N. 525 ORDINANZA (Atto di promovimento) 1 aprile 1996

                                N. 525
  Ordinanza emessa il 1 aprile 1996 dal pretore di Brescia sul ricorso
 proposto da Marchesini Antonia contro l'INPS
 Previdenza e assistenza sociale  -  Pensioni  I.N.P.  S.  -  Previsto
    pagamento  dei  rimborsi in sei annualita' e mediante emissione di
    titoli di Stato - Estinzione dei giudizi  pendenti  alla  data  di
    entrata  in  vigore  della  normativa  impugnata  -  Incidenza sul
    diritto   di   difesa,   sui   principi   del   giudice   naturale
    dell'autonomia  ed  indipendenza  della magistratura e le relative
    attribuzioni, della copertura finanziaria - Abuso dello  strumento
    del  decreto-legge    in  assenza dei presupposti di necessita' ed
    urgenza - Violazione del  diritto  al  lavoro,  del  principio  di
    uguaglianza,  del  principio  della  tutela  del  lavoro  e  della
    retribuzione (anche differita) proporzionata ed adeguata.
 Previdenza e assistenza sociale - Pensioni I.N.P. S.  -  Pensione  di
    riversibilita'  -  Calcolo, per effetto della sentenza della Corte
    costituzionale n. 495/1993, in proporzione alla  pensione  diretta
    integrata  al trattamento minimo gia' liquidato o che l'assicurato
    ha diritto di percepire - Ritenuta illegittimita'  delle  pronunce
    additive  ed  interpretative  della Corte costituzionale - Lesione
    delle attribuzioni del potere legislativo e del potere giudiziario
    - Violazione del principio di copertura finanziaria.
 Corte costituzionale -  Giudizio  di  legittimita'  costituzionale  -
    Sentenze  di illegittimita' costituzionale - Indebita attribuzione
    di efficacia retroattiva.
 Corte costituzionale - Giudizio di legittimita' costituzionale in via
    incidentale - Nozione di rilevanza della questione nel giudizio  a
    quo  - Nesso di necessaria pregiudizialita' della questione stessa
    per la definizione del giudizio - Compressione del sindacato della
    Corte costituzionale - Violazione della sfera di attribuzioni  del
    potere giudiziario.
 Corte costituzionale - Giudizio di legittimita' costituzionale in via
    incidentale  -  Condizioni  e forme di proponibilita' - Previsione
    con legge ordinaria - Violazione del principio  della  riserva  di
    legge costituzionale.
 (D.-L.  28  marzo 1996, n. 166, art. 1; legge 21 luglio 1965, n. 903,
    art. 22; legge 11 marzo 1953, n. 87, artt. 30, terzo comma, e  23,
    secondo comma).
 (Cost.,  artt. 1, primo e secondo comma, 3, 4, primo comma, 24, primo
    comma, 25, primo comma, 35, primo comma, 36, primo comma, 70,  72,
    77,  81, quarto comma, 101, 104, primo comma, 111, 134, 136, primo
    comma, e 137, primo comma).
(GU n.25 del 19-6-1996 )
                              IL PRETORE
   Visti:
     gli atti difensivi delle parti;
     il d.-l. 28 marzo 1996, n. 166;
     l'art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903;
     la  sentenza  29-31   dicembre   1993,   n.   495   della   Corte
 costituzionale;
     l'art. 11, comma 22, legge 24 dicembre 1993, n. 537;
     la  sentenza  n.  240/1994  della Corte costituzionale, emessa in
 data 10 giugno 1994;
     l'art. 23 e l'art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n.
 87;
     l'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1;
     l'art. 1 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1;
     gli artt. 1, 2, 3, 4, 24, 25, 35, 36, 70, 71, 72, 73, 76, 77, 81,
 101, 102, 104, 111, 134, 136 e 137 Costituzione;
   Ha pronunciato, dandone integrale lettura, la seguente ordinanza ai
 sensi dell'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e
 dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n.  87,  di  rimessione  alla
 Corte  costituzionale  di  questioni  di legittimita' costituzionale,
 rilevate d'ufficio, nella causa r.g.  n.  4906/1995,  in  materia  di
 previdenza   ed   assistenza  obbligatoria,  promossa  da  Marchesini
 Antonia, elettivamente domiciliata in Brescia presso  l'avv.  Luciano
 Nardino,  il  quale  la  rappresenta  e difense in forza di procura a
 margine del  ricorso,  ricorrente,  contro  l'I.N.P.  S.  -  Istituto
 nazionale   della  previdenza  sociale,  in  persona  del  presidente
 pro-tempore, rappresentato e difeso dai  dott. proc. Oreste  Manzi  e
 Alfonso Faienza, procuratori per mandati alle liti a rogito del dott.
 Lupo,  notaio  in  Roma,  con domicilio eletto nel proprio ufficio di
 avvocatura in Brescia, via Cefalonia, n. 49, convenuto.
 Brevi note sulle deduzioni e conclusioni  formulate  dalle  parti  in
 causa
   1.  -  Dopo  aver  ricordato  nell'atto  introduttivo del giudizio,
 depositato in cancelleria in data 14 settembre 1995,  che  l'art.  22
 della  legge  n. 903/1965 e' stato dichiarato illegittimo dalla Corte
 costituzionale con sentenza  n.  495/1993  nella  parte  in  cui  non
 prevede   che   la   pensione  di  reversibilita'  sia  calcolata  in
 proporzioni alla pensione diretta  integrata  al  trattamento  minimo
 gia'  liquidata  al  pensionato  o  che l'assicurato avrebbe comunque
 diritto  di percepire, nelle sue conclusioni l'attrice ha  chiesto  a
 questo  Pretore, di "dichiarare il diritto del ricorrente ad ottenere
 il ricalcolo della pensione superstiti della quale e' titolare  sulla
 base  dell'importo  del trattamento effettivamente goduto o spettante
 al dante causa, comprensivo anche dell'integrazione  al  minimo.  Per
 l'effetto  condannare l'Istituto alla ricostituzione di tale pensione
 nonche'  alla  corresponsione  degli  arretrati.  Con   rivalutazione
 monetaria e gli interessi legali, nonche' con vittoria delle spese di
 lite   da   distrarsi   in   favore   del   sottoscritto  procuratore
 antitatario".
   2. - L'INPS, costituitosi in giudizio con ampia  memoria  difensiva
 depositata  il  21  marzo  1996,  ha  espresso le seguenti, riportate
 testualmente, conclusioni: respingere il ricorso "in via  preliminare
 per carenza dei requisiti fattuali di cui alle premesse".
   "Nel  merito:  respingere  il  ricorso  siccome  inammissibile  per
 scadenza del termine di decadenza  per  agire  in  giudizio  previsto
 dalle vigenti disposizioni.
   In via subordinata respingere la domanda per carenza d'interesse in
 quanto  il  ricorrente  gode  di  pensione  di  reversibilita' per un
 importo integrato al minimo o superiore.
   Respingere  la  domanda  di  riliquidazione   della   pensione   di
 reversibilita'  rapportata  al  trattamento minimo del dante causa in
 quanto riferita a periodi anteriori alla pubblicazione della sentenza
 della Corte costituzionale in materia.
   Con vittoria di spese, competenze ed onorari".
   3. - L'istituto resistente ha, inoltre, pur senza addurre argomenti
 di supporto, senza assumere conclusioni specifiche e senza  sollevare
 formale  questione  di  legittimita'  costituzionale,  sostenuto  che
 l'interpretazione dell'art. 22 legge n. 903/1965 nei termini additivi
 voluti dalla sentenza n. 495/1993 sarebbe, comunque, in contrasto con
 l'art. 81 Costituzione.
                               PREMESSA
   Per consentire la piu' razionale esposizione degli argomenti  posti
 a   sostegno   delle  questioni  di  legittimita'  costituzionale  da
 sviluppare, in primo luogo, in relazione alla normativa sopravvenuta,
 costituita dal recentissimo decreto legge  28  marzo  1996,  n.  166,
 pubblicato  sulla Gazzetta Ufficiale n. 75, parte prima, del 29 marzo
 1996 ed in vigore dal  30  marzo  1996,  e,  in  secondo  luogo,  con
 riferimento  al  precedente  quadro  normativo, la presente ordinanza
 deve essere distinta in  due  parti  specifiche,  seguite  da  alcune
 generali considerazioni conclusive.
                              PRIMA PARTE
   La normativa sopravvenuta art. 1 del d.-l. 28 marzo 1996, n. 166.
 Nelle  more  del  giudizio e' stato modificato il quadro normativo di
 riferimento e tale   nuova situazione deve  essere  valutata  in  via
 prioritaria.    Come si e' gia' detto, il Governo ha emanato il d.-l.
 n. 166 del 28 marzo 1996 - entrato  in  vigore  il  giorno  30  dello
 stesso  mese  e, dunque, applicabile alla presente controversia - ove
 sono dettate, nell'art.  1,  una  serie  di  disposizioni  dirette  a
 risolvere  in  via  definitiva, sia l'annoso problema della copertura
 finanziaria necessaria per il pagamento del  "rimborso"  delle  somme
 maturate  fino  al 31 dicembre 1995 in favore degli aventi diritto in
 conseguenza   dell'applicazione   delle    sentenze    della    Corte
 costituzionale  n.  495/1993  e n. 240/1994, sia l'ancora piu' antico
 contenzioso giurisdizionale legato all'accertamento  del  diritto  al
 calcolo  delle    pensioni di riversibilita' nella misura del 60% del
 trattamento minimo effettivamente goduto dal  pensionato  deceduto  o
 che sarebbe spettato all'assicurato ed alla "cristallizzazione" delle
 pensioni  a  decorrere  dal 1 ottobre 1983 nella misura erogata al 30
 settembre 1983, sui quali  sono  intervenute  le  due  decisioni  del
 giudice  delle  leggi sopra indicate.  Prima di inoltrarsi nell'esame
 del   suddetto   decreto-legge  e  dei  suoi  molteplici  aspetti  di
 incostituzionalita', e' bene chiarire che questo  giudice,  il  quale
 aveva  in  otto  precedenti  ordinanze  (emesse  in  data 20, 27 e 29
 novembre 1995, 5, 7,  7  e  13  dicembre  1995  e  1  febbraio  1996,
 rispettivamente   nelle   cause  promosse  da  Loda  Maria,  Richichi
 Francesco e piu', Spagnoli Mercede,  Gregorini  Giovanna,  Sarabotini
 Serafina,  Destro  Felice,  Di Martino Paola e Scaroni Agnese, sempre
 contro l'INPS; tutte  gia'  trasmesse  alla  Corte  costituzionale  e
 notificate  e  comunicate ai sensi dell'art. 23 delle legge n, 87 del
 1953) auspicato un intervento legislativo risolutivo,  tale  da  dare
 certezza  di  diritto alle molte e gravi problematiche correlate alle
 sentenze n. 495 del 1993 e n.  240  del  1994,  con  la  speranza  di
 trovare   risposta   in   una   legge,   forte  e  costituzionalmente
 inceccepibile,  approvata  dalle  due  Camere  del  Parlamento,  deve
 prendere  atto della deludente realta' costituita da un provvedimento
 provvisorio del Governo del tutto inidoneo a  raggiungere  lo  scopo,
 poiche',  invece  di  conseguire  l'auspicata  soluzione finale delle
 ricordate problematiche, suscita nuovi, numerosi e  gravissimi  dubbi
 di  legittimita'  costituzionale,  concernenti lo stesso ricorso allo
 strumento del decreto legge, nonche' il merito delle scelte adottate.
 Sono numerose, infatti, le questioni di  legittimita'  costituzionale
 che devono essere rilevate dl'ufficio.
   1. - Questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1 del d.-l.
 n. 166 del 1996 per violazione dell'art. 77 della Costituzione.
   L'art. 77 della nostra Costituzione, testualmente, dispone:
     "Il  Governo  non  puo',  senza delegazione delle Camere, emanare
 decreti che abbiano valore di legge  ordinaria.
     Quando, in  casi  straordinari  di  necessita'  e  d'urgenza,  il
 Governo   adotta,   sotto   la   sua  responsabilita',  provvedimenti
 provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli  per
 la  conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente
 convocate e si riuniscono entro cinque giorni.    I  decreti  perdono
 efficacia  sin  dall'inizio,  se  non  sono convertiti in legge entro
 sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Le Camere possono  tuttavia
 regolare  con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti
 non convertiti".   Il divieto di  carattere  generale  sancito  dalla
 Costituzione  all'emissi    one  di decreti aventi forza di legge del
 Governo in assenza (come nella fattispecie in esame) di delega  delle
 Camere,  trova  eccezione,  regolata  dal  secondo comma dell'art. 77
 della  Costituzione,  solo  in  casi  straordinari  di  necessita'  e
 d'urgenza;  sono, dunque, tre i requisiti da valutare per determinare
 se il decreto legge emanato senza delegazione delle  Camere  rispetti
 il  preciso  ed inequivoco dettato costituzionale:  1) l'esistenza di
 un caso  straordinario;  2)  che  richieda  un  necesario  intervento
 governativo; 3) di tale urgenza da escludere i tempi del normale iter
 parlamentare.    Tutti  tali  requisiti  devono  sussistere,  reali e
 verificabili.   Il decreto in esame  non  rispetta  nessuno  dei  tre
 suddetti ineludibili presupposti.
   1) Il caso straordinario.
   Il  d.-l.  n.  166/1996,  art.  1,  non  risponde  ad alcun caso di
 straordinarieta':  la situazione alla quale  vorrebbe  porre  rimedio
 risale  a  due anni e tre mesi fa, per quanto concernente la sentenza
 n. 495 del dicembre 1993, e  ad un anno e  nove  mesi  addietro,  con
 riferimento  alla  n.   240 del giugno 1994, mentre l'attuale Governo
 (ma  non  si  dimentichi  che e' il secondo ad essere coinvolto dalle
 problematiche derivanti dalle due sentenze della Corte) e' in  carica
 da  oltre un anno: il caso non ha alcun carattere di straordinarieta'
 intesa nel senso previsto dall'art. 77, secondo comma, Costituzione e
 puo' solo parlarsi di incapacita' o assenza di volonta'  del  Governo
 (ma  sopratutto  del  Parlamento) a trovare una soluzione giuridica e
 costituzionalmente  ineccepibile  ad  un  contenzioso   che   incombe
 sul''amministrazione  della giustizia da lustri, sempre irrisolto, ma
 non nuovo, ne' straordinario, bensi' noto ed ordinario.
   2) La necessita'.
   Nel  caso  in  discussione  la  necessita'  di   un   provvedimento
 provvisorio  del  Governo avente forza di legge e' negata alla radice
 dalla  semplice  considerazione   (ulteriore,   rispetto   a   quella
 precedente)    dell'ovvia    insufficienza    -    ma   anche   della
 irragionevolezza (con violazione, dunque,  anche  dell'art.  3  della
 Costituzione)   -   di   un   atto   provvisorio  che  incide,  forse
 inconsapevolmente,  ma  direttamente  e  senza  pero'   offrire   una
 definitiva soluzione, sulla complessa problematica giuridica relativa
 alla  legittimita'  costituzionale delle stesse disposizioni di legge
 colpite dalle  decisioni  "legislative"  della  Corte  costituzionale
 "addittive"  e  "manipolatrici":  appare  davvero  incongruo ritenere
 necessario un decreto legge, emesso per di  piu'  da  un  Governo  al
 termine  del suo mandato, per risolvere una problematica complessa ed
 estremamente articolata che tocca  questioni  essenziali  della  vita
 democratica  della  nostra  Repubblica,  gia' portata all'esame della
 Consulta da questo pretore con le numerose  ordinanze  di  rimessione
 gia'  ricordate,  una  sola  delle  quali  (con  il n. 41), peraltro,
 risulta  pubblicata  nella  Gazzetta   Ufficiale   della   Repubblica
 Italiana,  serie  speciale,  n.  6 del 7 febbraio 1996, pag. 98.  Non
 puo' inoltre  tacersi  che  anche  sotto  un  altro  profilo  non  e'
 possibile riscontrare il requisito della necessita' a giustificazione
 dell'art.  1  del  decreto  legge  in  esame: non esiste, infatti, la
 certezza del diritto a quei  crediti  da  soddisfare  "in  consegueza
 dell'applicazione  delle  sentenze  della Corte costituzionale n. 495
 del 1993 e n. 240 del 1994".   Si deve  osservare,  infatti,  che  il
 decreto  non opera una recezione nel vigente diritto positivo scritto
 del  contenuto  delle  suddette  sentenze,  ne   espressamente,   ne'
 implicitamente,  ma  si  limita  a ricercare (senza successo, come si
 vedra' piu' avanti trattando del merito del provvedimento) i mezzi di
 finanziamento per "il rimborso  delle  somme,  maturate  fino  al  31
 dicembre  1995,  sui  trattamenti  pensionistici  erogati  dagli enti
 previdenziali interessati,  in  conseguenza  dell'applicazione  delle
 sentenze  della  Corte  costituzionale  n.  495 del 1993 e n. 240 del
 1994", senza minimamente curarsi del fatto si applicano  le  leggi  e
 non  le  sentenze  da qualunque organo emesse.  Nel decreto-legge, in
 realta' si pretende di soddisfare dei crediti la cui esistenza non e'
 certa,  poiche'  la  problematica  attinente  l'efficacia  di  quelle
 sentenze  della Corte costituzionale e' stata rimessa al controllo di
 legittimita' dello stesso Giudice delle leggi e, dunque,  non  si  ha
 neppure certezza in ordine alla validita' delle stesse decisioni e ai
 loro  effetti  sulle disposizioni di legge ritenute incostituzionali,
 ma senza produrre l'effetto della caducazione come previsto dall'art.
