N. 134 ORDINANZA (Atto di promovimento) 7 dicembre 1995

                                N. 134
   Ordinanza  emessa  il  7  dicembre  1995 dal pretore di Brescia nel
 procedimento civile vertente tra Sarabotani Serafina e l'I.N.P.S.
 Previdenza e assistenza sociale - Pensioni  I.N.P.S.  -  Pensione  di
    riversibilita'  -  Calcolo, per effetto della sentenza della Corte
    costituzionale n. 495/1993, in proporzione alla  pensione  diretta
    integrata  al trattamento minimo gia' liquidato o che l'assicurato
    ha diritto di percepire - Mancato stanziamento con legge dei fondi
    necessari  per  l'attuazione  della  norma  impugnata  cosi'  come
    modificata  dalla gia' citata sentenza - Conseguente necessita' di
    ripristino della norma nella formulazione antecedente la pronuncia
    della Corte - Violazione del principio di copertura finanziaria  -
    Indebita  attribuzione  di  efficacia retroattiva alle pronunce di
    illegittimita' costituzionale.
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale -  Nozione
    di  rilevanza  della  questione  nel  giudizio  a  quo  - Nesso di
    necessaria  pregiudizialita'  della  questione   stessa   per   la
    definizione  del giudizio - Compressione del sindacato della Corte
    costituzionale.
 Giudizio  di  legittimita'  costituzionale  in  via   incidentale   -
    Condizioni  e  forme  di  proponibilita'  -  Previsione  con legge
    ordinaria -  Violazione  del  principio  della  riserva  di  legge
    costituzionale.
 (Legge  21  luglio 1965, n. 903, art. 22; legge 11 marzo 1953, n. 87,
    artt. 30, terzo comma, e 23).
 (Cost., artt. 81, ultimo comma, 101, 104, primo comma, 111, 134,  136
 e 137, primo comma).
(GU n.9 del 28-2-1996 )
                              IL PRETORE
   Visti:
     gli atti difensivi delle parti;
     l'art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903;
     la   sentenza   29-31   dicembre   1993,   n.   495  della  Corte
 costituzionale;
     l'art. 23 e l'art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n.
 87;
     l'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1;
     l'art. 1 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1;
     gli artt. 70, 71, 72, 73, 81, 101, 102, 104, 111, 134, 136 e  137
 della Costituzione;
   Ha pronunciato, dandone integrale lettura, la seguente ordinanza ai
 sensi dell'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e
 dell'art.  23  della  legge  11 marzo 1953, n. 87, di rimessione alla
 Corte costituzionale di  questioni  di  legittimita'  costituzionale,
 rilevate  d'ufficio,  nella  causa  r.g.  n.  3424/95,  in materia di
 previdenza  ed  assistenza  obbligatoria,  promossa   da   Sarabotani
 Serafina,  elettivamente domiciliata in Brescia presso l'avv. Luciano
 Nardino, il quale la rappresenta e difende  in  forza  di  procura  a
 margine   del  ricorso,  ricorrente,  contro  l'I.N.P.S.  -  Istituto
 nazionale   della  previdenza  sociale,  in  persona  del  presidente
 pro-tempore, rappresentato e difeso dai dott. procc. Oreste  Manzi  e
 Alfonso Faienza, procuratori per mandati alle liti a rogito del dott.
 Lupo,  notaio  in  Roma,  con domicilio eletto nel proprio ufficio di
 avvocatura in Brescia, via Cefalonia n. 49, convenuto.
   1. - Brevi premesse sulle deduzioni e conclusioni  formulate  dalle
 parti in causa.
   Nelle  conclusioni  di parte attrice si chiede a questo pretore, di
 dichiarare il diritto della ricorrente ad ottenere il ricalcolo della
 pensione superstiti di cui e' titolare  sulla  base  del  trattamento
 effettivamente  goduto  o spettante al dante causa, comprensivo anche
 dell'integrazione al minimo e, per l'effetto,  di  condannare  l'INPS
 alla  ricostituzione  di  tale  pensione  nonche' alla corresponsione
 degli arretrati, con rivalutazione monetaria ed  interessi  legali  e
 con  il  rimborso  delle  spese  di  lite  da  distarsi in favore del
 difensore antistatario.
   L'INPS, ha espresso le seguenti, riportate  testualmente,  graduate
 conclusioni:  respingere il ricorso " in via preliminare, per carenza
 dei requisiti fattuali di cui alle premesse di fatto necessari.
   Nel  merito:  respingere  il  ricorso  siccome  inammissibile   per
 scadenza  del  termine  di  decadenza  per agire in giudizio previsto
 dalle vigenti disposizioni.
   In via subordinata: respingere la domanda per carenza di  interesse
 in  quanto  il  ricorrente  gode  di  pensione  di reversibilita' per
 importo integrato al minimo o superiore.
   Respingere  la  domanda  di  riliquidazione   della   pensione   di
 reversibilita'  rapportata  al  trattamento minimo del dante causa in
 quanto riferita a periodi anteriori alla pubblicazione della sentenza
 della Corte costituzionale in materia".
   L'istituto resistente ha, inoltre, pur senza addurre  argomenti  di
 supporto,  senza  assumere  conclusioni  specifiche e senza sollevare
 formale  eccezione  di  legittimita'  costituzionale,  sostento   che
 l'interpretazione  dell'art.  22 legge n. 903/65 nei termini additivi
 voluti dalla sentenza n. 495/93 sarebbe, comunque, in  contrasto  con
 l'art. 81 della Costituzione.
   2.     -     Considerazioni     introduttive     sulle    questioni
 d'incostituzionalita' rilevanti pe la decisione della causa.
   La giurisprudenza ormai costante di questo giudice del lavoro  nega
 l'efficacia  vincolante  per  l'autorita'  giudiziaria delle sentenze
 della  Corte  costituzionale  di  natura  interpretativa,  addittiva,
 manipolativa
  (di   tutte   le  decisioni,  cioe',  che  possono  essere  definite
 "legislative", essendo tali di fatto), perche' ritenute non  conformi
 all'art. 136 della Costituzione.
   A  tale  proposito  non  sembra  fuori  luogo  ammettere il disagio
 provato  sin  dall'inizio  nel  pronunciare  sentenze  fortemente  in
 contrasto con varie decisioni del giudice delle leggi, ma soprattutto
 appare  importante  riconoscere  che tale disagio si e' andato sempre
 piu'  aggravando,  man  mano  che,  nell'evoluzione   della   propria
 giurisprudenza  critica,  questo  pretore si e' reso conto della vera
 portata  e  gravita'   del   problema   costituito   dalle   sentenze
 interpretative,   addittive,   manipolative,   su  tutto  il  sistema
 normativo, poiche' il fenomeno  dell'intervento  "legislativo"  della
 Corte  costituzionale  e'  diffuso e di enorme dimensione e determina
 l'esistenza di una vera e propria legislazione parallela della Corte.
   Le  cause  storiche sono molteplici, ma possono individuarsi quelle
 piu' evidenti: il sempre piu' marcato  allontanamento  dalla  lettera
 dell'art.  136,  primo comma, della Costituzione, dopo una prima fase
 di  corretta  applicazione  della  stessa  norma;  la   "fuga   dalla
 responsabilita'"  del  legislatore,  sovente spettatore passivo della
 progressiva   sottrazione   della   funzione   attribuitagli    dalla
 Costituzione  e,  quanto meno, inefficiente nell'esercitare il potere
 specifico  attribuitogli  dal  secondo  comma   dell'art.   136;   la
 diffusione  della  dottrina  e  nella  giurisprudenza  di merito e di
 legittimita'  prevalenti  di  una  concezione   evoluzionistica   del
 diritto,  con  base  di pura natura giusnaturalistica, non rispettosa
 dei dati testuali e della rigidita' della  legge  fondamentale  della
 Repubblica.
   Non  e'  fuor di luogo affermare che, sia al fine di sanare, per il
 passato, quella situazione sopra descritta di doppia normativa e  sia
 al  fine  di  precluderne  il ripetersi in futuro, le varie autorita'
 dello Stato coinvolte hanno, nell'ambito delle proprie  attribuzioni,
 possibilita'   d'intervento,   ma   non  puo'  tacersi  che  solo  il
 legislatore puo' - e ben potrebbe subito dopo aver  avuto  conoscenza
 della  presente ordinanza (a seguito della notifica al Presidente del
 Consiglio dei Ministri e della comunicazione ai Presidenti delle  due
 Camere  del  Parlamento) e, quindi, ancor prima dell'incardinarsi del
 giudizio  dinanzi  alla  Corte  costituzionale   -   risolvere,   con
 l'emanazione  delle  norme  di  legge  ritenute  piu' idonee, in modo
 definitivo, organico e generale il problema qui messo in risalto.
