 raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei  fatti  e  per
 l'individuazione e la cattura degli autori dei reati.
   Per  la  verita',  il  richiamo  alla disposizione dell'art. 58-ter
 della legge n. 354 del 1975 sembra rivelare  un  non  troppo  preciso
 coordinamento  con  i  precetti  a  loro  volta  richiamati  da  tale
 disposizione e  che  parrebbero  non  preordinati  ad  istituire  una
 preclusione  assoluta  alla concessione del beneficio di cui all'art.
 30-ter  (oltre  che  dell'ammissione  al  lavoro  esterno   ed   alla
 semiliberta'); pure se non e' senza importanza considerare che, per i
 reati del "primo gruppo" (fra i quali rientra anche quello per cui e'
 intervenuta   condanna   del  reclamante  nel  giudizio  a  quo),  la
 collaborazione con la giustizia deve attuarsi  nelle  forme  previste
 dall'art.  58-ter,  mentre  per  i  reati  della  "seconda  fascia" i
 benefici previsti dalla prima parte del primo periodo dell'art. 4-bis
 possono essere concessi solo se non vi  sono  elementi  tali  da  far
 ritenere   la   sussistenza   di  collegamenti  con  la  criminalita'
 organizzata o eversiva.
   Il che rende  necessario  a  questa  Corte  puntualizzare  come  la
 perentorieta'  del  lessico  adottato  dal  primo periodo del comma 1
 dell'art. 4-bis nella sua  ultima  formulazione  ("l'assegnazione  al
 lavoro  all'esterno,  i  permessi premio e le misure alternative alla
 detenzione previste dal Capo VI della legge 26 luglio 1975,  n.  354,
 fatta eccezione per la liberazione anticipata possono essere concessi
 ai detenuti e internati
  ...  solo  nei casi in cui tali detenuti o internati collaborano con
 la giustizia a norma dell'art. 58-ter"), non consenta  una  soluzione
 diversa da quella suggerita dal giudice a quo. Con la conseguenza che
 il richiamo di tale precetto agli artt. 21, comma 1, 30-ter, comma 4,
 50,  comma  2  (nessun richiamo e' invece disposto relativamente alle
 misure alternative alla detenzione diverse  dalla  semiliberta'),  e'
 effettuato  solo  in  vista  di  consentire,  ove  venga  spiegata la
 richiesta attivita' collaborativa, l'applicazione anche immediata dei
 benefici penitenziari.
   3. - Cio' premesso, va ricordato come questa Corte, chiamata per la
 prima  volta  a  pronunciarsi   sulla   legittimita'   della   scelta
 collaborativa  introdotta  dall'art.  15 del decreto-legge n. 306 del
 1992, convertito dalla  legge  n.  356  del  1992,  quale  condizione
 insuperabile  per  l'approdo alle misure alternative alla detenzione,
 pur  ritenendo  "rispondente  alla  esigenza   di   contrastare   una
 criminalita'   organizzata   aggressiva   e  diffusa  la  scelta  del
 legislatore di privilegiare finalita' di prevenzione  generale  e  di
 sicurezza  della  collettivita',  attribuendo determinati vantaggi ai
 detenuti che collaborano con la giustizia", ebbe ad osservare come la
 soluzione  "di  inibire  l'accesso  alle  misure   alternative   alla
 detenzione   ai   condannati   per  determinati  gravi  reati,  abbia
 comportato una rilevante  compressione  della  finalita'  rieducativa
 della   pena"   (sentenza   n.   306  del  1993,  paragrafo  11).  Si
 puntualizzo', in primo luogo, che  la  classificazione  per  tipi  di
 reato   "non   appare   consona  ai  principi  di  proporzione  e  di
 individualizzazione della  pena  che  caratterizzano  il  trattamento
 penitenziario";  si  stigmatizzo', poi, come le maggiori perplessita'
 derivassero  da  un  assetto  che,   "pur   in   una   strategia   di
 incentivazione   della   collaborazione",   finiva   per   vanificare
 "programmi e percorsi rieducativi (in atto magari da  lungo  tempo)",
 con  la conseguente violazione della finalita' rieducativa della pena
 e dell'art. 3 della Costituzione. E cio' per la "preclusione assoluta
 di  tutte  le  misure  extramurarie,  delle  quali  il legislatore ha
 riconosciuto  l'utilita'  per  il  raggiungimento  dell'obiettivo  di
 risocializzazione",  nei casi in cui la "scelta collaborativa sarebbe
 oggettivamente impossibile". Con riferimento alla revoca dei benefici
 penitenziari, dopo aver precisato come il legislatore  si  e'  sempre
 attenuto,  conformemente  al dettato dell'art. 27, primo comma, della
 Costituzione, alla regola in base alla quale la  revoca  e'  comunque
 subordinata  ad  una condotta addebitabile al condannato, ha ribadito
 come l'effetto della revoca "deve essere proporzionato (oltre che  al
 quantum  di  afflittivita'  che  da  esso  e' derivato) alla gravita'
 oggettiva e  soggettiva  del  comportamento  che  ha  determinato  la
 revoca".
