N. 286 ORDINANZA (Atto di promovimento) 5 luglio 1995- 13 marzo 1996
N. 286 Ordinanza emessa il 5 luglio 1995 (pervenuta alla Corte costituzionale il 13 marzo 1996) dal tribunale amministrativo regionale del Lazio sul ricorso proposto da Fidei Giacomo ed altri contro il Presidente del Consiglio dei ministri Impiego pubblico - Delega al Governo per il riordino del settore - Previsione, tra i principi e criteri direttivi, della riconduzione dei rapporti di lavoro e di impiego di dipendenti delle amministrazioni statali alla disciplina del diritto civile, ad eccezione dei magistrati ordinari ed amministrativi, degli avvocati e procuratori dello Stato, del personale militare e delle forze di polizia, della carriera diplomatica e prefettizia e dei dirigenti generali ed equiparati - Irragionevole ed arbitraria differenziazione tra la categoria dei dirigenti generali e quella degli altri dirigenti ad essi sottordinati in contrasto con l'unicita' dell'istituto della dirigenza e alla uguale responsabilita' per la gestione e i relativi risultati - Disparita' di trattamento di situazioni omogenee - Incidenza sui principi di imparzialita' e buon andamento della p.a. (Legge 23 ottobre 1992, n. 421, art. 2, primo comma, lett. b); d.P.R. 3 febbraio 1993, n. 29, artt. 2, secondo e quarto comma, 12, secondo e quarto comma, 16, 17 e 20, primo comma). (Cost., artt. 3 e 97).(GU n.14 del 3-4-1996 )
IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso n. 6660/1993 proposto da: Giacomo Fidei, Vito Festina, Sebastiano Panebianco, Vito Brex, Luisa Caprio Preden, Francesco Mazzacca, Romolo Di Giovanni, Anna Maria Salernitano, Antonio Forte, Dino Antonio Salvatore, Maria Rosario Cocca, Maria Vittoria Baldieri, Ferdinando Lazzaro, Antonina Di Maria, Rina Lariza, Cesare Caiazza, Maria Grazia La Rosa, Serafino Caliendo, Tullio Occulti, Anna Evelina Ciarrapico, Lucio Letizia, Giorgio Temperilli, Egle Abruzini, Giancarlo Cerreto, Elda Cavallaro, Rosanna Garrammone, Iole Valente, Filomena Migliore, Anna Accardo, Angelo Petica, Giuliano Lausdei, Giuseppina Rubagotti, Angelo Iacomini, Pasquale Cocco, Roberto Fedele, Angela Russo, Antonio Corvasce, Gianfranco Minisola, Michele Paradisi, Domenico Taraschi, Paolo Pedicini tutti rappresentati e difesi dagli avv.ti Federico Sorrentino e Massimo Luciani e presso lo studio del primo in Roma, lungotevere delle Navi, 30, elettivamente domiciliati; contro la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente pro-tempore rappresentata a difesa dell'Avvocatura generale dello Stato: per l'annullamento della circolare 4 marzo 1993 n. 6/1993 della Presidenza del Consiglio dei Ministri, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 9 marzo 1993 n. 56, recante "Decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29: ''Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego a norma dell'art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421''. Compiti e responsabilita' della dirigenza. Indirizzi per la fase di prima applicazione"; Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'Avvocatura generale dello Stato; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti gli atti tutti della causa; Udita alla pubblica udienza del 5 luglio 1995 la relazione del consigliere Goffredo Zaccardi e uditi, altresi', l'avv. Luciani per i ricorrenti e l'avv. dello Stato Braguglia per l'amministrazione resistente. Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue: Fatto Espone in fatto la difesa dei ricorrenti che sono tutti primi dirigenti e dirigenti superiori dell'amministrazione centrale e periferica della pubblica istruzione. Essi come molti altri pubblici dipendenti, hanno assistito alla recente vicenda della privatizzazione del pubblico impiego che ha visto approvare prima la delega legislativa di cui alla legge 23 ottobre 1992 n. 421 e poi, il decreto legislativo delegato n. 29 del 3 febbraio 1993, per realizzare in tempi brevissimi e con un'ampiezza senza precedenti una straordinaria riforma della materia. Riforma nella quale il Governo non solo ha trascurato del tutto i rilievi di parte della dirigenza statale, la quale si e' vista smembrata in due tronconi, assoggettati l'uno alla disciplina pubblicistica e l'altro a quella privatistica, ma ha financo disattesto un buona sostanza i rilievi che, in termini di legittimita' costituzionale e di buona ed efficiente amministrazione aveva mossi l'Adunanza generale del Consiglio di Stato nel