N. 135 ORDINANZA (Atto di promovimento) 29 novembre 1995
N. 135 Ordinanza emessa il 29 novembre 1995 dal pretore di Brescia nel procedimento civile vertente tra Spagnoli Mercede e l'I.N.P.S. Previdenza e assistenza sociale - Pensioni I.N.P.S. - Pensione di riversibilita' - Calcolo, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 495/1993, in proporzione alla pensione diretta integrata al trattamento minimo gia' liquidato o che l'assicurato ha diritto di percepire - Mancato stanziamento con legge dei fondi necessari per l'attuazione della norma impugnata cosi' come modificata dalla gia' citata sentenza - Conseguente necessita' di ripristino della norma nella formulazione antecedente la pronuncia della Corte - Violazione del principio di copertura finanziaria - Indebita attribuzione di efficacia retroattiva alle pronunce di illegittimita' costituzionale. Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale - Nozione di rilevanza della questione nel giudizio a quo - Nesso di necessaria pregiudizialita' della questione stessa per la definizione del giudizio - Compressione del sindacato della Corte costituzionale. Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale - Condizioni e forme di proponibilita' - Previsione con legge ordinaria - Violazione del principio della riserva di legge costituzionale. (Legge 21 luglio 1965, n. 903, art. 22; legge 11 marzo 1953, n. 87, artt. 30, terzo comma, e 23). (Cost., artt. 81, ultimo comma, 101, 104, primo comma, 111, 134, 136 e 137, primo comma).(GU n.9 del 28-2-1996 )
IL PRETORE Visti: gli atti difensivi delle parti; l'art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903; la sentenza 29-31 dicembre 1993, n. 495 della Corte costituzionale; l'art. 23 e l'art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87; l'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1; l'art. 1 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1; gli artt. 70, 71, 72, 73, 81, 101, 102, 104, 111, 134, 136 e 137 della Costituzione; Ha pronunciato, dandone integrale lettura, la seguente ordinanza ai sensi dell'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, di rimessione alla Corte costituzionale di questioni di legittimita' costituzionale, rilevate d'ufficio, nella causa r.g. n. 4369/95, in materia di previdenza ed assistenza obbligatoria, promossa da Spagnoli Mercede, elettivamente domiciliata in Brescia presso l'avv. Gian Maria Maffezzoni, il quale la rappresenta e difende in forza di procura a margine dell'atto introduttivo del giudizio, ricorso, ricorrente, contro l'I.N.P.S. - Istituto nazionale della previdenza sociale, in personale del presidente pro-tempore, rappresentato e difeso dai dott. procc. Oreste Manzi e Alfonso Faienza, procuratori per mandati alle liti a rogito del dott. Lupo, notaio in Roma, con domicilio eletto nel proprio ufficio di avvocatura in Brescia, via Cefalonia n. 49, convenuto. 1. - Brevi premesse sulle deduzioni e conclusioni formulate dalle parti in causa. Nelle conclusioni la parte ricorrente chiede a questo pretore, di dichiarare il diritto di parte ricorrente alla fruizione della prestazione pensionistica spettante ai superstiti in ragione del 60% della pensione diretta integrata al minimo gia' in godimento e che sarebbe, comunque, spettata al coniuge deceduto e, per l'effetto, di condannare l'INPS al pagamento della somma risultante dai conteggi predisposti dall'INPS, dalla richiesta CTU, oltre rivalutazione monetaria e interessi come per legge. L'INPS, ha espresso le seguenti, riportate testualmente, graduate conclusioni: respingere il ricorso "in via preliminare, per carenza dei requisiti fattuali di cui alle premesse di fatto necessari. Nel merito: respingere il ricorso siccome inammissibile per scadenza del termine di decadenza per agire in giudizio previsto dalle vigenti disposizioni. In via subordinata: respingere la domanda per carenza di interesse in quanto il ricorrente gode di pensione di reversibilita' per importo integrato al minimo o superiore. Respingere la domanda di riliquidazione della pensione di reversibilita' rapportata al trattamento minimo del dante causa in quanto riferita a periodi anteriori alla pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale in materia". L'istituto resistente ha, inoltre, pur senza addurre argomenti di supporto, senza assumere conclusioni specifiche e senza sollevare formale eccezione di legittimita' costituzionale, sostenuto che l'interpretazione dell'art. 22 legge n. 903/65 nei termini addittivi voluti dalla sentenza n. 495/93 sarebbe, comunque, in contrasto con l'art. 81 della Costituzione. 2. - Considerazioni introduttive generali sulle singole questioni di incostituzionalita'. A) Questo pretore, con giudisprudenza ormai costante, nega l'efficacia vincolante per l'Autorita' giudiziaria delle sentenze della Corte costituzionale di natura interpretativa, addittiva, manipolativa (di tutte le decisioni, cioe', che possono essere definite "legislative", essendo tali di fatto), perche' ritenute non conformi all'art. 136 della Costituzione. A tale proposito non sembra fuori luogo ammettere il disagio provato sin dall'inizio nel pronunciare sentenze fortemente in contrasto con varie decisioni del giudice delle leggi, ma soprattutto appare importante riconoscere che tale disagio si e' andato sempre piu' aggravando, man mano che, nell'evoluzione della propria giurisprudenza critica, questo pretore si e' reso conto della vera portata e gravita' del problema costituito dalle sentenze interpretative, addittive, manipolative, su tutto il sistema normativo, poiche' il fenomeno dell'intervento "legislativo" della Corte costituzionale e' diffuso e di enorme dimensione e determina l'esistenza di una vera e propria legislazione parallela della Corte. Le cause storiche sono molteplici, ma possono individuarsi quelle piu' evidenti: il sempre piu' marcato allontanamento dalla lettera dell'art. 136, primo comma, della Costituzione, dopo una prima fase di corretta applicazione della stessa norma; la "fuga dalla responsabilita'" del legislatore, sovente spettatore passivo della progressiva sottrazione della funzione attribuitagli dalla Costituzione e, quanto meno, inefficiente nell'esercitare il potere specifico attribuitogli dal secondo comma dell'art. 136; la diffusione della dottrina e nella giurisprudenza di merito e di legittimita' prevalenti di una concezione evoluzionistica del diritto, con base di pura natura giusnaturalistica, non rispettosa dei dati testuali e della rigidita' della legge fondamentale della Repubblica. Non e' fuor di luogo affermare che, sia al fine di sanare, per il passato, quella situazione sopra descritta di doppia normativa e sia al fine di precluderne il ripetersi in futuro, le varie autorita' dello Stato coinvolte hanno, nell'ambito delle proprie attribuzioni, possibilita' d'intervento, ma non puo' tacersi che solo il legislatore puo' - e ben potrebbe subito dopo aver avuto conoscenza della presente ordinanza (a seguito della notifica al Presidente del Consiglio dei Ministri e della comunicazione ai Presidenti delle due Camere del Parlamento) e, quindi, ancor prima dell'incardinarsi del giudizio dinanzi