N. 286 ORDINANZA (Atto di promovimento) 5 luglio 1995- 13 marzo 1996

                                N. 286
   Ordinanza   emessa   il   5   luglio  1995  (pervenuta  alla  Corte
 costituzionale  il  13  marzo  1996)  dal  tribunale   amministrativo
 regionale  del  Lazio  sul ricorso proposto da Fidei Giacomo ed altri
 contro il Presidente del Consiglio dei ministri
 Impiego pubblico - Delega al Governo per il riordino  del  settore  -
 Previsione,  tra  i  principi e criteri direttivi, della riconduzione
 dei  rapporti  di  lavoro  e   di   impiego   di   dipendenti   delle
 amministrazioni  statali  alla  disciplina  del  diritto  civile,  ad
 eccezione dei magistrati ordinari ed amministrativi, degli avvocati e
 procuratori dello Stato, del personale  militare  e  delle  forze  di
 polizia,  della  carriera  diplomatica  e prefettizia e dei dirigenti
 generali ed equiparati - Irragionevole ed arbitraria differenziazione
 tra  la  categoria  dei  dirigenti  generali  e  quella  degli  altri
 dirigenti   ad   essi   sottordinati   in  contrasto  con  l'unicita'
 dell'istituto della dirigenza e alla uguale  responsabilita'  per  la
 gestione  e  i  relativi  risultati  -  Disparita'  di trattamento di
 situazioni omogenee - Incidenza sui principi di imparzialita' e  buon
 andamento della p.a.
 (Legge 23 ottobre 1992, n. 421, art. 2, primo comma, lett. b); d.P.R.
 3  febbraio 1993, n. 29, artt. 2, secondo e quarto comma, 12, secondo
 e quarto comma, 16, 17 e 20, primo comma).
 (Cost., artt. 3 e 97).
(GU n.14 del 3-4-1996 )
                 IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE
   Ha pronunciato la  seguente  ordinanza  sul  ricorso  n.  6660/1993
 proposto da: Giacomo Fidei, Vito Festina, Sebastiano Panebianco, Vito
 Brex,  Luisa  Caprio  Preden, Francesco Mazzacca, Romolo Di Giovanni,
 Anna Maria Salernitano, Antonio Forte, Dino Antonio Salvatore,  Maria
 Rosario  Cocca, Maria Vittoria Baldieri, Ferdinando Lazzaro, Antonina
 Di Maria, Rina Lariza, Cesare Caiazza, Maria Grazia La Rosa, Serafino
 Caliendo, Tullio Occulti, Anna  Evelina  Ciarrapico,  Lucio  Letizia,
 Giorgio Temperilli, Egle Abruzini, Giancarlo Cerreto, Elda Cavallaro,
 Rosanna  Garrammone,  Iole  Valente, Filomena Migliore, Anna Accardo,
 Angelo  Petica,  Giuliano  Lausdei,  Giuseppina   Rubagotti,   Angelo
 Iacomini,  Pasquale  Cocco,  Roberto  Fedele,  Angela  Russo, Antonio
 Corvasce, Gianfranco Minisola, Michele Paradisi,  Domenico  Taraschi,
 Paolo  Pedicini  tutti  rappresentati  e difesi dagli avv.ti Federico
 Sorrentino e Massimo Luciani e presso lo studio del  primo  in  Roma,
 lungotevere  delle  Navi,  30,  elettivamente  domiciliati; contro la
 Presidenza del Consiglio dei  Ministri,  in  persona  del  Presidente
 pro-tempore  rappresentata  a  difesa  dell'Avvocatura generale dello
 Stato: per l'annullamento della circolare  4  marzo  1993  n.  6/1993
 della   Presidenza  del  Consiglio  dei  Ministri,  pubblicata  nella
 Gazzetta Ufficiale 9 marzo 1993 n. 56, recante "Decreto legislativo 3
 febbraio 1993, n. 29: ''Razionalizzazione  dell'organizzazione  delle
 amministrazioni  pubbliche e revisione della disciplina in materia di
 pubblico impiego a norma dell'art. 2 della legge 23 ottobre 1992,  n.