 136 della Costituzione.
   3) L'urgenza.
   Quanto  all'urgenza  (smentita  gia' dai tempi evidenziati al primo
 punto) puo' dirsi agevolmente che non si ravvisa  alcuna  ragione  di
 tanta improvvisa sollecitudine: ben sarebbe stato gradito ai titolari
 di  legittime  aspettative,  legate  alle  due,  piu'  volte  citate,
 sentenze della Corte costituzionale, anche un  organico  e  ponderato
 disegno di legge d'iniziativa del Governo ai sensi dell'art. 71 della
 Costituzione,   essendo  sicuramente  corretta  e  costituzionalmente
 legittima sempre una tale soluzione anche se le Camere sono  sciolte.
 Ma  non  basta: appare piu' che chiara l'assenza di una reale urgenza
 in questo caso specifico, se solo si consideri che  nel  primo  comma
 dell'art.  1 del d.-l. n. 166/1996 viene previsto un pagamento in sei
 annualita' e per di piu'  mediante  emissione  di  titoli  di  Stato,
 soluzione  del  tutto  incompatibile  con  il fine di regolare un (in
 verita' artificiosamente affermato) caso di straordinaria  necessita'
 ed  urgenza, che impone razionalmente una risposta efficiente, pronta
 ed immediata e non un piano di estinzione del debito diluito  in  ben
 sei  anni.    L'urgenza,  invero,  non  deve  essere solo un astratto
 presupposto per  consentire  al  governo  di  adottare  provvedimenti
 provvisori,  ma  deve  trovare  riscontro oggettivo, sia esterno come
 causa idonea a legittimare  l'emissione  dell'atto  avente  forza  di
 legge,  sia  interno  come  risposta  efficiente  per  dare soluzione
 efficace ed immediata al caso di straordinaria necessita'  sul  quale
 si  interviene.    Tutto  cio' che si e' sin qui esposto vale per far
 risaltare la totale inesistenza dei requisiti espressamente richiesti
 dall'art.   77, secondo  comma,  Cost.  e  per  dimostrare  gia'  con
 riferimento  a  tale  solo  profilo  l'illegittimita'  costituzionale
 dell'intero art.  1 del d.-l. n. 166/1996.
   2. - Questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1 del d.-l.
 n. 166/1996 per violazione degli artt. 1,  secondo  comma,  70  e  72
 della  Costituzione.    E'  poi  di  solare  evidenza  che  la palese
 violazione, gia' rilevata  e  diffusamente  argomentata,  dei  limiti
 posti al Governo dall'art.  77, Costituzione determina un altrettanto
 chiara  usurpazione  da parte del potere esecutivo delle attribuzioni
 del Parlamento, con lesione degli artt. 1, secondo  comma,  70  e  72
 Cost.,  e  questa  ulteriore  illegittimita'  costituzionale non puo'
 essere taciuta, a nulla rilevando una eventuale "condiscendenza"  del
 Parlamento   a  subirla,  perche'  la  violazione  dei  limiti  delle
 attribuzioni di un potere e' fatto che incide  in  modo  insuperabile
 sulla legittimita' costituzionale dei provvedimenti emessi in difetto
 di attribuzione e non e' solo un evento che riguarda in via esclusiva
 i  rapporti  di  "buon  vicinato" tra i poteri dello Stato, poiche' a
 sommesso avviso di questo giudice costituisce  gravissima  violazione
 della Costituzione anche il solo permettere tacitamente che un potere
 privo delle relative attribuzioni costituzionali supplisca ai compiti
 e  funzioni  istituzionali propri di un altro potere.  E' sufficiente
 ricordare il fondamentale dettato del secondo comma dell'art. 1 della
 Costituzione ("La sovranita' appartiene al  popolo  che  la  esercita
 nelle  forme  e  nei  limiti della Costituzione") in correlazione con
 l'art. 70 ("La funzione  legislativa  e'  esercitata  collettivamente
 dalle  due  Camere")  e con l'art. 72, primo comma soprattutto ("Ogni
 disegno di legge, presentato ad una Camera e', secondo le  norme  del
 suo  regolamento,  esaminato  da  una  commissione e poi dalla Camera
 stessa  che  lo  approva  articolo  per  articolo  e  con   votazione
 finale."),  per  comprendere  quanto  grave sia la loro violazione e,
 dunque,   quanto  intollerabilmente  sia  vulnerata  la  Costituzione
 dall'art.  1 del  d.-l. n. 166/1996, come conseguenza  diretta  della
 gia'  rilevata  non  conformita' del detto decreto legge all'art. 77,
 secondo comma.
   3. - Questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1 del d.-l.
 n. 166/1996  per  violazione  dell'art.  136,  secondo  comma,  della
 Costituzione.    L'art. 136, secondo comma, dispone: "La decisione e'
 pubblicata  e  comunicata  alle  Camere  ed  ai  Consigli   regionali
 interessati, affinche', ove lo ritengano necessario, provvedano nelle
 forme costituzionali":  la norma e' speciale rispetto agli artt. 70 e
 seguenti della sezione II (Formazione delle leggi) della Costituzione
 che disciplinano la normale attivita' legislativa e, logicamente, non
 consente  in  nessun caso di ritenere attribuito al Governo il potere
 di adottare i provvedimenti provvisori  previsti  nel  secondo  comma
 dell'art.  77,  essendo  sancita  solo  e soltanto la possibilita' di
 regolare con legge nelle forme costituzionali gli eventuali  problemi
 derivanti  dalle  decisioni della Corte costituzionale che dichiarano
 l'illegittimita' di una norma di legge o di un atto avente  forza  di
 legge  ed essendo individuato nelle sole Camere il potere dello Stato
 competente in via esclusiva a stabilire se ricorrano le condizioni di
 necessita' per intervenire,  come  chiaramente  sancito  dal  secondo
 comma  dell'art.  136.    Dunque,  solo a seguito di specifica delega
 delle Camere con riferiment    o  all'attivita'  legislativa  di  cui
 all'art.  136,  secondo comma, puo' essere ritenuto legittimo un atto
 del Governo avente forza di legge.   Poiche', nel  caso  presente  le
 Camere  non  hanno  delegato il Governo ai sensi dell'art. 76 Cost. e
 poiche'  non e' previsto, anzi e' escluso  come  sopra  chiarito,  il
 potere  del  Governo  di  adottare i provvedimenti provvisori  di cui
 all'art. 77, secondo comma, per l'ipotesi  formulata  nell'art.  136,
 secondo  comma,  e' del tutto palese la  sussistenza della violazione
 di quest'ultima disposizione della  Costituzione  con  conseguente  e
 necessario   rilievo d'ufficio, per l'ennesima volta, della questione
 di legittimita' costituzionale dell'intero art. 1 del  decreto  legge
 28  marzo  1996,  n.  166.    E'  vero, peraltro, che l'art. 2, comma
 settimo, della legge 11 marzo 1988, n. 67  testualmente  prevede  che
 "Qualora   nel  corso  dell'attuazione  delle  leggi  si  verifichino
 scostamenti rispetto alle previsioni di  spesa  e  di    entrate,  il
 Governo  ne  da'  notizia tempestivamente al Parlamento con relazione
 del Ministro del tesoro e assume le conseguenti iniziative. La stessa
 procedura e' applicata in  caso  di  sentenze  definitive  di  organi
 giurisdizionali  e della Corte costituzionale recanti interpretazioni
 della normativa vigente suscettibili di determinare maggiori  oneri",
 ma  tale  disposizione  non  contrasta con quanto sopra affermato ed,
 anzi, ne conferma l'esattezza,  giacche'  non  consente  di  ritenere
 attribuito   al   Governo   (una  siffatta  interpretazione  sarebbe,
 comunque, contraria all'art. 136, secondo comma, della  Costituzione)
 il potere di emanare decreti legge, bensi' gli impone di dare notizia
 al  Parlamento  della  nuova situazione verificatasi e di assumere le
 conseguenti iniziative, da  intendersi  in  relazione  alle  sentenze
 della  Corte costituzionale limitate alla presentazione di disegni di
 legge ai sensi dell'art. 71 della Costituzione.
   4. - Questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, commi 1,
 2 e 3, del d.-l. n. 166/1996 per violazione degli  artt. 24, comma 1,
 e 25, comma 1, della Costituzione.  In primo luogo deve essere  messo
 in  piena  luce  che  mai  si  era  verifica    to nella legislazione
 italiana,  pur  tormentata  da un eccessivamente anomalo ricorso alla
 decretazione d'urgenza del Governo, un caso si' palesemente  evidente
 di abuso di potere da parte del potere esecutivo con grave violazione
 delle  attribuzioni  del  Parlamento  e  dell'autorita'  giudiziaria.
 Questa autorita' giudiziaria non intende sollevare  un  conflitto  di
 attribuzione  con  il  Potere esecutivo, nonostante la sussistenza di
 fondate ragioni per dar vita a  tale  procedimento,  poiche'  ritiene
 eccessivo ed improprio il ricorso a tale lacerante rimedio giuridico,
 a  fronte  della  ravvisata  possibilita'  di  pervenire  al medesimo
 risultato di cancellare dall'ordinamento  le  parti  illegittime  del
 contestato  decreto  legge  mediante  il piu' "normale" e fisiologico
 rilievo d'ufficio di questioni di costituzionalita'.  Tra le quali vi
 e' la presente: il Governo ha emanato  il  d.-l.    n.  166/1996  per
 imporre  una  specifica  soluzione  delle  numerosissime controversie
 pendenti in primo e secondo grado dinanzi ai giudici  del  lavoro  di
 tutta Italia e dinanzi alla Corte di Cassazione, soluzione che non si
 presenta pero' con i connotati della norma di legge, ma piuttosto con
 quelli tipici della sentenza del giudice ordinario, giacche' risponde
 alle domande formulate dai tanti ricorrenti con accoglimento di molte
 di  esse,  ma  non  di  tutte  (poi se ne parlera' piu' chiaramente),
 giungendo addirittura a dichiarare  l'estinzione  dei  processi  e  a
 compensare  tra  le  parti  le  spese  di  causa:  una  vera sentenza
 collettiva.   Inoltre,  con  specifico  riferimento  al  terzo  comma
 dell'art.  1  del decreto-legge n. 166/1996, non puo' farsi a meno di
 notare  come  disporre  che  (si  riporta  testualmente)  "I  giudizi
 pendenti  alla  data  di entrata in vigore del presente decreto legge
 aventi a oggetto le  questioni  di  cui  al  presente  articolo  sono
 dichiarati  estinti  d'ufficio  con  compensazione delle spese fra le
 parti. I provvedimenti giudiziali non  ancora  passati  in  giudicato
 restrano  privi  di  effetto",  a  fronte di una soluzione inidonea a
 definire in senso positivo o negativo per tutti coloro che hanno  una
 controversia   in   corso   in   sede   giudiziaria  -  in  via  solo
 esemplificativa e non esaustiva, infatti, non  si  comprende  perche'
 gli   accertamenti   reddituali   debbano  essere  spostati  in  sede
 amministrativa, quando di certo costituiscono uno degli  elementi  da
 valutare  per  accogliere o respingere i ricorsi giudiziari, come non
 e' chiaro se realmente si e' voluto escludere il diritto degli  eredi
 con  la  previsione  degli  aventi  diritto  di cui al secondo comma,
 mentre e' certo che, esclusi o  meno,  agli  eredi  non  puo'  essere
 precluso  di  coltivare  le azioni gia' proposte o proponende in sede
 giurisdizionale  -  viola,  sia  l'art.  24,   primo   comma,   della
 Costituzione poiche' vieta agli interessati "di agire in giudizio per
 la  tutela  dei propri diritti", sia l'art. 25, primo comma, poiche',
 eliminando la giurisdizione, distoglie gli odierni  ed  i  potenziali
 ricorrenti  dal giudice naturale precostituito per legge".  Ulteriori
 motivazioni sulla presente questione appaiono davvero superflue.
   5. - Questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1 del d.-l.
 n. 166 del 1996 per violazione  dell'art.  81,  quarto  comma,  della
 Costituzione.    Il primo comma dell'art. 1 del d.-l. n. 166 del 1996
 prevede il "rimborso"  del  quale  gia'  si  e'  detto  mediante  sei
 annualita',  mentre  il  quarto  comma (ove si individuano i mezzi di
 copertura  dell'"onere  derivante  dall'applicazione   del   presente
 articolo"  omette totalmente di indicare la copertura finanziaria per
 gli  anni  1999, 2000 e 2001:  e' dato certo e non opinabile, poiche'
 vengono contemplate  solo  le  annualita'  dal  1996  al  1998.    La
 violazione dell'ultimo comma dell'art. 81 Costituzione e', per quanto
 possa  sembrar  strano,  riconosciuta nella stessa disposizione sopra
 citata, ove il Governo palesemente si fa  carico  di  determinare  la
 copertura  solo per tre delle sei annualita' previste per "rimborso",
 lasciando   cosi'   scoperte    le    restanti,    con    conseguente
 incontrovertibile  illiegittimita'  costituzionale dell'intero art. 1
 del d.-l. n. 166/1996.  Ne' puo' opporsi  alla  constatazione  appena
 espressa   una  ipotetica  necessita'  di  rispettare  la  previsione
 triennale di bilancio, poiche', al fine del  rispetto  dell'art.  81,
 ultimo  comma,  Costituzione,  devono essere totalmente individuate e
 precisate nella legge che prevede nuove spese le risorse  finanziarie
 per  la  copertura  piena  delle  medesime spese e non puo' ritenersi
 soddisfatto tale obbligo, qualora, come nel caso  qui  sottosposto  a
 critica,  l'indicazione dei "mezzi per farvi fronte" non sia completa
 e precisa.    Peraltro,  sotto  altro  aspetto,  non  sembra  neppure
 possibile  ritenere che l'assegnazione di titoli di Stato costituisca
 corretto mezzo di copertura  finanziaria  degli  oneri  ai  quali  il
 decreto  legge  vorrebbe  dare  esecuzione,  poiche' altro non e' che
 nuovo indebitamento dello Stato e quindi non puo' essere  considerato
 come  nuova  risorsa  per  finanziare  il  pagamento  del  debito: la
 sostituzione di un debito  con  un  altro  debito  non  e'  copertura
 finanziaria  di  una spesa, ma solo operazione poco chiara e limpida.
 Se dovesse passare indenne all'esame  del  giudice  delle  leggi  una
 siffatta  artificiosa  e  solo apparente copertura delle nuove spese,
 allora dovremmo  riconoscere  che  l'art.  81,  ultimo  comma,  della
 Costituzione  e'  norma  inutile,  o, peggio, abrogata con il decreto
 legge che qui si critica.  Puo' anche essere sostenuto che  la  legge
 di  bilancio  non deve rispetta  re la parita' tra entrate e uscite e
 puo' essere accettata la tesi secondo  la  quale  e'  sufficiente  la
 previsione  dei  mezzi  di finanziamento per la copertura delle nuove
 spese, per cui vi sarebbe il rispetto  dell'art.  81,  ultimo  comma,
 anche se la previsione si rivelasse erronea ed ottimistica, ma non si
 puo'  accedere  a  soluzioni, come quella adottata dal Governo, nelle
 quali non vi sia  neppure  l'ombra  dell'effettivita'  teorica  delle
 nuove  risorse,  limitandosi  l'operazione  a  spostare la carenza di
 copertura  finanziaria  ad  un'epoca  futura,  con  una   sostanziale
 rinnovazione del debito, senza estinzione dell'obbligazione reale, la
 quale  resta,  comunque,  sempre a carico del debito pubblico, sempre
 priva di copertura finanziaria.
   6. - Questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1 del d.-l.
 n. 166 del  1996  per  violazione  dell'art.  3  della  Costituzione.
 Inoltre,  deve  essere  posto in luce che gli equilibrismi finanziari
 gia'  criticati  nella  precedente  questione,  non  possono   essere
 ritenuti  legittimi,  non  solo perche' violano nella sostanza l'art.
