N. 129 SENTENZA 17 - 24 aprile 1996

 
 
 Giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato.
 
 Costituzione  della  Repubblica  -  Senato  e autorita' giudiziaria -
 Insidacabilita' delle opinioni espresse da  un  senatore  durante  lo
 svolgimento   di   trasmissione   televisiva   -   Richiamo      alla
 giurisprudenza della Corte in materia (v.  sentenza  n.  1150/1988  e
 443/1993)  - Mancato rispetto da parte del tribunale di Palermo della
 interpretazione della norma  operata  dalla  Corte  costituzionale  -
 Obbligo   dell'autorita'   giudiziaria   di   prendere   atto   della
 deliberazione parlamentare - Non spettanza al  tribunale  di  Palermo
 ordinare   la  celebrazione  del  dibattimento  nel  processo  penale
 pendente a carico del sen. Carmine Mancuso per diffamazione aggravata
 in danno del  dott.  Bruno  Contrada  -  Annullamento  dell'ordinanza
 emessa in data 16 ottobre 1995.
 
(GU n.18 del 30-4-1996 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: avv. Mauro FERRI;
 Giudici: prof. luigi mengoni, prof. enzo cheli, dott. renato granata,
 prof.  giuliano  vassalli,  prof.  francesco  guizzi,  prof.   cesare
 mirabelli,  prof.  fernando  santosuosso,  avv.  massimo  vari, dott.
 cesare ruperto, dott. riccardo chieppa, prof.  valerio  onida,  prof.
 carlo mezzanotte;
 ha pronunciato la seguente
                               sentenza
 nel  giudizio  promosso  con  ricorso  del  Senato  della  Repubblica
 notificato il  23  gennaio  1996,  depositato  in  Cancelleria  il  1
 febbraio   1996,  per  conflitto  di  attribuzione  sorto  a  seguito
 dell'ordinanza emessa il 16 ottobre 1995 dal Tribunale di  Palermo  -
 sezione  per  il riesame dei provvedimenti restrittivi della liberta'
 personale e dei provvedimenti di sequestro, nel  procedimento  penale
 pendente nei confronti del sen. Carmine Mancuso, con la quale e'
 stata  rigettata  l'eccezione  di  improcedibilita' proposta dai suoi
 difensori in relazione alla dichiarazione di  insindacabilita'  -  ai
 sensi  dell'art. 68, primo comma, della Costituzione - delle opinioni
 espresse dallo stesso  sen.  Mancuso,  deliberata  dal  Senato  della
 Repubblica  nella  seduta  del 20 settembre 1995, ed iscritto al n. 3
 del registro conflitti 1996.
   Visti gli atti di intervento della Camera dei deputati;
   Udito  nell'udienza  pubblica del 19 marzo 1996 il giudice relatore
 Luigi Mengoni;
   Uditi gli avvocati Paolo Barile e  Marcello  Gallo  per  il  Senato
 della Repubblica e Giuseppe Abbamonte per la Camera dei deputati.
                           Ritenuto in fatto
   1.  -  Nel  corso  di  una trasmissione televisiva dedicata a gravi
 delitti  di  mafia,  il  senatore  Carmine  Mancuso,  riferendosi  ai
 soccorsi   prestati  all'agente  di  scorta  Lenin  Mancuso,  rimasto
 mortalmente ferito nell'agguato teso  al  giudice  Cesare  Terranova,
 profferi'  la  seguente  frase nei confronti del questore dott. Bruno
 Contrada: "Contrada fa si' che gli agenti non lo soccorrano,  infatti
 viene  soccorso  semplicemente molto tempo dopo quando era molto piu'
 dissanguato: era come se gli mettesse la mano in bocca per cercare di
 non farlo respirare". Per queste  parole  e'  stato  querelato  dalla
 persona  offesa  per  il  reato  di  diffamazione  aggravata ai sensi
 dell'art. 595, secondo comma, cod. pen.