   Proprio  dando  applicazione ai detti principii si concluse che "la
 mancata  collaborazione  non  puo'  essere  assunta  come  indice  di
 pericolosita'   specifica",  ben  potendo  derivare  da  "incolpevole
 impossibilita' di prestarla, ovvero essere conseguenza di valutazioni
 che non sarebbero ragionevolmente rimproverabili, quali, ad  esempio,
 l'esposizione  a  gravi pericoli per se' o per i propri familiari che
 la collaborazione del condannato possa eventualmente comportare".
   Dunque, a fronte della statuizione che per i delitti  indicati  nel
 primo  periodo  del  comma  1  dell'art.  4-bis la valenza preclusiva
 dell'inadempimento  dell'onere  previsto   dall'art.   58-ter   resta
 condizionata  -  nel caso di condannati per i detti reati, che non si
 trovino nella condizione di tenere il comportamento contemplato dalla
 seconda  di  tali  disposizioni  -  al  mancato  accertamento   della
 sussistenza   di   collegamenti   con   la  criminalita'  organizzata
 costituente  l'unica  delle  condizioni  perche'  al   precetto   ora
 ricordato possa derogarsi, si rilevo' che nell'effettuare tale ultima
 verifica,  "la  mancata  collaborazione  con  la giustizia puo' certo
 assumere valore indiziante", precisandosi pero' che quando un  simile
 accertamento dia esito negativo, "stabilire che la misura alternativa
 gia'  concessa  debba  essere  revocata sulla sola base della mancata
 collaborazione  trasmoda  in  regolamentazione  irragionevole   della
 materia".
   4.  -  Puo' dirsi allora che la valenza dell'elemento collaborativo
 abbia  subito,  per   via   del   suo   significato   prevalentemente
 dimostrativo   dell'assenza   di  collegamenti  con  la  criminalita'
 organizzata, una progressiva opera di sgretolamento.
   Ne consegue che la ratio decidendi della sentenza n. 306  del  1993
 e'  stata  correttamente  invocata dal giudice a quo a sostegno della
 illegittimita' della norma adesso denunciata. Tanto piu' che il ruolo
 esponenziale del contegno collaborativo relativamente ai  delitti  di
 cui  all'art.  4-bis,  comma  1, della legge n. 354 del 1975 e' stato
 ulteriormente ridimensionato a seguito  della  sentenza  n.  357  del
 1994,  con  la  quale  questa  Corte  ha  dichiarato l'illegittimita'
 costituzionale di tale disposizione, nella parte in cui  non  prevede
 che  i  benefici  di  cui al primo periodo del medesimo comma possano
 essere concessi anche nel caso in cui la limitata  partecipazione  al
 fatto  criminoso,  come  accertata  nella sentenza di condanna, renda
 impossibile un'utile collaborazione  con  la  giustizia,  sempre  che
 siano  stati  acquisiti  elementi  tali da escludere in maniera certa
 l'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata. In  tal
 modo,  sfuggendo  nuovamente  ad  una  rigorosa  tipicizzazione della
 condotta  di  collaborazione,  si  e'  ancorata  la  concessione  dei
 benefici  penitenziari  ad  un canone piu' elastico, dando rilievo al
 momento  accertativo  (ma  questa  volta  in  senso  positivo)  della
 inesistenza  di  collegamenti  con  la  criminalita' organizzata. Una
 linea successivamente ripresa da questa Corte (v.  sentenza n. 68 del
 1995) che ha  dichiarato  l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.