 81, quarto comma, Costituzione, ma anche perche' essi sono  privi  di
 ragionevolezza e, dunque, vulnerano l'art. 3.  Sempre con riferimento
 al  principio  di  ragionevolezza,  non si puo' evitare di mettere in
 risalto alcune atecnicita' presenti nell'art.  1 del decreto legge 28
 marzo  1966,  n.  166,  che  sono  indice  di  grave  lacunosita'  ed
 imprecisione,  tale  da  rendere  dal  punto  di  vista  giuridico di
 difficile applicabilita' molte delle norme in esso poste, per assenza
 di una corretta terminologia e di una piena coerenza interna  tra  le
 varie  disposizioni.  Si parla reiteratamente di "rimborsi" nel primo
 e secondo comma dell'art. 1 del d.-l.  n.  166/1996,  ma  nulla  deve
 essere  rimborsato.    Si individua la categoria dei "superstiti" nel
 secondo comma dello  stesso  articolo,  ma  non  e'  chiaro  se  tale
 riferimento  sia davvero diretto ad escludere il diritto degli eredi,
 anche se,  nei  giorni  immediatamente  successivi  all'annuncio  del
 decreto  da parte del Governo e alla presentazione del suo contenuto,
 questa  e'  stata  l'opinione  comune.    Si  parla  nel  decreto  di
 attuazione   e   di   applicazione   delle   sentenze   della   Corte
 costituzionale n. 495/1993 e 240/1994,  pero'  non  si  detta  alcuna
 norma  di  legge  idonea  a  recepire i contenuti delle due sentenze,
 mentre  contemporaneamente  si  tenta,  come  si  e'  ipotizzato,  di
 escludere  i diritti degli eredi, in contraddizione insanabile con le
 suddette decisioni della Corte costituzionale nelle quali  nulla  del
 genere  viene  affermato.   Di irragionevolezza insanabile il decreto
 legge n. 166/1996 e' "intriso" in ogni  sua  parte  e  non  puo'  che
 condurre  alla  violazione del principio di ragionevolezza desumibile
 dall'art. 3 della Costituzione.
   7. - Questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  1,  terzo
 comma,  del  d.-l.  n.  166/1996  per violazione degli artt. 1, primo
 comma, 4, primo comma, 35,  primo  comma  e  36,  primo  comma  della
 Costituzione.   Per ultima nella sequenza qui prescelta, ma non certo
 ultima in termini di  importanza,  viene  rilevata  la  questione  di
 costituzionalita' dell'art. 1, terzo comma, del d.-l. n. 166/1996 che
 impone la compensazione delle spese del giudizio nelle cause in corso
 in  spregio del primo comma dell'art. 1 della Costituzione ("L'Italia
 e' una Repubblica democratica fondata sul lavoro"), dell'art. 4  ("La
 Repubblica  riconosce  a  tutti  i  cittadini  il diritto al lavoro e
 promuove  le  condizioni  che  rendono  effettivo  questo  diritto"),
 dell'art.  35  ("La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme
 ed applicazioni"), dell'art.  36 ("Il lavoratore ha  diritto  ad  una
 retribuzione  proporzionata  alla quantita' e qualita' del suo lavoro
 ..."), norme fondamentali tutte  della  nostra  Carta  costituzionale
 dirette  a riconoscere e tutelare il lavoro in se', senza distinzioni
 tra le molteplici espressioni  dell'attivita'  lavorativa  umana,  la
 quale  ha  pari  dignita'  nella  Costituzione,  qualunque sia la sua
 natura ed in qualunque  regime  si  attui  e  realizzi.    Il  lavoro
 subordinato,  autonomo,  professionale,  artistico, intellettua   le,
 manuale, imprenditoriale e qualunque  altra  sua  forma  ipotizzabile
 trova  tutela  paritaria  e piena nella nostra Costituzione, giacche'
 "L'Italia e' una Repubblica democratica fondata sul lavoro" (art.  1,
 primo comma) e "La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue  forme
 ed  applicazioni"  (art. 35, primo comma) e "Il lavoratore ha diritto
 ad una retribuzione proporzionata alla quantita' e qualita'  del  suo
 lavoro".    L'affermazione  della  compensazione  ex lege delle spese
 processuali, in fattispecie, come quella presente - del tutto normale
 e  generale  nelle  controversie  aventi  ad   oggetto   domande   di
 prestazioni previdenziali ed assistenziali -, nelle quali i difensori
 dei  ricorrenti  hanno  anticipato  le  spese e non riscosso onorari,
 nell'ambito di notori  accordi  con  i  patronati  che  prevedono  lo
 svolgimento  gratuito  dell'attivita' professionale nei confronti dei
 clienti  inviati  dagli  stessi  patronati,   costituisce   negazione
 illegittima  dei  diritti  fondamentali  sanciti dalla Costituzione a
 tutela del lavoro,  poiche'  determina  in  danno  dei  difensori  la
 perdita certa, sia delle spese gia' affrontate, sia del corrispettivo
 (pur  se  solo  potenziale,  essendo  legato all'esito favorevole dei
 processi  e  alla  liquidazione  del   giudice)   delle   prestazioni
 professionali  rese  in  favore dei ricorrenti, ai quali non potranno
 essere richieste, stante la preclusione originaria della quale si  e'
 detto.
   Considerazioni  sulla  non manifesta infondatezza e sulla rilevanza
 in causa delle questioni di legittimita'  costituzionale  rilevate  a
 carico del decreto-legge n. 166 del 28 marzo 1996
   Le  questioni  in discorso non sono manifestamente infondate e sono
 tutte rilevanti,  poiche'  il  presente  giudizio  non  puo'  "essere
 definito  indipendentemente"  dalla  loro  risoluzione:  e'  piu' che
 chiaro che la dichiarazione della illegittimita'  costituzionale  del
 decreto legge n. 166/1996 in uno o piu' dei profili sopra evidenziati
 (escluso  soltanto  il  settimo,  per  il  suo carattere particolare)
 avrebbe  l'effetto  di  ripristinare  la  vigenza   della   normativa
 precedente,  restituendo  nel contempo a questa Autorita' giudiziaria
 competente   la   funzione   attribuitale   dalla   Costituzione   di
 amministrare   la   giustizia  secondo  la  legge  costituzionalmente
 vigente.   Peraltro anche la settima  questione  risponde  in  pieno,
 anche  se  limitatamente  alla  decisione sulle spese processuali, al
 disposto (peraltro incostituzionale,  come  si  vedra'  piu'  avanti)
 dell'art.  23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87.
                             SECONDA PARTE
   Conclusa   la  disamina  delle  molteplici  ragioni  che  impongono
 l'affermazione dell'incostituzionalita' del decreto legge n. 166  del
 28  marzo  1996,  devono  essere ancora una volta rimesse, con minime
 variazioni, al giudizio della Corte  costituzionale  tutte  le  altre
 questioni  che  verrano  nel  prosieguo esposte e che gia' sono state
 oggetto di numerose ordinanze, poiche' l'eventuale  dichiarazione  di
 illegittimita'  costituzionale del predetto provvedimento governativo
 con  conseguente  ripristino  del  precedente  quadro  normativo   di
 riferimento  restituirebbe valore alle stesse questioni, ad ognuna di
 esse e alla  loro  globalita'.    Sul  presupposto  dell'eventualita'
 (assai  vicina  alla  certezza,  a  sommesso avviso di questo giudice
 remittente) di una decisione del Giudice delle leggi che  accolga  in
 tutto  o  in  parte le questioni di legittimita' costituzionale sopra
 proposte, e' evidente che conservano attualita'  tutte  quelle  altre
 questioni  gia'  sollevate  nelle ordinanze sopra citate e, pertanto,
 devono essere di nuovo essere  rilevate  d'ufficio,  contestualmente,
 anche  al fine di rendere quanto piu' rapido possibile il giudizio di
 costituzionalita'.
   2.    -     Considerazioni     introduttive     sulle     questioni
 d'incostituzionalita'  rilevanti  per  la  decisione  della causa con
 riferimento al quadro normativo precedente l'emanazione del d.-l.  28
 marzo 1966, n. 166.
   La  giurisprudenza ormai costante di questo giudice del lavoro nega
 l'efficacia vincolante per  l'Autorita'  giudiziaria  delle  sentenze
 della  Corte  costituzionale  di  natura  interpretativa,  addittiva,
 manipolativa (di  tutte  le  decisioni,  cioe',  che  possono  essere
 definite  "legislative", essendo tali di fatto), perche' ritenute non
 conformi all'art. 136 della Costituzione.
   A  tale  proposito  non  sembra  fuori  luogo  ammettere il disagio
 provato  sin  dall'inizio  nel  pronunciare  sentenze  fortemente  in
 contrasto con varie decisioni del Giudice delle leggi, ma soprattutto
 appare  importante  riconoscere  che tale disagio si e' andato sempre
 piu'  aggravando,  man  mano  che,  nell'evoluzione   della   propria
 giurisprudenza  critica,  questo  pretore si e' reso conto della vera
 portata  e  gravita'   del   problema   costituito   dalle   sentenze
 interpretative,   addittive,   manipolative,   su  tutto  il  sistema
 normativo, poiche' il fenomeno  dell'intervento  "legislativo"  della
 Corte  costituzionale  e'  diffuso e di enorme dimensione e determina
 l'esistenza di una vera e propria legislazione parallela della Corte.
 Le cause storiche sono molteplici,  ma  possono  individuarsi  quelle
 piu'  evidenti:  il  sempre piu' marcato allontanamento dalla lettera
 dell'art. 136, primo comma, Cost., dopo una prima  fase  di  corretta
 applicazione  della stessa norma; la "fuga dalla responsabilita'" del
 legislatore sovente spettatore passivo della progressiva  sottrazione
 della  funzione  attribuitagli  dalla  Costituzione  e,  quanto meno,
 inefficiente nell'esercitare il potere specifico previsto nel secondo
 comma  dell'art.    136;  la  diffusione  nella  dottrina   e   nella
 giurisprudenza   di  merito  e  di  legittimita'  prevalenti  di  una
 concezione evoluzionistica del  diritto,  con  base  di  pura  natura
 giusnaturalistica, non rispettosa dei dati testuali e della rigidita'
 della  legge  fondamentale della Repubblica.  Non e' neppure estraneo
 alla problematica che si affronta  affermare  che,  sia  al  fine  di
 sanare,  per  il passato, quella situazione sopra descritta di doppia
 normativa e sia al fine di precluderne il  ripetersi  in  futuro,  le
 varie   autorita'   dello   Stato  responsabili  e  coinvolte  hanno,
 nell'ambito   delle   proprie   attribuzioni,   ampia    possibilita'
 d'intervento,  ma  non  puo'  tacersi  che  solo  il legislatore puo'
 risolvere, con  l'emanazione  delle  norme  di  legge  ritenute  piu'
 idonee, in modo definitivo, organico e generale il problema qui messo
 in  risalto,  riaffermando con forza e chiarezza le proprie esclusive
 attribuzioni  fissate  nella  legge  fondamentale  dello  Stato,   in
 particolare  negli artt. 70, 71, 72, 73, 76 e 136 cosi' da ricondurre
 la Corte costituzionale, il Governo e l'Autorita'  giudiziaria  nello
 stretto   ambito   delle  loro  specifiche  e  altrettanto  esclusive
 competenze.  Tali considerazioni di portata generale non sono fini  a
 se'   stesse,  ma  riguardano  direttamente  i  temi  della  presente
 ordinanza, poiche' questo giudice remittente, benche' convinto  della
 fondatezza  giuridica degli argomenti che gli hanno imposto di negare
 l'efficacia delle decisioni "legislative" della Corte costituzionale,
 non puo' trascurare la ben diversa realta' del "diritto vivente"  che
 applica   tali   decisioni   come   se   fossero   norme   di   legge
 d'interpretazione   autentica,   affermandone   in   senso   assoluto
 l'obbligatorieta'   (lo   stesso   decreto   legge   sopra   imputato
 d'incostituzionalita' segue questa dottrina).  Ne' poteva evitarsi di
 mettere  in piena luce la rilevanza di carattere generale sul diritto
 positivo vigente delle  questioni  che  il  Giudice  delle  leggi  e'
 chiamato  a  risolvere, poiche' (deve essere affermato con la massima
 chiarezza)  una  pronuncia  di  accoglimento  di  una  o  piu'  delle
 questioni, tra quelle qui sollevate, attinenti le problematiche sopra
 evidenziate  non  potrebbe  limitare  i  suoi effetti alle sole norme
 direttamente   e   specificamente   colpite    dalla    dichiarazione
 d'illegittimita'  costituzionale,  ma comporterebbe la caducazione di
 quell'intero sistema di "diritto vivente"  (o,  almeno,  di  una  sua
 grande  parte)  -  del  quale  si e' gia' detto, parallelo al diritto
 scritto   e   codificato   -   che    nella    realta'    applicativa
 giurisprudenziale  domina  da piu' decenni.   In verita' (anche a non
 voler tener  conto  di  quanto  sin  qui  esposto),  tutta  la  vasta
 problematica legata al non facile e traumatico rifiuto dell'efficacia
 delle  sentenze  "legislative" della Corte non e' di poco conto e non
 e' superabile agevolmente - contrariamente a quanto si  e'  affermato
 in  dottrina - con la troppo semplicistica affermazione dell'assoluta
 prevalenza delle  decisioni  della  Corte  costituzionale  su  quelle
 pretorili,  poiche' non puo' dubitarsi del fatto che il giudice deve,
 sempre e solo,  applicare  la  legge  e  non  e'  questione  da  poco
 identificare  la legge vigente nell'attuale paradosso normativo, gia'
 ampiamente descritto: e' ben lecito, anzi e' assolutamente  doveroso,
 per  il giudice, nel dubbio sul testo delle disposizioni da applicare
 (se quello promulgato dal legislatore,  o  quello  revisionato  dalla
 Corte),  ricercare  la soluzione piu' vicina ai principi fondamentali
 sanciti nella nostra Costituzione per regolare e tutelare la funzione
 dell'amministrazione della giustizia, con necessaria scelta in favore
 della legge, anche al doloroso prezzo  di  negare  l'efficacia  delle
 sentenze  del  giudice  delle  leggi.    Si  possono  giustificare  e
 comprendere le propensioni di parte della  dottrina  favorevoli  alle
 interpretazioni  (piu'  o meno) giusnaturalistiche - indubitabilmente
 in buona misura frutto di spinte ideologiche - del diritto, in chiaro
 antagonismo con quello che e' stato da taluno definito, con malcelato
 disprezzo, sterile positivismo, ma non puo', ne' deve essere ritenuta
 legittima  l'assunzione   generalizzata   da   parte   dell'Autorita'
 giudiziaria  di  una  scelta  evoluzionistica nell'applicazione della
 legge, poiche', invero,  mentre  la  dottrina  non  e'  vincolata  al
 rispetto  di  nessuna  norma nell'elaborazioni delle sue teorie e per
 affermarle puo' con la massima disinvoltura superare anche  il  testo
 normativo  piu'  chiaro  ed univoco, altrettanto non e' consentito al
 giudice, il quale deve interpretare la legge in obbedienza ai  canoni
 normativamente  previsti (dalle Disposizioni sulla legge in generale,
 in particolare nell'art. 12) per darne  corretta  applicazione  nelle
 concrete  fattispecie  portate  al  suo esame.   Tutto cio' che si e'
 sinora rappresentato in via generale vale  anche  in  relazione  alla
 sentenza  29-31  dicembre  1993,  n.  495 che ha modificato l'art. 22
 della legge 21 luglio 1965, n. 903 (nonche' rispetto alla sentenza 10
 giugno 1994, n. 240, della Corte  costituzionale  che  ha  modificato
 l'art.   11,   comma  22  della  legge  24  dicembre  1993,  n.  537)
 determinando l'esistenza di una norma "virtuale" ormai  divenuta  (in
 tempi  brevissimi)  "diritto  vivente",  della  quale questo pretore,
 benche' non ravvisi, allo stato, alcuna ragione di  natura  giuridica
 per mutare la propria giurisprudenza contraria (gia' ricordata), deve
 tenere  conto, poiche' nella realta' applicativa la predetta versione
 dell'art. 22 della legge n. 903/1965 (come dell'art.  11,  comma  22,
 legge   537/1993)   ha   sinora  prevalso  su  quella  approvata  dal
 Parlamento.  Poiche' deve darsi atto della realta' suddetta e poiche'
 appare vulnerato l'art. 136, primo  comma,  Costituzione,  non  resta
 altro che sollevare questione di legittimita' costituzionale a carico
 della  norma  "virtuale"  sopra  individuata.   In forza delle stesse
 argomentazioni che precedono, risulta anche rilevante  l'accertamento
 della  legittimita'  costituzionale dell'art.  30, terzo comma, della
 legge n. 87 del 1953, in relazione all'art.  136, primo comma,  della
 Costituzione,  poiche' e' in particolare con riferimento al testo del
 predetto art. 30  che  viene  affermata  l'efficacia  ex  tunc  delle
 sentenze   dichiarative  d'incostituzionalita',  in  aperta  e  piena
 violazione del dettato costituzionale.  E', invero, piu' che evidente
 che, qualora venisse dichiarata l'incost  ituzionalita' dell'art. 30,
 comma 3, legge n. 87/1953,  la  tesi  dell'efficacia  ex  tunc  delle
 decisioni  d'incostituzionalita',  sostenuta  dalla  dottrina e dalla
 giurisprudenza dominanti, perderebbe l'unico (per  quanto  labile  ed
 insignificante   e   gia'  disatteso  da  questo  pretore)  argomento
 testuale, cosi' rendendo  chiaro  a  tutti,  anche  ai  piu'  fervidi
 fautori   della   "costituzione   materiale",   che  le  norme  della
 costituzione  formale  sono  le  uniche  vigenti  e   devono   essere
 rispettate.         Nella    presente    causa    la    dichiarazione
 d'incostituzionalita'  dell'art.    30  renderebbe  indiscutibile  la
 pronuncia  di  rigetto della domanda proposta in ricorso, per assenza
 di norma regolatrice del diritto,  risultando  applicabile  il  testo
 originario  dell'art.  22 della legge n. 903 del 1965, poiche' la sua
 parziale inefficacia (ancora una volta si tiene conto  della  realta'
 del  "diritto  vivente",  senza  riconoscerne  pero'  la fondatezza),
 prendendo decorrenza dal giorno successivo alla  pubblicazione  della
 sentenza  n.  495  del 1993, non avrebbe alcun effetto nella presente
 controversia, precedente la pubblicazione della decisione della Corte
 costituzionale: constatazione questa che chiarisce in modo inequivoco
 la rilevanza (anche se non esclusiva)  nel  giudizio  della  medesima
 questione.    Sempre  avendo  presenti le considerazioni appena sopra
 sviluppate, e', altresi',  necessario,  nella  presente  fattispecie,
 sollevare  un ulteriore rilievo di incostituzionalita' di particolare
 carattere:    dubita,  infatti,  questo  pretore  della  legittimita'
 costituzionale   dell'art.   22   della   legge   n.  903/1965,  come
 "manipolato"  dalla  sentenza  n.  495/1993  (e  naturalmente   anche
 dell'art.  11,  comma  22,  della legge n. 537/1993, come "riscritto"
 dalla sentenza  n. 240/1994), in relazione all'art. 81, ultimo comma,
 Costituzione e  tale  dubbio,  deve  essere  risolto  dal  necessario
 intervento della Corte costituzionale.