   Tali considerazioni di portata generale non sono fini a se' stesse,
 ma riguardano direttamente i temi della presente  ordinanza,  poiche'
 questo   giudice   remittente,   benche'  convinto  della  fondatezza
 giuridica degli argomenti che gli hanno imposto di negare l'efficacia
 delle decisioni "legislative" della Corte  costituzionale,  non  puo'
 trascurare  la  ben diversa realta' del "diritto vivente" che applica
 tali  decisioni  come  se  fossero  norme  di   legge,   affermandone
 l'obbligatorieta'.
   Ne'  poteva  evitarsi  di  mettere  in  piena  luce la rilevanza di
 carattere generale sul diritto positivo vigente delle  questioni  che
 il  giudice delle leggi e' chiamato a risolvere, poiche' (deve essere
 affermato con la massima chiarezza) una pronuncia di accoglimento  di
 una  o  piu'  delle questioni, tra quelle qui sollevate, attinenti le
 problematiche sopra evidenziate non potrebbe limitare i suoi  effetti
 alle   sole   norme   direttamente  e  specificamente  colpite  dalla
 dichiarazione d'illegittimita' costituzionale,  ma  comporterebbe  la
 caducazione  di quell'intero sistema di "diritto vivente" - del quale
 si e' detto, parallelo al diritto scritto e codificato  -  che  nella
 realta' applicativa giurisprudenziale domina da piu' decenni.
   In  verita'  (anche  a  non  voler  tener  conto  di quanto sin qui
 esposto), tutta la vasta problematica legata al non facile e doloroso
 rifiuto dell'efficacia delle sentenze "legislative" della  Corte  non
 e'  di  poco conto e non e' superabile agevolmente - contrariamente a
 quanto  si  e'  affermato  in  dottrina  -   con   la   semplicistica
 affermazione  dell'assoluta  prevalenza  delle  decisioni della Corte
 costituzionale su quelle pretorili, poiche' non  puo'  dubitarsi  del
 fatto  che  il  giudice deve, sempre e solo, applicare la legge e non
 e' questione da  poco  identificare  la  legge  vigente  nell'attuale
 paradosso  normativo, gia' ampiamente descritto:  e' ben lecito, anzi
 e' assolutamente doveroso, per il giudice, nel dubbio sul testo delle
 disposizioni da applicare (se quello promulgato  dal  legislatore,  o
 quello  revisionato  dalla Corte), ricercare la soluzione piu' vicina
 ai  principi  fondamentali  sanciti  nella  nostra  Costituzione  per
 regolare e tutelare la funzione dell'amministrazione della giustizia,
 con necessaria scelta in favore della legge, anche al doloroso prezzo
 di negare l'efficacia delle sentenze del giudice delle leggi.
   Tutto  cio'  che  si   e' sinora rappresentato in via generale vale
 anche in relazione alla sentenza 29-31 dicembre 1993,  n.  495  della
 Corte  costituzionale  che  ha  modificato  l'art.  22 della legge 21
 luglio 1965, n. 903, determinando l'esistenza di una norma "virtuale"
 divenuta "diritto vivente", della quale questo pretore,  benche'  non
 ravvisi, allo stato, alcuna ragione di natura giuridica per mutare la
 propria giurisprudenza contraria (gia' ricordata), deve tenere conto,
 poiche'  nella  realta' applicativa la predetta versione dell'art. 22
 della legge n. 903/65 ha prevalso su quella approvata dal Parlamento.
   Poiche' deve darsi atto della realta'  suddetta  e  poiche'  appare
 vulnerato  l'art.  136,  primo  comma,  della Costituzione, non resta
 altro che sollevare questione di legittimita' costituzionale a carico
 della norma "virtuale" sopra individuata.    In  forza  delle  stesse
 argomentazioni  che precedono, risulta anche rilevante l'accertamento
 della legittimita' costituzionale dell'art.  30, terzo  comma,  della
 legge  n. 87 del 1953, in relazione all'art.  136, primo comma, della
 Costituzione, poiche' e' in particolare con riferimento al testo  del
 predetto  art.  30  che  viene  affermata  l'efficacia  ex tunc delle
 sentenze  dichiarative  d'incostituzionalita',  in  aperta  e   piena
 violazione del dettato costituzionale.
   E',  invero,  piu'  che  evidente  che,  qualora  venisse dichiarta
 l'incostituzionalita' dell'art.  30,  terzo  comma,  della  legge  n.
 67/53,    la    tesi   dell'efficacia   ex   tunc   delle   decisioni
 d'incostituzionalita',   sostenuta    dalla    dottrina    e    dalla
 giurisprudenza  dominanti,  perderebbe  l'unico (per quanto labile ed
 insignificante  e  gia'  disatteso  da  questo   pretore)   argomento
 testuale,  cosi'  rendendo  chiaro  a  tutti,  anche  ai piu' fervidi
 fautori  della  "costituzione  materiale",   che   le   norme   della
 Costituzione   formale   sono  le  uniche  vigenti  e  devono  essere
 rispettate.        Nella    presente    causa    la     dichiarazione
 d'incostituzionalita'  dell'art.    30  renderebbe  indiscutibile  la
 sentenza di rigetto del ricorso, per assenza di norma regolatrice del
 diritto, risultando applicabile  il  testo  originario  dell'art.  22
 della   legge  n.  903/65,  poiche'  la  sua  inefficacia,  prendendo
 decorrenza dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza n.
 495/93, non avrebbe alcun effetto sulla situazione giuridica  dedotta
 nella   presente  controversia,  precedente  la  pubblicazione  della
 decisione  della  Corte  costituzionale:  constatazione  questa   che
 chiarisce  in  modo  inequivoco la rilevanza (anche se non esclusiva)
 nel giudizio della medesima questione.   Sempre  avendo  presenti  le
 considerazioni  appena  sopra  sviluppate,  e', altresi', necessario,
 nella presente fattispecie, per l'autorevolezza della fonte,  l'esame
 della sentenza n. 495 del 1993, al fine di verificare se al contenuto
 della  decisione  stessa si possa, comunque (pur confermando tutte le
 valutazioni critiche  espresse  contro  le  sentenze  "legislative"),
 aderire  per via di interpretazione estensiva di altre norme di legge
 ovvero per analogia.
   L'eventuale   adesione   dovrebbe  comportare  il  mutamento  della
 precedente giurisprudenza di  questo  pretore,  il  quale  ha  sinora
 negato  la  fondatezza della domanda (alcuni ricorsi aventi lo stesso
 oggetto di quello oggi in  esame  sono  stati,  infatti,  ultimamente
 respinti),  con  conseguente  potenziale  pronuncia  di accoglimento,
 qualora  venissero  escluse  altre  immanenti  ragioni  di   rigetto.
 Tuttavia,   osta  a  tale  eventualita'  e  comunque  ne  costituisce
 insuperab   ile ed  assoluto  impedimento  giuridico  un  rilievo  di
 incostituzionalita'  di  particolare  carattere, in parte coincidente
 con quello affermato dall'INPS nella memoria difensiva, al quale gia'
 si  e'  fatto  cenno:     dubita,  infatti,  questo   giudice   della
 legittimita' costituzionale dell'art. 22 della legge n. 903 del 1965,
 come  "manipolato" nella sentenza n. 495/93, in relazione all'art.81,
 ultimo  comma,  della  Costituzione  e  tale  dubbio,  sviluppato  in
 questione  di  legittimita'  costituzionale  rilevata d'ufficio, deve
 essere risolto dal necessario intervento della Corte costituzionale.
   3.  -  Considerazioni  generali  in  ordine   alle   questioni   di
 legittimita' costituzionale di natura preliminare.
   Poiche'  la  controversia  puo'  essere  risolta  sotto  molteplici
 profili,  ciascuno  dei  quali  da  solo  sufficiente  per   motivare
 (l'obbligatorieta'     della     motivazione     dei    provvedimenti
 giurisdizionali e' sancita nell'art.  111, della Costituzione, tra  i
 principi  fondamentali delle norme sulla giurisdizione) la pronuncia,
 con consequenziale possibilita' per questo pretore di  scegliere,  se
 fondare la propria decisione su uno o piu' argomenti, senza vincoli o
 limitazioni  (si  tratta,  infatti, di scelta insindacabile, perche',
 nell'obbedienza  al  dettato  dell'art.  111  citato,   indiscutibile
 manifestazione di autonomia e di libera determinazione dell'Autorita'
 giudiziaria,  secondo  la  previsione  degli  artt.  101 e 104, primo
 comma, della Costituzione),  il  giudice  delle  leggi  non  dovrebbe
 esaminare    nel    merito    le    suddette   questioni,   negandone
 l'ammissibilita',  perche'  non  rilevanti,  potendo  certamente   il
 giudizio  "essere definito indipendentemente dalla risoluzione" delle
 qui  sollevate  questioni  di   legittimita'   costituzionale,   come
 chiaramente  recita  l'art.  23, secondo comma, della legge n. 87 del
 1953.