alla Corte costituzionale - risolvere, con l'emanazione delle norme di legge ritenute piu' idonee, in modo definitivo, organico e generale il problema qui messo in risalto. Tali considerazioni di portata generale non sono fini a se' stesse, ma riguardano direttamente i temi della presente ordinanza, poiche' questo giudice remittente, benche' convinto della fondatezza giuridica degli argomenti che gli hanno imposto di negare l'efficacia delle decisioni "legislative" della Corte costituzionale, non puo' trascurare la ben diversa realta' del "diritto vivente" che applica tali decisioni come se fossero norme di legge, affermandone l'obbligatorieta'. Ne' poteva evitarsi di mettere in piena luce la rilevanza di carattere generale sul diritto positivo vigente delle questioni che il giudice delle leggi e' chiamato a risolvere, poiche' (deve essere affermato con la massima chiarezza) una pronuncia di accoglimento di una o piu' delle questioni, tra quelle qui sollevate, attinenti le problematiche sopra evidenziate non potrebbe limitare i suoi effetti alle sole norme direttamente e specificamente colpite dalla dichiarazione d'illegittimita' costituzionale, ma comporterebbe la caducazione di quell'intero sistema di "diritto vivente" - del quale si e' detto, parallelo al diritto scritto e codificato - che nella realta' applicativa giurisprudenziale domina da piu' decenni. In verita' (anche a non voler tener conto di quanto sin qui esposto), tutta la vasta problematica legata al non facile e doloroso rifiuto dell'efficacia delle sentenze "legislative" della Corte non e' di poco conto e non e' superabile agevolmente - contrariamente a quanto si e' affermato in dottrina - con la semplicistica affermazione dell'assoluta prevalenza delle decisioni della Corte costituzionale su quelle pretorili, poiche' non puo' dubitarsi del fatto che il giudice deve, sempre e solo, applicare la legge e non e' questione da poco identificare la legge vigente nell'attuale paradosso normativo, gia' ampiamente descritto: e' ben lecito, anzi e' assolutamente doveroso, per il giudice, nel dubbio sul testo delle disposizioni da applicare (se quello promulgato dal legislatore, o quello revisionato dalla Corte), ricercare la soluzione piu' vicina ai principi fondamentali sanciti nella nostra Costituzione per regolare e tutelare la funzione dell'amministrazione della giustizia, con necessaria scelta in favore della legge, anche a costo di negare l'efficacia delle sentenze del giudice delle leggi. Tutto cio' che si e' sinora rappresentato in via generale vale anche in relazione alla sentenza n. 29-31 dicembre 1993, n. 495 della Corte costituzionale che ha modificato l'art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903, determinando l'esistenza di una norma "virtuale" divenuta "diritto vivente", della quale questo pretore, benche' non ravvisi, allo stato, alcuna ragione di natura giuridica per mutare la propria giurisprudenza contraria (gia' ricordata), deve tenere conto, poiche' nella realta' applicativa la predetta versione dell'art. 22 della legge n. 903/65 ha prevalso su quella approvata dal Parlamento. Poiche' deve darsi atto della realta' suddetta e poiche' appare vulnerato l'art. 136, primo comma, della Costituzione, non resta altro che sollevare questione di legittimita' costituzionale a carico della norma "virtuale" sopra individuata. B) In forza delle stesse argomentazioni che precedono, risulta anche rilevante l'accertamento della legittimita' costituzionale dell'art. 30, terzo comma, della legge n. 87 del 1953, in relazione all'art. 136, primo comma, della Costituzione, poiche' e' in particolare con riferimento al testo del predetto art. 30 che viene affermata l'efficacia ex tunc delle sentenze dichiarative d'incostituzionalita', in aperta e piena violazione del dettato costituzionale. E', invero, piu' che evidente che, qualora venisse dichiarata l'incostituzionalita' dell'art. 30, terzo comma, della legge n. 87/53, la tesi dell'efficacia ex tunc delle decisioni d'incostituzionalita', sostenuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza dominanti, perderebbe l'unico (per quanto labile ed insignificante e gia' disatteso da questo pretore) argomento testuale, cosi' rendendo chiaro a tutti, anche ai piu' fervidi fautori della "costituzione materiale", che le norme della Costituzione formale sono le uniche vigenti e devono essere rispettate. Nella presente causa la dichiarazione d'incostituzionalita' dell'art. 30 renderebbe indiscutibile la sentenza di rigetto del ricorso, per assenza di norma regolatrice del diritto, risultando applicabile il testo originario dell'art. 22 della legge n. 903/65, poiche' la sua inefficacia, prendendo decorrenza dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza n. 495/93, non avrebbe alcun effetto sulla situazione giuridica dedotta nella presente controversia, precedente la pubblicazione della decisione della Corte costituzionale: constatazione questa che chiarisce in modo inequivoco la rilevanza (anche se non esclusiva) nel giudizio della medesima questione. C) Sempre avendo presenti le considerazioni generali sviluppate al punto A), e', altresi', necessario, nella presente fattispecie, per l'autorevolezza della fonte, l'esame della sentenza n. 495/1993, al fine di verificare se al contenuto della decisione stessa si possa, comunque (pur confermando tutte le valutazioni critiche espresse contro le sentenze "legislative"), aderire per via di interpretazione estensiva di altre norme di legge ovvero per analogia. L'eventuale adesione dovrebbe comportare il mutamento della precedente giurisprudenza di questo pretore, il quale ha sinora negato la fondatezza della domanda (alcuni ricorsi aventi lo stesso oggetto di quello oggi in esame sono stati, infatti, ultimamente respinti), con conseguente potenziale pronuncia di accoglimento, qualora venissero escluse altre immanenti ragioni di rigetto. Tuttavia, osta a tale eventualita' e comunque ne costituisce insuperabile ed assoluto impedimento giuridico un rilievo di incostituzionalita' di particolare carattere, in parte coincidente con quello affermato dall'INPS nella memoria difensiva, al quale gia' si e' fatto cenno: dubita, infatti, questo giudice della legittimita' costituzionale dell'art. 22 della legge n. 903 del 1965, come "manipolato" nella sentenza n. 495/93, in relazione all'art. 81, ultimo comma, della Costituzione e tale dubbio, sviluppato in questione di legittimita' costituzionale rilevata d'ufficio, deve essere risolto dal necessario intervento della Corte costituzionale. D) Poiche' la controversia puo' essere risolta sotto molteplici profili, ciascuno dei quali da solo sufficiente per motivare (l'obbligatorieta' della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali e' sancita nell'art. 111 della Costituzione, tra i principi fondamentali delle norme sulla giurisdizione) la pronuncia, con consequenziale possibilita' per questo pretore di scegliere, se fondare la propria decisione su uno o piu' argomenti, senza vincoli o limitazioni (si tratta, infatti, di scelta insindacabile, perche', nell'obbedienza al dettato dell'art. 111 citato, indiscutibile manifestazione