parere del 31 agosto 1992 n. 146 allo schema del disegno di legge poi presentato al Parlamento. I ricorrenti si ritengono soprattutto lesi dalla sostanziale degradazione del loro status giuridico - che l'attuazione della nuova disciplina introdotta dalla legge n. 421/1992 e dal d.P.R. n. 29/1993 inevitabilmente determinera' - da un lato per effetto della loro sottoposizione ad un regime totalmente privatistico (quanto alle fonti che ne disciplinano il rapporto d'impiego e alla devoluzione delle relative controversie alla giurisdizione ordinaria) e, dall'altro, in conseguenza del consistente aumento dei loro compiti e responsabilita' dirigenziali non correlato alla conservazione, come nel caso dei dirigenti generali, di un posizione professionale ed istituzionale di vera autonomia. La circolare oggetto della presente impugnazione costituisce una prima attuazione delle nuove disposizioni legislative ed una prima precisazione delle responsabilita' dei dirigenti. In quanto tale essa non solo vincola immediatamente i ricorrenti, primi dirigenti e dirigenti superiori, ma esprime, attraverso la definizione delle loro responsabilita', la filosofia complessiva della riforma del pubblico impiego ed in particolare del ruolo subalterno riservato ai dirigenti. Essi quindi ne chedono l'annullamento per il seguente motivo, articolato in piu' specifiche censure: Illegittimita' derivata per l'incostituzionalita' del d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29 per le parti e nei limiti che saranno di seguito indicati. La difesa dello Stato si e' costituita eccependo la inammissibilita' del ricorso in quanto la circolare impugnata non ha carattere normativo e non e', quindi, immediatamente lesiva ed ha confutato nel merito la fondatezza del ricorso chiedendone la reiezione. Diritto 1. - Appare utile precisare, preliminarmente, che la circolare impugnata pur contenendo una prima interpretazione delle norme sulla dirigenza di cui al decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29 reca, altresi', alcune specifiche disposizioni circa la immediata applicabilita' degli articoli del d.lgs. n. 29/1993 concernenti le funzioni dirigenziali che appaiono idonee ad innovare, con immediatezza, e per forza direttamente riconducibile alle disposizioni della circolare medesima, lo stato giuridico dei dirigenti dello Stato. In particolare sono, in questo contesto, da tenere presenti le indicazioni circa la necessita' per i dirigenti generali quale "compito prioritario" di procedere "alla articolazione delle rispettive strutture in centri di responsabilita' correlati alla definizione di progetti, affidandone la realizzazione ai dirigenti con assegnazione delle risorse e definizione dei limiti di spesa in funzione della migliore gestione". Su tale base la circolare precisa, inoltre, che i "dirigenti preposti agli uffici di livello sottordinato continuano ad esercitare le competenze sinora attribuite entro i limiti di spesa che i dirigenti generali" riterranno di assegnare in relazione alle funzioni ed obiettivi fissati per gli uffici sottordinati. Se si tiene conto che nel nuovo regime di cui al d.lgs. n. 29/1993 momento essenziale per la valutazione delle responsabilita' dirigenziali (a tenore dell'art. 20) e' quello della verifica del risultato conseguito dagli uffici cui il dirigente e' preposto in relazione ai "progetti" ed obiettivi la cui gestione sia affidata al dirigente medesimo (cfr. art. 14, primo comma, lett. b; art. 16, primo comma, lett. b) ne consegue che l'affermazione, inequivoca nella circolare di cui trattasi, della immediata applicazione delle norme in esame pur "in mancanza di direttive e di definizione dei programmi" di competenza degli "organi di governo" costituisce una statuizione ben precisa che se non assume valore normativo - per la natura dell'atto in cui e' contenuta - tuttavia e' in grado di condizionare quanto alla organizzazione ed all'esercizio delle funzioni, l'attivita' di tutta la dirigenza statale, cio' in relazione alla funzione specifica di indirizzo che il Presidente del Consiglio dei Ministri spetta a tenore della legge 23 agosto 1988 n. 400. Non puo', pertanto, essere condivisa l'impostazione della difesa dell'amministrazione in ordine alla inammissibilita' del riscorso per difetto di interesse dei ricorrenti all'annullamento di una circolare non lesiva. E' quindi rilevante, chiarita la incisione da parte della circolare impugnata