   3.   -   Considerazioni   generali  in  ordine  alle  questioni  di
 legittimita'  costituzionale  di  natura  preliminare.    Poiche'  la
 controversia  -  cio'  ovviamente  dopo  l'eventuale dichiarazio   ne
 d'illegittimita' costituzionale dell'art.  1  del  decreto  legge  28
 marzo  1996 ed il conseguente ripristino della situzione normativa ad
 esso precedente -   puo' essere  risolta  sotto  molteplici  profili,
 ciascuno    dei    quali    da    solo   sufficiente   per   motivare
 (l'obbligatorieta'    della     motivazione     dei     provvedimenti
 giurisdizionali  e'  sancita  nell'art  .    111  Costituzione, tra i
 principi fondamentali delle norme sulla giurisdizione) la  pronuncia,
 con  conseguenziale  possibilita' per questo pretore di scegliere, se
 fondare la propria decisione su uno o piu' argomenti, senza vincoli o
 limitazioni (si tratta, infatti, di scelta   insindacabile,  perche',
 nell'obbedienza   al  dettato  dell'art.  111  citato,  indiscutibile
 manifestazione   di   autonomia      e   di   libera   determinazione
 dell'Autorita'  giudiziaria,  secondo la previsione degli artt. 101 e
 104, primo comma, della Costituzione), il  giudice  delle  leggi  non
 dovrebbe  esaminare  nel  merito  le  suddette  questioni,  negandone
 l'ammissibilita',  perche'  non  rilevanti,  potendo  certamente   il
 giudizio "essere definito indipendentemente dalla  risoluzione" delle
 qui   sollevate   questioni   di  legittimita'  costituzionale,  come
 chiaramente recita l'art. 23, secondo comma, della legge  n.  87  del
 1953.     Deve,  pertanto,  essere  sollevata  d'ufficio  l'ulteriore
 questione di legittimita' costituzionale, a  carico  della  specifica
 disposizione,  come sopra riportata nella sua testualita', del citato
 art. 23, comma 2, della legge n. 87/1953,  per  violazione  dell'art.
 134,  nonche'  degli  artt.  101,  104,  primo  comma,  e  111  della
 Costituzione.   Questione  che  la  Corte  dovra'  esaminare  in  via
 preventiva al fine di passare, in caso di suo accoglimento, all'esame
 delle  questioni precedentemente individuate.  Per le stesse ragioni,
 appena sopra esposte, con le  stesse  finalita'  e  con  il  medesimo
 carattere preliminare, deve altresi' essere sollevata la questione di
 legittimita'  costituzionale  dell'art.  23  della legge ordinaria 11
 marzo 1953, n. 87, limitatamente a quelle sue parti  (quali  verranno
 esattamente  evidenziate  in  seguito)  che stabiliscono condizioni e
 forme di proponibilita' dei giudizi di  legittimita'  costituzionale,
 per  palese violazione della riserva di legge costituzionale prevista
 dall'art. 137, primo comma, Costituzione.
   4. - Precisazione delle questioni  di  legittimita'  costituzionale
 rilevate  d'ufficio  ed  attinenti  il  quadro  normativo  precedente
 l'entrata in vigore del d.-l. 28 marzo 1996, n. 166.
   A) Questione di legittimita' costituzionale dell'art. 22, legge  21
 luglio  1965,  n.  903, come modificato dalla sentenza 29-31 dicembre
 1993, 495 della Corte costituzionale, per  violazione  dell'art  136,
 primo  comma,  nonche'  degli  artt.  101  e  104, primo comma, della
 Costituzione.
   B) Questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  30,  terzo
 comma,  della  legge  11  marzo 1953, n. 87, per violazione dell'art.
 136, primo comma, della Costituzione.
   C) Questione di legittimita' costituzionale dell'art. 22, legge  21
 luglio  1965, n. 903/1965, come modificato dalla sentenza n. 495/1993
 della Corte  costituzionale,  per  violazione  dell'art.  81,  ultimo
 comma, della Costituzione.
   D)  In  via  preliminare  rispetto  alle  precedenti,  questione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 23, comma  2,  della  legge  11
 marzo  1953,  n.  87,  ove  prevede che "il giudizio non possa essere
 definito  indipendentemente  dalla  risoluzione  della  questione  di
 legittimita'"  e limitatamente a tale parte, per violazione dell'art.
 134, nonche' 101, 104, primo comma, e 111 della Costituzione.
   E) Sempre in via preliminare e con gli stessi riferimenti  indicati
 in  quella sub D), questione di legittimita' costituzionale dell'art.
 23 della legge ordinaria 11  marzo  1953,  n.  87,  nelle  parti  che
 stabiliscono  condizioni  e  forme  di  proponibilita' dei giudizi di
 legittimita' costituzionale, per palese violazione della  riserva  di
 legge   costituzionale   prevista   dall'art.   137,   primo   comma,
 Costituzione.
   5. - Motivazione delle singole questioni.
   A) In  relazione  alla  questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.    22,  legge 21 luglio 1965, n. 903, come modificato dalla
 sentenza 29-31 dicembre 1993, n. 495/1993 della Corte costituzionale,
 per violazione dell'art. 136, primo comma, nonche' degli artt. 101  e
 104,  primo  comma,  della  Costituzione.    La  Corte  ha dichiarato
 l'illegittimita' costituzionale del citato art. 22, legge n. 903/1995
 "nella parte in cui non prevede che la pensione di riversibilita' sia
 calcolata   in   proporzione   alla  pensione  diretta  integrata  al
 trattamento minimo gia' liquidata al pensionato  o  che  l'assicurato
 avrebbe  avuto  comunque  diritto  di  percepire".   Si ritiene nella
 dottrina e nella giurisprudenza prevalenti che tale  decisione  della
 Corte  Costituzionale  (come le altre del genere che e' stato gia' in
 precedenza qualificato "legislativo" per  ricomprendere  in  un'unica
 definizione  tutte  le  sentenze  del  Giudice  delle leggi di natura
 interpretativa, addittiva, manipolativa, cioe' di  tutte  quelle  che
 non  si limitano a sancire semplicemente l'illegittimita' delle norme
 che   violano    la    Costituzione)    abbia    valore    correttivo
 dell'incostituzionalita' della norma ed efficacia erga omnes cosi' da
 dover  essere applicata (per di piu' ex tunc, ma di cio' si trattera'
 piu' avanti) dall'Autorita' giudiziaria.  Questo giudice (abbandonata
 ormai da tempo la propria giurisprudenza che aderiva all'erronea tesi
 dominante appena sopra sintetizzata) e' di contrario  avviso  e  deve
 confermare  anche  in questa sede senza esitazione, in piena coerenza
 con le proprie precedenti decisioni, che l'art. 22 legge n.  903/1965
 e'  rimasto  in  vigore  nella  sua integrale formulazione letterale,
 quale norma di legge dello Stato,  regolarmente  approvata  (art.  72
 della  Costituzione)  dal  Parlamento,  regolarmente  promulgata  dal
 Presidente della Repubblica e regolarmente pubblicata (art. 73 Cost.,
 poiche'  la  sentenza   "legislativa"   n.   495/1993   della   Corte
 costituzionale   non   e'  giuridicamente  idonea  a  determinare  la
 cessazione dell'efficacia della norma dichiarata illegittima  in  una
 parte  non  scritta  (nella  parte  in cui non prevede...), posto che
 l'evento della inefficacia si realizza solo quando  la  dichiarazione
 di illegittimita' costituzionale colpisce la letteralita' dell'intera
 norma  o di una sua parte (scritta: deve essere ribadito), causandone
 le semplice caducazione.  In altri termini: le sentenze "legislative"
 non possono (ma  si  veda  anche  la  diversa  ipotesi  di  soluzione
 giuridica  della  questione,  piu' avanti prospettata) dar luogo agli
 effetti previsti dall'art.  136, primo comma, Costituzione, ne' hanno
 efficacia modificativa del  diritto  positivo,  poiche'  (il  rilievo
 sembra  pacifico  ed  incontestabile)  non  e'  attribuito alla Corte
 costituzionale  il  potere   legislativo,   ne'   una   funzione   di
 interpretazione   autentica   della   legge.  E',  infatti,  al  solo
 legislatore che la nostra Costituzione attribuisce il potere, in  via
 generale  (art. 70 e seguenti, nonche' art. 117 per cio' che concerne
 le Regioni e in via specifica (art. 136, secondo comma), di creare la
 norma di legge, giuridicamente vincolante.  Tutto cio' vale anche per
 quelle decisioni addittive che vengono definite "a rime obbligate"  -
 e'  chiaro  che  l'argomento viene esposto per ragioni di completezza
 del discorso, giacche' potrebbe assumere qui  rilievo  concreto  solo
 qualora  si affermasse che la sentenza n.  495/1993 appartiene a tale
 categoria, anche se davvero non si intravede  nella  motivazione  una
 valida   indicazione  in  proposito  -,  le  quali  vengono  ritenute
 "l'autoapplicative" e cogenti in quanto  connaturate  all'ordinamento
 giuridico:  se  le  sentenze  addittive  "a  rime  obbligate" fossero
 veramente idonee  di  immediata  applicazione  per  la  loro  diretta
 derivazione dal diritto positivo dovrebbe essere possibile rinvenire,
 se  non  la  norma  di  riferimento  suscettibile  di interpretazione
 estensiva o di  applicazione  analogica,  quanto  meno  il  principio
 assoluto    da    applicare    per    la    correzione   dell'aspetto
 d'incostituzionalita',  con  la  conseguenza  che,  se   cio'   fosse
 possibile,  l'intervento  addittivo "a rime obbligate" della Corte si
 rivelerebbe, a maggior ragione, non solo  illegittimo  rispetto  alla
 previsione dell'art. 136, primo comma, Costituzione, ma anche inutile
 e  ridondante,  essendo  logicamente  sufficiente una tipica sentenza
 caducatoria, poiche' sarebbe (anche in tal caso, come in  ogni  caso)
 di esclusiva competenza dell'Autorita' giudiziaria la decisione sulla
 possibilita'  di  riempire,  ai sensi dell'art. 12 delle Disposizioni
 sulla legge in generale, il vuoto normativo  (eventualmente  ritenuto
 intollerabile)   conseguente   alla  caducazione  della  disposizione
 dichiarata costituzionalmente illegittima alla Corte.  Tanto rilevato
 e rappresentato con riferimento al primo comma dell'art  .   136,  si
 deve    passare    alla    discussione   inerente   l'altro   aspetto
 d'incostituzionalita' dell'art. 22  della  legge  n.  903/1965,  come
 modificato  dall'intervento  del  giudice delle leggi, per violazione
 degli artt. 101 e 104, primo comma, della Costituzione.  Deve  subito
 essere  affermata  la  natura  anche  interpretativa  della  sentenza
 "legislativa" n. 495/1993 e deve precisarsi che tale natura non  puo'
 essere  razionalmente  negata,  poiche'  in  detta  sentenza la Corte
 costituzionale propone una lettura del contenuto dell'art.  22  della
 legge  903/1965, in contrasto con quella offerta da parte della Corte
 di cassazione e della giurisprudenza di merito: se tutto cio' non  e'
 interpretazione,  allora  non  si  addice alla sentenza n.   495/1993
 l'appellativo di  interpretiva,  ma  pare  arduo  negare  l'evidenza.
 L'interpretazione   della   legge   e'  attivita'  intellettuale  non
 riservata  :  ogni operatore del diritto ed ogni singolo cittadino e'
 ovviamente libero di interpretare la  normativa,  per  tutti  i  fini
 possibili,  senza  limiti.   Ma quando l'interpretazione e' correlata
 all'applicazione della legge in sede giudirisdizionale, quando  cioe'
 e'   legata   alla   funzione  specifica  dell'amministrazione  della
 giustizia in nome del popolo e nella soggezione alla  sola legge (101
 Cost.),  allora  l'attivita'  d'interpretazione   e'   riservata   ed
 esclusiva  perche'  demandata  al  giudice    (102  Cost.  per quello
 ordinario), autonomo ed indipendente da ogni altro potere (104, primo
 comma, Cost.).  Ne discende che, qualora una norma di legge trovi  (o
 possa  trovare)  nella  giurisprudenza  di  merito e, soprattutto, di
 legittimita',  diverse  soluzioni  interpretative,  non  puo'  essere
 ritenuto  conforme  alla  Costituzione  un  intervento di sostanziale
 natura interpretativa autentica della Corte costituzionale, che (come
 nel caso di specie) determini una modifica del contenuto della norma,
 pur non incidendo sul suo tenore  letterale,  cosi'  da  imporre  una
 specifica  scelta, fondata su una delle possibili interpretazioni del
 dettato normativo, o (e sembra essere questa l'ipotesi che meglio  si
 attaglia  alla  sentenza  n.  494/1993)  da  precludere  ogni diversa
 interpretazione,  togliendo  al   giudice   competente   spazio   per
 esercitare  pienamente la propria funzione, poiche' in tal modo viene
 concretamente violato il principio della divisione dei poteri, con la
 compressione di quello giudiziario, in  evidente  contrasto  con  gli
 artt.  101 e 104, quarto comma, Costituzione.  Cio' non significa che
 il Giudice delle leggi  non  possa  interpretare  la  legge  (negarlo
 sarebbe  pura  assurdita'), ma significa solo che non e' consentito a
 nessun potere (inteso in senso lato) dello Stato e, pertanto, neppure
 alla  Corte  costituzionale  di  superare  i  confini  delle  proprie
 attribuzioni.    E  la  Corte  soprattutto  deve  esercitare  la  sua
 elevatissima   funzione,   posta   al    vertice    delle    garanzie
 costituzionali,  nel  piu' assoluto rispetto delle attribuzioni degli
 altri poteri (il termine viene  usato  sempre  nel  significato  piu'
 ampio  e  non  strettamente  tecnico), poiche' ogni sua decisione che
 comporti il superamento  della  sfera  delle  specifiche  competenze,
 rischia  di  scardinare  il  delicato equilibrio istituzionale voluto
 dalla  legge  fondamentale  della  Repubblica,   senza   neppure   la
 possibilita'  di  un  rimedio giuridico, poiche' "contro le decisioni
 della Corte costituzionale non e' ammessa alcuna impugnazione"  (art.