di autonomia e di libera determinazione dell'Autorita' giudiziaria, secondo la previsione degli artt. 101 e 104, primo comma, della Costituzione), il Giudice delle leggi non dovrebbe esaminare nel merito le suddette questioni, negandone l'ammissibilita', perche' non rilevanti, potendo certamente il giudizio "essere definito indipendentemente dalla risoluzione" delle qui sollevate questioni di legittimita' costituzionale, come chiaramente recita l'art. 23, secondo comma, della legge n. 87 del 1953. Deve, pertanto, essere sollevata d'ufficio l'ulteriore questione di legittimita' costituzionale, a carico della specifica disposizione, come sopra riportata nella sua testualita', del citato art. 23, comma 2, della legge n. 87/53, per violazione dell'art. 134, nonche' degli artt. 101, 104, primo comma, e 111 della Costituzione. Questione che la Corte dovra' esaminare in via preventiva al fine di passare, in caso di suo accoglimento, all'esame delle questioni precedentemente individuate. E) Per le stesse ragioni, appena sopra esposte, con le stesse finalita' e con il medesimo carattere preliminare, deve altresi' essere sollevata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 23 della legge ordinaria 11 marzo 1953, n. 87, nelle parti che stabiliscono condizioni e forme di proponibilita' dei giudizi di legittimita' costituzionale, per palese violazione della riserva di legge costituzionale prevista dall'art. 137, primo comma, della Costituzione. 3. - Elenco e definizione delle questioni di legittimita' costituzionale. A) Questione di legittimita' costituzionale dell'art. 22, legge 21 luglio 1965, n. 903, come modificato dalla sentenza 29-31 dicembre 1993, n. 495 della Corte costituzionale, per violazione dell'art 136, primo comma, nonche' degli artt. 101 e 104, primo comma, della Costituzione. B) Questione di legittimita' costituzionale dell'art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953 n. 87, per violazione dell'art. 136, primo comma, della Costituzione. C) Questione di legittimita' costituzionale dell'art. 22, legge 21 luglio 1965, n. 903, come modificato dalla sentenza n. 495/93 della Corte costituzionale, per violazione dell'art. 81, ultimo comma, della Costituzione. D) In via preliminare rispetto alla precedente, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 2, della legge 11 marzo 1953 n. 87, ove prevede che "il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale" e limitatamente a tale parte, per violazione dell'art. 134, nonche' 101, 104, primo comma, e 111 della Costituzione. E) Sempre in via preliminare e con gli stessi riferimenti indicati in quella sub D), questione di legittimita' costituzionale dell'art. 23 della legge ordinaria 11 marzo 1953, n. 87, nelle parti che stabiliscono condizioni e forme di proponibilita' dei giudizi di legittimita' costituzionale, per palese violazione della riserva di legge costituzionale prevista dall'art. 137, primo comma, della Costituzione. 4. - Motivazione delle singole questioni. A) In relazione alla questione di legittimita' costituzionale dell'art. 22, legge 21 luglio 1965, n. 903, come modificato dalla sentenza 29-31 dicembre 1993 n. 495/93 della Corte costituzionale, per vilolazione dell'art. 136, primo comma, nonche' degli artt. 101 e 104, primo comma, della Costituzione. La Corte ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale del citato art. 22 della legge n. 903/65, "nella parte in cui non prevede che la pensione di riversibilita' sia calcolata in proporzione alla pensione diretta integrata al trattamento minimo gia' liquidata al pensionato o che l'assicurato avrebbe comunque diritto di percepire". Si ritiene nella dottrina e nella giurisprudenza prevalenti che tale decisione della Corte costituzionale (come le altre del genere che e' stato gia' in precedenza qualificato "legislativo" per ricomprendere in un'unica definizione tutte le sentenze del giudice delle leggi di natura interpretativa, addittiva, manipolativa, cioe' di tutte quelle che non si limitano a sancire semplicemente l'illegittimita' delle norme che violano la Costituzione) abbia valore correttivo dell'incostituzionalita' della norma ed efficacia erga omnes. cosi' da dover essere applicata (per di piu' ex tunc, ma di cio' si trattera' piu' avanti) dall'autorita' giudiziaria. Questo giudice (abbandonata ormai la propria giurisprudenza che aderiva all'erronea tesi dominante appena sopra sintetizzata) e' di contrario avviso e deve affermare senza esitazione che l'art. 22 della legge 21 luglio 1965 n. 903 e' rimasto in vigore nella sua integrale formulazione letterale, quale norma di legge dello Stato, regolarmente approvata (art. 72 della Costituzione) dal Parlamento, regolarmente promulgata dal Presidente della Repubblica e regolarmente pubblicata (art. 73 della Costituzione), poiche' la sentenza "legislativa" n. 495/93 della Corte costituzionale non e' idonea a determinare la cessazione dell'efficacia della norma dichiarata illegittima in una parte non scritta (nella parte in cui non prevede ...), posto che l'evento dell'inefficacia si realizza solo quando la dichiarazione di illegittimita' costituzionale colpisce la letteralita' dell'intera norma o di una sua parte (scritta: deve essere ribadito). In altri termini: le sentenze "legislative" non possono (ma si veda anche la diversa ipotesi di soluzione giuridica della questione, piu' avanti prospettata) determinare gli effetti previsti dall'art. 136, primo comma, della Costituzione, ne' hanno efficacia modificativo del diritto positivo, poiche' non e' attribuito alla Corte costituzionale il potere legislativo, ne' una funzione di interpretazione autentica della legge. E', infatti, al solo legislatore che la nostra Costituzione attribuisce il potere, in via generale (art. 70 e seguenti, nonche' art. 117 per cio' che concerne le Regioni) e in via specifica (art. 136, secondo comma), di creare la norma di legge, giuridicamente vincolante. In tema si propone un'ultima nota d'interesse: in una recente (rimasta pero' isolata); sentenza (la n. 218 del 29 maggio-1 giugno 1995) la Corte costituzionale ha ritenuto di dover motivare la decisione, qualificata come addittiva, affermando che "La reductio ad legitimitatem e' possibile con una pronuncia addittiva, perche' desumibile ..." (e' irrilevante il seguito): anche senza voler attribuire un significato "freudiano" alla rarita' dell'espressa motivazione sull'intervento addittivo, appare, tuttavia, lecito, se non altro ad colorandum, portare all'attenzione del giudice delle leggi il precedente, giacche' puo' ritenersi che costituisca un sintomo di iniziale ripensamento sulla liceita' del genere di sentenze qui criticate. Tanto rilevato e rappresentato con riferimento al primo comma dell'art. 136, si deve passare alla discussione inerente l'altro aspetto d'incostituzionalita' dell'art. 22 della legge n. 903/65, come modificato dall'intervento del giudice delle leggi, per violazione degli artt. 101 e 104, primo comma, della Costituzione. L'interpretazione della legge e' attivita' intellettuale non riservata: ogni operatore del diritto ed ogni singolo cittadino e' ovviamente libero di interpretare la