   Deve, pertanto, essere sollevata d'ufficio l'ulteriore questione di
 legittimita' costituzionale, a carico della  specifica  disposizione,
 come sopra riportata nella sua testualita', del citato art. 23, comma
 2,  della legge n. 87/53, per violazione dell'art. 134, nonche' degli
 artt. 101, 104, primo comma, e 111 della Costituzione.  Questione che
 la Corte dovra' esaminare in via preventiva al fine  di  passare,  in
 caso  di  suo accoglimento, all'esame delle questioni precedentemente
 individuate.  Per le stesse ragioni, appena  sopra  esposte,  con  le
 stesse  finalita'  e  con  il  medesimo  carattere  preliminare, deve
 altresi' essere sollevata la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art.  23  della  legge  ordinaria  11   marzo   1953,   n.   87,
 limitatamente   a   quelle  sue  parti  (quali  verranno  esattamente
 evidenziate in  seguito)  che  stabiliscono  condizioni  e  forme  di
 proponibilita' dei giudizi di legittimita' costituzionale, per palese
 violazione  della  riserva di legge costituzionale prevista dall'art.
 137, primo comma, della Costituzione.
   4.  -  Precisazione  delle questioni di legittimita' costituzionale
 rilevate d'ufficio.
   A) Ouestione di legittimita' costituzionale dell'art. 22, legge  21
 luglio  1965,  n.  903, come modificato dalla sentenza 29-31 dicembre
 1993, n. 495 della Corte costituzionale, per violazione dell'art 136,
 primo comma, nonche' degli  artt.  101  e  104,  primo  comma,  della
 Costituzione.
   B)  Questione  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 30, terzo
 comma, della legge 11 marzo 1953  n.  87,  per  violazione  dell'art.
 136, primo comma, della Costituzione.
   C)  Questione di legittimita' costituzionale dell'art. 22, legge 21
 luglio 1965, n. 903, come modificato dalla sentenza n.  495/93  della
 Corte  costituzionale,  per  violazione  dell'art.  81, ultimo comma,
 della Costituzione.
   D) In  via  preliminare  rispetto  alle  precedenti,  questione  di
 legittimita'  costituzionale  dell'art.  23,  comma 2, della legge 11
 marzo 1953 n.   87, ove prevede che "il  giudizio  non  possa  essere
 definito  indipendentemente  dalla  risoluzione  della  questione  di
 legittimita'  costituzionale"  e  limitatamente  a  tale  parte,  per
 violazione  dell'art. 134, nonche' 101, 104, primo comma, e 111 della
 Costituzione.
   E) Sempre in via preliminare e con gli stessi riferimenti  indicati
 in  quella sub D), questione di legittimita' costituzionale dell'art.
 23 della legge ordinaria 11  marzo  1953,  n.  87,  nelle  parti  che
 stabiliscono  condizioni  e  forme  di  proponibilita' dei giudizi di
 legittimita' costituzionale, per palese violazione della  riserva  di
 legge  costituzionale  prevista  dall'art.  137,  primo  comma, della
 Costituzione.
   5. - Motivazione delle singole questioni.
   A) In  relazione  alla  questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.    22,  legge 21 luglio 1965, n. 903, come modificato dalla
 sentenza 29-31 dicembre 1993 n. 495/93  della  Corte  costituzionale,
 per  violazione dell'art. 136, primo comma, nonche' degli artt. 101 e
 104, primo  comma,  della  Costituzione.    La  Corte  ha  dichiarato
 l'illegittimita'  costituzionale  del  citato  art. 22 della legge n.
 903/65,  "nella  parte  in  cui  non  prevede  che  la  pensione   di
 riversibilita'  sia  calcolata  in  proporzione alla pensione diretta
 integrata al trattamento minimo gia' liquidata al  pensionato  o  che
 l'assicurato  avrebbe  comunque  diritto  di percepire".   Si ritiene
 nella dottrina e nella giurisprudenza prevalenti che  tale  decisione
 della  Corte  costituzionale  (come  le altre del genere che e' stato
 gia' in precedenza qualificato  "legislativo"  per  ricomprendere  in
 un'unica  definizione  tutte  le  sentenze del giudice delle leggi di
 natura interpretativa, addittiva, manipolativa, cioe' di tutte quelle
 che non si limitano a sancire  semplicemente  l'illegittimita'  delle
 norme   che   violano   la   Costituzione)  abbia  valore  correttivo
 dell'incostituzionalita' della norma ed efficacia erga  omnes.  cosi'
 da  dover  essere  applicata  (per  di  piu'  ex  tunc, ma di cio' si
 trattera' piu' avanti) dall' Autorita' giudiziaria.   Questo  giudice
 (abbandonata  ormai la propria giurisprudenza che aderiva all'erronea
 tesi dominante appena sopra sintetizzata)  e' di contrario  avviso  e
 deve  affermare senza esitazione che l'art.  22 della legge 21 luglio
 1965 n. 903  e' rimasto in vigore nella  sua  integrale  formulazione
 letterale,  quale  norma di legge dello Stato, regolarmenre approvata
 (art. 72 della Costituzione) dal Parlamento, regolarmente  promulgata
 dal  Presidente  della  Repubblica e regolarmente pubblicata (art. 73
 della Costituzione), poiche'  la  sentenza  "legislativa"  n.  495/93
 della  Corte costituzionale non e' idonea a determinare la cessazione
 dell'efficacia della norma dichiarata illegittima in  una  parte  non
 scritta  (nella  parte  in  cui  non prevede ...), posto che l'evento
 dell'inefficacia  si  realizza  solo  quando  la   dichiarazione   di
 illegittimita'  costituzionale  colpisce  la letteralita' dell'intera
 norma o di una sua parte (scritta: deve essere ribadito).   In  altri
 termini:  le  sentenze "legislative" non possono (ma si veda anche la
 diversa ipotesi di soluzione giuridica della questione,  piu'  avanti
 prospettata)  determinare  gli effetti previsti dall'art.  136, primo
 comma, della  Costituzione,  ne'  hanno  efficacia  modificativo  del
 diritto positivo, poiche' non e' attribuito alla Corte costituzionale
 il  potere legislativo, ne' una funzione di interpretazione autentica
 della  legge.  E',  infatti,  al  solo  legislatore  che  la   nostra
 Costituzione  attribuisce  il  potere,  in  via  generale  (art. 70 e
 seguenti, nonche' art. 117 per cio' che concerne le Regioni) e in via
 specifica (art.  136, secondo comma), di creare la  norma  di  legge,
 giuridicamente  vincolante.    In  tema  si  propone  un'ultima  nota
 d'interesse: in una recente (rimasta pero' isolata) sentenza  (la  n.
 218  del 29 maggio-1 giugno 1995) la Corte costituzionale ha ritenuto
 di  dover  motivare  la  decisione,   qualificata   come   addittiva,
 affermando che "La reductio ad legitimitatem
  e'  possibile  con  una pronuncia addittiva, perche' desumibile ..."
 (e'  irrilevante  il  seguito)  anche  senza  voler   attribuire   un
 significato   "freudiano"   alla  rarita'  dell'espressa  motivazione
 sull'intervento addittivo, appare, tuttavia, lecito, se non altro  ad
 colorandum,   portare  all'attenzione  del  giudice  delle  leggi  il
 precedente, giacche' puo' ritenersi che  costituisca  un  sintomo  di
 iniziale  ripensamento  sulla  liceita'  del  genere  di sentenze qui
 criticate.
   Tanto rilevato e  rappresentato  con  riferimento  al  primo  comma
 dell'art.    136,  si  deve passare alla discussione inerente l'altro
 aspetto d'incostituzionalita' dell'art. 22  della  legge  n.  903/65,
 come   modificato   dall'intervento  del  giudice  delle  leggi,  per
 violazione degli artt. 101 e 104, primo  comma,  della  Costituzione.