 137,  ultimo comma, Cost.) e poiche' deve escludersi l'ammissibilita'
 dell'istituto del giudizio  "sui  conflitti  di  attribuzione  tra  i
 poteri  dello  Stato" (art. 134, secondo comma, Cost.), se non altro,
 perche' la Corte costituzionale  ne  sarebbe  nel  contempo  parte  e
 giudice.    Se  questa  questione,  in  uno  o  piu'  dei  rilievi di
 legittimita' costituzionale prospettati, venisse accolta dal  Giudice
 delle  leggi,  la dichiarazione d'illegittimita' costituzionale della
 versione normativa dell'art. 22 legge n.  903/1965,  come  risultante
 dalla  sentenza  n.    495/1993,  dovrebbe  comportare  la perdita di
 efficacia della stessa versione ed il ripristino (deve  presumersi  e
 preferirsi)  della  versione  originale della norma, quella approvata
 dal Legislatore del 1965, con ovvia rilevanza nel  presente  giudizio
 pretorile.
   Per  il vero, pero', la Corte costituzionale - come anche la stessa
 Autorita' giudiziaria, ma soprattutto il  Parlamento  con  una  legge
 chiarificatrice,  decisamente auspicabile - potrebbe dare una diversa
 soluzione  giuridica  in  ordine   agli   effetti   delle   decisioni
 "legislative",  affermando  in  modo  esplicito  che  queste non sono
 idonee a modificare,  integrare  e  correggere  le  norme  dichiarate
 incostituzionali,  bensi'  puramente  e  semplicemente determinano la
 radicale perdita di efficacia delle medesime norme,  poiche',  lo  si
 puo'  ben  sostenere  con  piena  logica  giuridica  e  razionalita',
 l'accertata ed affermata illegittimita' della norma "nella  parte  in
 cui..."  si  ripercuote  sull'intera  norma,  giacche' questa nel suo
 complesso ed in tutte le sue parti "prevede" o "non prevede" cio' che
 la   Corte   rispettivamente   afferma   essere   costituzionalemente
 illegittimo  o legittimo.   Le conseguenze di tale soluzione radicale
 potrebbero essere assai meno dirompenti di quelle causate dalla prima
 scelta indicata sopra, se non altro, perche' eviterebbero al  sistema
 giuridico  il  rischio  di  una  paralizzante  crisi  interpretativa,
 dipendente dalla difficolta' di stabilire,  se  la  norma  dichiarata
 incostituzionale  dalla  Corte  con  intervento  "legislativo"  possa
 ritenersi ripristinata in tutta la sua primigenia portata, ovvero  se
 debba    considerarsi   implicitamente   travolta   in   toto   dalla
 dichiarazione d'illegittimita' costituzionale della lettura  volutane
 dalla  Corte, ovvero ancora se sia necessario (ipotesi questa, pero',
 da escludere recisamente) attendere  un  intervento  del  legislatore
 diretto a confermare, o abrogare, o modificare la norma.
   B)  In  relazione  alla  questione  di  legittimita' costituzionale
 dell'art.  30, terzo comma, della legge 11 marzo  1953,  n.  87,  per
 violazione  dell'art.  136,  primo comma, della Costituzione.  L'art.
 136, primo comma, Costituzione cosi' dispone testualmente:    "Quando
 la  Corte  dichiara  l'illegittimita'  costituzionale di una norma di
 legge o di atto avente forza  di  legge,  la  norma  cessa  di  avere
 efficacia  dal  giorno successivo alla pubblicazione della decisione"
 L'art. 30, terzo comma, della legge n.  87  del  1953,  prevede:  "Le
 norme  dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal
 giorno  successivo  alla  pubblicazione  della  decisione".      Sono
 possibili  due  soluzioni  interpretative dell'art. 30 in esame:  una
 fedele  al  dettato  costituzionale,  l'altra  non  rispettosa  della
 lettera  e del contenuto dell'art. 136 Cost.: la prima attribuisce un
 puro  significato  esplicativo  all'art.  30,  evidenziando   l'ovvia
 conseguenza   della  perdita  di  efficacia  della  norma  dichiarata
 incostituzionale, cioe' la sua inapplicabilita' per regolamentare  le
 situazioni  giuridiche sorte successivamente alla pubblicazione della
 decisione  della  Corte;  la   seconda   tenta   di   modificare   la
 "costituzione  formale per farla soggiacere alla volonta' dei fautori
 della  "costituzione  materiale",  sostenendo  che  il   divieto   di
 applicazione delle norme incostituzionali, derivante dalla originaria
 incostituzionalita'  delle  norme  stesse,  determina necessariamente
 l'efficacia ex tunc delle sentenze della Corte.    A  contrastare  la
 tesi  che  sostiene  l'efficacia  ex  tunc delle sentenze della Corte
 costituzionale si ergono insuperabili, non solo la lettera del  primo
 comma  dell'art.  136  Cost.,  ma anche il secondo comma dello stesso
 articolo.  Per chiarire esaustivamente quanto appena sopra  affermato
 sembra  sufficiente riportare quanto gia' sostenuto da questo pretore
 in varie decisioni aventi lo stesso oggetto della presente causa (tra
 le altre, nella sentenza n. 1534/1995 emessa in data 3  luglio  1995,
 nella  causa  Zeni Angela contro INPS): "Il primo comma dell'art. 136
 della Costituzione cosi' testualmente afferma" - omissis: la norma e'
 sopra riprodotta - ": e' evidente, per il significato  inequivocabile
 della  disposizione,  che  corrispondentemente viene negata qualsiasi
 efficacia ex tunc alla dichiarazione d'incostituzionalita' e  che  la
 norma  dichiarata  incostituzionale e' perfettamente efficace (e, per
 quanto cio' possa apparire  paradossale,  anche  legittima)  sino  al
 giorno,  compreso,  della  pubblicazione  della decisione della Corte
 costituzionale." omissis.  L'esattezza della tesi qui sostenuta trova
 conferma di forte valore giuridico  nell'assenza  di  una  previsione
 (difficile  da  ipotizzare,  peraltro) di legge che limiti, imponendo
 alla Consulta  il  rispetto  dell'art.  81  della  Costituzione,  gli
 effetti   talvolta   dirompenti  (da  molti  denunciati  e  da  tutti
 indistintamente riconosciuti) sul bilancio dello Stato della  valenza
 ex   tunc   attribuita   contra   legem  alle  sentenze  della  Corte
 costituzionale sulle norme dichiarate incostituzionali:    e',  ancor
 piu'  che  evidente,  lapalissiano che l'unica esatta interpretazione
 dell'art. 136, primo comma, Costituzione, nel senso imposto dalla sua
 univoca formulazione letterale e qui sostenuto,  rende  superflua  ed
 insussistente  l'esigenza  di ridurre o regolamentare l'impatto sulla
 finanza pubblica delle sentenze del giudice delle leggi, poiche', non
 essendo  lecito  attribuire  efficacia  ex  tunc  alle  dichiarazioni
 d'illegittimita'  costituzionale,  nessun  danno puo' derivarne, cio'
 che spiega razionalmente perche'  il  legislatore,  costituzionale  e
 ordinario,  non  abbia  previsto  e  ritenuto di dover creare qualche
 strumento giuridico per imporre alla Corte il rispetto dell'art.   81
 Costituzione.    In altri termini: nessuna necessita' di limitare gli
 effetti economici delle sentenze della Corte costituzionale sussiste,
 poiche' esse non sono idonee, secondo la previsione del  primo  comma
 dell'art.  136, a determinare situzioni di danno.  Il rigore logico e
 la  piena  razionalita'  dell'art.  136, primo comma, trova ulteriore
 conferma nel secondo comma: "La decisione della Corte e' pubblicata e
 comunicata   alle   Camere   e  ai  Consigli  regionali  interessati,
 affinche',  ove  lo  ritengano  necessario  provvedano  nelle   forme
 costituzionali":      e'   quasi  superfluo  far  notare  che  questa
 disposizione e' diretta ad imporre (non  si  dimentichi  mai  che  il
 potere  attribuito alle Istituzioni della Repubblica e' potere-dovere
 e non arbitrio) al  legislatore  di  provvedere  alla  soluzione  dei
 problemi  causati dalle dichiarazioni d'incostituzionalita', problemi
 derivanti, per il futuro, dal possibile vuoto  normativo  e,  per  il
 passato,  dalla  necessita'  od  opportunita' di riparare (secondo la
 discrezionalita'  politica  del  legislatore  e,  dunque,   anche   e
 soprattutto  nei  limiti  delle  compatibilita'  di bilancio) i danni
 eventuali  determinati  dalle  norme  incostituzionali.    Cio'   che
 conferma l'esattezza dell'affermazione, secondo la quale l'esigenza e
 l'obbligo  di  rispettare  l'art. 81 della Costituzione e', come solo
 puo' e deve essere, a  carico  del  legislatore".    Per  tentare  di
 superare  il  ragionamento  sopra  riprodotto,  si dovrebbe spiegare,
 perche' il legislatore costituzionale avrebbe previsto,  nel  secondo
 comma  dell'art.  136,  la  comunicazione alle Camere della decisione
 della Corte "affinche', ove lo ritengano necessario provvedano  nelle
 forme  costituzionali",  se  non avesse voluto chiarire con forza che
 solo al legislatore e' attribuito  il  potere  di  provvedere,  nelle
 forme   costituzionali,  alla  produzione  legislativa  eventualmente
 necessaria per risolvere le conseguenze dell'inefficacia delle  norme
 dichiarate incostituzionali, posto che altre norme della Costituzione
 (artt.  70 e seguenti) gia' regolano l'attivita' legislativa e non si
 puo'  certo  ridurre  l'art.  136,  secondo  comma, a norma puramente
 ripetitiva  senza  valore  alcuno.    A  tali  argomenti  non  sembra
 superfluo aggiungere brevemente alcuni elementi di fatto storici, con
 lo  scopo  dichiarato  di rendere difficilmente praticabili possibili
 obiezioni fondate su discorsi inerenti la volonta' del legislatore  e
 la  ratio  legis,  cari  ai  giusnaturalisti, anche a fronte di norme
 esemplari per la loro assoluta limpidezza di lettera e di  contenuto,
 qual'e'  certamente  l'art.  136  Costituzione.   Nelle fasi iniziali
 dell'iter per l'introduzione della Corte costituzi  onale nel  nostro
 ordinamento,  la  sottocomissione per i problemi costituzionali della
 "Commissione per gli  studi  attinenti  alla  riorganizzazione  dello
 Stato",  istituita  dal  Ministero  per la Costituente, negli studi e
 proposte  pubblicati  nel  1946,  tra  l'altro,  aveva  espressamente
 ipotizzato  l'annullamento  ex  tunc  delle  leggi, quale conseguenza
 della dichiarazione d'incostituzionalita'.  Tale soluzione in sede di
 Assemblea costituente venne chiaramente abbandonata dalla Commissione
 dei 75, alla quale era  stata  affidata  la  redazione  del  progetto
 costituzionale:  nel progetto presentato il 31 gennaio 1947, infatti,
 nell'art. 128, al  terzo  comma,  era  previsto  che  "Se  la  Corte,
 nell'uno  o  nell'altro  caso,  dichiara la incostituzionalita' della
 norma, questa cessa di avere efficacia. La decisione della  Corte  e'
 comunicata   al  Parlamento,  perche',  ove  lo  ritenga  necessario,
 provveda nelle forme istituzionali".
   Da quell'art. 128 e' derivato l'attuale art. 136, nel  quale  pero'
 e'  stato  opportunamente previsto anche il momento iniziale (fissato
 nel giorno successivo alla pubblicazione) della perdita di  efficacia
 delle norme dichiarate incostituzionali.
   Nessun commento e' necessario.
   Anche  se  possono  ritenersi sufficienti le considerazioni sin qui
 sviluppate, l'esigenza di massima completezza del discorso impone  di
 tenere  conto  di una possibile critica alla tesi qui sostenuta della
 efficacia solo ex nunc delle  sentenze  della  Corte  che  dichiarano
 l'illegittimita'  costituzionale  di  norme di legge o di atti aventi
 forza di legge: si  sostiene,  infatti,  che  le  predette  decisioni
 sarebbero  naturaliter  retroattive  in  ragione,  sia  del carattere
 incidentale del giudizio di costituzionalita', sia  della  necessita'
 che  le pronuncie del Giudice delle leggi siano produttive di effetti
 ex tunc nel  giudizio  a  quo  (ed  ovviamente  anche  per  tutte  le
 posizioni giuridiche similiari), giacche', altrimenti, non vi sarebbe
 alcun  interesse  delle  parti  in  causa  a  sollevare  eccezioni di
 legittimita' costituzionale, non potendo trarre alcun vantaggio dalle
 eventuali pronuncie favorevoli, con  conseguente  certo  inaridimento
 della  fonte  privata  delle  eccezioni  e  parallela contrazione del
 controllo di costituzionalita'.  La contestazione sopra  sintetizzata
 ha   indubbie   ragioni  sostanziali,  giacche'  e'  sussistente,  in
 astratto, il rischio paventato di una perdita d'interesse delle parti
 in   causa   nel   giudizio   a    quo    a    sollevare    eccezioni
 d'incostituzionalita',   in  assenza  della  certezza  di  conseguire
 immediati vantaggi (di natura  economica  soprattutto,  se  pure  non
 esclusivamente)  anche per il passato, ma non certo per questo motivo
 puo' ritenersi fondata, come si dimostrera' nel prosieguo.  In  primo
 luogo,   e'   doveroso   e  necessario  notare  che  il  giudizio  di
 costituzionalita' delle leggi e degli atti aventi forza di legge  non
 ha  il fine di accertare la sussistenza di diritti vantati da singoli
 o da gruppi organizzati per dare loro tutela diretta,  bensi'  quello
 diverso,   ben   superiore   ed   imprescindibile,  di  garantire  la
 legittimita'  del   sistema   giuridico,   rendendo   inefficaci   ed
 inapplicabili  per  il  futuro  le  disposizioni  di legge dichiarate
 incostituzionali,  cosicche'  le  eventuali   posizioni   d'interesse
 particolare radicate (anche, o soltanto) nel passato e correlate alle
 questioni   di  legittimita'  costituzionale  portate  all'esame  del
 Giudice delle leggi sono totalmente ininfluenti ed irrilevanti,  come
 irrilevante  ed  ininfluente  e'  il rischio che le parti private del
 giudizio  a  quo  non  sollevino  piu'  eccezioni   di   legittimita'
 costituzionale.  In secondo luogo, deve dirsi che l'interesse riposto
 nel  valore  retroattivo  delle  sentenze  della Corte costituzionale
 dipende  in  gran  parte  (e  forse  solo)  dal   fatto   che   molte
 dichiarazioni  de incostituzionalita' hanno riguardato ed ancora oggi
 riguardano, direttamente - e' il caso della  sentenza  495/1993  -  o
 indirettamente  -  come, ad es. a proposito della sentenza n. 240 del
 1994, trattandosi di decisione che tende a  ripristinare  per  talune
 categorie   di   titolari   di   piu'   pensioni   il   diritto  alla
 "cristallizzazione", previsto dal comma 7  dell'art.  6  del  decreto
 legge  n.  463/1983,  convertito nella legge n. 638/1983, poi negato,
 nei termini ivi precisati, dall'art. 11, comma  22,  della  legge  n.
