N. 527 ORDINANZA (Atto di promovimento) 23 marzo 1996
N. 527 Ordinanza emessa il 23 marzo 1996 dal magistrato di sorveglianza di Brescia sul ricorso proposto da Beltrami Gianluigi Ordinamento penitenziario - Detenuto "condannato definitivo" - Colloqui con il difensore - Modalita' - Lamentata mancata previsione di specifica disciplina come invece previsto per i colloqui del difensore con l'imputato detenuto (art. 104 del c.p.p.) - Lesione del diritto di difesa. Ordinamento penitenziario - Detenuto "condannato definitivo" - Permessi di colloquio - Difensore considerato, in base ad interpretazione dell'amministrazione penitenziaria, quale terzo, autorizzato al colloquio dal direttore dell'istituto solo in caso di procedimenti giurisdizionali pendenti - Compressione del diritto di difesa. (Legge 26 luglio 1975, n. 354, art. 18). (Cost., art. 24).(GU n.25 del 19-6-1996 )
IL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA Sul ricorso proposto da Beltrami Gianluigi osserva quanto segue: Beltrami Gianluigi, definitivo, ristretto in Brescia dal 27 dicembre 1995 in forza di ordine di esecuzione emesso il 18 dicembre 1995 dalla procura di Verona, ha nominato difensore di fiducia l'avv. Maria Teresa Sturla di Brescia in forza dell'invito del suddetto p.m. notificatogli il 27 dicembre 1995, n. 289/1995, emesso "nel procedimento relativo all'esecuzione penale n. 189/1995", a sensi dell'art. 28 disp. att. del c.p.p. Il direttore della casa di Brescia non ha consentito al colloquio con il detto difensore uniformandosi alle istruzioni a suo tempo impartite dal Ministero di grazia e giustizia e dal d.a.p. Il Beltrami ha allora presentato rituale reclamo a questo magistrato di sorveglianza ai sensi dell'art. 35 ord. penit. e l'avv. Sturla ha presentato i motivi. Ritiene questo magistrato in via pregiudiziale che deve essere esaminato se l'interpretazione adottata dal p.a., ancora recentemente ribadita con nota 23 febbraio 1996, n. 128563, sia legittima o se urti contro principi costituzionali rigorosamente prescritti. L'ammissibilita' del ricorso e' evidente. La norma di cui all'art. 35 o.p.., che facoltizza il detenuto a proporre reclamo anche al magistrato di sorveglianza, fa parte di un giusto sistema di garanzie offerto ai detenuti onde assicurare loro il pieno rispetto dei loro diritti ed interessi e consentire tutti i necessari interventi correttivi volti ad eliminare rapidamente ogni ingiusto trattamento. Purtroppo, nessuna norma dell'ordinamento penitenziario vigente prevede disposizioni speciali per i colloqui tra il condannato definitivo ed il suo difensore (mentre piena e completa e' la disciplina dettata per gli imputati dagli artt. 104 e segg. del c.p.p. e 21 e segg. disp. att.). In tema di colloqui, l'ordinamento attuale non concede al condannato altro strumento di difesa, tanto piu' che i casi contemplati per il ricorso formale dall'art. 69 o.p. non rientrano affatto in tale categoria, riguardando soltanto il lavoro e la disciplina. D'altronde il diritto al reclamo e' sancito anche dalle regole minime dell'O.N.U. e quelle del Consiglio d'Europa. Diversamente opinando, risulterebbe privo di qualsiasi tutela il diritto primario dei detenuti a fruire di colloqui con familiari o conviventi, o con altre persone per ragionevoli motivi, o con il proprio difensore (se condannati definitivi). Altrettanto evidente sembra l'ammissibilita', in questa sede di reclamo, del ricorso incidentale alla Corte costituzionale. A seguito del reclamo di cui all'art. 35 o.p. non vi e' dubbio che inizia un "procedimento", davanti al magistrato di sorveglianza, che e' da considerare autorita' giurisdizionale (art. 23, legge 11 marzo 1953). Del resto da tempo la stessa Corte ha escluso che debba trattarsi necessariamente ed esclusivamente di un giudizio "contenzioso", nel senso tecnico e formale del termine, tanto e' vero che ha ammesso l'incidente anche nel procedimenti di volontaria giurisdizione, osservando che l'attivita' di ogni giudice e' giurisdizionale anche se mancano la "lite" ed un formale "contraddittorio" (da ultimo 11 marzo 1958, n. 24). In altre parole la proponibilita' delle questioni riposa non sulla natura del procedimento ma sul fatto che un