   Con ordinanza del  10  maggio  1994  il  giudice  per  le  indagini
 preliminari  presso  il Tribunale di Palermo dichiaro' manifestamente
 infondata l'eccezione di applicabilita' dell'art.  68,  primo  comma,
 della    Costituzione,    sul    riflesso   che   l'offesa   consiste
 nell'attribuzione di un fatto determinato,  non  semplicemente  nella
 manifestazione   di   un'opinione.      Conseguentemente  ordino'  la
 restituzione degli atti al pubblico ministero per  l'ulteriore  corso
 del processo.
   Ai  sensi  dell'allora  vigente art. 3 del d.-l. 16 maggio 1994, n.
 291, copia dell'ordinanza fu inviata, in data 25  novembre  1994,  al
 Presidente  del  Senato, e da questi al Presidente della Giunta delle
 elezioni e delle immunita' parlamentari. In data 21  luglio  1995  il
 Presidente  del  Senato  comunico'  al  Presidente  della Sezione dei
 g.i.p.  di Palermo la delibera della Giunta di richiedere copia degli
 atti  processuali  ai  sensi  dell'art.  3  del  decreto-legge,   nel
 frattempo  piu'  volte reiterato fino al d.-l. 7 luglio 1995, n. 276,
 in vigore a questa data. Nella seduta del 20 settembre 1995 il Senato
 delibero' di dichiarare insindacabili, ai sensi dell'art.  68,  primo
 comma,  della  Costituzione, le opinioni espresse dal sen. Mancuso, e
 il Presidente ne informo', con lettera di pari  data,  il  Presidente
 della Sezione II penale del Tribunale di Palermo.
   Con  ordinanza  in  data 16 ottobre 1995, il Tribunale di Palermo -
 ritenuto che l'art. 68, primo comma, della Costituzione, prevede  una
 condizione    di   non   punibilita',   e   non   semplicemente,   di
 procedibilita',  con  conseguente  inapplicabilita'   del   combinato
 disposto  degli  artt.   129, secondo comma, e 469 cod. proc. pen., i
 quali non contemplano tra le ipotesi  di  proscioglimento  prima  del
 dibattimento   la   non   punibilita'  dell'imputato  -  ha  disposto
 "procedersi  al  dibattimento,  dovendo   peraltro   trovare   tutela
 l'interesse   dell'imputato   all'accertamento   della   sua   totale
 estraneita' ai fatti di reato".
   A seguito di tale provvedimento  il  Senato,  nella  seduta  del  9
 novembre  1995,  ha deliberato di sollevare conflitto di attribuzione
 contro il Tribunale di Palermo davanti alla Corte costituzionale.
   2. - Nel ricorso, depositato il 28 dicembre 1995 - premesso che  il
 conflitto  e'  ammissibile sia sotto il profilo soggettivo, il Senato
 essendo organo competente a  dichiarare  definitivamente  la  propria
 volonta'  in ordine all'applicazione dell'art. 68, primo comma, della
 Costituzione,   sia   sotto  il  profilo  oggettivo,  trattandosi  di
 rivendica di un potere costituzionalmente garantito - si sostiene nel
 merito (riproducendo l'opinione espressa dal Presidente della  Giunta
 nel  trasmettere  la  proposta  di  deliberazione  al  Presidente del
 Senato) che "nel  momento  in  cui  interviene  la  dichiarazione  di
 insindacabilita'  da  parte  della Camera competente, il procedimento
 deve   immediatamente   cessare:   la   prosecuzione   dello   stesso
 procedimento  implicherebbe,  infatti,  che  l'autorita'  giudiziaria
 continui ad assoggettare al suo sindacato opinioni  che  non  possono
 essere soggette a sindacato a norma del dettato costituzionale".
   Ad  avviso  del  ricorrente il diniego di proscioglimento immediato
 del sen. Mancuso lede le prerogative  del  Senato  in  quanto,  senza
 contestare  il  merito  della  delibera  di insindacabilita', afferma
 tuttavia  la  necessita'  del   dibattimento   per   pervenire   alla
 dichiarazione di non punibilita' dell'imputato. Si obietta che l'art.