 537/1993  -, disposizioni di legge vigenti da lungo tempo, dando cosi
 origine alla legittima aspettattiva di vedere  riconosciuti  benefici
 prima  preclusi,  oppure negati da leggi successive, e cio' anche per
 il passato e non solo per il futuro.   Le cause  di  tale  situazione
 sono   sicuramente   molteplici   e  non  possono  qui  essere  tutte
 individuate e valutate, ma due sono evidenti:  a)  l'enorme  ritardo,
 piu'  di cinque anni, con il quale la Corte ha iniziato a funzionare,
 dopo  l'entrata  in  vigore  della Costituzione e b) l'"invenzione" e
 l'affermazione  nella  giurisprudenza  della  Corte  delle   sentenze
 "legislative"   (gia'  ampiamente  contestate,  che,  pretendendo  di
 sostituire le parti ritenute incostituzionali delle  disposizioni  di
 legge  con  nuovi  contenuti  normativi stabiliti (senza potere dalla
 Corte,  hanno  determinato  nella  generale   opinione   il   "credo"
 sull'assoluta   obbligatorieta'  erga  omnes  (anche  per  il  potere
 legislativo   ed   esecutivo)   delle   scelte   della   Consulta   e
 contestualmente   una   lettura  "distratta"  dell'art.    136  della
 Costituzione, del quale si e' (volutamente) omesso di valutare  nella
 sua  interezza  il  dettato,  chiaro  e razionale.   In forza di tali
 rilievi, risulta palese  che  l'interesse  delle  parti  in  causa  a
 sollevare    questioni    di   legittimita'   costituzionale   legate
 preminentemente all'aspettattiva di ottenere vantaggi  anche  per  il
 passato  (tanto da affievolirsi e scomparire in assenza di efficia ex
 tunc della dichiarazione di illegittimita' costituzionale) non deriva
 da una situazione di normalita', ma e' radicato nella  patologia  del
 sistema,  come  e'  altrettanto  evidente  che  costituisce  una vera
 anomalia giuridica attribuire efficacia naturaliter retroattiva  alle
 sentenze  della  Corte.   In terzo luogo, non e' vero che certamente,
 sicuramente, necessariamen   te  ed  ineluttabilmente  debba  mancare
 l'interesse  alla  dichiarazione di illegittimita' costituzionale che
 determini (come voluto  nella  legge  fondamentale  dello  Stato)  la
 perdita di efficacia della norma di legge solo a decorrere dal giorno
 successivo  alla  pubblicazione della relativa decisione della Corte,
 poiche' deve ritenersi che, se il giudice  delle  leggi  riterra'  di
 accogliere  le  eccezioni  sollevate  ai  punti  D) ed E), la maggior
 facilita' di attivare il giudizio di costituzionalita', liberato  dai
 vincoli   e  dalle  illegittime  condizioni  ostative  oggi  presenti
 nell'ordinamento, produrra' una maggiore estensione  e  una  notevole
 accelerazione   del   controllo   di   legittimita'   costituzionale,
 consentendo alle parti  private  di  sollevare,  con  largo  anticipo
 rispetto  ad  oggi,  eccezioni non direttamente rilevanti in causa ed
 essenziali per la decisione della controversia  (essendo  sufficiente
 la loro non manifesta infondatezza), con conseguente nuovo e maggiore
 interesse  a  proporre  anticipatamente  le questioni di legittimita'
 costituzionale.  In quarto luogo: anche se tutto cio' che si  e'  fin
 qui detto fosse errato, resta sempre l'ultima piu' forte obiezione di
 diritto  positivo  costituzionale:  e' al legislatore (le Camere) che
 compete in via esclusiva, ai  sensi  dell'art.  136,  secondo  comma,
 della  Costituzione  -  qualora rilevi un'intollerabile violazione di
 legittime  aspettative  degli  interessati  (singoli  o   collettivi,
 organizzati  o  meno)  correlate alla dichiarazione di illegittimita'
 costituzionale, aventi radici anche nel passato - di intervenire (con
 discrezionale ed insindacabile, se  razionale,  valutazione  politica
 delle  compatibilita'  di bilancio e, percio', non necessariamente in
 totale corrispondenza con le aspettattive delle quali  si  e'  detto,
 utilizzando  gli  strumenti  legislativi  di  gestione  della finanza
 pubblica  piu'  idonei)  per  riconoscere  ed  estendere  anche  alle
 situazioni  giuridiche  sorte  nel passato il diritto affermato dalle
 decisioni della Corte costituzionale aventi giuridica efficacia  solo
 per il futuro.  Anche in tale prospettiva, dunque, risulta confermato
 che  ben  puo'  sussistere  i'a  interesse  delle  parti in causa del
 giudizio a quo a sollevare eccezioni di legittimita'  costituzionale,
 pur  nella  consapevolezza  dell'efficacia  caducatoria  solo  per il
 futuro  delle  decisioni   della   Consulta,   poiche'   permane   la
 possibilita'  di  ottenere dal legislatore, almeno in qualche misura,
 il riconoscimento normativo delle istanze dirette a trasferire  anche
 nel  passato il contenuto sostanziale delle sentenze della Corte.  Se
 quanto si e'  detto  e'  minimamente  vero  (e  non  si  riescono  ad
 intravedere  serie ragioni in contrario), allora e' ben chiaro che il
 sistema costituzionale - come qui  interpretatato,  grazie  alla  sua
 semplice  ed  agevole  lettura,  fortemente ancorata al senso univoco
 delle parole - e' perfetto ed e',  invece,  solo  la  triste  realta'
 storica dell'insufficienza cronica delle istituzioni a rispondere con
 rigore  alle  richieste  di  certezza  del  diritto del paese reale a
 determinare le asintonie che vengono ritenute naturaliter  implicanti
 il  valore  retroattivo  delle decisioni della Corte, sicuramente non
 voluto   ed,   anzi,   espressamente    escluso    dal    legislatore
 costituzionale.    Per  quanto,  poi,  riguarda  quella  parte  della
 contestazione fondata sul carattere incidentale  della  questione  di
 legittimita'  costituzionale  nel giudizio a quo, deve solo dirsi che
 essa nulla dimostra, poiche', lo si e' gia' detto e lo si dira'  piu'
 avanti,  il  giudizio  di costituzionalita' non e' istituito per dare
 ragione o torto a chi e' portatore d'interessi particolari,  ma  solo
 per  garantire  la legittimita' costituzionale della legge, cosicche'
 il sistema incidentale previsto per sollevare le questioni non assume
 rilievo sostanziale nel giudizio a  quo,  ma  e'  solo  lo  strumento
 procedurale  prescelto (uno tra i tanti costituzionalmente possibili,
 ed e' davvero superfluo elencare gli altri ipotizzabili)  e  da  esso
 non  puo'  alcunche' validamente dedursi per affermare l'efficacia ex
 tunc delle decisioni della Corte, a fronte di precisi dati  normativi
 contrari.    E',  infatti,  certo,  pacifico ed incontestabile che il
 giudizio di costituzionalita'  non  e'  finalizzato  a  dirimere  una
 controversia  tra  parti  in causa, ne' a dare ragione o torto ad una
 delle parti del giudizio a quo, ne' a formare un giudicato  in  senso
 tecnico,  ne'  ad  affermare  il  principio  giuridico  al quale deve
 attenersi l'Autorita' giudiziaria remittente.   Se,  in  tutto  o  in
 parte,  cio' che precede e' vero, l'art. 30, terzo comma, della legge
 11  marzo  1953,  n.  67,  deve  essere  dichiarato  illegittimo  per
 contrasto  con  l'art.  136,  primo  comma,  Costituzione,  in quanto
 consente   un'interpretazione   totalmente   difforme   dal   dettato
 costituzionale,   divenuta   "diritto   vivente",  cosi'  da  rendere
 estremamente difficoltosa, se  pur  non  impossibile,  l'affermazione
 della lettura legittima della disposizione.  Certamente e' nel potere
 della  Corte costituzionale negare la fondatez  za della questione di
 leggitimita' costituzionale teste' esposta,  eventualmente  anche  in
 forza  del principio, esattamente affermato, che impone nello scontro
 tra  due  o  piu'  interpretazioni  possibili  l'affermazione   della
 prevalenza  di quella conforme a Costituzione (e non vi e' dubbio che
 la   relativa   decisione   sarebbe   giuridicamente   perfetta    ed
 inattaccabile),  ma,  a sommesso avviso di questo giudice remittente,
 una siffatta soluzione non potrebbe avere valore definitivo,  poiche'
 lascerebbe    sempre    spazio    aperto    all'interpretazione   non
 costituzionalmente corretta.  Ne' e' poi il caso  di  porsi  scrupoli
 particolari,  nel  caso  di specie, sugli effetti della dichiarazione
 d'illegittimita' costituzionale:  la conseguente perdita di efficacia
 del terzo comma dell'art. 30 legge n. 87/1953 non causerebbe un grave
 vuoto  normativo (e' sempre presente nella giurisprudenza della Corte
 la preoccupazione di evitare, per  quanto  possibile,  tale  evento),
 poiche'  tale  disposizione  (come  gia'  notato)  nulla  aggiunge al
 disposto  del  primo  comma  dell'art.    136  Cost.,  limitandosi  a
 esplicitare  l'ovvia  conseguenza  della  perdita  di efficacia delle
 norme  dichiarate  incostituzionali  "dal  giorno   successivo   alla
 pubblicazione  della decisione" e cioe' la loro inapplicabilita' (nei
 termini gia' chiariti) a decorrere dallo stesso giorno.
   C) In  relazione  alla  questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.    22  legge  21 luglio 1965, n. 903, come modificato dalla
 citata sentenza n. 495  del  1993  della  Corte  costituzionale,  per
 violazione  dell'art.    81,  ultimo  comma, della Costituzione.   La
 Corte, con la  sentenza  n.  495/1993  (si  riporta  ancora  qui  per
 comodita'  di  esposizione)  ha dichiarato l'incostituzionalita', per
 contrasto con i principi di ragionevolezza e di  uguaglianza  di  cui
 all'art.  3  Costituzione,  dell'art.  22 della legge n. 903 del 1965
 "nella parte in cui non prevede che la pensione di riversibilita' sia
 calcolata  in  proporzione  alla  pensione   diretta   integrata   al
 trattamento  minimo  gia'  liquidata al pensionato o che l'assicurato
 avrebbe avuto il diritto di percepire".  La norma in  discorso,  come
 modificata  per  effetto  del  suddetto  intervento  della  Consulta,
 determina per  l'INPS  una  forte  esposizione  debitoria,  priva  di
 finanziamento (non solo e' fatto notorio, ma anche accertato ai sensi
 dell'art.  1,  quarto  comma,  del  decreto-legge n. 166 del 28 marzo
 1996, come gia' si e' detto; la causa di tutto cio'  deve  rinvenirsi
 nell'opinione  (erronea)  secondo  la  quale  le  sentenze  di natura
 addittiva della Corte costituzionale avrebbero  efficacia  vincolante
 erga  omnes  ed  ex  tunc,  opinione tuttora prevalente in dottrina e
 nella giurisprudenza di  merito  e  di  legittimita'.    Nessun  atto
 legislativo  delle  due  Camere  (unico,  come  si  e'  avuto modo di
 affermare  trattando  dell'art.  1  del  decreto-legge  n.  166/1996,
 costituzionalmente  legittimo  ai sensi dell'art. 136, secondo comma,
 Costituzione)  e'  sinora  intervenuto  per  reperire  la   copertura
 finanziaria  necessaria al fine di consentire all'INPS di provvedere,
 previa riliquidazione delle pensioni  di  riversibilita'  secondo  il
 dettato   della  sentenza  n.  495/1993,  al  pagamento  delle  somme
 arretrate,  con  gli  accessori  di   legge,   derivanti   da   detta
 riliquidazione.  E' piu' che evidente che il legislatore, a tutt'oggi
 (il  decreto-legge  n.  166  del  28 marzo 1996 ne e' riprova) non ha
 avuto la forza di dare attuazione in senso conforme alla Costituzione
 alla sentenza in discorso, emanando  le  norme  di  legge  idonee  ad
 acquisirne  i  principi  nel diritto positivo (e il ragionamento vale
 identico anche con riferimento alla sentenza n. 240/1994), nonostante
 la vigenza dell'art. 2, settimo comma, della legge 11 marzo 1988,  n.
 67,  che cosi' dispone:  "Qualora nel corso di attuazione di leggi si
 verifichino scostamenti  rispetto  alle  previsioni  di  spesa  o  di
 entrate,  il Governo ne da' notizia tempestivamente al Parlamento con
 relazione del Ministro del tesoro e assume le conseguenti iniziative.
 La stessa procedura e' applicata in caso di  sentenze  definitive  di
 organi   giurisdizionali   e   della   Corte  costituzionale  recanti
 interpretazioni della normativa vigente suscettibili  di  determinare
 maggiori   oneri".    Puo'  (meglio:  dovrebbe  essere  affermata  la
 responsabilita'  politica  dei  Governi  (e'  chiaro,  per  non  aver
 obbedito  al disposto sopra riportato testualmente dell'art. 2, comma
 7,  della  legge  n. 67 del 1988) che si sono succeduti dalla data di
 pubblicazione della sentenza n. 495/1993 ad oggi, ma nessun risultato
 giuridico puo'  conseguirne,  restando  certo  il  fatto  che  nessun
 intervento rispettoso della Costituzione e' stato posto in essere per
 la  copertura  finanziaria  dei  maggiori  oneri, ne' totalmente, ne'
 parzialmente,  non   potendosi   valutare   in   modo   positivo   il
 decreto-legge  n.  166/1996, gia' sottoposto a critica ed imputato di
 plurime  violazioni  della  legge   fondamentale   della   Repubblica
 italiana.    Peraltro,  con  riferimento  alla  sorte  (invero  assai
 incerta)  del  decreto-legge  n.  166  del  28  marzo  1996  in  sede
 parlamentare, non appare lecito attendere che il legislatore eserciti
 sino  in  fondo  i  suoi poteri, prima di procedere alla trasmissione
 della  presente  questione  di  legittimita'  costituzionale:   deve,
 infatti,  rilevarsi  con  estrema  chiarezza  che  una futura, ancora
 possibile e sempre  auspicabile  soluzione  legislativa  al  problema
 della copertura finanziaria degli effetti economici della sentenza n.
 495  del  1993,  avra'  se  pienamente  e  finalmente  rispettosa dei
 principi costituzionali, e' ovvio) naturalmente efficacia anche sulla
 presente questione di legittimita' costituzionale, facendole  perdere
 ogni  attualita',  rilevanza e fondatezza.   Deve altresi' essere con
 forza notato che l'Autorita' giudiziaria non puo',  in  nessun  caso,
 correlare  i  provvedimenti  previsti  dalla  legge  per amministrare
 giustizia  ad  indebite  ed   illecite   valutazioni   di   opinabile
 opportunita'  politica,  neppure in particolari situazioni temporali.
 Dal  riscontrato  attuale  dato  di  fatto  storico  dell'assenza  di
 copertur    a  finanziaria,  a parere di questo pretore, non puo' che
 discendere   obbligatoriamente   l'affermazione   dell'illegittimita'
 costituzionale  dell'art.  22  legge n. 903/1965, come modificato dal
 giudice delle leggi, per violazione dell'ultimo  comma  dell'art.  81
 Cost.,  a  nulla  rilevando  sapere  se  tale  violazione  dipenda da
 semplice inerzia, o assenza di volonta' del legislatore,  ovvero  (ed
 e',  purtroppo, questa l'ipotesi piu' veritiera) dalla realta' di una
 situazione critica delle finanze dello Stato, tale da aver reso, sino
 ad  oggi,  impossibile  il  reperimento  delle   risorse   finanziare
 necessarie, senza determinare un ulteriore aggravamento nel desolante
 bilancio  della  nostra  Repubblica.    Unica conseguenza e soluzione
 possibile  sembra  essere  quella  di  una   pronuncia   dichiarativa
 dell'illegittimita'  costituzionale  dell'art.    22 legge n. 903 del
 1965 nella nuova formulazione creata dalla sentenza n. 495 del  1993,
 con  conseguente  cessazione  dell'efficacia  della medesima norma ai
 sensi dell'art. 136, primo comma,  della  Costituzione  e  ripristino
 della  situazione  normativa  preesistente  l'intervento  del giudice
 delle leggi.   Ne'  puo',  in  contrario,  sostenersi  con  giuridica
 fondatezza  che  le  norme  "virtuali"  create dalle sentenze "leggi"
 della  Corte  costituzionale  siano  avulse  dal  sistema   giuridico
 costituzionale,  cosi'  da  non  dover  obbedire  (anche)  al dettato
 dell'art. 81, ultimo comma, Cost., ovvero  che  siano,  senza  alcuna
 fondata  ragione  (ma in dottrina si e' elaborata una tesi contraria,
 che verra'  piu'  avanti  sottoposta  a  critica),  "refrattarie"  al
 controllo  di  legittimita'  costituzionale,  ovvero  ancora  che  il
 legislatore debba dare esecuzione, sempre e comunque,  alla  volonta'
 della  Corte  e  che  abbia  tempi  illimitati  per  provvedere  alla
 copertura finanziaria: se le sentenze  di  natura  legislativa  della
 Corte hanno davvero forza innovativa nel diritto positivo con obbligo
 di  applicazione  (ipotesi,  deve  ribadirsi  ancora,  qui fortemente
 negata), tanto da fondersi, in modo simile a quanto  avviene  per  le
 leggi   di   interpretazione   autentica,  con  la  norma  dichiarata
 incostituzionale, determinandone un nuovo contenuto, ebbene,  allora,
 queste  norme  "virtuali"  devono  essere  totalmente  conformi  alla
 Costituzione e soggiacere al  vaglio  del  giudizio  di  legittimita'
 costituzionale,  come  qualsivoglia  altra norma di legge.  Ne' puo',
 sempre in  contrario,  avere  valore  la  tesi,  sostenuta  da  parte
 illustre  della dottrina, della obbligatorieta' per il legislatore di
 provvedere,  comunque,  al  reperimento  delle   necessarie   risorse
 finanziarie per l'attuazione delle sentenze cosi' dette "addittive di
 spesa"  (ma  il  discorso  vale  per  tutte) del giudice delle leggi,
 obbligatorieta'   dalla    quale    di    necessita'    discenderebbe
 l'inapplicabilita'  dell'art.  81,  ultimo  comma,  Cost.  alla norma
 "corretta"  dalla  Corte,  sul  presupposto  di  una   minore   forza
 costituzionale  dell'art.  81  rispetto alle norme della Costituzione
 portatrici di principi fondamentali, quali quelli  d'uguaglianza,  di
 razionalita'  e  di  solidarieta',  per quanto qui interessa: se pure
 deve riconoscersi che la tesi non manca di fascino, la sua erroneita'
 e' totale, poiche' svilisce  il  contenuto  vero  dell'art.  81,  non
 riconoscendovi  il  valore di norma essenziale per tutela del sistema
 giuridico-economico-sociale-etico   dello   Stato.       La    nostra
 Costituzione  ha,  invero,  il  grande  pregio, grazie forse alla sua
 stessa origine pluri-ideologica, di contenere tutti i  principi  piu'
 alti  della  civilta'  e  di  tutelare  tutte le liberta', senza dare
 prevalenza  ad  una  visione  politica  dello   Stato   specifica   e
 limitatrice,  ma,  nel  contempo, nella consapevolezza del necessario
 rispetto della realta' economica, quale limite e strumento essenziale
 per la possibile e sempre tendenziale attuazione concreta dei  grandi
 ideali di giustizia, uguaglianza e liberta', pone un principio ancora
 superiore,  presente  proprio  nell'art.  81: la compatibilita' delle
 concrete risorse economiche quale limite di  realta'  al  "sogno"  di
 perfezione,  quale  strumento  di  difesa  della  realizzabilita' dei
 grandi principi ideali etici e  materiali,  quale  freno  alla  spesa
 illimitata  di risorse future (purtroppo, sempre piu' future) al fine
 di tutelare l'esistenza  stessa  dello  Stato,  quale  monito  etico,
 infine, alla necessaria responsabilita' verso le future generazioni e
 alla piu' corretta distribuzione della ricchezza per quelle presenti.
