N. 442 ORDINANZA (Atto di promovimento) 1 febbraio 1996

                                N. 442
  Ordinanza emessa il 1 febbraio  1996  dal  pretore  di  Palermo  nel
 procedimento penale a carico di Genco Assunta Maria
 Reato  in  genere  -  Uso,  senza  concorso,  nella  contraffazione o
    nell'alterazione, di  valori  di  bollo  contraffatti  o  alterati
    (nella specie: marca per patente) - Punibilita' anche nell'ipotesi
    di  valori  ricevuti  in  buona  fede  -  Asserita  impossibilita'
    probatoria circa la  sopravvenuta  consapevolezza  dell'agente  in
    ordine alla falsita' del valore utilizzato - Lesione del principio
    di tassativita' della norma penale e di quello di colpevolezza.
 (C.P., art. 464, secondo comma).
 (Cost., artt. 25, secondo comma, e 27, primo comma).
(GU n.21 del 22-5-1996 )
                              IL PRETORE
   Ha  pronunciato la seguente ordinanza di rimessione degli atti alla
 Corte costituzionale, nel procedimento n. 10782/1993  (r.g.  not.  di
 reato)  contro Genco Assunta Maria, nata a Palermo il 26 agosto 1957,
 ed ivi elettivamente  domiciliata  in  via  Filippo  Corazza  n.  37;
 imputata  del  reato di cui all'art. 464 c.p., per avere fatto uso di
 un valore di bollo (marca per  patente)  contraffatto  senza  esserne
 concorsa  nella  contraffazione; alla pubblica udienza del 1 febbraio
 1996, il difensore  di  fiducia  dell'imputata,  dott.  Enzo  Favata,
 sollevava  questione  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 464,
 secondo comma, c.p. in relazione agli artt. 25, secondo comma  e  27,
 primo comma, della Costituzione.
            Ritenuto quanto alla rilevanza della questione
   1.  - Osservava la difesa che l'art. 464, primo comma, c.p. punisce
 colui che  abbia  fatto  uso  di  valori  di  bollo  contraffatti  (o
 alterati),   pur   non  essendo  concorso  nella  contraffazione  dei
 medesimi.  Tale  "uso"  deve  concretarsi,  in   particolare,   nella
 utilizzazione   del   valore   di   bollo   secondo  la  destinazione
 corrispondente a quella propria del valore genuino. Sotto il  profilo
 soggettivo,  inoltre,  dovrebbe  essere  necessaria la consapevolezza
 della falsita' del bollo "dal" momento in cui  lo  si  acquista.  Ove
 tale  conoscenza  subentri  successivamente, tuttavia, l'utilizzatore
 risponde ugualmente (anche se la pena e' ridotta), ai sensi dell'art.
 464, secondo comma, c.p.: la ricezione in buona fede  del  valore  di
 bollo  contraffatto,  in  altri  termini,  attenua  semplicemente  la
 responsabilita' di colui che faccia uso del bollo, ma non la esclude.
   Assumeva pertanto il difensore, che nel caso di specie  la  propria
 assistita  ben  avrebbe  potuto  offrire la prova di aver ricevuto il
 valore  contestatogli  in  buona  fede  (indicando,  ad  esempio,  il
 tabbaccaio  dove  lo aveva acquistato); e che tuttavia tale prova non
 le sarebbe servita a nulla, posto che la condotta punita dalla  norma
 consiste nell'"uso" del valore di bollo contraffatto (pur ricevuto in
 buona  fede),  e  tale uso ella aveva in effetti commesso, applicando
 appunto la marca sulla propria patente (emerge gia' dagli  atti,  del
 resto,  la circostanza che l'imputata abbia spontaneamente presentato
 la propria patente  in  prefettura,  per  il  compimento  della  c.d.
 procedura  di  rinnovo).  Stante,  in  altri  termini, lo sbarramento
 fissato dal secondo comma dell'art. 464 c.p.,  che  non  consente  di
 escludere  la responsabilita' dell'imputato pur ignaro della falsita'
 del bollo al momento dell'acquisto, lamentava la difesa il  carattere
 sostanzialmente  oggettivo  della responsabilita' delineata dall'art.
 464  c.p.,   postulando   quest'ultimo   un   mutamento   psicologico
 nell'agente  (incoscienza al momento dell'acquisto, consapevolezza al
 momento  dell'uso)  impossibile  da  dimostrare  processualmente,  in
 quanto  mutamento  destinato a rimanere confinato nell'esclusivo foro
 interno del soggetto, e dunque di fatto non accertabile dal  giudice.