 68, primo comma, della Costituzione, non tanto prevede una condizione
 di  non  punibilita', quanto qualifica il comportamento ricadente nel
 suo ambito normativo come fatto non previsto dalla legge come  reato,
 di guisa che la declaratoria di proscioglimento avrebbe dovuto essere
 immediatamente  pronunciata  a norma dell'art. 129, primo comma, cod.
 proc. pen., mentre nessuna attinenza nella specie ha l'art. 469 dello
 stesso codice.
   Conclusivamente il ricorrente chiede alla Corte di  dichiarare  che
 spetta  al Senato della Repubblica affermare l'insindacabilita' delle
 opinioni espresse dal senatore Carmine Mancuso mediante dichiarazioni
 rese  durante  la  trasmissione  televisiva   sopra   rammentata,   e
 conseguentemente di annullare la citata ordinanza 16 ottobre 1995 del
 Tribunale di Palermo.
   3.   -  Nel  giudizio  preliminare  di  delibazione  in  camera  di
 consiglio, a norma dell'art. 37, terzo e quarto comma, della legge n.
 87 del 1953, la Corte costituzionale,  con  ordinanza  11/12  gennaio
 1996,  n.  6,  ha  dichiarato  ammissibile  il ricorso, disponendo la
 comunicazione dell'ordinanza al Senato e la notifica  della  medesima
 insieme col ricorso al Tribunale di Palermo.
   4.  -  Nel  giudizio  davanti alla Corte si e' costituito il Senato
 della Repubblica con una memoria in  cui  riprende  e  sviluppa,  con
 riguardo  alle  sentenze  nn.  1150  del  1988  e  443  del 1993, gli
 argomenti esposti nel  ricorso,  precisando  che,  di  fronte  a  una
 pronuncia  della Camera di appartenenza nel senso dell'applicabilita'
 dell'art. 68 della Costituzione, "l'autorita' giudiziaria,  anche  se
 ha  dichiarato la manifesta infondatezza della questione, ha soltanto
 la possibilita' di contestare  davanti  a  questa  Corte  i  vizi  in
 procedendo  o  la manifesta illogicita' della decisione della Camera.
 Ma ove non ritenga di sollevare conflitto  di  attribuzione,  l'esito
 del  procedimento  pendente  a  carico  del parlamentare non puo' che
 essere determinato  dalle  valutazioni  effettuate  dalla  Camera  di
 appartenenza".  Questo  principio  mette  fuori  causa  il  combinato
 disposto degli artt. 129, secondo comma, e 469 cod. proc.  pen.,  sul
 quale il Tribunale di Palermo ha ritenuto di fondare il provvedimento
 impugnato.
   5.  -  Ha spiegato intervento volontario la Camera dei deputati con
 atto depositato il 6 febbraio 1996, sulla  base  della  deliberazione
 adottata   dall'Assemblea   nella   seduta   del   26  gennaio  1996.
 L'interveniente si ritiene legittimato a stare in giudizio in ragione
 della  riferibilita'  indivisibile  dell'art.  68, primo comma, della
 Costituzione,  della  cui  applicabilita'  si  controverte,  sia   ai
 componenti  della Camera dei deputati che ai componenti del Senato, e
 si richiama all'ordinanza n. 470 del 1995 che tale legittimazione  ha
 riconosciuto.   Nel   merito   fa  proprie  le  argomentazioni  e  le
 conclusioni dedotte dalla difesa del  Senato,  integrandole  con  una
 diffusa  citazione  della  sentenza 12 marzo 1983 delle Sezioni unite
 penali della Corte di cassazione, a sostegno della tesi che la  norma
 costituzionale  esclude  in  radice  la  tutela  giuridica,  e quindi
 giurisdizionale, degli interessi dei terzi, cosi' che il giudice  non
 dovrebbe  pronunciare  una sentenza di proscioglimento dell'imputato,
 ma semplicemente dichiarare la propria carenza di giurisdizione.
   Nell'udienza pubblica del 19 marzo 1996 la Corte si e' riservata di
 decidere sull'ammissibilita' dell'intervento insieme col merito della
 causa.