organo giurisdizionale sollevi la questione. Nel merito si deve rilevare quanto segue. L'art. 24, secondo comma, della Costituzione afferma, senza possibilita' di dubbio o di incertezze, che la difesa e' un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. La legge delega n. 81 del 1987 ha tradotto in termini concreti il suddetto principio anche nel settore della esecuzione penale. Infatti l'art. 2, n. 96 ha voluto che il nuovo codice offrisse: 1) "garanzie di giurisdizionalita' nella fase della esecuzione, con riferimento ai procedimenti concernenti le pene e le misure di sicurezza"; 2) "obbligo di notificare o comunicare al difensore, a pena di nullita', i provvedimenti suddetti". Ogni sentenza di condanna presuppone una pena, che deve essere eseguita a cura del pubblico ministero, mediante l'emissione dell'ordine di esecuzione, atto formale che da' inizio alla "fase di esecuzione" che il codice ha regolato nel libro apposito, il decimo (artt. 648 e segg.). Nella sua complessita', il processo penale continua cosi' a conoscere fasi successive, per realizzare l'applicazione in concreto della legge penale e la pretesa punitiva dello Stato. La fase dell'esecuzione e' l'ultima in ordine cronologico, ma non e' certo la meno essenziale. Senza di questa, sarebbe reso nullo, vuoto di significato e di contenuti reali, tutto il processo penale. Sono ormai trascorsi i tempi in cui la esecuzione delle sentenze non era considerata come facente parte della giurisdizione ma della amministrazione. Oggi anche la fase esecutiva costituisce esercizio di giurisdizione, pur essendo curata dal p.m. che, fino a prova contraria, e' tuttora un magistrato, appartenente all'ordine giudiziario (art. 102, primo comma, della Costituzione), che quindi esercita una funzione giurisdizionale, anche se le garanzie relative di cui deve godere sono stabilite dalle norme sull'ordinamento giudiziario (art. 107, ultimo comma, della Costituzione). Il salto tra il codice Rocco e l'attuale e' pertanto generazionale e - d'altra parte - gia' la Corte costituzionale con le sentenze n. 69 del 18 maggio 1970 (che supero' la contraria, precedente decisione n. 29 del 27 marzo 1962) e n. 98 del 20 maggio 1982 in tema di presenza del difensore nell'incidente di cui all'art. 630 del c.p.p. e di audizione personale dell'interessato che l'abbia espressamente richiesto, aveva ovviato alle piu' gravi deficienze, ponendo le basi delle nuove regole in vigore dal 1989. Gia' Manzini diceva che il p.m. era investito di funzioni esecutive, rispetto alle quali "egli agisce come ausiliare del giudice", esplicantesi nel promuovere la esecuzione delle sentenze, solo materialmente curata da funzionari ed agenti di p.g., questi si' non appartenenti (a differenza del p.m.) all'ordine giudiziario. Affermava il Manzini che l'esecuzione e' l'effettuazione delle disposizioni di un provvedimento giurisdizionale e "da' l'ultima concretizzazione alla volonta' della legge". Il procedimento camerale previsto per dirimere, mediante l'intervento del giudice, ogni questione relativa all'esecuzione, era si' rimesso alla decisione della parte privata o di quella pubblica, ma era tale da assicurare che anche i diritti del condannato fossero assicurati da garanzie giurisdizionali. L'art. 581 del c.p.p. abrogato, peraltro, non prevedeva la notifica "dell'ordine di carcerazione", come allora era chiamato. Sulla stessa linea tradizionale, purtroppo, si era posto anche il legislatore delegato nel 1987-1988. Infatti il progetto preliminare del c.p.p. all'art. 646 non prevedeva alcun obbligo di notifica da parte del p.m. dell'ordine di esecuzione e degli altri provvedimenti riferentesi alla esecuzione. E la stessa cosa valeva per la esecuzione delle pene detentive (art. 647 del progetto). La norma si limitava ad esigere la consegna dell'ordine all'interessato (art. 647, primo comma) che pur doveva contenere varie notizie, considerate nella relazione al progetto preliminare "essenziali per la validita' dell'atto e per la instaurazione di un valido rapporto processuale esecutivo". In tal modo l'ordine di esecuzione diventa equipollente alla notifica dell'estratto della sentenza al contumace. Ovviamente la semplice consegna di