 421''.  Compiti  e  responsabilita' della dirigenza. Indirizzi per la
 fase di prima applicazione";
   Visto il ricorso con i relativi allegati;
   Visto l'atto di costituzione in giudizio  dell'Avvocatura  generale
 dello Stato;
   Viste  le  memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive
 difese;
   Visti gli atti tutti della causa;
   Udita  alla  pubblica  udienza  del  5 luglio 1995 la relazione del
 consigliere Goffredo Zaccardi e uditi, altresi', l'avv. Luciani per i
 ricorrenti e  l'avv.  dello  Stato  Braguglia  per  l'amministrazione
 resistente.
   Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
                                 Fatto
   Espone  in  fatto  la  difesa  dei  ricorrenti che sono tutti primi
 dirigenti  e  dirigenti  superiori  dell'amministrazione  centrale  e
 periferica della pubblica istruzione.
   Essi  come  molti  altri  pubblici dipendenti, hanno assistito alla
 recente vicenda della privatizzazione del  pubblico  impiego  che  ha
 visto  approvare  prima  la  delega  legislativa di cui alla legge 23
 ottobre 1992 n. 421 e poi, il decreto legislativo delegato n. 29  del
 3 febbraio 1993, per realizzare in tempi brevissimi e con un'ampiezza
 senza  precedenti  una  straordinaria  riforma della materia. Riforma
 nella quale il Governo non solo ha trascurato del tutto i rilievi  di
 parte  della dirigenza statale, la quale si e' vista smembrata in due
 tronconi, assoggettati l'uno alla disciplina pubblicistica e  l'altro
 a  quella  privatistica, ma ha financo disattesto un buona sostanza i
 rilievi che, in termini di legittimita' costituzionale e di buona  ed
 efficiente   amministrazione  aveva  mossi  l'Adunanza  generale  del
 Consiglio di Stato nel parere del 31 agosto 1992 n. 146  allo  schema
 del disegno di legge poi presentato al Parlamento.
   I  ricorrenti  si  ritengono  soprattutto  lesi  dalla  sostanziale
 degradazione del loro status giuridico - che l'attuazione della nuova
 disciplina introdotta dalla legge n. 421/1992 e dal d.P.R. n. 29/1993
 inevitabilmente determinera' - da un  lato  per  effetto  della  loro
 sottoposizione  ad  un  regime  totalmente  privatistico (quanto alle
 fonti che ne disciplinano il rapporto d'impiego  e  alla  devoluzione
 delle   relative   controversie   alla  giurisdizione  ordinaria)  e,
 dall'altro, in conseguenza del consistente aumento dei loro compiti e
 responsabilita' dirigenziali non correlato alla  conservazione,  come
 nel  caso  dei  dirigenti  generali, di un posizione professionale ed
 istituzionale di vera autonomia.
   La circolare oggetto della presente  impugnazione  costituisce  una
 prima  attuazione  delle  nuove disposizioni legislative ed una prima
 precisazione delle responsabilita' dei dirigenti. In quanto tale essa
 non solo vincola  immediatamente  i  ricorrenti,  primi  dirigenti  e
 dirigenti superiori, ma esprime, attraverso la definizione delle loro
 responsabilita',  la filosofia complessiva della riforma del pubblico
 impiego  ed  in  particolare  del  ruolo  subalterno   riservato   ai
 dirigenti.
   Essi  quindi  ne  chedono  l'annullamento  per  il seguente motivo,
 articolato in piu' specifiche censure:  Illegittimita'  derivata  per
 l'incostituzionalita' del d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29 per le parti e
 nei limiti che saranno di seguito indicati.
   La   difesa   dello   Stato   si   e'   costituita   eccependo   la
 inammissibilita' del ricorso in quanto la circolare impugnata non  ha
 carattere  normativo  e  non  e', quindi, immediatamente lesiva ed ha
 confutato  nel  merito  la  fondatezza  del  ricorso  chiedendone  la
 reiezione.