dello stato giuridico dei dirigenti statali, la questione di legittimita' costituzionale delle norme del d.lgs. n. 29/1993 sollevata con l'atto introduttivo del presente giudizio: il collegio non potrebbe pronunciare sulla legittimita' della circolare altro che tenendo conto delle disposizioni di cui si sospetta, da parte ricorrente, la non conformita' a Costituzione. E' utile ricordare che questo giudice deve procedere solo ad una delibazione limitata a rilevare la non manifesta infondatezza delle questioni poste nell'atto introduttivo del giudizio. Ad avviso del collegio, nel caso di specie sussiste la non manifesta infondatezza delle censure di illegittimita' costituzionale avanzate dai ricorrenti che vengono qui sostanzialmente riprodotte con alcune precisazioni. A) La legge n. 421 del 1992 ha conferito delega al Governo per il riordino del settore del pubblico impiego (art. 2). Tra i principi e criteri direttivi dettati, vi e' quello che vuole che "i rapporti di lavoro e di impiego dei dipendenti delle amministrazioni dello Stato... siano ricondotti alla disciplina del diritto civile" (art. 2, primo comma, lett. b). Ad esso si affianca pero' - in delega - quello secondo cui la disciplina vigente del rapporto d'impiego deve essere mantenuta "per quanto attiene ai magistrati ordinari e amministrativi, agli avvocati e procuratori dello Stato, al personale militare e delle forze di polizia, ai dirigenti generali ed equiparati, al pesonale delle carriere diplomatica e prefettizia". In attuazione di tali principi, il legislatore delegato ha disposto l'estensione della normativa privatistica a tutti i pubblici impiegati, salve le eccezioni ora riferite a cui sono state aggiunte alcune altre (art. 2, secondo e quarto comma, d.P.R. n. 29 del 1993). Viene cosi' operata, quanto alla disciplina del rapporto di lavoro/servizio, una radicale differenziazione, all'interno della stessa categoria della dirigenza, fra i dirigenti generali e dirigenti delle qualifiche sottordinate. L'art. 97 della Costitituzione mentre riserva alla legge l'organizzazione dei pubblici uffici, stabilisce che essa debba essere volta ad assicurare il buon andamento e l'imparzialita' dell'amministrazione attraverso la definizione delle sfere di competenza, delle attribuzioni e delle responsabilita' proprie dei funzionari. L'imparzialita' ed il buon andamento dell'amministrazione a fronte della politicita' degli organi di Governo, che ne sono al vertice, sono sorretti da una distinzione tra i compiti dei funzionari da quelli degli amministratori, che demanda ai primi l'attuazione imparziale delle direttive dei secondi, creando a favore dei funzionari una sfera di attribuzioni di cui essi siano personalmente responsabili e che possano in tutta autonomia esercitare senza subire l'interferenza dei secondi e senza cioe' subordinare il principio d'imparzialita' alle esigenze contingenti degli indirizzi politici di una maggioranza espressione degli organi di governo. Per realizzare questo programma la Costituzione ha previsto, appunto, la riserva di legge, in modo tale che la legge che definisce le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilita' dei funzionari possa costituire il punto di difesa dell'autonomia del singolo funzionario ed insieme la garanzia dell'imparzialita' di un'amministrazione, che vede pure sempre nel Ministro - organo politico - il suo vertice organizzativo. Rispetto a questo quadro e' dubbio che una indiscriminata privatizzazione del rapporto di pubblico impiego si concili con i principi costituzionali suddetti. In particolare va sottolineata la profonda contraddizione tra il permanere, nella sfera di competenza di dipendenti e funzionari amministrativi, di numerosi poteri di tipo pubblicistico e l'assoggettamento del loro rapporto d'impiego ad una disciplina privatistica. Soprattutto per quanto riguarda la posizione dei dirigenti, diversa dai dirigenti generali mantenuti nell'area del pubblico impiego, va rilevato il contrasto tra l'ampliamento dei loro poteri di rilevanza esterna e la loro collocazione nell'area privatistica, con la conseguente soggezione alla contrattazione collettiva di diritto comune ed alla giurisdizione ordinaria. Potrebbe essere in particolare, pregiudicata la indipendenza di giudizio dei dirigenti, presupposto indispensabile per l'esercizio imparziale dei propri doveri istituzionali, da un regime di recesso dal rapporto di lavoro incentrato nell'area