 E  denunciava pertanto la disposizione indicata sia per contrasto con
 l'art. 25, secondo comma (principio di determinatezza) che con l'art.
 27, primo comma, della Costituzione (principio di colpevolezza),  nei
 termini di cui in motivazione.
   2. - La questione deve ritenersi rilevante nel presente giudizio.
   Osserva invero il giudicante che, pur facendo riferimento l'odierna
 imputazione  all'art.  464,  primo  comma,  c.p.,  in  ogni  caso, la
 presenza della previsione  di  cui  al  secondo  comma  dello  stesso
 articolo,  rendendo  ininfluente  ai  fini della configurabilita' del
 reato l'acquisto in buona fede del valore contraffatto,  finisce  per
 incidere  profondamente  sul  significato  attribuibile  alla  stessa
 incriminazione della condotta di "uso" del bollo,  di  cui  al  primo
 comma  dell'art.  464  c.p. In altre parole: se la ricezione in buona
 fede del valore di bollo fasullo non consente ancora, a chi ne  abbia
 fatto  uso,  di andare esente da responsabilita', appare legittimo il
 dubbio che anche nella ipotesi di cui al primo comma, di  fatto,  non
 sia necessaria la consapevolezza del soggetto di utilizzare una marca
 contraffatta.
   Il  meccanismo  incriminatorio risultante dal combinato disposto di
 queste due norme, invero, dovrebbe presupporre la dimostrazione della
 sopravvenuta consapevolezza della falsita' del bollo in chi lo  abbia
 acquistato  in  buona  fede  (c.d. dolo di utilizzazione). E tuttavia
 tale  coefficiente  psicologico,  equivalendo  ad   un   sopravvenuto
 mutamento di "rappresentazione" destinato ad esaurirsi nell'esclusivo
 "foro  interno"  dell'agente,  diviene  del  tutto  insuscettibile di
 dimostrazione empirica, anche solo indiziaria.  Per  l'ovvia  ragione
 che  un  mutamento psichico siffatto non lascia alcuna traccia di se'
 nella realta' esterna: l'acquisto e la successiva  apposizione  sulla
 patente  della  marca  da  bollo  annuale costituiscono comportamenti
 scarsamente significativi sotto il profilo fattuale,  rientranti  fra
 gli  atti  di gestione ordinaria della vita di relazione, e destinati
 pertanto a confondersi  fra  i  molteplici  adempimenti  che  ciascun
 individuo effettua quotidianamente.
   Ne'  potrebbe legittimamente invocarsi, a carico dell'imputato, una
 presunzione di riconoscibilita' del  valore  fasullo,  dedotta  dalla
 circostanza  che  per  ciascun  anno  di emissione delle marche della
 patente  il  Ministero  delle  finanze  emana  un  apposito  decreto,
 pubblicato nella Gazzettta Ufficiale, nel quale vengono specificati i
 requisiti che deve possedere la marca autentica.
   Va  qui  richiamato, infatti, il fondamentale principio per cui, al
 pari  di  ogni   altro   elemento   costitutivo   della   fattispecie
 incriminatrice,  il  dolo deve essere effettivamente provato, tenendo
 conto  di  tutte  le  circostanze  che  possono  assumere  un  valore
 sintomatico   ai   fini   dell'esistenza   della  volonta'  colpevole
 (modalita' estrinseche della condotta, movente, comportamento  tenuto
 dal  colpevole  successivamente  alla  commissione del reato, e cosi'
 via). Stante, invero, l'estrema difficolta' insita  nell'accertamento
 dei dati psicologici, e' certo inevitabile - e consentito - in questo
 campo,  il ricorso a massime di esperienza: non, pero', a meri schemi
 presuntivi, ad ipotesi preformulate, o a postulati aprioristici,  che
 diano  per  dimostrato  il  dolo  ritenendolo  implicito nella stessa
 realizzazione del fatto materiale (c.d. dolus in  re  ipsa):  e  tale
 sarebbe   appunto   l'effetto  del  ricorso  ad  una  presunzione  di
 conoscenza del tipo di quella sopra segnalata (che sarebbe  peraltro,
 in  ogni  caso, juris tantum), posto che la sistematica consultazione
 dei  decreti  ministeriali,  da  parte  del  comune  cittadino,   non
 corrisponde affatto, con tutta evidenza, ad un dato dell'esperienza.