normativa, per tutti i fini possibili, senza limiti. Ma quando l'interpretazione e' correlata all'applicazione della legge in sede giudirisdizionale, quando cioe' e' legata alla funzione specifica dell'amministrazione della giustizia in nome del popolo e nella soggezione alla sola legge (101 della Costituzione), allora l'attivita' d'interpretazione e' riservata ed esclusiva perche' demandata al giudice (102 della Costituzione per quello ordinario), autonomo ed indipendente da ogni altro potere (104, primo comma, della Costituzione). Ne discende che, qualora una norma di legge trovi nella giurisprudenza di merito e, soprattutto, di legittimita', diverse soluzioni interpretative, non puo' essere ritenuto lecito un intervento di sostanziale natura interpretativa autentica della Corte costituzionale, che (come nel caso di specie) determini una modifica del contenuto della norma, pur non incidendo sul suo tenore letterale, cosi' da imporre una specifica scelta, fondata su una delle possibili interpretazioni del dettato normativo, poiche' in tal modo viene concretamente violato il principio della divisione dei poteri, con la compressione di quello giudiziario. Cio' non significa che il giudice delle leggi non possa interpretare la legge (negano sarebbe pura assurdita'), ma significa solo che non e' consentito a nessun potere (inteso in senso lato) dello Stato e, pertanto, neppure alla Corte costituzionale di superare i confini delle proprie attribuzioni. E la Corte soprattutto deve esercitare la sua elevatissima funzione, posta al vertice delle garanzia costituzionali, nel piu' assoluto rispetto delle attribuzioni degli altri poteri (il termine viene usato sempre nel significato piu' ampio e non strettamente tecnico), poiche' ogni sua decisione che comporti il superamento della sfera delle specifiche competenze, rischia di scardinare il delicato equilibrio istituzionale voluto dalla legge fondamentale della Repubblica, senza neppure la possibilita' di un rimedio giuridico, poiche' "contro le decisioni della Corte costituzionale non e' ammessa alcuna impugnazione" (art. 137, ultimo comma, della Costituzione) e poiche' deve escludersi l'ammissibilita' dell'istituto del giudizio "sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato"; (art. 134, secondo comma, della Costituzione), se non altro, perche' la Corte costituzionale ne sarebbe nel contempo parte e giudice. Se questa questione, in uno o piu' dei rilievi di legittimita' costituzionare prospettati, venisse accolta dal giudice delle leggi, la dichiarazione d'illegittimita' costituzionale della versione normativa dell'art. 22 legge n. 903/65, come risultante dalla sentenza n. 495/93, dovrebbe comportare la perdita di efficacia della stessa versione ed il ripristino (deve presumersi) della versione originale della norma, quella approvata dal legislatore del 1965, con ovvia rilevanza nel presente giudizio pretorile. Per il vero, pero', la Corte costituzionale potrebbe dare una diversa soluzione giuridica in ordine agli effetti delle proprie decisioni "legislative", affermando in modo esplicito che queste non sono idonee a modificare, integrare e correggere le norme dichiarate incostituzionali, bensi' puramente e semplicemente determinano la radicale perdita di efficacia delle medesime norme, poiche', lo si puo' ben sostenere con piena logica giuridica e razionalita', l'accertata ed affermata illegittimita' della norma "nella parte in cui ..." si ripercuote sull'intera norma, giacche' questa nel suo complesso ed in tutte le sue parti "prevede" o "non prevede" cio' che la Corte rispettivamente afferma essere costituzionalemente illegittimo o legittimo. Le conseguenze di tale soluzione radicale potrebbero essere assai mepo dirompenti di quelle causate dalla prima scelta indicata sopra, se non altro, perche' eviterebbero al sistema giuridico una paralizzante crisi interpretativa, dipendente dalla difficolta' di stabilire, se la norma dichiarata incostituzionale dalla Corte con intervento "legislativo" possa ritenersi ripristinata in tutta la sua primigenia portata, ovvero se debba considerarsi implicitamente travolta in toto dalla dichiarazione d'illegittimita' costituzionale della lettura volutane dalla Corte, ovvero ancora se sia necessario (ipotesi questa, pero', da escludere recisamente) attendere un intervento del legislatore diretto a confermare, o abrogare, o modificare la norma. B) In relazione alla questione di legittimita' costituzionale dell'art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953 n. 87, per violazione dell'art. 136, primo comma, della Costituzione. L'art. 136, primo comma, della Costituzione cosi dispone testualmente: "Quando la Corte dichiara l'illegittimita' costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione". L'art. 30, terzo comma, della legge n. 87 del 1953, prevede: "Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione". Sono possibili due soluzioni interpretative dell'art. 30 in esame: una fedele al dettato costituzionale, l'altra non rispettosa della lettera e del contenuto dell'art. 136 della Costituzione: la prima attribuisce un puro significato esplicativo all'art. 30, evidenziando l'ovvia conseguenza della perdita di efficacia della norma dichiarata incostituzionale, cioe' la sua inapplicabilita' per regolamentare le situazioni giuridiche sorte successivamente alla pubblicazione della decisione della Corte; la seconda tenta di modificare la costituzione formale pe farla soggiacere alla volonta' dei fautori della "costituzione materiale", sostenendo che il divieto di applicazione delle norme incostituzionali, derivante dalla originaria incostituzionalita' delle norme stesse, determina necessariamente l'efficacia ex tunc delle sentenze della Corte. A contrastare la tesi che sostiene l'efficacia ex tunc delle sentenze della Corte costituzionale si ergono insuperabili, non solo la lettera del primo comma dell'art. 136 della Costituzione, ma anche il secondo comma dello stesso articolo. Per chiarire esaustivamente quanto appena sopra affermato e' sufficiente riportare quanto gia' sostenuto da questo pretore in varie decisioni (tra le altre, nella sentenza n. 1534/95 emessa in data 3 luglio 1995, nella causa Zeni Angela contro INPS): "Il primo comma dell'art. 136 della Costituzione cosi' testualmente afferma" - omissis: la norma e' sopra riprodotta - : e' evidente, per il significato inequivocabile della disposizione, che corrispondentemente viene negata qualsiasi efficacia ex tunc alla dichiarazione d'incostituzionalita' e che la norma dichiarata incostituzionale e' perfettamente efficace (e, per quanto cio' possa apparire paradossale, anche legittima) sino al giorno, compreso, della pubblicazione della decisione della Corte costituzionale - omissis - "L'esattezza della tesi qui sostenuta trova conferma di forte valore giuridico nell'assenza di una previsione (difficile da ipotizzare, peraltro) di legge che limiti, imponendo alla Consulta il rispetto dell'art. 81 della Costituzione, gli effetti talvolta dirompenti (da molti denunciati e da tutti indistintamente riconosciuti) sul bilancio dello Stato della valenza ex tunc attribuita contra legem alle