                                Diritto
   1.  -  Appare  utile  precisare,  preliminarmente, che la circolare
 impugnata pur contenendo una prima interpretazione delle norme  sulla
 dirigenza  di  cui al decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29 reca,
 altresi',  alcune  specifiche   disposizioni   circa   la   immediata
 applicabilita'  degli  articoli  del d.lgs. n. 29/1993 concernenti le
 funzioni  dirigenziali  che  appaiono   idonee   ad   innovare,   con
 immediatezza,   e   per   forza   direttamente   riconducibile   alle
 disposizioni  della  circolare  medesima,  lo  stato  giuridico   dei
 dirigenti dello Stato.
   In  particolare  sono,  in  questo  contesto, da tenere presenti le
 indicazioni circa  la  necessita'  per  i  dirigenti  generali  quale
 "compito   prioritario"   di   procedere  "alla  articolazione  delle
 rispettive strutture in  centri  di  responsabilita'  correlati  alla
 definizione  di  progetti,  affidandone la realizzazione ai dirigenti
 con assegnazione delle risorse e definizione dei limiti di  spesa  in
 funzione della migliore gestione".
   Su  tale  base  la  circolare  precisa,  inoltre,  che i "dirigenti
 preposti agli uffici di livello sottordinato continuano ad esercitare
 le competenze sinora  attribuite  entro  i  limiti  di  spesa  che  i
 dirigenti   generali"  riterranno  di  assegnare  in  relazione  alle
 funzioni ed obiettivi fissati per gli uffici sottordinati.
   Se si tiene conto che nel nuovo regime di cui al d.lgs. n.  29/1993
 momento   essenziale   per   la   valutazione  delle  responsabilita'
 dirigenziali (a tenore dell'art. 20) e'  quello  della  verifica  del
 risultato  conseguito  dagli  uffici  cui il dirigente e' preposto in
 relazione ai "progetti" ed obiettivi la cui gestione sia affidata  al
 dirigente  medesimo  (cfr.    art. 14, primo comma, lett. b; art. 16,
 primo comma, lett. b)  ne  consegue  che  l'affermazione,  inequivoca
 nella  circolare  di cui trattasi, della immediata applicazione delle
 norme in esame pur "in mancanza di direttive  e  di  definizione  dei
 programmi"  di  competenza  degli "organi di governo" costituisce una
 statuizione ben precisa che se non assume valore normativo -  per  la
 natura  dell'atto  in  cui  e'  contenuta  -  tuttavia e' in grado di
 condizionare  quanto  alla  organizzazione  ed  all'esercizio   delle
 funzioni,   l'attivita'  di  tutta  la  dirigenza  statale,  cio'  in
 relazione alla funzione specifica di indirizzo che il Presidente  del
 Consiglio  dei Ministri spetta a tenore della legge 23 agosto 1988 n.
 400.
   Non puo', pertanto, essere condivisa  l'impostazione  della  difesa
 dell'amministrazione in ordine alla inammissibilita' del riscorso per
 difetto di interesse dei ricorrenti all'annullamento di una circolare
 non lesiva.
   E' quindi rilevante, chiarita la incisione da parte della circolare
 impugnata  dello  stato giuridico dei dirigenti statali, la questione
 di legittimita' costituzionale delle  norme  del  d.lgs.  n.  29/1993
 sollevata  con l'atto introduttivo del presente giudizio: il collegio
 non potrebbe pronunciare sulla legittimita' della circolare altro che
 tenendo conto  delle  disposizioni  di  cui  si  sospetta,  da  parte
 ricorrente, la non conformita' a Costituzione.