 L'interpretazione   della   legge   e'  attivita'  intellettuale  non
 riservata  :  ogni operatore del diritto ed  ogni  singolo  cittadino
 e'  ovviamente  libero di interpretare la normativa, per tutti i fini
 possibili, senza limiti.   Ma quando l'interpretazione  e'  correlata
 all'applicazione  della legge in sede giudirisdizionale, quando cioe'
 e'  legata  alla  funzione   specifica   dell'amministrazione   della
 giustizia  in nome del popolo e nella soggezione alla sola legge (101
 della  Costituzione),  allora  l'attivita'  d'interpretazione      e'
 riservata  ed  esclusiva  perche'  demandata  al  giudice  (102 della
 Costituzione per quello ordinario), autonomo ed indipendente da  ogni
 altro  potere  (104,  primo comma, della Costituzione).   Ne discende
 che, qualora una norma di legge trovi nella giurisprudenza di  merito
 e,  soprattutto,  di  legittimita', diverse soluzioni interpretative,
 non puo' essere ritenuto lecito un intervento di  sostanziale  natura
 interpretativa  autentica  della  Corte costituzionale, che (come nel
 caso di specie) determini una modifica del contenuto della norma, pur
 non  incidendo  sul  suo  tenore  letterale,  cosi'  da  imporre  una
 specifica  scelta, fondata su una delle possibili interpretazioni del
 dettato normativo, poiche' in tal modo viene concretamente violato il
 principio  della  divisione dei poteri, con la compressione di quello
 giudiziario.  Cio' non significa che il Giudice delle leggi non possa
 interpretare la legge (negano sarebbe pura assurdita'), ma  significa
 solo  che  non  e'  consentito a nessun potere (inteso in senso lato)
 dello  Stato  e,  pertanto,  neppure  alla  Corte  costituzionale  di
 superare   i   confini  delle  proprie  attribuzioni.    E  la  Corte
 soprattutto deve esercitare la sua elevatissima  funzione,  posta  al
 vertice  delle  garanzia  costituzionali,  nel piu' assoluto rispetto
 delle attribuzioni degli altri poteri (il termine viene usato  sempre
 nel  significato piu' ampio e non strettamente tecnico), poiche' ogni
 sua  decisione  che  comporti  il  superamento  della   sfera   delle
 specifiche  competenze,  rischia di scardinare il delicato equilibrio
 istituzionale voluto dalla legge fondamentale della Repubblica, senza
 neppure la possibilita' di un rimedio giuridico, poiche'  "contro  le
 decisioni   della   Corte  costituzionale  non    e'  ammessa  alcuna
 impugnazione" (art. 137, ultimo comma, della Costituzione) e  poiche'
 deve  escludersi  l'ammissibilita'  dell'istituto  del  giudizio "sui
 conflitti di attribuzione  tra  i  poteri  dello  Stato"  (art.  134,
 secondo  comma,  della  Costituzione), se non altro, perche' la Corte
 costituzionale ne sarebbe nel contempo parte e giudice.
   Se questa questione, in uno o  piu'  dei  rilievi  di  legittimita'
 costituzionare  prospettati, venisse accolta dal giudice delle leggi,
 la  dichiarazione  d'illegittimita'  costituzionale  della   versione
 normativa  dell'art.  22  legge  n.  903/65,  come  risultante  dalla
 sentenza n. 495/93, dovrebbe comportare la perdita di efficacia della
 stessa versione ed il ripristino  (deve  presumersi)  della  versione
 originale della norma, quella approvata dal legislatore del 1965, con
 ovvia rilevanza nel presente giudizio pretorile.
   Per  il  vero,  pero',  la  Corte  costituzionale potrebbe dare una
 diversa soluzione giuridica in  ordine  agli  effetti  delle  proprie
 decisioni  "legislative", affermando in modo esplicito che queste non
 sono idonee a modificare, integrare e correggere le norme  dichiarate
 incostituzionali,  bensi'  puramente  e  semplicemente determinano la
 radicale perdita di efficacia delle medesime norme,  poiche',  lo  si
 puo'  ben  sostenere  con  piena  logica  giuridica  e  razionalita',
 l'accertata ed affermata illegittimita' della norma "nella  parte  in
 cui  ..."  si  ripercuote  sull'intera norma, giacche' questa nel suo
 complesso ed in tutte le sue parti "prevede" o "non prevede" cio' che
 la   Corte   rispettivamente   afferma   essere   costituzionalemente
 illegittimo  o legittimo.   Le conseguenze di tale soluzione radicale
 potrebbero essere assai meno dirompenti di quelle causate dalla prima
 scelta indicata sopra, se non altro, perche' eviterebbero al  sistema
 giuridico  una  paralizzante  crisi  interpretativa, dipendente dalla
 difficolta' di stabilire, se  la  norma  dichiarata  incostituzionale
 dalla Corte con intervento "legislativo" possa ritenersi ripristinata
 in  tutta  la  sua  primigenia  portata, ovvero se debba considerarsi
 implicitamente travolta in toto dalla dichiarazione  d'illegittimita'
 costituzionale  della  lettura volutane dalla Corte, ovvero ancora se
 sia necessario (ipotesi  questa,  pero',  da  escludere  recisamente)
 attendere  un  intervento  del  legislatore  diretto  a confermare, o
 abrogare, o modificare la norma.
   B)  In  relazione  alla  questione  di  legittimita' costituzionale
 dell'art.  30, terzo comma, della legge 11  marzo  1953  n.  87,  per
 violazione dell'art. 136, primo comma, della Costituzione.
   L'art.   136,   primo   comma,  della  Costituzione  cosi'  dispone
 testualmente:      "Quando   la   Corte   dichiara   l'illegittimita'
 costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge,
 la  norma  cessa  di  avere  efficacia  dal  giorno  successivo  alla
 pubblicazione della decisione".  L'art. 30, terzo comma, della  legge
 n.  87  del  1953, prevede: "Le norme dichiarate incostituzionali non
 possono avere applicazione dal giorno successivo  alla  pubblicazione
 della  decisione".    Sono  possibili  due  soluzioni  interpretative
 dell'art. 30 in esame:  una fedele al dettato costituzionale, l'altra
 non rispettosa della lettera e  del  contenuto  dell'art.  136  della
 Costituzione:  la  prima  attribuisce un puro significato esplicativo
 all'art.  30,  evidenziando  l'ovvia  conseguenza  della  perdita  di
 efficacia  della  norma  dichiarata  incostituzionale,  cioe'  la sua
 inapplicabilita' per regolamentare  le  situazioni  giuridiche  sorte
 successivamente  alla  pubblicazione  della decisione della Corte; la
 seconda  tenta  di  modificare  la  costituzione  formale  per  farla
 soggiacere  alla volonta' dei fautori della "costituzione materiale",
 sostenendo   che   il   divieto   di   applicazione    delle    norme
 incostituzionali,   derivante  dalla  originaria  incostituzionalita'
 delle norme stesse, determina  necessariamente  l'efficacia  ex  tunc
 delle sentenze della Corte.
   A  contrastare  la  tesi  che  sostiene  l'efficacia  ex tunc delle
 sentenze della Corte costituzionale si ergono insuperabili, non  solo
 la lettera del primo comma dell'art. 136 della Costituzione, ma anche
 il  secondo comma dello stesso articolo.  Per chiarire esaustivamente
 quanto appena sopra affermato  e' sufficie  nte riportare quanto gia'
 sostenuto da questo pretore in varie decisioni (tra le  altre,  nella
 sentenza  n.  1534/95  emessa in data 3 luglio 1995, nella causa Zeni
 Angela  contro  INPS):  "il  primo  comma  dell'art.      136   della
 Costituzione  cosi' testualmente afferma - omissis: la norma e' sopra
 riprodotta - : e' evidente, per il significato  inequivocabile  della
 disposizione,   che   corrispondentemente   viene   negata  qualsiasi
 efficacia ex tunc alla dichiarazione d'incostituzionalita' e  che  la
 norma  dichiarata  incostituzionale e' perfettamente efficace (e, per
 quanto cio' possa apparire  paradossale,  anche  legittima)  sino  al
 giorno,  compreso,  della  pubblicazione  della decisione della Corte
 costituzionale - omissis - L'esattezza della tesi qui sostenuta trova
 conferma di forte valore giuridico  nell'assenza  di  una  previsione
 (difficile  da  ipotizzare,  peraltro) di legge che limiti, imponendo
 alla Consulta  il  rispetto  dell'art.  81  della  Costituzione,  gli
 effetti   talvolta   dirompenti  (da  molti  denunciati  e  da  tutti
 indistintamente riconosciuti) sul bilancio dello Stato della  valenza
 ex   tunc   attribuita   contra   legem  alle  sentenze  della  Corte
 costituzionale sulle norme dichiarate incostituzionali e', ancor piu'
 che  evidente,  lapalissiano  che  l'unica   esatta   interpretazione
 dell'art.  136,  primo  comma,  della Costituzione, nel senso imposto
 dalla sua univoca  formulazione  letterale  e  qui  sostenuto,  rende
 superflua  ed  insussistente  l'esigenza  di  ridurre o regolamentare
 l'impatto sulla finanza pubblica delle  sentenze  del  giudice  delle
 leggi,  poiche', non essendo lecito attribuire efficacia ex tunc alle
 dichiarazioni  d'illegittimita'  costituzionale,  nessun  danno  puo'
 derivarne,  cio'  che  spiega  razionalmente  perche' il legislatore,
 costituzionale  e  ordinario,  non abbia previsto e ritenuto di dover
 creare qualche strumento giuridico per imporre alla Corte il rispetto
 dell'art.  81  della  Costituzione.    In  altri   termini:   nessuna
 necessita'  di  limitare  gli  effetti economici delle sentenze della
 Corte costituzionale sussiste, poiche' esse non sono idonee,  secondo
 la   previsione  del  primo  comma  dell'art.    136,  a  determinare
 situazioni di danno".