 4-bis,  comma 1, secondo periodo, della legge 26 luglio 1975, n. 354,
 nella parte in cui non prevede che i benefici di cui al primo periodo
 del medesimo comma (e quindi pure i permessi premio)  possano  essere
 concessi  anche  nel caso in cui l'integrale accertamento dei fatti e
 delle  responsabilita'  operato  con  sentenza   irrevocabile   renda
 impossibile  un'utile  collaborazione  con  la  giustizia, sempre che
 siano stati acquisiti elementi tali da  escludere  in  maniera  certa
 l'attualita'  di  collegamenti  con  la criminalita' organizzata. Una
 decisione  che  ebbe  ad   osservare   -   con   perentorio   intento
 chiarificatore  -  come,  pur rimanendo "sullo sfondo, quale generale
 presupposto per la concessione dei benefici, la verificata assenza di
 collegamenti  con  la   criminalita'   organizzata",   la   normativa
 introdotta  dal decreto-legge n. 306 del 1992, convertito dalla legge
 n. 356 del 1992,  "ha  obliterato  fino  a  dissolverli  i  parametri
 probatori  alla  cui  stregua  condurre un siffatto accertamento, per
 assegnare invece un  risalto  esclusivo  ad  una  condotta  -  quella
 collaborativa  -  che si assume come la sola idonea a dimostrare, per
 facta concludentia, l'intervenuta rescissione di quei  collegamenti".
 La  conseguenza  e'  che, incentrandosi sulla condotta il presupposto
 per il conseguimento dei benefici, la compatibilita' con la  funzione
 rieducativa  della  pena  rimane  esclusa  tutte  le  volte in cui la
 collaborazione non "risulti oggettivamente esigibile" (cosi', ancora,
 la sentenza n. 68 del 1995).
   5. - Il giudice a quo, dopo aver  correttamente  sottolineato  come
 nelle ipotesi di impossibilita' della scelta collaborativa - sia essa
 tipizzata  dall'art.  4-bis  ovvero  costituisca  la risultante delle
 decisioni ora ricordate - e' sufficiente l'acquisizione  di  elementi
 tali  da  escludere in maniera certa l'attualita' di collegamenti con
 la criminalita' organizzata, rileva come,  nel  caso  di  specie,  la
 scelta  collaborativa  sarebbe tuttora non impossibile risultando che
 il reato, sia pure  risalente  negli  anni,  era  stato  commesso  in
 concorso  con  persone  di  cui  certamente  il  condannato conosceva
 l'identita', che non era stata, pero', mai rivelata; la tipologia del
 reato commesso comportava - come questa Corte aveva gia' precisato  -
 che  il  reato  puo'  "bensi'  far  capo  ad organizzazioni criminali
 stabili, ma non di rado e' il frutto di organizzazioni occasionali  o
 comunque  criminali  circoscritte  che  tendono  a dissolversi con la
 cattura  dei  compartecipi"  (sentenza  n.  306  del  1993).  Di  qui
 l'applicazione  dell'identica  ratio  decidendi  di tale sentenza nel
 caso di detenuto gia' ammesso a quel tipo di trattamento e del  quale
 risulti  la  rescissione  di  ogni  collegamento  con la criminalita'
 organizzata.
   6. - La regula iuris enunciata nella sentenza n. 306  del  1993  si
 fonda,  appunto,  sulla  irragionevolezza  della  revoca dei benefici
 penitenziari cui il detenuto era stato ammesso, anche quando non  sia
 stata  accertata  la  sussistenza  di  collegamenti  attuali  con  la
 criminalita' organizzata. Ed e' da ritenere  che  la  medesima  ratio
 decidendi  debba trovare applicazione nel caso in cui un detenuto che
 sia stato ammesso al permesso premio, in forza  dell'art.  4-bis  non
 sia  piu'  legittimato  al detto beneficio. L'esperienza dei permessi
 premio e', infatti, parte integrante del  programma  di  trattamento.