   Piu'  in  generale,  peraltro,  non  e' fuor di luogo ricordare che
 proprio constatando la  insormontabile  difficolta'  di  accertare  i
 mutamenti degli stati d'animo rimasti "interni" al soggetto, gia' gli
 antichi  romani  avevano  elaborato il principio - tuttora valido, ad
 esempio, in materia di possesso civilistico (art. 1147, terzo  comma,
 c.c.) - per cui mala fede superveniens non nocet.
   In  definitiva,  cosi'  come delineata dal legislatore, la norma di
 cui all'art. 464 c.p. non pare avere alcuna possibilita'  pratica  di
 funzionare: ed invero, nel caso in cui si dimostri che l'agente abbia
 acquistato  la  marca  contraffatta  in  buona  fede,  al giudice non
 dovrebbe rimanere altra possibilita' che quella di assolverlo perche'
 il fatto non  costituisce  reato,  essendo  mancata  totalmente,  sul
 punto,  la prova dell'elemento soggettivo richiesto. Con un esito del
 giudizio, quindi, scontato in partenza, imponendosi in ogni  caso  il
 proscioglimento dell'imputato per insufficienza di prove.
   In  alternativa,  dovrebbe  sostenersi che la fattispecie di cui al
 combinato disposto del primo e del secondo comma dell'art. 474  c.p.,
 concerna  una  vera  e propria forma di responsabilita' oggettiva. Ed
 anche in questo  caso,  tuttavia,  la  conclusione  cui  del  giudice
 sarebbe parimenti obbligata: egli dovrebbe infatti condannare in ogni
 caso,  sulla  base  del  solo  accertamento  della condotta materiale
 prevista dalla norma (apposizione della marca sulla patente: che  non
 puo' non verificarsi, essendo l'amministrato tenuto ad applicarvela).
   Ritiene,  pertanto, il decidente che il presente giudizio non possa
 essere definito indipendentemente dalla risoluzione  delle  questioni
 di  legittimita'  costituzionale  come  sopra  accennate, imponendosi
 pertanto il rinvio degli atti al giudice delle leggi.
      Ritenuto quanto alla manifesta infondatezza della questione
   A) Violazione dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione.
   3.  -  In  ossequio  alla piu' attenta dottrina (Marinucci-Dolcini,
 Fiandaca) deve  dirsi  che  ove  la  norma  preveda  una  fattispecie
 delittuosa  costruita  sulla  esistenza,  nel  soggetto,  di un certo
 coefficiente psicologico empiricamente  non  riscontrabile  in  alcun
 modo,  la  stessa  si  ponga,  per  cio'  stesso, in contrasto con il
 principio di  determinatezza  della  fattispecie  penale,  posto  che
 l'obbligo  del  legislatore  di  delineare  l'ipotesi  incriminatrice
 secondo schemi sufficientemente precisi deve evidentemente riguardare
 non soltanto la descrizione della condotta  materiale  di  reato,  ma
 anche  la  individuazione  del  necessario coefficiente soggettivo di
 sostegno (il dolo, invero, deve abbracciare tutti  gli  elementi  del
 fatto  tipico:  artt. 5, 47, 59, 42, 43 e 44 c.p.). A nulla varrebbe,
 in  altri  termini,  che  la  condotta  tipica  fosse   astrattamente
 individuabile sulla base della formulazione della norma, se si tratti
 di  condotta  in  ordine alla quale risulti empiricamente impossibile
 verificarne il necessario  supporto  psicologico:  perche'  anche  in
 questo  caso  non  sarebbe  possibile  per  l'interprete esprimere un
 giudizio  di  corrispondenza  tra  il  comportamento  concreto  e  la
 fattispecie  astratta,  "sorretto da fondamento controllabile" (Corte
 costituzionale n. 96/1981).
   La condotta  sanzionata  dalla  norma  denunciata  consiste,  cosi,
 nell'"uso"  della  marca:  integra  oggettivamente il reato, percio',
 anche il fatto di aver presentato, ad esempio, la  patente  di  guida
 (unitamente  alla marca contraffatta) all'autorita' competente per il
 rinnovo della medesima (come e' appunto avvenuto nel caso di specie):
 e tuttavia, tale comportamento non e' ancora sintomatico dal punto di
 vista soggettivo, rimanendo ugualmente plausibile, in  astratto,  sia
 che  il  soggetto,  ricevuto il valore in buona fede, abbia mantenuto
 tale stato psicologico  anche  in  seguito  (altrimenti  non  avrebbe
 presentato  il  documento  all'autorita'),  sia  che  egli  contasse,
 invece, proprio di trarre in inganno quest'ultima: e cio' perche'  il
 deposito  della  patente  per  il rinnovo costituisce a ben vedere un
 atto  "necessitato"  per  il  cittadino  (ove  il  medesimo   intenda
 continuare  a  godere dell'abilitazione alla guida), non gia' un atto
 propriamente "spontaneo". E piu'  in  generale,  l'apposizione  della
 marca  sulla  patente  -  cosi'  come  del  resto  l'acquisto  ed  il
 successivo utilizzo di un qualsiasi altro valore di bollo - sono atti
 che giammai "parlano da soli", denotando semplicemente  il  pagamento
 di una tassa da parte dell'amministrato.