sentenze della Corte costituzionale sulle norme dichiarate incostituzionali: e', ancor piu' che evidente, lapalissiano che l'unica esatta interpretazione dell'art. 136, primo comma, della Costituzione, nel senso imposto dalla sua univoca formulazione letterale e qui sostenuto, rende superflua ed insussistente l'esigenza di ridurre o regolamentare l'impatto sulla finanza pubblica delle sentenze del giudice delle leggi, poiche', non essendo lecito attribuire efficacia ex tunc alle dichiarazioni d'illegittimita' costituzionale, nessun danno puo' derivarne, cio' che spiega razionalmente perche' il legislatore, costituzionale e ordinario, non abbia previsto e ritenuto di dover creare qualche strumento giuridico per imporre alla Corte il rispetto dell'art. 81 della Costituzione. In altri termini: nessuna necessita' di limitare gli effetti economici delle sentenze della Corte costituzionale sussiste, poiche' esse non sono idonee, secondo la previsione del primo comma dell'art. 136, a determinare situazioni di danno". Il rigore logico e la piena razionalita' dell'art. 136, primo comma, trova ulteriore conferma nel secondo comma: "La decisione della Corte e' pubblicata e comunicata alle Camere e ai Consigli regionali interessati, affinche', ove lo ritengano necessario provvedano nelle forme costituzionali: e' quasi superfluo far notare che questa disposizione e' diretta ad imporre (non si dimentichi mai che il potere attribuito alle istituzioni della Repubblica e' potere-dovere e non arbitrio) al legislatore di provvedere alla soluzione dei problemi causati dalle dichiarazioni d'incostituzionalita', problemi derivanti, per il futuro, dal possibile vuoto normativo e, per il passato, dalla necessita' od opportunita' di riparare (secondo la discrezionalita' politica del legislatore e, dunque, anche e soprattutto nei limiti delle compatibilita' di bilancio); i danni eventuali determinati dalle norme incostituzionali. Cio' che conferma l'esattezza dell'affermazione, secondo la quale l'esigenza e l'obbligo di rispettare l'art. 81 della Costituzione e', come solo puo' e deve essere, a carico del legislatore". Per tentare di superare il ragionamento sopra riprodotto, si dovrebbe spiegare, perche' il legislatore costituzionale avrebbe previsto, nel secondo comma dell'art. 136, la comunicazione alle Camere della decisione della Corte "affinche', ove lo ritengano necessario provvedano nelle forme costituzionali", se non avesse voluto chiarire con forza che solo al legislatore e' attribuito il potere di provvedere, nelle forme costituzionali, alla produzione legislativa eventualmente necessaria per risolvere le conseguenze dell'inefficacia delle norme dichiarate incostituzionali, posto che altre norme della Costituzione (artt. 70 e seguenti) gia' regolano l'attivita' legislativa e non si puo' certo ridurre l'art. 136, secondo comma, a norma puramente ripetitiva senza valore alcuno. A tali, gia' sufficienti, argomenti non sembra superfluo aggiungere brevemente alcuni elementi di fatto storici, con lo scopo dichiarato di rendere difficilmente praticabili possibili obiezioni fondate su discorsi inerenti la volonta' del legislatore e la ratio legis, cari ai giusnaturalisti, anche a fronte di norme esemplari per la loro assoluta limpidezza di lettera e di contenuto, come l'art. 136 della Costituzione. Nelle fasi iniziali dell'iter per l'introduzione della Corte costituzi onale nel nostro ordinamento, la sottocomissione per i problemi costituzionali della "Commissione per gli studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato", istituita dal Ministero per la costituente, negli studi e proposte pubblicati nel 1946, tra l'altro, aveva espressamente ipotizzato l'annullamento ex tunc delle leggi, quale conseguenza della dichiarazione d'incostituzionalita' Tale soluzione in sede di Assemblea costituente venne chiaramente abbandonata dalla Commissione dei 75, alla quale era stata affidata la redazione del progetto costituzionale: nel progetto presentato il 31 gennaio 1947, infatti, nell'art. 128, al terzo comma, era previsto che "Se la Corte, nell'uno o nell'altro caso, dichiara la incostituzionalita' della norma, questa cessa di avere efficacia. La decisione della Corte e' comunicata al Parlamento, perche', ove lo ritenga necessario, provveda nelle forme istituzionali". Da quell'art. 128 e' derivato l'attuale art. 136, nel quale pero' e' stato opportunamente previsto anche il momento iniziale (fissato nel giorno successivo alla pubblicazione) della perdita di efficacia delle norme dichiarate incostituzionali. Nessun commento e' necessario. Se tutto cio' che precede e' vero, l'art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 deve essere dichiarato incostituzionale, in quanto consente un'interpretazione totalmente difforme dal dettato costituzionale, divenuta "diritto vivente", cosi' da rendere estremamente difficoltosa, se pur non impossibile, l'affermazione della lettura legittima della disposizione. Certamente e' nel potere della Corte costituzionale negare la fondatezza della questione di legittimita' costituzionale teste' esposta, eventualmente anche in forza del principio, esattamente affermato, che impone nello scontro tra due o piu' interpretazioni possibili l'affermazione della prevalenza di quella conforme a Costituzione, ma, a sommesso avviso di questo giudice remittente, una siffatta soluzione non potrebbe avere valore definitivo, poiche' lascerebbe sempre spazio aperto all'interpretazione non costituzionalmente corretta. Ne' e' poi il caso di porsi scrupoli particolari, nel caso di specie, sugli effetti della dichiarazione d'illegittimita' costituzionale: la conseguente perdita di efficacia del terzo comma dell'art. 30 legge n. 87/53 non causerebbe un grave vuoto normativo, poiche' tali disposizione (come gia' notato) nulla aggiunge al disposto del primo comma dell'art. 136 della Costituzione, limitandosi a esplicitare l'ovvia conseguenza della perdita di efficacia delle norme dichiarate incostituzionali "dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione" e cioe' la loro inapplicabilita' a decorrere dallo stesso giorno. C) In relazione alla questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 22, legge 21 luglio 1965, n. 903, come modificato dalla citata sentenza 29-31 dicembre 1993 n. 495/1993 della Corte costituzionale, per violazione dell'art. 81, ultimo comma, della Costituzione. La Corte, con la sentenza n. 495 del 1993 (si ripete, per comodita' di esposizione) ha dichiarato l'incostituzionalita', per contrasto con i principi di ragionevolezza e di eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 22 della legge n. 903/1965 "nella parte in cui non prevede che la pensione di reversibilita' sia calcolata in proporzione alla pensione diretta integrata al trattamento minimo gia' liquidata al pensionato o che l'assicurato avrebbe avuto il diritto di percepire". La norma in discorso, come modificata per effetto del suddetto intervento della Consulta, determina per l'INPS una forte esposizione debitoria, priva di finanziamento (e' fatto notorio); la causa di tutto cio' deve rinvenirsi nell'opinione (erronea) secondo la quale