   E'  utile  ricordare  che questo giudice deve procedere solo ad una
 delibazione limitata a rilevare la non manifesta  infondatezza  delle
 questioni  poste  nell'atto  introduttivo del giudizio. Ad avviso del
 collegio, nel caso di specie sussiste la non  manifesta  infondatezza
 delle   censure   di   illegittimita'   costituzionale  avanzate  dai
 ricorrenti che vengono  qui  sostanzialmente  riprodotte  con  alcune
 precisazioni.
   A)  La  legge n. 421 del 1992 ha conferito delega al Governo per il
 riordino del settore del pubblico impiego (art. 2). Tra i principi  e
 criteri  direttivi dettati, vi e' quello che vuole che "i rapporti di
 lavoro e  di  impiego  dei  dipendenti  delle  amministrazioni  dello
 Stato...  siano  ricondotti alla disciplina del diritto civile" (art.
 2, primo comma, lett. b). Ad esso si affianca pero'  -  in  delega  -
 quello  secondo cui la disciplina vigente del rapporto d'impiego deve
 essere  mantenuta  "per  quanto  attiene  ai  magistrati  ordinari  e
 amministrativi, agli avvocati e procuratori dello Stato, al personale
 militare   e  delle  forze  di  polizia,  ai  dirigenti  generali  ed
 equiparati, al pesonale delle carriere diplomatica e prefettizia". In
 attuazione di tali principi,  il  legislatore  delegato  ha  disposto
 l'estensione   della   normativa  privatistica  a  tutti  i  pubblici
 impiegati, salve le eccezioni ora riferite a cui sono state  aggiunte
 alcune altre (art. 2, secondo e quarto comma, d.P.R. n. 29 del 1993).
 Viene   cosi'   operata,  quanto  alla  disciplina  del  rapporto  di
 lavoro/servizio, una  radicale  differenziazione,  all'interno  della
 stessa   categoria  della  dirigenza,  fra  i  dirigenti  generali  e
 dirigenti delle qualifiche sottordinate.
   L'art.  97  della  Costitituzione   mentre   riserva   alla   legge
 l'organizzazione  dei  pubblici  uffici,  stabilisce  che  essa debba
 essere volta  ad  assicurare  il  buon  andamento  e  l'imparzialita'
 dell'amministrazione   attraverso   la  definizione  delle  sfere  di
 competenza, delle attribuzioni e delle  responsabilita'  proprie  dei
 funzionari.
   L'imparzialita'  ed il buon andamento dell'amministrazione a fronte
 della politicita' degli organi di Governo, che ne  sono  al  vertice,
 sono  sorretti  da  una  distinzione  tra i compiti dei funzionari da
 quelli  degli  amministratori,  che  demanda  ai  primi  l'attuazione
 imparziale   delle  direttive  dei  secondi,  creando  a  favore  dei
 funzionari una sfera di attribuzioni di cui essi siano  personalmente
 responsabili e che possano in tutta autonomia esercitare senza subire
 l'interferenza  dei  secondi  e  senza cioe' subordinare il principio
 d'imparzialita' alle esigenze contingenti degli indirizzi politici di
 una maggioranza espressione degli organi di governo.
   Per  realizzare  questo  programma  la  Costituzione  ha  previsto,
 appunto, la riserva di legge, in modo tale che la legge che definisce
 le  sfere  di  competenza,  le  attribuzioni e le responsabilita' dei
 funzionari possa costituire il punto  di  difesa  dell'autonomia  del
 singolo  funzionario  ed  insieme  la  garanzia dell'imparzialita' di
 un'amministrazione, che  vede  pure  sempre  nel  Ministro  -  organo
 politico  - il suo vertice organizzativo. Rispetto a questo quadro e'
 dubbio  che  una  indiscriminata  privatizzazione  del  rapporto   di
 pubblico  impiego  si concili con i principi costituzionali suddetti.