   Il rigore logico e  la  piena  razionalita'  dell'art.  136,  primo
 comma,  trova  ulteriore  conferma  nel  secondo comma: "La decisione
 della Corte e' pubblicata e comunicata  alle  Camere  e  ai  Consigli
 regionali   interessati,   affinche',  ove  lo  ritengano  necessario
 provvedano nelle forme costituzionali:  e' quasi superfluo far notare
 che questa disposizione e' diretta ad imporre (non si dimentichi  mai
 che  il  potere  attribuito  alle  Istituzioni  della  Repubblica  e'
 potere-dovere e non  arbitrio)  al  legislatore  di  provvedere  alla
 soluzione     dei     problemi     causati     dalle    dichiarazioni
 d'incostituzionalita',  problemi  derivanti,  per  il   futuro,   dal
 possibile  vuoto  normativo  e,  per  il passato, dalla necessita' od
 opportunita' di riparare (secondo la  discrezionalita'  politica  del
 legislatore   e,   dunque,  anche  e  soprattutto  nei  limiti  delle
 compatibilita' di bilancio) i danni eventuali determinati dalle norme
 incostituzionali.  Cio' che conferma  l'esattezza  dell'affermazione,
 secondo la quale l'esigenza e l'obbligo di rispettare l'art. 81 della
 Costituzione  e',  come  solo  puo'  e  deve  essere,  a  carico  del
 legislatore".
   Per tentare  di  superare  il  ragionamento  sopra  riprodotto,  si
 dovrebbe  spiegare,  perche'  il  legislatore  costituzionale avrebbe
 previsto, nel secondo comma  dell'art.  136,  la  comunicazione  alle
 Camere  della  decisione  della  Corte  "affinche',  ove lo ritengano
 necessario provvedano nelle  forme  costituzionali",  se  non  avesse
 voluto  chiarire  con  forza che solo al legislatore e' attribuito il
 potere di provvedere, nelle  forme  costituzionali,  alla  produzione
 legislativa  eventualmente  necessaria  per  risolvere le conseguenze
 dell'inefficacia delle norme dichiarate incostituzionali,  posto  che
 altre  norme  della Costituzione (artt.  70 e seguenti) gia' regolano
 l'attivita' legislativa e non  si  puo'  certo  ridurre  l'art.  136,
 secondo  comma,  a norma puramente ripetitiva senza valore alcuno.  A
 tali, gia' sufficienti, argomenti  non  sembra  superfluo  aggiungere
 brevemente  alcuni elementi di fatto storici, con lo scopo dichiarato
 di rendere difficilmente praticabili possibili obiezioni  fondate  su
 discorsi  inerenti la volonta' del legislatore e la ratio legis, cari
 ai giusnaturalisti, anche a fronte di norme  esemplari  per  la  loro
 assoluta  limpidezza di lettera e di contenuto, come l'art. 136 della
 Costituzione.  Nelle fasi iniziali dell'iter per l'introduzione della
 Corte costituzi  onale nel nostro ordinamento, la sottocomissione per
 i problemi costituzionali della "Commissione per gli studi  attinenti
 alla  riorganizzazione  dello  Stato", istituita dal Ministero per la
 costituente, negli studi e proposte pubblicati nel 1946, tra l'altro,
 aveva espressamente ipotizzato l'annullamento ex  tunc  delle  leggi,
 quale conseguenza della dichiarazione d'incostituzionalita'.
   Tale  soluzione  in sede di Assemblea costituente venne chiaramente
 abbandonata dalla Commissione dei 75, alla quale era  stata  affidata
 la  redazione del progetto costituzionale: nel progetto presentato il
 31 gennaio 1947, infatti, nell'art. 128, al terzo comma, era previsto
 che   "Se   la   Corte,  nell'uno  o  nell'altro  caso,  dichiara  la
 incostituzionalita' della norma, questa cessa di avere efficacia.  La
 decisione  della  Corte  e' comunicata al Parlamento, perche', ove lo
 ritenga  necessario,  provveda  nelle  forme  istituzionali".      Da
 quell'art.  128  e'  derivato  l'attuale art. 136, nel quale pero' e'
 stato opportunamente previsto anche il momento iniziale (fissato  nel
 giorno  successivo  alla  pubblicazione)  della  perdita di efficacia
 delle norme dichiarate incostituzionali.
   Nessun commento e' necessario.
   Se tutto cio' che precede e' vero, l'art. 30,  terzo  comma,  della
 legge  11  marzo 1953, n. 87 deve essere dichiarato incostituzionale,
 in quanto consente un'interpretazione totalmente difforme dal dettato
 costituzionale,  divenuta  "diritto  vivente",   cosi'   da   rendere
 estremamente  difficoltosa,  se  pur  non impossibile, l'affermazione
 della lettura legittima della disposizione.  Certamente e' nel potere
 della Corte costituzionale negare la fondatez  za della questione  di
 legittimita'  costituzionale  teste'  esposta, eventualmente anche in
 forza del principio, esattamente affermato, che impone nello  scontro
 tra   due  o  piu'  interpretazioni  possibili  l'affermazione  della
 prevalenza di quella conforme a Costituzione, ma, a  sommesso  avviso
 di  questo  giudice  remittente,  una siffatta soluzione non potrebbe
 avere valore definitivo,  poiche'  lascerebbe  sempre  spazio  aperto
 all'interpretazione  non  costituzionalmente corretta.  Ne' e' poi il
 caso di porsi scrupoli particolari, nel caso di specie, sugli effetti
 della dichiarazione d'illegittimita' costituzionale:  la  conseguente
 perdita  di efficacia del terzo comma dell'art. 30 legge n. 87/53 non
 causerebbe un grave vuoto normativo, poiche' tale disposizione  (come
 gia' notato) nulla aggiunge al disposto del primo comma dell'art. 136
 della  Costituzione,  limitandosi  a  esplicitare l'ovvia conseguenza
 della perdita di efficacia delle  norme  dichiarate  incostituzionali
 "dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione" e cioe' la
 loro  inapplicabilita'  (nei termini gia' chiariti) a decorrere dallo
 stesso giorno.
   C) In relazione alla  questione  di  illegittimita'  costituzionale
 dell'art.  22,  legge  21  luglio 1965, n. 903, come modificato dalla
 citata  sentenza  29-31  dicembre  1993  n.  495/1993   della   Corte
 costituzionale,  per  violazione  dell'art.  81,  ultimo comma, della
 Costituzione.
   La Corte, con la sentenza n. 495 del 1993 (si ripete, per comodita'
 di esposizione) ha dichiarato  l'incostituzionalita',  per  contrasto
 con  i principi di ragionevolezza e di eguaglianza di cui all'art.  3
 della Costituzione, dell'art. 22 della legge n. 903/65  "nella  parte
 in cui non prevede che la pensione di reversibilita' sia calcolata in
 proporzione  alla  pensione  diretta  integrata al trattamento minimo
 gia' liquidata al pensionato o  che  l'assicurato  avrebbe  avuto  il
 diritto  di  percepire".    La norma in discorso, come modificata per
 effetto del suddetto intervento della Consulta, determina per  l'INPS
 una  forte  esposizione  debitoria,  priva di finanziamento (e' fatto
 notorio); la  causa  di  tutto  cio'  deve  rinvenirsi  nell'opinione
 (erronea)  secondo  la  quale  le  sentenze di natura addittiva della
 Corte Costituzionale avrebbero efficacia vincolante erga omnes ed  ex
 tunc,  opinione tuttora prevalente in dottrina e nella giurisprudenza
 di merito e di legittimita'.