contrattualistica privata sul venir meno del rapporto di fiducia nei confronti del dirigente posto che, in detta area, il dirigente e' colui che si "sostituisce" al datore di lavoro in alcune scelte decisionali. Inoltre il regime di verifica dei risultati dell'attivita' svolta affidato a nuclei di valutazione, anche esterni all'amministrazione e, quindi, potenzialmente privi anch'essi della necessaria autonomia di giudizio ed indipendenza nell'esercizio della propria funzione contribuisce ad indebolire, oggettivamente, la posizione del dirigente. Da altra angolazione induce piu' che, un dubbio sulla compatibilita' della scelta effettuata dal legislatore con il dettato costituzionale la considerazione che il novero di attribuzioni, ampie e significative, assegnate ai dirigenti statali dell'art. 17, volto ad una puntuale soddisfazione degli interessi pubblici sottesi all'esercizio di dette attribuzioni possa essere condizionato da una diversa scelta - quella relativa al mantenimento del rapporto di lavoro con il dirigente di natura essenzialmente fiduciaria - non correlata esclusivamente all'imparziale ed efficiente svolgimento delle attribuzioni stesse e non limitata da un forte stabilita' del rapporto di impiego. Potrebbero discenderne condizionamenti incisivi dell'efficienza ed imparzialita' dell'azione amministrativa. B) Altro profilo di manifesta infondatezza e' quello relativo alla violazione dell'art. 3 della Costituzione. Tanto la legge n. 421 del 1992, quanto il d.P.R. n. 29 del 1993 operano una discriminazione fra dirigenti generali e dirigenti non generali. Soltanto per i primi, infatti, viene mantenuto un rapporto di servizio di tipo pubblicistico, mentre per i secondi si provvede alla sua privatizzazione (che non a caso viene ora definito "rapporto di lavoro": art. 2 lett. a) ed e) legge n. 421 del 1992; 12, secondo e quarto comma, d.P.R. n. 29 del 1993). Senonche', la differenziazione operata fra le due categorie di dipendenti puo' apparire irragionevole ed arbitraria. Lo stesso legislatore muove infatti dalla premessa della unitarieta' della dirigenza. Essa e' chiarmante implicata dalla normativa in contestazione. Cosi' viene previsto un albo dei dirigenti unico per entrambe le categorie, che presuppone evidentemente l'attribuzione ad esse delle medesime caratteristiche strutturali e funzionali (art. 23 d.P.R. n. 29 del 1993). Cosi', tutti i dirigenti sono "responsabili della gestione e dei relativi risultati" (art. 3, secondo comma, d.P.R. n. 29 del 1993). La "dirigenza", in quanto istituto espressamente riconosciuto come unitario dallo stesso legislatore delegato, "si articola" nella qualifica di "dirigente" e in quella di "dirigente generale" (art. 15 secondo comma, d.P.R. n. 29 del 1993); il che evidentemente sta a significare che unica e' la carriera ed unitarie sono le funzioni svolte dagli appartenti alle due mere "articolazioni" della dirigenza. Come recita l'art. 20, primo comma, del d.P.R. n. 29 del 1993, "i dirigenti generali ed i dirigenti sono responsabili del risultato dell'attivita' svolta dagli uffici ai quali sono preposti...", e tutti sono tenuti alla presentazione di una relazione annuale sull'attivita' compiuta. Fra dirigenti generali e dirigenti vi e' - sia pure in casi particolari - addirittura una perfetta interscambiabilita' di funzioni (come accade per gli enti pubblici non economici e per le amministrazioni non statali, che non conoscono la figura del dirigente generale: art. 27, secondo comma, d.P.R. n. 29 del 1993). Di fronte a tale unitarieta' della carriera, la diversita' di compiti affidati ai dirigenti generali ed ai dirigenti dagli artt. 16 e 17 del d.P.R. n. 29 del 1993 si giustifica con la necessaria articolazione della carriera in due livelli di cui uno soltanto apicale, ma non sembra possa giustificare una cosi' radicale differenziazione di stato giuridico. Le due categorie dei dirigenti generali e dei dirigenti non sono cosi' differenziate da non ammettere alcun sindacato sul trattamento loro praticato alla luce del principio costituzionale di eguaglianza, l'illegittimita' della normativa de qua potrebbe apparire alla stregua della piu' recente giurisprudenza della Corte costituzionale (v. da ultimo la sent. 27 aprile 1993 n. 196), che ha affermato che, anche nei casi in cui non e' possibile valutare il trattamento praticato a due categorie di soggetti alla luce del principio di eguaglianza, per la rilevata