 In particolare va sottolineata  la  profonda  contraddizione  tra  il
 permanere,  nella  sfera  di  competenza  di  dipendenti e funzionari
 amministrativi,  di  numerosi  poteri   di   tipo   pubblicistico   e
 l'assoggettamento  del  loro  rapporto  d'impiego  ad  una disciplina
 privatistica.  Soprattutto  per  quanto  riguarda  la  posizione  dei
 dirigenti,  diversa  dai  dirigenti  generali mantenuti nell'area del
 pubblico impiego, va rilevato il contrasto tra l'ampliamento dei loro
 poteri  di  rilevanza  esterna  e  la  loro  collocazione   nell'area
 privatistica,  con  la  conseguente  soggezione  alla  contrattazione
 collettiva di diritto comune ed alla giurisdizione ordinaria.
   Potrebbe  essere  in  particolare,  pregiudicata la indipendenza di
 giudizio dei dirigenti, presupposto  indispensabile  per  l'esercizio
 imparziale  dei  propri doveri istituzionali, da un regime di recesso
 dal rapporto di lavoro incentrato nell'area contrattualistica privata
 sul venir meno del rapporto di fiducia nei  confronti  del  dirigente
 posto  che, in detta area, il dirigente e' colui che si "sostituisce"
 al datore di lavoro in alcune scelte decisionali. Inoltre  il  regime
 di  verifica dei risultati dell'attivita' svolta affidato a nuclei di
 valutazione,   anche   esterni   all'amministrazione    e,    quindi,
 potenzialmente privi anch'essi della necessaria autonomia di giudizio
 ed indipendenza nell'esercizio della propria funzione contribuisce ad
 indebolire, oggettivamente, la posizione del dirigente.
   Da   altra   angolazione   induce   piu'   che,   un  dubbio  sulla
 compatibilita' della scelta effettuata dal legislatore con il dettato
 costituzionale la considerazione che il novero di attribuzioni, ampie
 e significative, assegnate ai dirigenti statali dell'art.  17,  volto
 ad  una  puntuale  soddisfazione  degli  interessi  pubblici  sottesi
 all'esercizio di dette attribuzioni possa essere condizionato da  una
 diversa  scelta  -  quella  relativa  al mantenimento del rapporto di
 lavoro con il dirigente di natura  essenzialmente  fiduciaria  -  non
 correlata  esclusivamente  all'imparziale  ed  efficiente svolgimento
 delle attribuzioni stesse e non limitata da un forte  stabilita'  del
 rapporto  di impiego. Potrebbero discenderne condizionamenti incisivi
 dell'efficienza ed imparzialita' dell'azione amministrativa.
   B) Altro profilo di manifesta infondatezza e' quello relativo  alla
 violazione dell'art. 3 della Costituzione.
   Tanto  la  legge  n.  421 del 1992, quanto il d.P.R. n. 29 del 1993
 operano una discriminazione fra dirigenti generali  e  dirigenti  non
 generali.  Soltanto per i primi, infatti, viene mantenuto un rapporto
 di servizio di tipo pubblicistico, mentre per i secondi  si  provvede
 alla sua privatizzazione (che non a caso viene ora definito "rapporto
 di  lavoro": art. 2 lett. a) ed e) legge n. 421 del 1992; 12, secondo
 e  quarto  comma,   d.P.R.   n.   29   del   1993).   Senonche',   la
 differenziazione  operata  fra  le  due  categorie di dipendenti puo'
 apparire irragionevole ed arbitraria.
   Lo  stesso  legislatore  muove   infatti   dalla   premessa   della
 unitarieta'  della  dirigenza.  Essa  e'  chiarmante  implicata dalla
 normativa  in  contestazione.  Cosi'  viene  previsto  un  albo   dei
 dirigenti   unico   per   entrambe   le   categorie,  che  presuppone
 evidentemente l'attribuzione ad esse delle  medesime  caratteristiche
 strutturali  e  funzionali  (art.   23 d.P.R. n. 29 del 1993). Cosi',
 tutti i dirigenti sono "responsabili della gestione  e  dei  relativi
 risultati" (art. 3, secondo comma, d.P.R. n. 29 del 1993).