   Nessun  atto  legislativo  e'  sinora  intervenuto  per reperire la
 copertura finanziaria necessaria al fine di  consentire  all'INPS  di
 provvedere  previa  riliquidazione  delle  pensioni di riversibilita'
 secondo il dettato della sentenza n. 495/93, al pagamento delle somme
 arretrate,  con  gli  accessori  di   legge,   derivanti   da   detta
 riliquidazione.  E' piu' che evidente che il legislatore, a tutt'oggi
 (anche  se  deve  darsi  atto  che gli organi d'informazione hanno di
 recente riportato notizie su una discussione in corso nel Parlamento,
 mirante alla ricerca di una soluzione per finanziare il fabbisogno di
 spesa previdenziale non previsto in  bilancio  e  legato  anche  alle
 conseguenze  economiche  della  sentenza  n.  495  del  1993), non ha
 ritenuto  di  dover  dare  attuazione  alla  sentenza  in   discorso,
 nonostante  la  vigenza  dell'art.  2,  settimo comma, della legge 11
 marzo 1988 n. 67, che cosi' dispone: "Qualora nel corso di attuazione
 di leggi si verifichino scostamenti rispetto alle previsioni di spesa
 o di entrate, il Governo ne da' notizia tempestivamente al Parlamento
 con relazione  del  Ministro  del  tesoro  e  assume  le  conseguenti
 iniziative.  La  stessa  procedura  e'  applicata in caso di sentenze
 definitive di organi giurisdizionali  e  della  Corte  costituzionale
 recanti  interpretazioni  della  normativa  vigente  suscettibili  di
 determinare maggiori oneri".
   Potra'  pure  essere  affermata  la  responsabilita'  politica  dei
 Governi  che  si  sono  succeduti  dalla  data di pubblicazione della
 sentenza n. 495/93  ad  oggi,  ma  nessun  risultato  giuridico  puo'
 conseguirne,  restando  certo il fatto che nessun intervento e' stato
 posto in essere per la copertura finanziaria dei maggiori oneri,  ne'
 totalmente,  ne' parzialmente.  Peraltro, in relazione a quanto si e'
 accennato in ordine alle notizie giornalistiche sulla ricerca di  una
 soluzione normativa in corso di discussione in Parlamento, non appare
 lecito  attendere  che  il  legislatore eserciti sino in fondo i suoi
 poteri, prima di procedere alla trasmissione della presente questione
 di legittimita' costituzionale:  deve, infatti, rilevarsi con estrema
 chiarezza che una futura, possibile e  sempre  auspicabile  soluzione
 legislativa  al  problema  della  copertura finanziaria degli effetti
 economici della sentenza n. 495/93, avra' (se in linea con i principi
 costituzionali) naturalmente efficacia anche sulla presente questione
 di legittimita' costituzionale, facendole  perdere  ogni  attualita',
 rilevanza e fondatezza.
   Deve  anche  essere  con forza notato che Autorita' giudiziaria non
 puo', in nessun caso, correlare i provvedimenti previsti dalla  legge
 per  amministrare  giustizia  ad  indebite ed illecite valutazioni di
 opinabile opportunita' politica.   Dal riscontrato  attuale  dato  di
 fatto  storico  dell'assenza di copertur   a finanziaria, a parere di
 questo   pretore,   non   puo'   che   discendere   obbligatoriamente
 l'affermazione  dell'illegittimita' costituzionale dell'art. 22 legge
 n. 903/65, come modificato dal giudice delle  leggi,  per  violazione
 dell'ultimo  comma dell'art. 81 della Costituzione, a nulla rilevando
 sapere se tale violazione dipenda da semplice inerzia, o  assenza  di
 volonta'  del legislatore, ovvero (ed e', purtroppo, questa l'ipotesi
 piu' veritiera) dalla realta' di una situazione critica delle finanze
 dello Stato,  tale  da  aver  reso,  sino  ad  oggi,  impossibile  il
 reperimento delle risorse finanziare necessarie, senza determinare un
 ulteriore   aggravamento   nel   desolante   bilancio   della  nostra
 Repubblica.  Unica conseguenza e soluzione  possibile  sembra  essere
 quella    di    una    pronuncia   dichiarativa   dell'illegittimita'
 costituzionale del detto art. 22 della legge n. 903  del  1965  nella
 nuova  formulazione  creata dalla sentenza n. 495/93, con conseguente
 cessazione dell'efficacia della medesima  norma  ai  sensi  dell'art.
 136,  primo  comma,  della Costituzione e ripristino della situazione
 normativa preesistente l'intervento del giudice  delle  leggi.    Ne'
 puo',  in contrario, sostenersi con giuridica fondatezza che le norme
 "virtuali" create dalle sentenze "leggi" della  Corte  costituzionale
 siano avulse dal sistema giuridico costituzionale, cosi' da non dover
 soggiacere  (anche)  al  dettato  dell'art.  81,  ultimo comma, della
 Costituzione, ovvero che siano (per qualche  inimmaginabile  ragione,
 non   certo   di  diritto  scritto)  "refrattarie"  al  controllo  di
 legittimita' costituzionale, ovvero ancora che il  legislatore  debba
 dare  esecuzione,  sempre e comunque, alla volonta' della Corte e che
 abbia tempi illimitati per provvedere alla copertura finanziaria:  se
 le  sentenze  di  natura  legislativa della Corte hanno davvero forza
 innovativa nel diritto positivo con obbligo di applicazione (ipotesi,
 deve ribadirsi ancora, qui fortemente negata), tanto da fondersi,  in
 modo  simile  a  quanto  avviene  per  le  leggi  di  interpretazione
 autentica, con la norma dichiarata  incostituzionale,  determinandone
 un  nuovo  contenuto,  ebbene, allora, queste norme "virtuali" devono
 essere totalmente conformi alla Costituzione, come qualsivoglia altra
 norma di legge.
   Poiche' ai fini del decidere e' importante, anche se non essenziale
 (che, come si e' gia' detto, la controversia puo' ben  essere  decisa
 "indipendentemente"  sotto  vari  altri  profili),  avere certezza in
 ordine alla vigenza o meno dell'art. 22 della legge n.  903/65,  come
 determinata   (nell'opinione   prevalente,   qui  contrastata)  dalla
 sentenza n. 495/93, e poiche' tale certezza puo' derivare, con valore
 assoluto (che le tesi di questo giudice sono  davvero  minoritarie  e
 marginali),  solo  (salvo  ovviamente  un sempre possibile intervento
 legislativo) da una decisione  della  Corte  costituzionale,  risulta
 necessario  investire  il  giudice  delle  leggi  della  questione di
 costituzionalita' come sopra precisata, essendone, peraltro, piu' che
 palese per le argomentazioni che  precedono,  senza  altro  superfluo
 commento,  la  rilevanza  nel  presente giudizio, poiche' l'eventuale
 dichiarazione   d'illegittimita'   costituzionale   per    violazione
 dell'art.  81  sarebbe, senza possibilita' di contrasto neppure negli
 eventuali gradi  successivi  del  giudizio,  motivo  di  rigetto  del
 ricorso, anche se, in ipotesi estrema, solo concorrente, o anche solo
 subordinato, ovvero, infine, puramente virtuale.
   D)  In  relazione  alla  questione  di  legittimita' costituzionale
 dell'art.  23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n.  87,  ove
 prevede  che "il giudizio non possa essere definito indipendentemente
 dalla risoluzione dalla  questione di legittimita' costituzionale"  e
 limitatamente  a  tale  parte,  per violazione dell'art. 134, nonche'
 degli artt. 101, 104, primo comma, e 111 della Costituzione.
   L'art. 134, per quanto qui  interessa,  dispone  testualmente:  "La
 Corte   costituzionale  giudica:  sulle  controversie  relative  alla
 legittimita' costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di
 legge, dello Stato e delle Regioni".
   L'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n.  1,  emessa
 in attuazione dell'art. 137, primo comma, della Costituzione, recita:
 "La  questione  di  legittimita'  costituzionale di una legge o di un
 atto avente forza di legge della  Repubblica,  rilevata  d'ufficio  o
 sollevata  da una delle parti nel corso di un giudizio e ritenuta dal
 giudice  non  manifestamente  infondata,  e'   rimessa   alla   Corte
 costituzionale  per  la  sua  decisione".    A  fronte  di tali norme
 costituzionali, l'art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo  1953,
 n.  87,  invece, cosi' dispone: "L'autorita' giurisdizionale, qualora
 il  giudizio  non  possa  essere  definito  indipendentemente   dalla
 risoluzione  della  questione  di  legittimita'  costituzionale e non
 ritenga che la  questione  sollevata  sia  manifestamente  infondata,
 emette  ordinanza  con  la  quale,  riferiti  i  termini  ed i motivi
 dell'istanza  con  la  quale  fu  sollevata  la  questione,   dispone
 l'immediata  trasmissione  degli  atti  alla  Corte  costituzionale e
 sospende il giudizio in corso".
   Il ben diverso contenuto sostanziale del  secondo  comma  dell'art.