le sentenze di natura addittiva della Corte costituzionale avrebbero efficacia vincolante erga omnes ed ex tunc, opinione tuttora prevalente in dottrina e nella giurisprudenza di merito e di legittimita'. Nessun atto legislativo e' sinora intervenuto per reperire la copertura finanziaria necessaria al fine di consentire all'INPS di provvedere previa riliquidazione delle pensioni di riversibilita' secondo il dettato della sentenza n. 495/93, al pagamento delle somme arretrate, con gli accessori di legge, derivanti da detta riliquidazione. E' piu' che evidente che il legislatore, a tutt'oggi (anche se deve darsi atto che gli organi d'informazione hanno di recente riportato notizie su una discussione in corso nel Parlamento, mirante alla ricerca di una soluzione per finanziare il fabbisogno di spesa previdenziale non previsto in bilancio e legato anche alle conseguenze economiche della sentenza n. 495 del 1993), non ha ritenuto di dover dare attuazione alla sentenza in discorso, nonostante la vigenza dell'art. 2, settimo comma, della legge 11 marzo 1988, n. 67, che cosi' dispone: "Qualora nel corso di attuazione di leggi si verifichino scostamenti rispetto alle previsioni di spesa o di entrate, il Governo ne da' notizia tempestivamente al Parlamento con relazione del Ministro del tesoro e assume le conseguenti iniziative. La stessa procedura e' applicata in caso di sentenze definitive di organi giurisdizionali e della Corte costituzionale recanti interpretazioni della normativa vigente suscettibili di determinare maggiori oneri". Potra' pure essere affermata la responsabilita' politica dei Governi che si sono succeduti dalla data di pubblicazione della sentenza n. 495/93 ad oggi, ma nessun risultato giuridico puo' conseguirne, restando certo il fatto che nessun intervento e' stato posto in essere per la copertura finanziaria dei maggiori oneri, ne' totalmente, ne', parzialmente. Peraltro, in relazione a quanto si e' accennato in ordine alle notizie giornalistiche sulla ricerca di una soluzione normativa in corso di discussione in Parlamento, non appare lecito attendere che il legislatore eserciti sino in fondo i suoi poteri, prima di procedere alla trasmissione della presente questione di legittimita' costituzionale: deve, infatti, rilevarsi con estrema chiarezza che una futura, possibile e sempre auspicabile soluzione legislativa al problema della copertura finanziaria degli effetti economici della sentenza n. 495/93, avra' (se in linea con i principi costituzionali) naturalmente efficacia anche sulla presente questione di legittimita' costituzionale, facendole perdere ogni attualita', rilevanza e fondatezza. Deve anche essere con forza notato che autorita' giudiziaria non puo', in nessun caso, correlare i provvedimenti previsti dalla legge per amministrare giustizia ad indebite ed illecite valutazioni di opinabile opportunita' politica. Dal riscontrato attuale dato di fatto storico dell'assenza di copertura finanziaria, a parere di questo pretore, non puo' che discendere obbligatoriamente l'affermazione dell'illegittimita' costituzionale dell'art. 22 legge n. 903/1965, come modificato dal giudice delle leggi, per violazione dell'ultimo comma dell'art. 81 della Costituzione, a nulla rilevando sapere se tale violazione dipenda da semplice inerzia, o assenza di volonta' del legislatore, ovvero (e' l'ipotesi piu' veritiera) dalla realta' di una situazione critica delle finanze dello Stato, tale da aver reso, sino ad oggi, impossibile il reperimento delle risorse finanziare necessarie, senza determinare un ulteriore aggravamento nel desolante bilancio della nostra Repubblica. Unica conseguenza e soluzione possibile sembra essere quella di una pronuncia dichiarativa dell'illegittimita' costituzionale del detto art. 22 della legge n. 903 del 1965 nella nuova formulazione creata dalla sent. n. 495/93, con conseguente cessazione dell'efficacia della medesima norma ai sensi dell'art. 136, primo comma, della Costituzione e ripristino della situazione normativa preesistente l'intervento del giudice delle leggi. Poiche' ai fini del decidere e' importante, anche se non essenziale (che, come si e' gia' detto, la controversia puo' ben essere decisa "indipendentemente" sotto vari altri profili), avere certezza in ordine alla vigenza o meno dell'art. 22 della legge n. 903/1965, come determinata (nell'opinione prevalente, qui contrastata) dalla sentenza n. 495/93, e poiche' tale certezza puo' derivare, con valore assoluto (che le tesi di questo giudice sono davvero minoritarie e marginali), solo (salvo ovviamente un sempre possibile intervento legislativo) da una decisione della Corte costituzionale, risulta necessario investire il giudice delle leggi della questione di costituzionalita' come sopra precisata, essendone, peraltro, piu' che palese per le argomentazioni che precedono, senza altro superfluo commento, la rilevanza nel presente giudizio, poiche' l'eventuale dichiarazione d'illegittimita' costituzionale per violazione dell'art. 81 sarebbe, senza possibilita' di contrasto neppure negli eventuali gradi successivi del giudizio, motivo di rigetto del ricorso, anche se, in ipotesi estrema, solo concorrente, o anche solo subordinato, ovvero, infine, puramente virtuale. D) In relazione alla questione di legittimita' costituzionale dell'art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, ove prevede che "il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale" e limitatamente a tale parte, per violazione dell'art. 134, nonche' degli artt. 101, 104, primo comma, e 111 della Costituzione. L'art. 134, per quanto qui interessa, dispone testualmente: "La Corte costituzionale giudica: sulle controversie relative alla legittimita' costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle regioni". L'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, emessa in attuazione dell'art. 137, primo comma, della Costituzione, recita: "La questione di legittimita' costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge della Repubblica, rilevata d'ufficio o sollevata da una delle parti nel corso di un giudizio e ritenuta dal giudice non manifestamente infondata, e' rimessa alla Corte costituzionale per la sua decisione". A fronte di tali norme costituzionali, l'art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, invece, cosi' dispone: "L'autorita' giurisdizionale, qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale e non ritenga che la questione sollevata sia manifestamente infondata, emette ordinanza con la quale, riferiti i termini ed i motivi dell'istanza con la quale fu sollevata la questione, dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso". Il ben diverso contenuto sostanziale del secondo comma dell'art. 23, contrastante con le disposizioni dell'art. 134 della Costituzione e dell'art. 1 della legge costituzionale n. 1/1948, risalta evidente: la previsione della necessita' che "il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale" al fine di introdurre il giudizio di costituzionalita' dinanzi al giudice delle leggi non trova minimo riscontro a livello di normativa costituzionale. Non solo: appare anche chiaro, tanto da risultare