 Essa,  come  questa  Corte  ha  gia'  avuto  occasione  di precisare,
 "costituisce  incentivo  alla   collaborazione   del   detenuto   con
 l'istituzione carceraria, appunto in funzione del premio previsto, in
 assenza  di  particolare  pericolosita'  sociale quale conseguenza di
 regolare condotta", tanto da venir considerato esso stesso  strumento
 "di  rieducazione  in  quanto  consente un iniziale reinserimento del
 condannato nella societa'", cosi' da potersene trarre elementi  utili
 per l'eventuale concessione di misure alternative alla detenzione (v.
 sentenza n. 188 del 1990).
   La  funzione "pedagogico-propulsiva" assolta dal permesso premio ha
 indotto questa Corte ad individuare - rimarcando il  decisivo  valore
 della  computabilita'  del periodo trascorso in permesso nella durata
 della detenzione - una progressione  nella  premialita',  cui  fa  da
 contrappunto  una  regressione  nella  medesima  (che,  peraltro, non
 coincide con la revoca del permesso) nei casi di mancato  rientro  in
 istituto  o  di  altri  gravi  comportamenti  da  cui  risulta che il
 soggetto non si e' dimostrato meritevole del beneficio  (art.  53-bis
 della  legge  n.  354  del 1975, inserito dall'art. 17 della legge 10
 ottobre 1986, n. 663).
   E pure se, tenuto conto della  discrezionalita'  nella  concessione
 del  permesso,  l'accesso al beneficio non costituisce un diritto del
 detenuto (v., ancora, la sentenza  n.  188  del  1990),  l'averne  il
 condannato  usufruito  si traduce in una sospensione temporanea della
 pena detentiva, funzionale alla verifica della  risocializzazione  in
 ambito  extramurario,  dato  che,  trascorso  il periodo di permesso,
 l'interessato ritorna alla primitiva condizione  di  condannato  alla
 pena detentiva.
   Se  e'  importante ricordare che il permesso premio non e' compreso
 nel capo  sesto  della  legge  penitenziaria,  relativo  alle  misure
 alternative  alla  detenzione, e' egualmente importante puntualizzare
 come esso rappresenti comunque uno "strumento cruciale  ai  fini  del
 trattamento",  perche'  puo'  rivelarsi "funzionale - in applicazione
 del principio di  progressivita'  -  all'affidamento  in  prova"  (v.
 sentenza n. 227 del 1995).
   Ne  consegue  che  privare il condannato per uno dei reati previsti
 dal primo periodo del comma 1 dell'art.  4-bis,  quando  non  ne  sia
 stata  accertata  la  sussistenza di collegamenti con la criminalita'
 organizzata  e  ne  sia  stata  viceversa  accertata   l'assenza   di
 pericolosita'  sociale  in  conseguenza  della  regolare  condotta in
 istituto, comprovata dalla concessione di precedenti permessi premio,
 e'  situazione  del  tutto  omologa,  proprio  per  il   profilo   di
 progressivita'  del  trattamento  che  qualifica  il  beneficio, alla
 revoca delle misure alternative alla  detenzione  gia'  ritenuta  non
 conforme alla Costituzione dalla sentenza n. 306 del 1993.
   Vero e' che, a differenza delle misure alternative alla detenzione,
 le  quali "nell'estinguere lo status di detenuto, costituiscono altro
 status diverso e specifico rispetto a quello di semplice  condannato"
 (cosi',  ancora,  la sentenza n. 188 del 1990), i permessi premio non
 innovano  assolutamente  lo  status  di  detenuto,  ma  e'   altresi'
 indubitabile  che  l'impossibilita' di procedere alla prosecuzione di
 quel trattamento premiale gia' instaurato, pur non sussistendo valide
 ragioni  per  l'interruzione  di  esso,  non  puo'  non  incidere   -
 rivelandone   l'irrazionalita'   anche   in  rapporto  alla  funzione
 rieducativa della pena - su entrambi i parametri invocati.