 23, contrastente con le disposizioni dell'art. 134 della Costituzione
 e  dell'art.  1  legge  costituzionale  n. 1/48, risalta evidente: la
 previsione  della  necessita'  che  "il  giudizio  non  possa  essere
 definito  indipendentemente  dalla  risoluzione  della  questione  di
 legittimita' costituzionale" al fine di  introdurre  il  giudizio  di
 costituzionalita'  dinanzi  al  giudice  delle leggi non trova minimo
 riscontro a livello di normativa costituzionale.   Non  solo:  appare
 anche chiaro, tanto da risultare quasi superfluo parlarne, che quella
 previsione dell'art. 23, ben individuata sopra, riduce enormemente la
 possibilita'  di attivare il controllo della Corte sulla legittimita'
 costituzionale "delle leggi e degli  atti,  aventi  forza  di  legge,
 dello  Stato",  poiche'  impone  che  la rilevanza della questione di
 costituzionalita' sia tale da comportare da sola la  definizione  del
 giudizio,  rendendo in tal modo irrilevanti e, percio', inammissibili
 tutte le questioni di  legittimita'  costituzionale  l'oggetto  delle
 quali sia solo concorrente nella decisione della causa.
   Viene    cosi'   patentemente   incatenato   il   controllo   della
 costituzionalita' delle leggi e degli atti normativi di pari forza  e
 contestualmente   mortificata  la  garanzia  costituzionale  di  tale
 controllo.
   In forza delle considerazioni che precedono, appare  conseguenziale
 riconoscere  che, nel sistema vigente della legislazione ordinaria in
 relazione alle norme della legge  fondamentale  della  Repubblica  in
 tema di garanzie costituzionali, sussistono troppi vincoli alla piena
 attuazione   dei  principi  costituzionali  e  cio'  con  particolare
 riferimento alla possibilita' di accesso al giudizio di  legittimita'
 costituzionale,  tanto da rendere possibile la permanenza nel diritto
 positivo di numerose norme contrarie  alla  Costituzione,  senza  che
 queste  possano  trovare  controllo e verifica di legittimita', posto
 che la struttura procedimentale che consente di giungere  dinanzi  al
 giudice delle leggi e' eccessivamente limitativa.  Non e' certo nella
 competenza di questo giudice, ne' del giudice delle leggi, la ricerca
 delle  soluzioni  normative  necessarie  per  la  realizzazione della
 Costituzione, ma la constatazione della  difficolta'  di  accesso  al
 giudizio  dinanzi  alla  Corte    costituzionale  doveva  qui  essere
 chiaramente manifestata, non soltanto perche' direttamente  attinente
 la questione di legittimita' costituzionale ora prospettata, ma anche
 perche'  non  puo' negarsi che numerose norme della legge n. 87/53, e
 non il solo secondo comma dell'art. 23 nella  parte  specifica  sopra
 individuata,  violano  l'art.  134  della  Costituzione,  riducendo a
 minimi  livelli  la  possibilita'  del controllo di conformita' delle
 leggi  e  degli  atti  aventi  forza  di  legge,  mentre  il  sistema
 costituzionale  nasce  con  un  impianto  assai  vasto,  che  appare,
 comunque,  illecitamente  compresso   e   mortificato   dalla   legge
 ordinaria,  e non solo nella sostanza, ma anche nella forma normativa
 utilizzata, come risultera' piu' che evidente  nello  sviluppo  della
 successiva questione sub E).
   Prima di passare oltre, pero', deve essere chiarito ancora in quali
 termini  si  ritengono violati gli artt. 101 e 104 della Costituzione
 dall'art. 23 legge n. 87/53, nella parte  in  cui  dispone  che,  per
 potersi   procedere   alla   trasmissione   degli   atti  alla  Corte
 costituzionale,   "il   giudizio   non    possa    essere    definito
 indipendentemente  dalla  risoluzione della questione di legittimita'
 costituzionale".  La disposizione contestata e' illegittima,  poiche'
 determina una riduzione e compressione dell'autonomia ed indipendenza
 del  giudice,  impedendogli  di valutare tutte le possibili soluzioni
 giuridiche per  la  decisione  dei  processi,  causando  grave  danno
 all'amministrazione  della  giustizia, poiche' (essendo precluso alle
 questioni non essenziali l'accesso al giudizio di  costituzionalita')
 sottrae alla motivazione (art. 111 della Costituzione) delle sentenze
 ragioni  ulteriori di potenziale accoglimento o rigetto della domanda
 (per quanto concernente in particolare le controversie nella  materia
 demandata  alla  competenza di questo pretore), idonee a rendere piu'
 "resistente" la motivazione e non e' superfluo qui ricordare  che  il
 bene  giuridico della certezza del diritto si fonda anche sulla forza
 di resistenza delle pronuncie giurisdizionali nei successivi gradi di
 giudizio.
   E) In  relazione  alla  questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.  23 della legge ordinaria 11 marzo 1953, n. 87, nelle parti
 che  stabiliscono condizioni e forme di proponibilita' dei giudizi di
 legittimita' costituzionale, per palese violazione della  riserva  di
 legge  costituzionale  prevista  dal  primo comma dell'art. 137 della
 Costituzione.  La riserva di legge imposta dal primo comma  dell'art.
 137,  viene,  per  quanto  qui interessa, cosi' formulata: "Una legge
 costituzionale stabilisce le  condizioni,  le  forme,  i  termini  di
 proponibilita'   dei  giudizi  di  legittimita'  costituzionale":  la
 materia e', dunque, riservata a legge costituzionale e non ordinaria.
   Ed invero sono state approvate e promulgate le leggi costituzionali
 9 febbraio 1948, n. 1 e 11 marzo 1953, n. 1, delle quali la prima  e'
 pienamente  conforme  al  dettato  costituzionale,  tant'e'  vero che
 all'art. 1 la legge costituzionale n. 1/48 prevede che "La  questione
 di legittimita' costituzionale di una legge o di un atto avente forza
 di legge, rilevata d'ufficio o sollevata da una delle parti nel corso
 del  giudizio e non ritenuta dal giudice manifestamente infondata, e'
 rimessa alla Corte  costituzionale  per  la  sua  decisione",  mentre
 l'art. 1 della legge costituzionale n. 1/53 lascia perplessi, poiche'
 non  si  limita ad affermare che "La Corte costituzionale esercita le
 sue funzioni nelle forme e nei limiti e alle condizioni di  cui  alla
 Carta  costituzionale,  alla legge costituzionale 9 febbraio 1948, n.
 1" ma aggiunge, un richiamo generico e  generale  anche  "alla  legge
 ordinaria  emanata  per  la  prima  attuazione  delle  predette norme
 costituzionali",  con  buona   pace   per   la   riserva   di   legge
 costituzionale  espressamente  disposta  nell'art.  137, terzo comma,
 della Costituzione.  E' palese ed indubbio  (nonostante  l'ambiguita'
 dell'errato  ed  infelice  riferimento  alla  legge  ordinaria appena
 rilevato) che il sistema costituzionale del giudizio di  legittimita'
 delle  norme  di  legge  e  degli  atti  aventi  forza  di legge, pur
 stabilendo il chiaro limite della non manifesta infondatezza (l'esame
 della quale e' di prioritaria, quanto meno, se non  anche  esclusiva,
 competenza    dell'Autorita'    giudiziaria)   delle   questioni   di
 legittimita' costituzionale, quale barriera per l'accesso al giudizio
 dinanzi alla Corte costituzionale,  non  ha  istituito  quegli  altri
 diversi  e piu' stringenti confini che risultano, invece, nella legge
 ordinaria.
   E' allora certo che tutte le disposizioni della legge ordinaria  11
 marzo 1953, n. 87 che regolano "le condizioni, le forme, i termini di
 proponibilita'  dei  giudizi  di legittimita' costituzionale" in modo
 difforme dal sistema costituzionale che si e' sopra individuato  sono
 illegittime  nella  stessa fonte e forma legislativa che le pone (per
 quanto  espressamente  riguardante  la  questione   di   legittimita'
 costituzionale  ora  discussa)  per  palese violazione dell'art. 137,
 primo comma, della  Costituzione.    Cosi'  risulta  illegittimo,  in
 particolare,  l'art.  23  della  legge 11 marzo 1953, n. 87, al quale
 solo  si  vuole  limitare  la  trattazione,  restando,  comunque   ed
 ovviamente,   integro   il   potere   della  Corte,  nell'ipotesi  di
 accoglimento della presente questione, di decidere se sussistano  gli
 estremi per procedere all'applicazione dell'ultima parte dell'art. 27
 della medesima legge.
   L'art.  23  della  legge  11  marzo 1953 n. 87, cosi' dispone: "Nel
 corso di un giudizio dinanzi ad  una  autorita'  giurisdizionale  una
 delle  parti  o  il pubblico ministero possono sollevare questione di
 legittimita' costituzionale mediante apposita istanza, indicando:
     a) le disposizioni della legge o dell'atto avente forza di  legge
 dello   Stato   o   di   una   Regione,   viziate  da  illegittimita'
 costituzionale;
     b)   le   disposizioni   della   Costituzione   o   delle   leggi
 costituzionali che si assumono violate.