quasi superfluo parlarne, che quella previsione dell'art. 23, ben individuata sopra, riduce enormemente la possibilita' di attivare il controllo della Corte sulla legittimita' costituzionale "delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato", poiche' impone che la rilevanza della questione di costituzionalita' sia tale da comportare da sola la definizione del giudizio, rendendo in tal modo irrilevanti e, percio', inammissibili tutte le questioni di legittimita' costituzionale l'oggetto delle quali sia solo concorrente nella decisione della causa. Viene cosi' patentemente incatenato il controllo della costituzionalita' delle leggi e degli atti normativi di pari forza e contestualmente mortificata la garanzia costituzionale di tale controllo. In forza delle considerazioni che precedono, appare consequenziale riconoscere che, nel sistema vigente della legislazione ordinaria in relazione alle norme della legge fondamentale della Repubblica in tema di garanzie costituzionali, sussistono troppi vincoli alla piena attuazione dei principi costituzionali e cio' con particolare riferimento alla possibilita' di accesso al giudizio di legittimita' costituzionale, tanto da rendere possibile la permanenza nel diritto positivo di numerose norme contrarie alla Costituzione, senza che queste possano trovare controllo e verifica di legittimita', posto che la struttura procedimentale che consente di giungere dinanzi al giudice delle leggi e' eccessivamente limitativa. Non e' certo nella competenza di questo giudice, ne' del giudice delle leggi, la ricerca delle soluzioni normative necessarie per la realizzazione della Costituzione, ma la constatazione della difficolta' di accesso al giudizio dinanzi alla Corte costituzionale doveva qui essere chiaramente manifestata, non soltanto perche' direttamente attinente la questione di legittimita' costituzionale ora prospettata, ma anche perche' non puo' negarsi che numerose norme della legge n. 87/1953, e non il solo secondo comma dell'art. 23 nella parte specifica sopra individuata, violano l'art. 134 della Costituzione, riducendo a minimi livelli la possibilita' del controllo di conformita' delle leggi e degli atti aventi forza di legge, mentre il sistema costituzionale nasce con un impianto assai vasto, che appare, comunque, illecitamente compresso e mortificato dalla legge ordinaria, e non solo nella sostanza, ma anche nella forma normativa utilizzata, come risultera' piu' che evidente nello sviluppo della successiva questione sub E). Prima di passare oltre, pero', deve essere chiarito ancora in quali termini si ritengono violati gli artt. 101 e 104 della Costituzione dall'art. 23 della legge n. 87/1953, nella parte in cui dispone che, per potersi procedere alla trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, "il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale". La disposizione contestata e' illegittima, poiche' determina una riduzione e compressione dell'autonomia ed indipendenza del giudice, impedendogli di valutare tutte le possibili soluzioni giuridiche per la decisione dei processi, causando grave danno all'amministrazione della giustizia, poiche' (essendo precluso alle questioni non essenziali l'accesso al giudizio di costituzionalita') sottrae alla motivazione (art. 111 della Costituzione) delle sentenze ragioni ulteriori di potenziale accoglimento o rigetto della domanda (per quanto concernente in particolare le controversie nella materia demandata alla competenza di questo pretore), idonee a rendere piu' "resistente" la motivazione e non e' superfluo qui ricordare che il bene giuridico della certezza del diritto si fonda anche sulla forza di resistenza delle pronunce giurisdizionali nei successivi gradi di giudizio. E) In relazione alla questione di legittimita' costituzionale dell'art. 23 della legge ordinaria 11 marzo 1953, n. 87, nelle parti che stabiliscono condizioni e forme di proponibilita' dei giudizi di legittimita' costituzionale, per palese violazione della riserva di legge costituzionale prevista dal primo comma dell'art. 137 della Costituzione. La riserva di legge imposta dal primo comma dell'art. 137, viene, per quanto qui interessa, cosi' formulata: "Una legge costituzionale stabilisce le condizioni, le forme, i termini di proponibilita' dei giudizi di legittimita' costituzionale": la materia e', dunque, riservata a legge costituzionale e non ordinaria. Ed invero sono state approvate e promulgate le leggi costituzionali 9 febbraio 1948, n. 1 e 11 marzo 1953, n. 1, delle quali la prima e' pienamente conforme al dettato costituzionale, tant'e' vero che all'art. 1 la legge costituzionale n. 1/1948 prevede che "La questione di legittimita' costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge, rilevata d'ufficio o sollevata da una delle parti nel corso del giudizio e non ritenuta dal giudice manifestamente infondata, e' rimessa alla Corte costituzionale per la sua decisione", mentre l'art. 1 della legge costituzionale n. 1/1953 lascia perplessi, poiche' non si limita ad affermare che "La Corte costituzionale esercita le sue funzioni nelle forme e nei limiti e alle condizioni di cui alla Carta costituzionale, alla legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1" ma aggiunge un richiamo generico e generale anche "alla legge ordinaria emanata per la prima attuazione delle predette norme costituzionali", con buona pace per la riserva di legge costituzionale espressamente disposta nell'art. 137, terzo comma, della Costituzione. E' palese ed indubbio (nonostante l'ambiguita' dell'errato ed infelice riferimento alla legge ordinaria appena rilevato) che il sistema costituzionale del giudizio di legittimita' delle norme di legge e degli atti aventi forza di legge, pur stabilendo il chiaro limite della non manifesta infondatezza (l'esame della quale e' di prioritaria, quanto meno, se non anche esclusiva, competenza dell'autorita' giudiziaria) delle questioni di legittimita' costituzionale, quale barriera per l'accesso al giudizio dinanzi alla Corte costituzionale, non ha istituito quegli altri diversi e piu' stringenti confini che risultano, invece, nella legge ordinaria. E' allora certo che tutte le disposizioni della legge ordinaria 11 marzo 1953, n. 87, che regolano "le condizioni, le forme, i termini di proponibilita' dei giudizi di legittimita' costituzionale" in modo difforme dal sistema costituzionale che si e' sopra individuato sono illegittime nella stessa fonte e forma legislativa che le pone (per quanto espressamente riguardante la questione di legittimita' costituzionale ora discussa) per palese violazione dell'art. 137, primo comma, della Costituzione. Cosi' risulta illegittimo, in particolare, l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, al quale solo si vuole limitare la trattazione, restando, comunque ed ovviamente, integro il potere della Corte, nell'ipotesi di accoglimento della presente questione, di decidere se sussistano gli estremi per procedere all'applicazione dell'ultima parte dell'art. 27 della medesima legge. L'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, cosi' dispone: "Nel corso di un giudizio dinanzi ad una