disomogeneita' tra le due categorie, quel trattamento va comunque sindacato alla stregua del principio di ragionevolezza. Se il legislatore ha ritenuto necessario mantenere per i dirigenti generali le garanzie piu' salde che sono implicate dal rapporto di servizio pubblicistico, a maggior ragione sarebbe stato necessario mantenerle per i dirigenti non generali. Nel caso di questi ultimi quelle garanzie sono infatti ancora piu' necessarie, in quanto le possibilita' di condizionamento su di essi da parte del potere politico sono ancora maggiori. Eliminare alcune garanzie, dunque, sembra incidere proprio sul principio di separazione fra amministrazione e politica che e' fissato dalla Costituzione ed esplicitamente menzionato dalla stessa circolare impugnata. Ulteriore profilo di possibile contrasto col principio di eguaglianza va ravvistato in rapporto all'art. 2, quarto comma del decreto legislativo n. 29 (ed in parte nella corrispondente disposizione della legge n. 421: art. 2 lett. a) che esclude dalla privatizzazione, oltre ai dirigenti generali, tutto il personale delle carriere diplomatica e prefettizia e i dipendenti che svolgono la loro attivita' nelle materie contemplate dall'art. 1 del d.lgt. C.P. St. 17 luglio 1947 n. 691 (tutela del credito e risparmio) e dalle leggi 4 giugno 1985 n. 281 (vigilanza sulla societa' e sulla borsa) e 10 ottobre 1990 n. 287 (tutela della concorrenza e del mercato). Emerge da un lato la violazione dell'art. 76 della Costituzione per l'inserimento di queste ultime tre categorie nel novero delle eccezioni alla privatizzazione, mentre non si riesce invero a comprendere perche' intere categorie di personale, solo in quanto appartenenti a deteminate carriere, debbano sfuggire alla privatizzazione stessa. Invero: o la ragione della mancata privatizzazione e' nel riconoscimento dell'esercizio di funzioni pubbliche riconducibili allo Stato e connotate di un alto grado di imparzialita' ed allora non si vede perche' i dirigenti non siano stati mantenuti in questo contesto altrimenti essa potrebbe risolversi in un irragionevole privilegio, come tale contrastante con l'art. 3 della Costituzione. C) Violazione dell'art. 97 della Costituzione: a) Tale articolo fissa i principi del buon andamento e dell'imparzialita' della pubblica amministrazione. Ebbene, sono proprio tali principi (ed in particolare quello di imparzialita') che potrebbero implicare una piena separazione fra la politica ed amministrazione. Una separazione, questa, che il legislatore e' tenuto ad assicurare anche con la previsione di adeguate garanzie per i pubblici dipendenti nei confronti del potere politico. Ora, non e' dubbio che fra queste garanzie il mantenimento del rapporto pubblicistico di servizio, almeno per i soggetti che esercitano funzioni dirigenziali di rilievo esterno e come tali riconoscibili immediatamente allo Stato, assume un rilievo di straordinaria importanza. La stessa Corte, con la sentenza n. 68 del 1980, ha del resto espressamente affermato che, "anche se si intendesse privatizzare i rapporti di lavoro con lo Stato non collegati all'esercizio di potesta' pubbliche, dovrebbero pure sempre essere conservati come rapporti di diritto pubblico quelli dei dipendenti, cui tale esercizio e' o potrebbe essere affidato". La contestata normativa sembra travalicare ampiamente, dunque, i limiti cosi' fissati dal giudice costituzionale.
P. Q. M. Visti gli artt. 134 della Costituzione e 23 della legge costituzionale 11 marzo 1953 n. 1 cosi' statuisce: a) dichiara rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimita' costituzionale degli articoli: 2, primo comma, lett. b della legge del 23 ottobre 1992 n. 421; 2, secondo e quarto comma, del d.P.R. 3 febbraio 1993 n. 29; 12, secondo e quarto comma, del d.P.R. 3 febbraio 1993 n. 29 - 16 e 17 d.P.R. n. 29/1993; 20, primo comma, del d.P.R. 3 febbraio 1993 n. 29 per violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione. Dispone il rinvio degli atti del giudizio, sospeso con separata sentenza, alla Corte costituzionale a cura della segreteria della sezione che provvedera', altresi', alla notifica della presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei Ministri ed ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica; Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorita' amministrativa. Cosi' deciso addi' 5 luglio 1995. Il presidente: Schinaia Il consigliere estensore: Zaccardi 96C0415