 Cosi', se si volesse proporre una diversa classificazione delle norme
 costituzionali, l'art. 81 dovrebbe essere definito "norma di realta'"
 in  contrapposizione  alle  "norme  di  ideale"  e dovrebbe in questa
 prospettiva essere collocato al  vertice  di  una  nuova  graduatoria
 d'importanza,  dovendosi  riconoscere che, pur non affermando elevati
 principi "sacrali", si pone a garanzia della realizzabilita'  (invero
 pur   sempre   tendenziale   delle   "norme   di  ideale",  statuendo
 l'obbligatorio rispetto dei limiti delle risorse disponibili, in modo
 tale da consentire al sistema economico dello Stato di  sostenere  il
 costo  della  continua evoluzione dei bisogni di civilta' nei confini
 del possibile, senza sperperare ricchezze future non ancora prodotte,
 al  fine  di  evitare   il   grande   rischio   (oggi   sempre   piu'
 drammaticamente  concreto)  di  allontanare  sempre  piu' nel tempo e
 forse da precludere  definitivamente  l'attuazione  delle  "norme  di
 ideale"   della   Costituzione.      Il   doveroso   ed   ineludibile
 riconoscimento  dei  suddetti  valori  costituz     ionali   presenti
 nell'art.  81, non solo, come gia' detto, impone il superamento della
 tesi dottrinaria sopra criticata, ma (lo si  puo'  qui  dire  con  un
 breve  appunto,  anche se non perfettamente in tema) deve determinare
 anche a carico del giudice delle leggi l'obbligo di valutare  sempre,
 nelle  proprie  decisioni  che  comportino  una spesa non prevista in
 bilancio, l'art. 81 della Costituzione, quale  norma  di  primaria  e
 vitale  importanza.  Se poi si dovesse porre la domanda se sia lecito
 che il legislatore rifiuti - in tutto o in parte, per ragioni  legate
 allo stretto rispetto di una grave realta' di deficit di bilancio non
 piu' espandibile - di dare piena e concreta attuazione alle decisioni
 "addittive  di  spesa"  della  Corte,  la  risposta  dovrebbe  essere
 affermativa (cfr., in proposito,  la  recente  sentenza  della  Corte
 costituzionale  28  giugno-13  luglio  1995,  n.  320, nella quale si
 rinvengono argomenti in parte coincidenti con quelli  qui  espressi),
 sia   nel  caso  che  si  vogliano  ritenere  legittime  le  sentenze
 "legislative" della Corte, sia che si neghi  la  loro  efficacia  per
 palese  contrasto  con  l'art. 136 Cost., poiche' la discrezionalita'
 politica del legislatore - se  sorretta  da  insuperabili  e  provate
 ragioni imposte dalla realta', non ultima delle quali potrebbe essere
 legata  alla  considerazione  che  "le generazioni future non possono
 essere gravate oltre misura facendo  vivere  quelle  attuali  a  loro
 spese",  come  sottolineato  da  attenta  dottrina  - non puo' essere
 limitata da nessun'altra volonta', trovando fondamento  nell'art.  81
 Costituzione,  norma  di "realta'" posta a tutela della conservazione
 dello Stato e delle prospettive della sua stessa evoluzione.  Poiche'
 ai fini del decidere e' importante, anche se  non  essenziale  (che',
 come  si  e'  gia'  detto,  la  controversia  puo'  ben essere decisa
 "indipendentemente" sotto  vari  altri  profili,  avere  certezza  in
 ordine alla vigenza o meno dell'art. 22 della legge n. 903/1965, come
 determinata   (nell'opinione   prevalente,   qui  contrastata)  dalla
 sentenza n. 495/1993, e poiche'  tale  certezza  puo'  derivare,  con
 valore  assoluto (che' le tesi di questo giudice sono rimaste davvero
 minoritarie e marginali), solo (salvo ovviamente un sempre  possibile
 intervento  legislativo)  da una decisione della Corte costituzionale
 risulta necessario investire il giudice delle leggi  della  questione
 di  costituzionalita' come sopra precisata, essendone, peraltro, piu'
 che palese per le argomentazioni che precedono, senza altro superfluo
 commento,  anche  la  rilevanza  nel   presente   giudizio,   poiche'
 l'eventuale   dichiarazione   d'illegittimita'   costituzionale   per
 violazione dell'art. 81  sarebbe,  senza  possibilita'  di  contrasto
 neppure  negli  eventuali  gradi  successivi  del giudizio, motivo di
 rigetto della  domanda  proposta  in  causa,  anche  se,  in  ipotesi
 estrema, solo concorrente, o anche solo subordinato e residuale.
   D)  In  relazione  alla  questione  di  legittimita' costituzionale
 dell'art.  23, comma 2, della legge 11 marzo 1953, n. 87, ove prevede
 che "il giudizio non possa essere  definito  indipendentemente  dalla
 risoluzione   della   questione  di  legittimita'  costituzionale"  e
 limitatamente a tale parte, per  violazione  dell'art.  134,  nonche'
 degli  artt. 101, 104, primo comma, e 111 della Costituzione.  L'art.
 134, per  quanto  qui  interessa,  dispone  testualmente:  "La  Corte
 costituzionale giudica: sulle controversie relative alla legittimita'
 costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello
 Stato  e  delle  Regioni".    L'art.  1  della legge costituzionale 9
 febbraio 1948, n. 1, emessa in attuazione dell'art. 137, primo comma,
 Cost.,  recita:  "La  questione di legittimita' costituzionale di una
 legge o di un atto avente forza di legge della  Repubblica,  rilevata
 d'ufficio  o  sollevata da una delle parti nel corso di un giudizio e
 ritenuta dal giudice non manifestamente infondata,  e'  rimessa  alla
 Corte  costituzionale  per la sua decisione".  A fronte di tali norme
 costituzionali, l'art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo  1953,
 n.  87,  invece, cosi' dispone: "L'autorita' giurisdizionale, qualora
 il  giudizio  non  possa  essere  definito  indipendentemente   dalla
 risoluzione  della  questione  di  legittimita'  costituzionale e non
 ritenga che la  questione  sollevata  sia  manifestamente  infondata,
 emette  ordinanza  con  la  quale,  riferiti  i  termini  ed i motivi
 dell'istanza  con  la  quale  fu  sollevata  la  questione,   dispone
 l'immediata  trasmissione  degli  atti  alla  Corte  costituzionale e
 sospende il giudizio in corso".  Il ben diverso contenuto sostanziale
 del secondo comma dell'art.   23, contrastante  con  le  disposizioni
 dell'art.  134  Cost. e dell'art.   1 legge costituzionale n. 1/1948,
 risalta evidente: la previsione della necessita' che "il giudizio non
 possa  essere  definito  indipendentemente  dalla  risoluzione  della
 questione  di  legittimita'  costituzionale" al fine di introdurre il
 giudizio di costituzionalita' dinanzi  al  giudice  delle  leggi  non
 trova  minimo  riscontro  a livello di normativa costituzionale.  Non
 solo:  appare  anche  chiaro,  tanto  da  risultare  quasi  superfluo
 parlarne,  che quella previsione dell'art. 23, ben individuata sopra,
 riduce enormemente la possibilita' di  attivare  il  controllo  della
 Corte  sulla  legittimita'  costituzionale "delle leggi e degli atti,
 aventi forza di legge, dello Stato", poiche' impone che la  rilevanza
 della  questione  di costituzionalita' sia tale da comportare da sola
 la definizione del giudizio, rendendo  in  tal  modo  irrilevanti  e,
 percio',   inammissibili   tutte   le   questioni   di   legittimita'
 costituzionale l'oggetto  delle  quali  sia  solo  concorrente  nella
 decisione  della  causa.    Viene  cosi'  patentemente  incatenato il
 controllo  della  costituzionalit    a'  delle  leggi  e  degli  atti
 normativi  di  pari  forza  e contestualmente mortificata la garanzia
 costituzionale di tale  controllo,  svilito  nell'attuale  realta'  a
 strumento  di  tutela di interessi puramente privati (di singoli o di
 collettivita', come gia' si e' avuto modo di rilevare), mentre la sua
 ragion d'essere risponde al ben superiore interesse di  mantenere  la
 normativa  all'interno  dei  principi  e  delle norme costituzionali,
 restando irrilevante, o solo eventuale, la contestuale  soddisfazione
 di  aspettative  particolari.    In  forza  delle  considerazioni che
 precedono, appare consequenziale riconoscere che, nel sistema vigente
 della legislazione ordinaria in  relazione  alle  norme  della  legge
 fondamentale  della  Repubblica  in  tema di garanzie costituzionali,
 sussistono  troppi  vincoli  alla  piena  attuazione   dei   principi
 costituzionali  e  cio' con particolare riferimento alla possibilita'
 di accesso al  giudizio  di  legittimita'  costituzionale,  tanto  da
 rendere  possibile  la  permanenza  nel  diritto positivo di numerose
 norme contrarie alla Costituzione, senza che queste  possano  trovare
 controllo   e  verifica  di  legittimita',  posto  che  la  struttura
 procedimentale che consente di  giungere  dinanzi  al  giudice  delle
 leggi e' eccessivamente limitativa.  Non e' certo nella competenza di
 questo  giudice,  ne'  del  giudice  delle  leggi,  la  ricerca delle
 soluzioni   normative   necessarie   per   la   realizzazione   della
 Costituzione,  ma  la  constatazione  della difficolta' di accesso al
 giudizio   dinanzi   alla  Corte  costituzionale  doveva  qui  essere
 chiaramente manifestata, non soltanto perche' direttamente  attinente
 la questione di legittimita' costituzionale ora prospettata, ma anche
 perche' non puo' negarsi che numerose norme della legge n. 87/1953, e
 non  il  solo  secondo comma dell'art. 23 nella parte specifica sopra
 individuata, violano l'art. 134 Cost., riducendo a minimi livelli  la
 possibilita'  del  controllo  di conformita' delle leggi e degli atti
 aventi forza di legge, mentre il sistema costituzionale nasce con  un
 impianto assai vasto, che appare, comunque, illecitamente compresso e
 mortificato  dalla  legge  ordinaria,  e  non solo nella sostanza, ma
 anche nella forma normativa  utilizzata,  come  risultera'  piu'  che
 evidente  nello sviluppo della successiva questione sub E).  Prima di
 passare oltre, pero', deve essere chiarito ancora in quali termini si
 ritengono violati gli artt. 101 e 104 della Costituzione dall'art. 23
 legge n. 87/1953,  nella  parte  in  cui  dispone  che,  per  potersi
 procedere alla trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, "il
 giudizio   non   possa   essere   definito   indipendentemente  dalla
 risoluzione della questione  di  legittimita'  costituzionale".    La
 disposizione   contestata   e'  illegittima,  poiche'  determina  una
 riduzione e compressione dell'autonomia ed indipendenza del  giudice,
 impedendogli  di valutare tutte le possibili soluzioni giuridiche per
 la decisione dei processi, causando grave  danno  all'amministrazione
 della   giustizia,  poiche'  (essendo  precluso  alle  questioni  non
 essenziali l'accesso al giudizio di costituzionalita')  sottrae  alla
 motivazione  (art.  111  Cost.)  delle  sentenze ragioni ulteriori di
 potenziale  accoglimento  o  rigetto  della   domanda   (per   quanto
 concernente  in  particolare  le controversie nella materia demandata
 alla  competenza  di  questo  pretore),   idonee   a   rendere   piu'
 "resistente"  la  motivazione e non e' superfluo qui ricordare che il
 bene giuridico della certezza del diritto si fonda anche sulla  forza
 di resistenza delle pronuncie giurisdizionali nei successivi gradi di
 giudizio.
   E)    In  relazione  alla  questione di legittimita' costituzionale
 dell'art. 23 della legge ordinaria 11 marzo 1953, n. 87, nelle  parti
 che  stabiliscono condizioni e forme di proponibilita' dei giudizi di
 legittimita' costituzionale, per palese violazione della  riserva  di
 legge   costituzionale   prevista   dal  primo  comma  dell'art.  137
 Costituzione.  La riserva di legge imposta dal primo comma  dell'art.
 137,  viene,  per  quanto  qui interessa, cosi' formulata: "Una legge
 costituzionale stabilisce le  condizioni,  le  forme,  i  termini  di
 proponibilita'   dei  giudizi  di  legittimita'  costituzionale":  la
 materia e', dunque, riservata a legge costituzionale e non ordinaria.
 Ed invero sono state approvate e promulgate le leggi costituzionali 9
 febbraio 1948, n. 1, e 11 marzo 1953, n. 1, delle quali la  prima  e'
 pienamente  conforme  al  dettato  costituzionale,  tant'e'  vero che
 all'art.  1  la  legge  costituzionale  n.  1/1948  prevede  che  "La
 questione  di  legittimita'  costituzionale di una legge o di un atto
 avente forza di legge, rilevata d'ufficio o sollevata  da  una  delle
 parti   nel   corso   del   giudizio   e  non  ritenuta  dal  giudice
 manifestamente infondata, e' rimessa alla Corte costituzionale per la
 sua decisione.", mentre l'art. 1 della legge costituzionale n. 1/1953
 lascia perplessi, poiche' non si limita ad affermare  che  "La  Corte
 costituzionale  esercita  le  sue funzioni nelle forme e nei limiti e
 alle  condizioni  di  cui  alla  Carta  costituzionale,  alla   legge
 costituzionale  9  febbraio  1948,  n.  1"  ma  aggiunge  un richiamo
 generico e generale anche "alla legge ordinaria emanata per la  prima
 attuazione  delle  predette norme costituzionali", con buona pace per
 la riserva di legge costituzionale espressamente  disposta  nell'art.