   Obbligato  il  rinvio, in proposito, a quanto affermato dalla Corte
 costituzionale in tema di plagio (art.  603  c.p.)  con  la  sentenza
 dell'8 giugno 1981, n. 96, nella quale e' stato appunto precisato che
 la determinatezza o tassativita' della fattispecie incriminatrice non
 attiene  soltanto alla sua formulazione linguistica, ma implica anche
 la verificabilita' empirica del fatto  dalla  medesima  disciplinato:
 "in  riferimento  all'art. 25 della Costituzione questa Corte ha piu'
 volte ripetuto che a base del principio invocato sta in  primo  luogo
 l'intento  di evitare arbitrii nell'applicazione di misure limitative
 di  quel  bene  sommo  ed  inviolabile  costituito   dalla   liberta'
 personale.    Ritiene  quindi  la  Corte  che,  per  effetto  di tale
 principio, onere della legge penale  sia  quello  di  determinare  la
 fattispecie  criminosa con connotati precisi in modo che l'interprete
 nel  ricondurre  un'ipotesi  concreta  alla  norma  di  legge,  possa
 esprimere  un  giudizio  di  corrispondenza  sorretto  da  fondamento
 controllabile.  Tale  onere  richiede  una  descrizione intellegibile
 della fattispecie astratta (...) e risulta  soddisfatto  fintantoche'
 nelle  norme penali vi sia riferimento a fenomeni la cui possibilita'
 di realizzarsi sia stata accertata in base a criteri che  allo  stato
 delle  attuali  conoscenze  appaiano  verificabili".  (...)    "nella
 dizione dell'art. 25 della Costituzione che impone  espressamente  al
 legislatore  di  formulare  norme  concettualmente  precise  sotto il
 profilo semantico della chiarezza e dell'intellegibilita' dei termini
 impiegati,  deve  ritenersi  anche  implicito  l'onere  di  formulare
 ipotesi  che esprimano fattispecie corrispondenti alla realta' (...).
 Sarebbe infatti assurdo ritenere che possano considerarsi determinate
 in coerenza col principio di tassativita'  della  legge,  norme  che,
 sebbene   concettualmente   intellegibili,   esprimano  situazioni  e
 comportamenti irreali o fantastici o comunque non avverabili, e tanto
 meno concepire disposizioni legislative che inibiscano o  ordinino  o
 puniscano  fatti  che  per  qualunque  nozione  ed  esperienza devono
 considerarsi inesistenti o non razionalmente accertabili".
   In definitiva, la fattispecie  delineata  dal  legislatore  con  il
 secondo  comma dell'art. 464, e consistente nel fatto di chi, pur non
 essendo concorso nella  contraffazione  dei  valori  bollati,  e  pur
 avendoli   ricevuti   in   perfetta   buona   fede,   successivamente
 accorgendosi della falsita' dei medesimi,  ne  abbia  consapevolmente
 fatto  uso,  non corrisponde ad un'ipotesi concretamente suscettibile
 di  verifica  processuale,  stante   l'assoluta   impossibilita'   di
 sceverare   i   mutamenti   psicologici   rimasti  meramente  interni
 all'individuo, e non estrinsecatisi  in  comportamenti  esteriormente
 percepibili.  E  sotto tale profilo, essa si pone dunque in contrasto
 con il principio di determinatezza (art.  25,  secondo  comma,  della
 Costituzione),  secondo la portata al medesimo attribuita dalla Corte
 costituzionale, con la sentenza n. 96/1981.
   B) Violazione dell'art. 27, primo comma, della Costituzione.