                        Considerato in diritto
   1. - Come  risulta  dalla  narrativa  di  fatto,  il  Senato  della
 Repubblica ha sollevato conflitto di attribuzione contro il Tribunale
 di  Palermo  chiedendo a questa Corte di statuire che "spetta ad esso
 Senato affermare l'insindacabilita', ai  sensi  dell'art.  68,  primo
 comma,  della  Costituzione,  delle  opinioni  espresse  dal senatore
 Carmine Mancuso, mediante dichiarazioni rese durante  lo  svolgimento
 della  trasmissione  televisiva messa in onda il 12 maggio 1993 sulla
 rete Canale 5; e conseguentemente di annullare l'ordinanza,  in  data
 16   ottobre  1995,  del  Tribunale  di  Palermo,  che  ha  rigettato
 l'eccezione di improcedibilita' proposta dalla difesa  dell'imputato,
 in  relazione  al  procedimento per il reato di diffamazione, ex art.
 595 cod. pen., pendente davanti a tale Tribunale".
   2. - Sciogliendo la  riserva  formulata  dalla  Corte  nell'udienza
 pubblica  del  19  marzo  1996,  occorre  dichiarare  preliminarmente
 l'ammissibilita' dell'intervento in causa spiegato dalla  Camera  dei
 deputati.  E'  vero  che  il presente conflitto riguarda i poteri del
 Senato e dell'autorita' giudiziaria in ordine a un  comportamento  di
 un  membro  del  primo,  e come tale parrebbe non interessare l'altro
 ramo del Parlamento.   Ma la materia  del  contendere  e'  costituita
 dalla  posizione  -  assunta dal provvedimento giudiziale impugnato -
 contrastante con la qualificazione giuridica della deliberazione  del
 Senato  come  causa  immediatamente impeditiva della prosecuzione del
 procedimento penalependente a carico del senatore Carmine Mancuso. E'
 incontestabile l'interesse comune  dei  due  rami  del  Parlamento  a
 ottenere  una  sentenza  che  affermi l'inerenza di tale effetto alla
 prerogativa  parimenti  attribuita  ai  loro   membri   dalla   norma
 costituzionale,  ristabilendo  gli  equilibri costituzionali messi in
 gioco, al di la' del singolo caso, dal conflitto di attribuzione.
   3. - Il ricorso e' fondato.
   Questa Corte, con le sentenze nn. 1150 del 1988 e 443 del 1993,  ha
 interpretato  l'art.  68,  primo comma, della Costituzione, nel senso
 che esso  attribuisce  alla  Camera  di  appartenenza  il  potere  di
 valutare  la  condotta addebitata a un proprio membro, con l'effetto,
 qualora  sia  ritenuta  esercizio  delle  funzioni  parlamentari,  di
 inibire  in  ordine ad essa una difforme pronuncia giudiziale, sempre
 che il potere sia stato correttamente esercitato. Qualora reputi  che
 la  delibera  favorevole  all'applicazione dell'art. 68, primo comma,
 sia  il  risultato di un esercizio non corretto del potere - per vizi
 in procedendo oppure  per  omessa  o  erronea  valutazione  dei  suoi
 presupposti,  in particolare per manifesta estraneita' della condotta
 del parlamentare al concetto di  "opinione"  o  di  "esercizio  delle
 funzioni" -, il giudice, al quale si e' rivolta la persona lesa dalle
 dichiarazioni   diffamatorie   contestate,   puo'  soprassedere  alla
 dichiarazione immediata di  applicabilita'  dell'art.  68  sollevando
 conflitto  di  attribuzione  davanti  a  questa  Corte,  con  effetto
 sospensivo del giudizio pendente davanti a lui.
   Questa interpretazione della norma costituzionale, alla quale si e'
 conformato l'art. 2, comma ottavo, del d.-l. 12 marzo 1996, n.   116,
 non  e'  stata  rispettata  dal  Tribunale.  Pur  senza contestare la
 valutazione espressa dal Senato - contraria a  quella  dell'ordinanza
 10  maggio  1994  del  giudice per le indagini preliminari, che aveva
 dichiarato la manifesta infondatezza dell'eccezione di applicabilita'
 dell'art. 68 della Costituzione - il Tribunale,  con  l'ordinanza  16
 ottobre  1995, ha disposto la celebrazione del dibattimento motivando
 con due argomenti: a)  la  condizione  di  non  punibilita'  prevista
 dall'art.    68,  primo comma, della Costituzione, non rientra tra le
 ipotesi di proscioglimento prima del dibattimento  contemplate  dagli
 artt.  129,  secondo  comma,  e  469 cod. proc. pen.; b) deve trovare
 tutela l'eventuale interesse  del  querelante  (per  evidente  svista
 designato  nel testo dell'ordinanza come "imputato") all'accertamento
 della sua totale estraneita' ai fatti di reato attribuitigli.