   L'autorita'  giurisdizionale,  qualora il giudizio non possa essere
 definito  indipendentemente  dalla  risoluzione  della  questione  di
 legittimita'  costituzionale e non ritenga che la questione sollevata
 sia manifestamente infondata, emette ordinanza con la quale, riferiti
 i termini ed i motivi dell'istanza  con  la  quale  fu  sollevata  la
 questione,  dispone  l'immediata  trasmissione  degli atti alla Corte
 costituzionale e sospende il giudizio in corso.
   La questione di legittimita' costituzionale puo'  essere sollevata,
 di ufficio, dall'autorita' giurisdizionale davanti alla  quale  verte
 il  giudizio  con  ordinanza  contenenti  indicazioni  previste  alle
 lettere a) e b) del primo comma e le disposizioni  di  cui  al  comma
 precedente.
   L'autorita'  giurisdizionale  ordina  che  a cura della cancelleria
 l'ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale  sia
 notificata, quando non ne sia data lettura nel pubblico dibattimento,
 alle parti in causa ed al pubblico ministero quando il suo intervento
 sia obbligatorio, nonche' al presidente del Consiglio dei Ministri od
 al  presidente  della Giunta regionale a seconda che sia in questione
 una legge o un atto avente forza  di  legge  dello  Stato  o  di  una
 Regione.    L'ordinanza  viene  comunicata  dal  cancelliere anche ai
 presidenti delle due  Camere  del  Parlamento  e  al  presidente  del
 Consiglio regionale interessato".  L'art. 23 della legge ordinaria 11
 marzo 1953, n. 87 e' nel suo complesso illegittimo, per la violazione
 del   tutto  evidente  dell'art.    137,  primo  comma,  della  Carta
 Costituzionale, con la  sola  esclusione  delle  seguenti  specifiche
 parti, nelle quali nulla dispone in ordine alle condizioni e forme di
 accesso  al  giudizio  dinanzi  alla  Corte,  o  si limita a ribadire
 immutato  quanto   gia'   previsto   dalla   normativa   di   livello
 costituzionale:
   "Nel  corso di un giudizio dinanzi ad una autorita' giurisdizionale
 una delle parti o il pubblico ministero possono  sollevare  questione
 di legittimita' costituzionale" ...
   "L'autorita'   giurisdizionale,   qualora...  non  ritenga  che  la
 questione sollevata sia manifestamente  infondata,  emette  ordinanza
 con  la  quale,  riferiti  i  termini ed i motivi dell'istanza con la
 quale fu sollevata la  questione,  dispone  l'immediata  trasmissione
 degli   atti   alla  Corte  costituzionale"  sollevata,  di  ufficio,
 dall'autorita' giurisdizionale davanti alla quale verte  il  giudizio
 con  ordinanza"...    In  tutte  le restanti parti l'art. 23 legge n.
 87/53 e' radicalmente viziato da illegittimita' costituzionale e  non
 vi  e'  nulla  da  aggiungere  sulla  questione ora discussa, poiche'
 sorretta dalla pura constatazione di una realta'  evidente;  si  deve
 soltanto  chiarire  che  la  sua  rilevanza  nel presente giudizio e'
 identica a quella individuata  per  la  questione  sub  D),  giacche'
 anch'essa  presupposto  logico  giuridico  dell'ammissibilita'  delle
 prime tre questioni.
   6. - Considerazioni conclusive.
   Questo  giudice  remittente  non  intende   sostenere   che   dalla
 trasmissione  della  presente  ordinanza  derivi un obbligo giuridico
 della Corte costituzionale di procedere alla valutazione di tutte  le
 varie   questioni   rilevate  d'ufficio,  poiche'  e'  intuitivo  che
 l'eventuale decisione di accoglimento o rigetto  di  alcune  di  esse
 rende  superfluo  l'esame  delle  altre,  eppure,  in ultima analisi,
 ritiene di dover mettere l'accento sulla granda importanza e utilita'
 di una pronuncia del  giudice  delle  leggi  su  tutte  le  questioni
 portate  alla  sua  attenzione,  considerato  che, poiche' tutte sono
 riconducibili alla necessita' primaria di  riportare  le  "regole  di
 svolgimento del gioco" (prendendo in prestito una recente espressione
 della  dottrina),  per  tutti  gli organi istituzionali, alla interno
 della vera Costituzione della Repubblica italiana, rigida e  formale,
 tutte  hanno  pari  rilevanza  e  valore e tutte sono tese al fine di
 ricondurre il sistema giuridico del  controllo  di  costituzionalita'
 delle  leggi  e  degli  atti  aventi  forza di legge nell'alveo della
 nostra Carta costituzionale.
   Sistema nel quale, e' opportuno  ricordarlo,  se  e'  vero  che  e'
 demandato  alla  Corte,  costituzionale  il  potere di decidere sulla
 legittimita' delle norme di legge e degli atti aventi forza di legge,
 e' anche vero che il primo controllo di  legittimita'  costituzionale
 e'   attribuito  dalla  legge  all'Autorita'  giudiziaria,  cio'  che
 ampiamente  legittima  i  rilievi  sviluppati  nel  presente  atto  e
 consente  di  affermare  che,  ai  fini della decisione alla quale e'
 chiamata la Corte sulle questioni sub A), B) e C), non puo'  assumere
 rilievo  giuridico  la  constatazione  del  fatto  che  da decenni si
 perpetuino le violazioni della Costituzione qui denunciate e che tale
 realta' sia avallata dal paladini del "diritto vivente",  poiche'  il
 reiterarsi  dell'errore  non  ne  determina  la  liceita', ma solo la
 maggior gravita' e la piu' difficile sanabilita'.
   Non sembra necessaria una motivazione ulteriore sulla fondatezza  e
 sulla  rilevanza delle questioni sopra trattate, stanti gli argomenti
 sviluppati   in   relazione   ai   precisi   riferimenti    normativi
 costituzionali  indicati  sui  singoli temi, di certo sufficienti per
 escludere, quanto meno, la manifesta infondatezza di tutti i  rilievi
 d'incostituzionalita'   ampiamente   discussi,   i  quali,  comunque,
 rivestono grande importanza in relazione  alla  forza  di  resistenza
 della sentenza che questo pretore deve pronunciare.
   Benche'   si   sia   chiaramente  affermato  che  le  questioni  di
 legittimita'   costituzionale   rimesse   all'esame    della    Corte
 costituzionale  non  sono essenziali per la decisione della causa, il
 presente giudizio pretorile deve essere sospeso, ai  sensi  dell'art.
 23  legge  11  marzo  1953 n.   87, tuttora vigente, pur se anch'esso
 oggetto di una delle questioni rilevate  d'ufficio  con  la  presente
 ordinanza.
                                P. Q. M.
   Solleva   d'ufficio   le   seguenti   questioni   di   legittimita'
 costituzionale:
     dell'art. 22, della legge 21 luglio 1965, n. 903, come modificato
 dalla sentenza 29-31 dicembre 1993 n. 495 della Corte costituzionale,
 per violazione dell'art. 136, primo comma, 101 e  104,  primo  comma,
 della Costituzione;
     dell'art.  30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953 n., 87, per
 violazione dell'art. 136, primo comma, della Costituzione;
     dell'art. 22, della legge 21 luglio 1965, n. 903, come modificato
 dalla sentenza 29-31 dicembre 1993 n. 495 della Corte costituzionale,
 per violazione dell'art. 81, ultimo comma, della Costituzione;
     in via preliminare, rispetto alle questioni precedenti, dell'art.
 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, ove prevede  che
 "il  giudizio  non  possa  essere  definito  indipendentemente  dalla
 risoluzione  della  questione  di  legittimita'   costituzionale"   e
 limitatamente  a  tale  parte,  per violazione dell'art. 134, nonche'
 101, 104, primo comma, e 111 della Costituzione;
     sempre in via preliminare e con gli stessi  riferimenti  indicati
 sub  d),  dell'art.  23  della  legge ordinaria 11 marzo 1953, n. 87,
 nelle parti che stabiliscono condizioni e forme di proponibilita' dei
 giudizi di legittimita'  costituzionale,  come  meglio  precisato  in
 motivazione,   per   palese   violazione   della   riserva  di  legge
 costituzionale   prevista   dall'art.   137,   primo   comma,   della
 Costituzione;
    Sospende il giudizio;
    Ordina  la  trasmissione  degli  atti  alla  Corte costituzionale,
 disponendo la notifica al  Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri,
 oltre   alla   comunicazione  ai  Presidenti  delle  due  Camere  del
 Parlamento;
   Manda alla cancelleria per l'esecuzione.
     Brescia, addi' 7 dicembre 1995
                           Il pretore:  Onni
 96C0197