   La  "dirigenza", in quanto istituto espressamente riconosciuto come
 unitario dallo  stesso  legislatore  delegato,  "si  articola"  nella
 qualifica di "dirigente" e in quella di "dirigente generale" (art. 15
 secondo  comma,  d.P.R.  n.  29 del 1993); il che evidentemente sta a
 significare che unica e' la carriera ed  unitarie  sono  le  funzioni
 svolte   dagli   appartenti   alle  due  mere  "articolazioni"  della
 dirigenza. Come recita l'art. 20, primo comma, del d.P.R. n.  29  del
 1993,  "i  dirigenti  generali  ed  i dirigenti sono responsabili del
 risultato  dell'attivita'  svolta  dagli   uffici   ai   quali   sono
 preposti...", e tutti sono tenuti alla presentazione di una relazione
 annuale  sull'attivita'  compiuta. Fra dirigenti generali e dirigenti
 vi  e'  -  sia  pure  in  casi particolari - addirittura una perfetta
 interscambiabilita' di funzioni (come accade per  gli  enti  pubblici
 non economici e per le amministrazioni non statali, che non conoscono
 la  figura del dirigente generale:  art. 27, secondo comma, d.P.R. n.
 29 del 1993).
   Di fronte a tale  unitarieta'  della  carriera,  la  diversita'  di
 compiti affidati ai dirigenti generali ed ai dirigenti dagli artt. 16
 e  17  del  d.P.R.  n.  29  del  1993 si giustifica con la necessaria
 articolazione della carriera in  due  livelli  di  cui  uno  soltanto
 apicale,   ma  non  sembra  possa  giustificare  una  cosi'  radicale
 differenziazione di stato giuridico.
   Le due categorie dei dirigenti generali e dei  dirigenti  non  sono
 cosi'  differenziate da non ammettere alcun sindacato sul trattamento
 loro praticato alla luce del principio costituzionale di eguaglianza,
 l'illegittimita'  della  normativa  de  qua  potrebbe  apparire  alla
 stregua  della piu' recente giurisprudenza della Corte costituzionale
 (v.  da ultimo la sent. 27 aprile 1993 n. 196), che ha affermato che,
 anche nei casi in  cui  non  e'  possibile  valutare  il  trattamento
 praticato  a  due  categorie  di  soggetti alla luce del principio di
 eguaglianza, per la rilevata disomogeneita'  tra  le  due  categorie,
 quel  trattamento va comunque sindacato alla stregua del principio di
 ragionevolezza.
   Se il legislatore ha ritenuto necessario mantenere per i  dirigenti
 generali  le  garanzie  piu' salde che sono implicate dal rapporto di
 servizio pubblicistico, a maggior ragione  sarebbe  stato  necessario
 mantenerle  per  i  dirigenti non generali. Nel caso di questi ultimi
 quelle garanzie sono infatti ancora piu'  necessarie,  in  quanto  le
 possibilita'  di  condizionamento  su  di  essi  da  parte del potere
 politico sono ancora maggiori.  Eliminare  alcune  garanzie,  dunque,
 sembra   incidere   proprio   sul   principio   di   separazione  fra
 amministrazione e politica  che  e'  fissato  dalla  Costituzione  ed
 esplicitamente menzionato dalla stessa circolare impugnata.
   Ulteriore   profilo   di   possibile  contrasto  col  principio  di
 eguaglianza va ravvistato in rapporto all'art. 2,  quarto  comma  del
 decreto   legislativo   n.  29  (ed  in  parte  nella  corrispondente
 disposizione della legge n. 421: art. 2 lett. a)  che  esclude  dalla
 privatizzazione,  oltre  ai  dirigenti  generali,  tutto il personale
 delle carriere diplomatica e prefettizia e i dipendenti che  svolgono
 la  loro  attivita'  nelle materie contemplate dall'art. 1 del d.lgt.