   7. - La natura discrezionale della concessione del permesso  premio
 rende necessaria, pero', una verifica di piu' ampio contesto, al fine
 di  determinare  quando  la mancata concessione comporti un'effettiva
 interruzione del trattamento sul quale fondare una vicenda  estintiva
 assimilabile  alla revoca, ovvero quando essa si risolva nel semplice
 mancato  soddisfacimento  di  una  pretesa  sulla  quale  non  sembra
 corretto,  per  il carattere discrezionale del provvedimento, fondare
 una situazione giuridicamente tutelata.
   Va  pero'  considerato  che  e'  proprio  l'esercizio  del   potere
 discrezionale assoggettato al rispetto delle regole di ragionevolezza
 a  fornire anche la misura del valore del permesso premio nell'ambito
 del programma di trattamento. Non a caso, infatti, nella piu' recente
 giurisprudenza di questa Corte si e'  inclusa  la  detta  misura  tra
 quelle "di natura sostanziale che incidono sulla qualita' e quantita'
 della pena" e "percio' stesso modificano il grado di privazione della
 liberta' personale imposto al soggetto" (v. sentenza n. 349 del 1993,
 paragrafo  5.1).  Il  che,  peraltro,  non esclude la legittimita' di
 interventi legislativi che condizionino l'erogabilita'  della  misura
 premiale  purche'  da  essi  non  discenda  un effetto sospensivo del
 trattamento risocializzante di cui il  condannato  si  e'  dimostrato
 gia' meritevole.
   Ad  impedire  la  legittimita'  di  simili  interventi e', infatti,
 proprio l'eadem ratio decidendi della sentenza n. 306 del 1993.
   Ed a tal fine,  non  puo'  non  assumere  determinante  rilievo  la
 circostanza  che  il  condannato  abbia  gia' usufruito di precedenti
 permessi premio, cosi' da far ritenere instaurato nei suoi  confronti
 quel   trattamento  programmato  anche  al  perseguimento  di  misure
 alternative la cui revoca e' stata ritenuta, dalla  sentenza  n.  306
 del 1993, non conforme alla Costituzione con riguardo ad imputati dei
 delitti  previsti dal primo periodo del comma 1 dell'art. 4-bis della
 legge n. 354 del 1975, "anche  quando  non  sia  stata  accertata  la
 sussistenza di collegamenti con la criminalita' organizzata".
   E'  ovvio, pertanto, che rappresentando la concessione del permesso
 premio esercizio di una facolta' del Magistrato di  sorveglianza,  la
 possibilita'  di  non  far operare la preclusione derivante dall'art.
 4-bis della legge n.  354  del  1975  restera'  condizionata  ad  una
 verifica  da  compiere  caso  per caso, non soltanto relativamente al
 mancato accertamento della sussistenza di collegamenti attuali con la
 criminalita' organizzata, ma anche  con  riferimento  alla  fase  del
 trattamento,    considerando    il    numero   di   permessi   premio
 precedentemente concessi che attestino  univocamente  la  regolarita'
 della  condotta  sia  intramuraria  sia  extramuraria  e,  quindi, la
 meritevolezza  quanto  al  proseguimento  di  quella   progressivita'
 rieducativa irrazionalmente preclusa dalla norma denunciata.
                           Per questi motivi
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  l'illegittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1,
 della legge 26 luglio 1975, n. 354, nel  testo  sostituito  ad  opera
 dell'art.  15,  comma  1,  del  decreto-legge  8 giugno 1992, n. 306,
 convertito dalla legge 7 agosto 1992, n.  356,  nella  parte  in  cui
 prevede  che  la  concessione di ulteriori permessi premio sia negata
 nei confronti dei condannati per i delitti indicati nel primo periodo
 del  comma  1  dello  stesso  art.  4-bis,  che  non si trovino nelle
 condizioni per l'applicazione dell'art. 58-ter della legge 26  luglio
 1975,  n. 354, anche quando essi ne abbiano gia' fruito in precedenza
 e non sia accertata la sussistenza di  collegamenti  attuali  con  la
 criminalita' organizzata.
   Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, l'11 dicembre 1995.
                         Il Presidente:  Ferri
                        Il redattore:  Vassalli
                       Il cancelliere:  Di Paola
   Depositata in Cancelleria il 14 dicembre 1985.
               Il direttore della cancelleria:  Di Paola
 95C1583