 137,  terzo  comma, Costituzione, tanto che, se si dovesse giungere a
 ritenere richiamato anche l'art. 23 della legge n. 87/1953 (ma questo
 giudice deve recisamente negare la validita'  di  una  tale  ipotesi,
 allora  anche  lo  stesso  art.  1 della costituzionale n. 1 del 1953
 sarebbe imputabile di violazione  dell'art.  137  Costituzione.    E'
 palese  ed  indubbio  (nonostante l'ambiguita', per il suo eccesso di
 genericita', dell'errato ed infelice riferimento alla legge ordinaria
 appena rilevato)  che  il  sistema  costituzionale  del  giudizio  di
 legittimita' delle norme di legge e degli atti aventi forza di legge,
 pur  stabilendo  il  chiaro  limite  della non manifesta infondatezza
 (l'esame della quale e' di prioritaria, quanto  meno,  se  non  anche
 esclusiva,  competenza dell'Autorita' giudiziaria) delle questioni di
 legittimita' costituzionale, quale barriera per l'accesso al giudizio
 dinanzi alla Corte costituzionale, non  ha  istituito  quegli  altri,
 diversi e assai piu' stringenti, confini che risultano, invece, nella
 legge  ordinaria.    E'  allora certo che tutte le disposizioni della
 legge ordinaria  (normale  legge  ordinaria,  priva  di  qualsivoglia
 abnorme  ed atipico carattere di super resistenza nel rapporto con le
 norme della Costituzione) 11 marzo 1953,  n.  87,  che  regolano  "le
 condizioni,  le  forme,  i  termini  di proponibilita' dei giudizi di
 legittimita'   costituzionale"   in   modo   difforme   dal   sistema
 costituzionale  che  si  e'  sopra individuato sono illegittime nella
 stessa  fonte  e  forma  legislativa  che   le   pone   (per   quanto
 espressamente riguardante la questione di legittimita' costituzionale
 ora discussa) per palese violazione dell'art. 137, primo comma, della
 Costituzione.    Cosi' risulta illegittimo, in particolare, l'art. 23
 della legge 11 marzo 1953, n. 87, al quale solo si vuole limitare  la
 trattazione,  restando,  comunque  ed  ovviamente,  integro il potere
 della Corte, nell'ipotesi di accoglimento della  presente  questione,
 di  decidere se sussistano gli estremi per procedere all'applicazione
 dell'ultima parte dell'art. 27 della medesima legge.  L'art. 23 della
 legge 11 marzo 1953, n. 87, cosi' dispone: "Nel corso di un  giudizio
 dinanzi  ad  una  autorita'  giurisdizionale  una  delle  parti  o il
 pubblico  ministero  possono  sollevare  questione  di   legittimita'
 costituzionale mediante apposita istanza, indicando:
     a)  le disposizioni della legge o dell'atto avente forza di legge
 dello  Stato  o   di   una   regione,   viziate   da   illegittimita'
 costituzionale;
     b)   le   disposizioni   della   Costituzione   o   delle   leggi
 costituzionali che si assumono violate.  L'autorita' giurisdizionale,
 qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla
 risoluzione della questione  di  legittimita'  costituzionale  e  non
 ritenga  che  la  questione  sollevata  sia manifestamente infondata,
 emette ordinanza con  la  quale,  riferiti  i  termini  ed  i  motivi
 dell'istanza   con  la  quale  fu  sollevata  la  questione,  dispone
 l'immediata trasmissione  degli  atti  alla  Corte  costituzionale  e
 sospende  il  giudizio  in  corso.    La  questione  di  legittimita'
 costituzionale puo'  essere  sollevata,  di  ufficio,  dall'autorita'
 giurisdizionale  davanti  alla  quale verte il giudizio con ordinanza
 contenente le indicazioni previste alle lettere a)  e  b)  del  primo
 comma  e  le  disposizioni  di cui al comma precedente.   L'autorita'
 giurisdizionale ordina che a cura della  cancelleria  l'ordinanza  di
 trasmissione  degli  atti  alla  Corte costituzionale sia notificata,
 quando non ne sia data lettura nel pubblico dibattimento, alle  parti
 in  causa  ed  al  pubblico  ministero  quando  il suo intervento sia
 obbligatorio, nonche' al presidente del Consiglio dei Ministri od  al
 presidente  della giunta regionale a seconda che sia in questione una
 legge o un atto avente forza di legge dello Stato o di  una  regione.
 L'ordinanza  viene  comunicata  dal  cancelliere  anche ai presidenti
 delle due  Camere  del  Parlamento  e  al  presidente  del  Consiglio
 regionale  interessato".    L'art.  23 della legge ordinaria 11 marzo
 1953, n. 87, e' nel suo complesso illegittimo, per la violazione  del
 tutto   evidente   dell'art.      137,   primo   comma,  della  Carta
 costituzionale, con la  sola  esclusione  delle  seguenti  specifiche
 parti, nelle quali nulla dispone in ordine alle condizioni e forme di
 accesso  al  giudizio  dinanzi  alla  Corte,  o  si limita a ribadire
 immutato  quanto   gia'   previsto   dalla   normativa   di   livello
 costituzionale:    "Nel corso di un giudizio dinanzi ad una autorita'
 giurisdizionale una delle  parti  o  il  pubblico  ministero  possono
 sollevare  questione  di legittimita' costituzionale...   L'autorita'
 giurisdizionale, qualora... non ritenga che  la  questione  sollevata
 sia manifestamente infondata, emette ordinanza con la quale, riferiti
 i  termini  ed  i  motivi  dell'istanza  con la quale fu sollevata la
 questione, dispone l'immediata trasmissione  degli  atti  alla  Corte
 costituzionale...  La  questione  di legittimita' costituzionale puo'
 essere sollevata, di ufficio, dall'autorita' giurisdizionale  davanti
 alla quale verte il giudizio con ordinanza...".  In tutte le restanti
 parti   l'art.  23  legge  n.  87/1953  e'  radicalmente  viziato  da
 illegittimita' costituzionale e non vi e' nulla da  aggiungere  sulla
 questione  ora discussa, poiche' sorretta dalla pura constatazione di
 una realta' evidente; si deve soltanto chiarire che la sua  rilevanza
 nel  presente  giudizio  e'  identica  a  quella  individuata  per la
 questione sub D), giacche'  anch'essa  presupposto  logico  giuridico
 dell'ammissibilita' delle prime tre questioni.
                       CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
   Senza  dubbio le questioni di legittimita' costituzionale sollevate
 presentano molti altri aspetti  di  grande  interesse  e,  cosi',  si
 potrebbero  ancora  esaminare  e  discutere  le  diverse elaborazioni
 dottrinarie  e  giuresprudenziali  contrastanti  con  le   tesi   qui
 affermate,   ma  la  dimensione  gia'  troppo  vasta  della  presente
 ordinanza  ne  sconsiglia  ogni  ulteriore   evoluzione,   anche   in
 considerazione del fatto che gli argomenti gia' diffusamente motivati
 non  trarrebbero  maggior  forza  dalla critica di tutte le contrarie
 posizioni.  Questo giudice remittente non intende sostenere che dalla
 trasmissione della presente ordinanza  derivi  un  obbligo  giuridico
 della  Corte costituzionale di procedere alla valutazione di tutte le
 varie  questioni  rilevate  d'ufficio,  poiche'  e'   intuitivo   che
 l'eventuale  decisione  di  accoglimento  o rigetto di alcune di esse
 rende superfluo l'esame  delle  altre,  eppure,  in  ultima  analisi,
 ritiene di dover mettere l'accento sulla grande importanza e utilita'
 di  una  pronuncia  del  giudice  delle  leggi  su tutte le questioni
 portate alla sua attenzione,  considerato  che,  poiche'  tutte  sono
 riconducibili  alla  necessita'  primaria  di riportare le "regole di
 svolgimento del gioco" (prendendo in prestito una recente espressione
 della  dottrina),  per  tutti  gli  organi istituzionali, all'interno
 della vera Costituzione della Repubblica italiana, rigida e  formale,
 tutte  hanno  pari  rilevanza  e  valore e tutte sono tese al fine di
 ricondurre il sistema giuridico del  controllo  di  costituzionalita'
 delle  leggi  e  degli  atti  aventi  forza di legge nell'alveo della
 nostra  Carta  costituzionale.    Sistema  nel  quale,  e'  opportuno
 ricordarlo,  se  e' vero che e' demandat  o alla Corte costituzionale
 il potere di decidere sulla legittimita' delle norme di legge e degli
 atti aventi forza di legge, e' anche vero che il primo  controllo  di
 legittimita'  costituzionale  e' attribuito dalla legge all'Autorita'
 giudiziaria, cio' che ampiamente legittima i rilievi  sviluppati  nel
 presente  atto  e  consente di affermare che, ai fini della decisione
 alla quale e' chiamata la Corte sulle questioni sub A), B) e C),  non
 puo'  assumere  rilievo  giuridico  la constatazione del fatto che da
 decenni si perpetuino le violazioni della Costituzione qui denunciate
 e che tale realta' sia avallata dai paladini del "diritto  vivent"  e
 della "costituzione materiale", poiche' il reiterarsi dell'errore non
 ne  determina il superamento e con esso la liceita' di fatto, ma solo
 la maggior gravita' e la piu' difficile sanabilita'.   Parimenti  non
 puo'  essere  di  ostacolo all'accoglimento eventuale delle questioni
 qui  sollevate  il  timore  dei  vuoti  normativi  conseguenti   alle
 dichiarazioni   d'illegittimita'   costituzionale  solo  caducatorie,
 correlato al dubbio (non certo privo di riscontri storici della Corte
 costituzionale sulla reale capacita' o volonta'  del  legislatore  di
 riempire  i vuoti con nuove leggi costituzionalmente corrette (quello
 che e' stato definito horror vacui da valida dottrina), giacche'  e',
 su  tutto,  prioritario  il  ripristino  della legalita' e, comunque,
 anche  in  caso  di  fondato  timore  sul  mancato   intervento   del
 legislatore,  non  e'  giustificabile  ne'  la conservazione di norme
 illegittime, ne' la loro modifica tramite le sentenze "leggi" non  in
 sintonia  con  l'art. 136 Cost., poiche' non rispondenti ai poteri ed
 obblighi attribuiti dalla Costituzione al giudice delle leggi, mentre
 non puo' dimenticarsi, in primo luogo, che il sistema giuridico e' in
 grado di sanare in parte i vuoti normativi in  sede  giudiziaria,  in
 secondo  luogo,  che  la responsabilita' del legislatore inadempiente
 puo' essere sanzionata politicamente in sede  di  manifestazione  del
 voto  popolare  e,  in terzo luogo, che esistono nella societa' forti
 strumenti  di  pressione  politica  per  indurre  il  legislatore   a
 legiferare.    Non  sembra necessaria una motivazione ulteriore sulla
 fondatezza e sulla rilevanza delle questioni sopra  trattate,  stanti
 gli   argomenti   sviluppati  in  relazione  ai  precisi  riferimenti
 normativi  costituzionali  indicati  sui  singoli  temi,   di   certo
 sufficienti  per escludere, quanto meno, la manifesta infondatezza di
 tutti i rilievi d'incostituzionalita' ampiamente discussi,  i  quali,
 comunque,  rivestono  grande  importanza,  sia in ordine alla ricerca
 della massima forza di resistenza della sentenza  che  dovra'  essere
 emanata per la risoluzione della presente controversia (e delle altre
 pendenti,  aventi  simile, o identico contenuto), sia in relazione al
 necessario riesame delle tesi critiche sopra esposte  sulle  sentenze
 "legislative"  della  Consulta,  alla  luce degli argomenti giuridici
 che, in caso di eventuale pronuncia negativa, la Corte costituzionale
 riterra' di  sviluppare  in  sede  di  motivazione,  giacche'  questo
 giudice  ben  potrebbe  mutare  opinione  e  di certo dovrebbe, se le
 considerazioni della Corte dovessero evidenziare  sostanziali  errori
 di diritto nell'impostazione delle tesi qui sostenute, o gravi lacune
 nell'individuzione  delle  norme  di  legge rilevanti per la corretta
 soluzione delle problematiche discusse, tali da  dimostrare  in  modo
 incontrovertibile   l'infondatezza   totale  dei  presupposti  logico
 giuridici  della  giurisprudenza  di  questo  pretore  sui  temi  qui
 trattati.
   E'   naturalmente   lasciata  al  giudizio  esclusivo  della  Corte
 costituzionale ogni valutazione e decisione  per  quanto  concernente
 l'eventuale  applicazione  d'ufficio del secondo periodo dell'art. 27
 della legge 11 marzo 1953,  n.  87,  non  essendo  necessaria  alcuna
 specifica indicazione in questa sede.  Con specifico riferimento alle
 questioni di legittimita' costituzional  e rilevate nella prima parte
 dell'ordinanza  a  carico  del  decreto-legge  26 marzo 1996, n. 166,
 appare opportuno ricordare che il divieto dell'art. 28 della legge n.
 87 del 1953 "Il controllo di legittimita' della Corte  costituzionale
 su una legge o un atto avente forza di legge esclude ogni valutazione
 di natura politica e ogni sindacato sull'uso del potere discrezionale
 del Parlamento" per l'espressa sua limitazione alle leggi emanate dal
 Parlamento,  non  puo'  ritenersi esteso al controllo di legittimita'
 sui provvedimenti provvisori del Governo  di  cui  al  secondo  comma
 dell'art. 77 Costituzione: potrebbe dunque sostenersi la legittimita'
 di una critica del giudice remittente sulle motivazioni politiche che
 hanno  indotto il Governo ad emanare il decreto-legge n. 166/1996, ma
 questo pretore non  ritiene  assolutamente  certa  l'esattezza  della
 interpretazione  appena sopra formulata, quanto meno a causa di forti
 ragioni di opportunita' e,  conseguentemente,  considera  corretto  e
 rispettoso  dei limiti delle competenze attribuite dalla Costituzione
 all'Autorita' giudiziaria astenersi dal dare una propria  valutazione
 sulle  ragioni  politiche  del  decreto-legge,  eppure  nel  contempo
 ritiene doveroso sollecitare la Corte  costituzionale  ad  affrontare
 anche  le  implicazioni  politiche  della  vicenda,  poiche' non puo'
 omettersi di far notare,  comunque,  che  l'urgenza  legittimante  il
 provvedimento  avente  valore  di  legge  del Governo non puo' essere
 costituita da un interesse proprio  dello  stesso  organo,  non  deve
 cioe'  essere  collegata a particolari esigenze del Potere esecutivo,
 ma deve dipendere da situzioni reali di straordinaria necessita'  del
 paese.   In dipendenza delle questioni di legittimita' costituzionale
 rimesse all'esame della Corte costituzionale,  il  presente  giudizio
 pretorile  deve  essere sospeso, ai sensi dell'art. 23 legge 11 marzo
 1953,  n.     87,  tuttora  vigente,  pur   se   anch'esso   imputato
 d'incostituzionalita'.
                               P. Q. M.
   Solleva   d'ufficio   le   seguenti   questioni   di   legittimita'
 costituzionale:
     con riferimento al d.-l. 28 marzo 1996, n. 166:
      dell'art. 1 del d.-l. n. 166/1996, per violazione dell'art.   77
 della Costituzione;
      dell'art.  1  del  d.-l. n. 166/1996, per violazione degli artt.
 1, secondo comma, 70 e 72 della Costituzione;
      dell'art. 1 del d.-l. n.  166/1996,  violazione  dell'art.  136,
 secondo comma, della Costituzione;
      dell'art.  1, commi 1, 2 e 3, del decreto-legge n. 166/1996, per
 violazione  degli  artt.  24,  comma  1,  e  25,   comma   1,   della
 Costituzione;
      dell'art. 1 del d.-l. n. 166/1966, per violazione dell'art.  81,
 quarto comma, della Costituzione;
      dell'art.  1  del d.-l. n. 166/1996, per violazione dell'art.  3
 della Costituzione;
      dell'art. 1, terzo comma, del  decreto-legge  n.  166/1996,  per
 violazione  degli  artt.  1,  primo  comma, 4, primo comma, 35, primo
 comma, e 36, primo comma, della Costituzione.
     con riferimento alla normativa precedente l'entrata in vigore del
 suddetto decreto-legge:
      dell'art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903, come modificato
 dalla  sentenza  29-31   dicembre   1993,   n.   495,   della   Corte
 costituzionale,  per violazione dell'art 136, primo comma, 101 e 104,
 primo comma, della Costituzione;
      dell'art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, per
 violazione dell'art. 136, primo comma, della Costituzione;
      dell'art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903, come modificato
 dalla sentenza n. 495/1993 della Corte costituzionale, per violazione
 dell'art 81, ultimo comma, della Costituzione;
      in  via  preliminare,   rispetto   alle   questioni   precedenti
 individuate  alle  lettere a), b) e c), dell'art. 23,  comma 2, della
 legge 11 marzo 1953 n. 87, ove prevede che  "il  giudizio  non  possa
 essere  definito  indipendentemente dalla risoluzione della questione
 di legittimita' costituzionale" e limitatamente  a  tale  parte,  per
 violazione    dell'art.    134,  nonche'  degli artt. 101, 104, primo
 comma, e 111 della Costituzione;
      sempre in via preliminare e con gli stessi riferimenti  indicati
 sub  d),  dell'art.  23 della legge ordinaria   11 marzo 1953, n. 87,
 nelle parti che stabiliscono condizioni e forme di proponibilita' dei
 giudizi di legittimita'   costituzionale, come  meglio  precisato  in
 motivazione,   per   palese   violazione   della   riserva  di  legge
 costituzionale   prevista   dall'art.   137,   primo   comma,   della
 Costituzione;
   Sospende il giudizio;
   Ordina  la  trasmissione  degli  atti  alla  Corte  costituzionale,
 disponendo la notifica al  Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri,
 oltre   alla   comunicazione  ai  Presidenti  delle  due  Camere  del
 Parlamento;
   Manda alla cancelleria per l'esecuzione.
     Brescia, addi' 1 aprile 1996
                           Il pretore: Onni
 96C0761