   Il  primo  argomento  deduce   la   regola   di   decisione   dalla
 qualificazione  dogmatica tradizionale dell'irresponsabilita' sancita
 dall'art. 68 come una figura di immunita' personale avvicinabile alla
 condizione di non punibilita':  tesi  non  pacifica,  alla  quale  si
 contrappone  la  tesi  della natura oggettiva dell'irresponsabilita',
 che ravvisa nell'art. 68 una causa di esclusione  dell'illecito.  Ma,
 quale   che   sia   la   dottrina   preferibile   circa   la   natura
 dell'irresponsabilita' dei membri  del  Parlamento  per  le  opinioni
 espresse  nell'esercizio  delle  loro  funzioni,  e'  certo  che alla
 deliberazione della  Camera  di  appartenenza  che  la  riconosce  e'
 coessenziale l'effetto inibitorio dell'inizio o della prosecuzione di
 qualsiasi  giudizio  di  responsabilita',  penale  o  civile  per  il
 risarcimento dei danni. A ben vedere, nel caso di procedimento penale
 gia' avviato, non e' nemmeno in questione l'applicabilita'  dell'art.
 129  cod.  proc.  pen.  L'obbligo del giudice - quando non ritenga di
 sollevare conflitto di attribuzione - di  dichiarare  immediatamente,
 in  ogni  stato  e  grado del processo, la causa di irresponsabilita'
 dell'imputato,  affermata  dalla  Camera  di  appartenenza,  discende
 direttamente dalla norma costituzionale.
   L'argomento  sub  b)  e'  lo stesso argomento sub a) riformulato in
 termini sostanziali. Esso  rovescia  il  bilanciamento  di  interessi
 operato   dal   legislatore   costituente.  A  tutela  del  principio
 (corrispondente a un interesse generale della comunita' politica)  di
 indipendenza  e  autonomia del potere legislativo nei confronti degli
 altri organi e poteri  dello  Stato,  l'art.  68  della  Costituzione
 sacrifica il diritto alla tutela giurisdizionale del cittadino che si
 ritenga  offeso  nell'onore  o  in  altri beni della vita da opinioni
 espresse da un senatore o deputato nell'esercizio delle sue funzioni.
 Questa prerogativa dei membri del  Parlamento,  poiche'  costituisce,
 sul  piano  del  diritto  sostanziale, una causa di irresponsabilita'
 dell'autore  delle  dichiarazioni  contestate,  comporta,  sul  piano
 processuale, l'obbligo per l'autorita' giudiziaria di  prendere  atto
 della   deliberazione   parlamentare   e   di  adottare  le  pronunce
 conseguenti.
   Il solo rimedio e' dato dalla possibilita' di controllo della Corte
 costituzionale sulla correttezza della deliberazione:  controllo  che
 il  giudice  puo' promuovere col mezzo del conflitto di attribuzione,
 ancora proponibile nel caso in  esame,  non  essendo  previsto  alcun
 termine dall'art. 37 della legge n. 87 del 1953.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  che  non  spettava  al  Tribunale  di Palermo ordinare la
 celebrazione del dibattimento nel processo penale pendente  a  carico
 del  senatore Carmine Mancuso per diffamazione aggravata in danno del
 dott. Bruno Contrada; conseguentemente annulla l'ordinanza emessa dal
 detto Tribunale in data 16 ottobre 1995.
   Cosi' deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 17 aprile 1996.
                         Il presidente: FERRI
                         Il redattore: MENGONI
                       Il cancelliere: DI PAOLA
   Depositata in cancelleria il 24 aprile 1996.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
 96C0617