autorita' giurisdizionale una delle parti o il pubblico ministero possono sollevare questione di legittimita' costituzionale mediante apposita istanza, indicando: a) le disposizioni della legge o dell'atto avente forza di legge dello Stato o di una regione, viziate da illegittimita' costituzionale; b) le disposizioni della Costituzione o delle leggi costituzionali che si assumono violate. L'autorita' giurisdizionale, qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale e non ritenga che la questione sollevata sia manifestamente infondata, emette ordinanza con la quale, riferiti i termini ed i motivi dell'istanza con la quale fu sollevata la questione, dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso. La questione di legittimita' costituzionale puo' essere sollevata, di ufficio, dall'autorita' giurisdizionale davanti alla quale verte il giudizio con ordinanza contenente le indicazioni previste alle lettere a) e b) del primo comma e le disposizioni di cui al comma precedente. L'autorita' giurisdizionale ordina che a cura della cancelleria l'ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale sia notificata, quando non ne sia data lettura nel pubblico dibattimento, alle parti in causa ed al pubblico ministero quando il suo intervento sia obbligatorio, nonche' al Presidente del Consiglio dei Ministri od al Presidente della giunta regionale a seconda che sia in questione una legge o un atto avente forza di legge dello Stato o di una regione. L'ordinanza viene comunicata dal cancelliere anche ai Presidenti delle due Camere del Parlamento e al Presidente del Consiglio regionale interessato". L'art. 23 della legge ordinaria 11 marzo 1953, n. 87, e' nel suo complesso illegittimo, per la violazione del tutto evidente dell'art. 137, primo comma, della Carta costituzionale, con la sola esclusione delle seguenti specifiche parti, nelle quali nulla dispone in ordine alle condizioni e forme di accesso al giudizio dinanzi alla Corte, o si limita a ribadire immutato quanto gia' previsto dalla normativa di livello costituzionale: "Nel corso di un giudizio dinanzi ad una autorita' giurisdizionale una delle parti o il pubblico ministero possono sollevare questione di legittimita' costituzionale" ... L'autorita' giurisdizionale, qualora... non ritenga che la questione sollevata sia manifestamente infondata, emette ordinanza con la quale, riferiti i termini ed i motivi dell'istanza con la quale fu sollevata la questione, dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale sollevata, di ufficio, dall'autorita' giurisdizionale davanti alla quale verte il giudizio con ordinanza"... In tutte le restanti parti l'art. 23 della legge n. 87/1953 e' radicalmente viziato da illegittimita' costituzionale e non vi e' nulla da aggiungere sulla questione ora discussa, poiche' sorretta dalla pura constatazione di una realta' evidente; si deve soltanto chiarire che la sua rilevanza nel presente giudizio e' identica a quella individuata per la questione sub D), giacche' anch'essa presupposto logico giuridico dell'ammissibilita' delle prime tre questioni. 5. - Considerazioni conclusive. Questo giudice remittente non intende sostenere che dalla trasmissione della presente ordinanza derivi un obbligo giuridico della Corte costituzionale di procedere alla valutazione di tutte le varie questioni rilevate d'ufficio, poiche' e' intuitivo che l'eventuale decisione di accoglimento o rigetto di alcune di esse rende superfluo l'esame delle altre, eppure, in ultima analisi, ritiene di dover mettere l'accento sulla granda importanza e utilita' di una pronuncia del giudice delle leggi su tutte le questioni portate alla sua attenzione, considerato che, poiche' tutte sono riconducibili alla necessita' primaria di riportare le "regole di svolgimento del gioco" (prendendo in prestito una recente espressione della dottrina), per tutti gli organi istituzionali, all'interno della vera Costituzione della Repubblica italiana, rigida e formale, tutte hanno pari rilevanza e valore e tutte sono tese al fine di ricondurre il sistema giuridico del controllo di costituzionalita' delle leggi e degli atti aventi forza di legge nell'alveo della nostra Carta costituzionale. Sistema nel quale, e' opportuno ricordarlo, se e' vero che e' demandat o alla Corte costituzionale il potere di decidere sulla legittimita' delle norme di legge e degli atti aventi forza di legge, e' anche vero che il primo controllo di legittimita' costituzionale e' attribuita dalla legge all'autorita' giudiziaria, cio' che ampiamente legittima i rilievi sviluppati nel presente atto. Non sembra necessaria una motivazione ulteriore sulla fondatezza e sulla rilevanza delle questioni sopra trattate, stanti gli argomenti sviluppati in relazione ai precisi riferimenti normativi costituzionali indicati sui singoli temi, di certo sufficienti per escludere, quanto meno, la manifesta infondatezza di tutti i rilievi d'incostituzionalita' ampiamente discussi, i quali, comunque, rivestono grande importanza in relazione alla forza di resistenza della sentenza che questo pretore deve pronunciare. Benche' si sia chiaramente affermato che le questioni di legittimita' costituzionale rimesse all'esame della Corte costituzionale non sono essenziali per la decisione della causa, il presente giudizio pretorile deve essere sospeso, ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, tuttora vigente, pur se anch'esso oggetto di una delle questioni rilevate d'ufficio con la presente ordinanza.
P. Q. M. Solleva d'ufficio le seguenti questioni di legittimita' costituzionale: dell'art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903, come modificato dalla sentenza 29-31 dicembre 1993, n. 495, della Corte costituzionale, per violazione dell'art. 136, primo comma, 101 e 104, primo comma della Costituzione; dell'art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, per violazione dell'art. 136, primo comma, della Costituzione; dell'art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903, come modificato dalla sentenza 29-31 dicembre 1993, n. 495, della Corte costituzionale, per violazione dell'art. 81, ultimo comma, della Costituzione; in via preliminare, rispetto alle questioni precedenti, dell'art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, ove prevede che "il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale" e limitatamente a tale parte, per violazione dell'art. 134, nonche' 101, 104, primo comma, e 111 della Costituzione; sempre in via preliminare e con gli stessi riferimenti indicati sub d), dell'art. 23 della legge ordinaria 11 marzo 1953, n. 87, nelle parti che stabiliscono condizioni e forme di proponibilita' dei giudizi di legittimita' costi-tuzionale, come meglio precisato in motivazione, per palese violazione della riserva di legge costituzionale prevista dall'art. 137, primo comma, della Costituzione; Sospende il giudizio; Ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, disponendo la notifica al Presidente del Consiglio dei Ministri, oltre alla comunicazione ai Presidenti delle due Camere del Parlamento; Manda alla cancelleria per l'esecuzione. Brescia, addi' 7 dicembre 1995 Il pretore: Onni 96C0198