 C.P. St. 17 luglio 1947 n. 691 (tutela del  credito  e  risparmio)  e
 dalle  leggi  4  giugno 1985 n. 281 (vigilanza sulla societa' e sulla
 borsa) e 10 ottobre 1990 n.  287  (tutela  della  concorrenza  e  del
 mercato).  Emerge  da  un  lato  la  violazione  dell'art.  76  della
 Costituzione per l'inserimento di queste  ultime  tre  categorie  nel
 novero  delle  eccezioni  alla  privatizzazione, mentre non si riesce
 invero a comprendere perche' intere categorie di personale,  solo  in
 quanto  appartenenti  a  deteminate  carriere,  debbano sfuggire alla
 privatizzazione stessa.
   Invero:  o  la  ragione  della  mancata  privatizzazione   e'   nel
 riconoscimento  dell'esercizio  di  funzioni  pubbliche riconducibili
 allo Stato e connotate di un alto grado di  imparzialita'  ed  allora
 non  si  vede perche' i dirigenti non siano stati mantenuti in questo
 contesto altrimenti essa  potrebbe  risolversi  in  un  irragionevole
 privilegio, come tale contrastante con l'art. 3 della Costituzione.
   C) Violazione dell'art. 97 della Costituzione:
     a)   Tale   articolo  fissa  i  principi  del  buon  andamento  e
 dell'imparzialita'  della  pubblica  amministrazione.  Ebbene,   sono
 proprio tali principi (ed in particolare quello di imparzialita') che
 potrebbero  implicare  una  piena  separazione  fra  la  politica  ed
 amministrazione. Una  separazione,  questa,  che  il  legislatore  e'
 tenuto ad assicurare anche con la previsione di adeguate garanzie per
 i  pubblici dipendenti nei confronti del potere politico. Ora, non e'
 dubbio  che  fra  queste  garanzie  il  mantenimento   del   rapporto
 pubblicistico  di  servizio,  almeno  per  i  soggetti che esercitano
 funzioni dirigenziali di rilievo esterno e  come  tali  riconoscibili
 immediatamente   allo  Stato,  assume  un  rilievo  di  straordinaria
 importanza.  La stessa Corte, con la sentenza n. 68 del 1980, ha  del
 resto   espressamente   affermato   che,   "anche  se  si  intendesse
 privatizzare  i  rapporti  di  lavoro  con  lo  Stato  non  collegati
 all'esercizio  di  potesta'  pubbliche, dovrebbero pure sempre essere
 conservati come rapporti di diritto pubblico quelli  dei  dipendenti,
 cui  tale  esercizio  e'  o  potrebbe essere affidato". La contestata
 normativa sembra  travalicare  ampiamente,  dunque,  i  limiti  cosi'
 fissati dal giudice costituzionale.
 
                                P. Q. M.
 
   Visti   gli   artt.   134  della  Costituzione  e  23  della  legge
 costituzionale 11 marzo 1953 n. 1 cosi' statuisce:
     a) dichiara rilevanti e non manifestamente infondate le questioni
 di legittimita' costituzionale degli articoli:
       2, primo comma, lett. b della legge  del  23  ottobre  1992  n.
 421;
       2, secondo e quarto comma, del d.P.R. 3 febbraio 1993 n. 29;
      12,  secondo  e quarto comma, del d.P.R. 3 febbraio 1993 n. 29 -
 16 e 17 d.P.R. n. 29/1993;
      20, primo comma, del d.P.R. 3 febbraio 1993 n. 29 per violazione
 degli artt. 3 e 97 della Costituzione.
   Dispone il rinvio degli atti del  giudizio,  sospeso  con  separata
 sentenza,  alla  Corte  costituzionale  a cura della segreteria della
 sezione che  provvedera',  altresi',  alla  notifica  della  presente
 ordinanza  al  Presidente del Consiglio dei Ministri ed ai Presidenti
 della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica;
   Ordina  che  la  presente  decisione  sia  eseguita  dall'autorita'
 amministrativa.
   Cosi' deciso addi' 5 luglio 1995.
  Il presidente:  Schinaia
  Il consigliere estensore:  Zaccardi
 96C0415