   4. - L'avere il legislatore meccanicamente escluso che l'acquirente
 di una marca da bollo contraffatta possa andare esente  da  pena  pur
 avendola   ricevuta  in  buona  fede,  in  una  con  l'impossibilita'
 probatoria sopra evidenziata circa il  sopravvenuto  mutamento  dello
 stato  psicologico  dell'agente  in  ordine  alla  autenticita' della
 marca, si pone altresi' in contrasto con il principio di colpevolezza
 quale recepito dalla Costituzione  (art.  27),  e  quale  piu'  volte
 enunciato dalla stessa Corte costituzionale (sentenze nn. 364 e 1085,
 del 1988), in collegamento con la funzione essenzialmente rieducativa
 che   deve   assolvere   la   pena   (art.  27,  terzo  comma,  della
 Costituzione): ed invero, chiamando a rispondere del reato  di  "uso"
 anche chi abbia ricevuto il valore di bollo nell'assoluta incoscienza
 della  sua  falsita',  l'art.  464  c.p.  non si sottrae al dubbio di
 nascondere una vera e propria ipotesi  di  responsabilita'  oggettiva
 (se  non addirittura "per fatto altrui"), in cui la realizzazione del
 solo comportamento materiale vietato (uso  della  marca),  basta,  di
 fatto, a fondare la colpevolezza dell'autore.
   Occorre osservare, infatti, che nel caso delle marche per patente -
 cosi'  come,  del  resto,  in  ordine ad un qualsiasi altro valore di
 bollo - l'"uso" segue immediatamente la "ricezione".
   Ove  pertanto  abbia  ricevuto il valore di bollo in buona fede, il
 soggetto rimane sostanzialmente  affidato  al  "caso"  che  la  marca
 acquistata  sia falsa oppure no. E poiche' la mera ricezione in buona
 fede di una marca contraffatta non e' ancora  reato,  nemmeno  di  un
 versari  in  re  illicita  si  tratta,  bensi'  di  una (surrettizia)
 responsabilita' "per fatto altrui", dato che il soggetto e'  chiamato
 a   rispondere   proprio   in   quanto  abbia  acquistato  una  marca
 materialmente contraffatta da altri (egli, infatti, non  deve  essere
 concorso nella contraffazione).
   Se  quindi  a configurare il reato de quo basta il mero "uso" della
 marca non genuina, pur ricevuta in buona fede, la  norma  di  cui  al
 secondo  comma dell'art. 464 c.p. va ritenuta in insanabile contrasto
 con il principio di  colpevolezza  costituzionalmente  inteso,  quale
 limite    cioe'   alla   discrezionalita'   del   legislatore   nella
 individuazione dei fatti penalmente sanzionabili: ed invero,  secondo
 quanto   da   ultimo   precisato   dal  giudice  delle  leggi  (Corte
 costituzionale, 24 marzo 1988, n. 364), tale principio  si  condensa,
 innanzitutto,  nel  tassativo  divieto  di  far ricadere nel soggetto
 colpe a lui non ascrivibili (c.d. responsabilita' per  fatto  altrui)
 e,  in  secondo  luogo,  nell'obbligo per il legislatore di stabilire
 incriminazioni solo per fatto proprio, ove per "fatto proprio"  -  ha
 sottolineato  efficacemente  la Corte - deve intendersi non "il fatto
 collegato al soggetto, all'azione  dell'autore,  dal  mero  nesso  di
 causalita'  materiale  (...)  ma  anche,  e  soprattutto, dal momento
 subiettivo,  costituito   in   presenza   della   prevedibilita'   ed
 evitabilita'  del  risultato  vietato,  almeno dalla "colpa" in senso
 stretto". (...)  "Perche'  sia  legittimamente  punibile,  (il  fatto
 imputato)  deve necessariamente includere almeno la colpa dell'agente
 in relazione  agli  elementi  piu'  significativi  della  fattispecie
 tipica".
                               P. Q. M.
   Visto  l'art.  23  della  legge  11  marzo  1953,  n.  87, dichiara
 rilevante  e   non   manifestamente   infondata   la   questione   di
 costituzionalita'   dell'art.   464,  secondo  comma,  del  c.p.,  in
 relazione agli artt. 25, secondo  comma  e  27,  primo  comma,  della
 Costituzione;
   Ordina  la sospensione del giudizio in corso, e dispone l'immediata
 trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
   Manda  alla  cancelleria  per  la  notificazione   della   presente
 ordinanza   al  Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri  e  per  la
 comunicazione  a  ciascuno  dei  Presidenti  delle  due  Camere   del
 Parlamento;
   Manda  altresi'  alla  Cancelleria  per l'avviso del deposito della
 presente ordinanza alle parti in causa ed al pubblico ministero.
     Palermo, addi' 1 febbraio 1996
                     Il vicepresidente: Tramontano
 96C0644