copia non e' atto sufficiente per assicurare la garanzia della presenza del difensore. Eppure la stessa relazione affermava che una volta "adottato il principio della piena giurisdizionalizzazione del procedimento esecutivo", appariva illogico pensare ad uno svolgimento "senza l'instaurazione di un vero e proprio contraddittorio" che implica la contestuale e necessaria presenza del difensore e del p.m. La commissione parlamentare interveniva opportunamente ed al testo definitivo del codice, all'art. 646 (divenuto il 655), fu aggiunto l'attuale quinto comma, che a pena di nullita' impone la notifica entro trenta giorni del provvedimento del p.m. al difensore nominato dall'interessato o a quello d'ufficio designato dal p.m. ai sensi dell'art. 97. Non vi e' dubbio, pertanto, che la fase esecutiva e' fase procedimentale e giurisdizionale ed inizia con la suddetta notifica, non avendo alcun senso la presenza del difensore se cosi' non fosse. Tale difensore, del resto, e' "nuovo" come e' nuova la fase, tanto e' vero che e' da scartare l'ipotesi di una prorogatio del difensore della fase di cognizione (anche a causa della distanza temporale e spaziale che spesso intercorre tra le fasi suddette, caratterizzate dalle ormai note e deprecate lungaggini processuali). Competente a "conoscere dell'esecuzione" di ogni provvedimento giurisdizionale e' lo stesso giudice che lo ha deliberato (art. 655 attuale c.p.p.). Tale competenza e' di natura generale e scatta nel momento stesso in cui inizia la fase dell'esecuzione. In altri termini, cio' conferma che un procedimento e' gia' aperto, indipendentemente dal fatto che il p.m. o l'interessato od il suo difensore in seguito propongano istanze ai sensi dell'art. 666, nel quale il contraddittorio deve essere necessario ed effettivo. Cio' e' tanto piu' vero, se si pensa che non vi sono termini per l'inizio dell'incidente, il che conferma come "tutta" la fase esecutiva e' di per se stessa un "procedimento" che deve essere assistito dalle solite garanzie. Ma cio' non e' vero nella realta' quotidiana. In effetti, una volta eseguito l'ordine di esecuzione di una pena detentiva, il condannato viene associato al carcere e l'amministrazione penitenziaria non gli consente di avere colloqui con il proprio difensore, di fiducia o d'ufficio, che pur e' in possesso dell'ordine di esecuzione notificatogli dallo stesso p.m. Secondo l'amministrazione penitenziaria nella migliore delle ipotesi il difensore suddetto e' un "estraneo" o un "terzo" che puo' avere colloqui con il detenuto "per ragioni di giustizia" ma deve anche pendere un procedimento avanti il giudice ex art. 665 o alla magistratura di sorveglianza. Il tutto, ad avviso del ministero, alla luce degli artt. 18, primo comma, ord. penit. e 35 primo comma, reg. pen. (secondo il quale i colloqui con "persone diverse" dai congiunti e conviventi "sono autorizzati quando ricorrano ragionevoli motivi"). L'ufficio legislativo del Ministero di grazia e giustizia (nel parere 18 aprile 1990, n. 1360-2/1 - 5U.L. e su richiesta del d.a.p., che era stato interessato dal tribunale di sorveglianza di Brescia con lettera n. 642/1989 del 28 novembre 1989) ha avvallato la tesi, pur riconoscendo rilevante "l'argomento teso ad individuare nell'art. 104 del c.p.p. un parametro di riferimento non ristretto alla sola fase della custodia cautelare". L'ufficio peraltro ha poi preferito dare decisiva importanza al testuale dettato di tale articolo che menziona "il solo stato di custodia cautelare". Soltanto il difensore dell'imputato sarebbe cosi' titolare di un diritto mentre il difensore del condannato rimane soggetto a quanto stabiliscono gli artt. 18 o.p. e 35 reg. Secondo il Ministero, del resto, il condannato e' un "colpevole", non e' piu' un imputato la cui responsabilita' rimane tutta da accertare. Singolare tesi questa, che non tiene conto del dettato costituzionale che vieta distinzioni tra le varie fasi del procedimento. Aggiunge il Ministero, poi, che il diritto al colloquio con il difensore non e' "limitato" ma semplicemente "condizionato", peraltro ad una autorizzazione discrezionale del direttore, il quale puo' affermare, come spesso avviene, che a nome del condannato non pendono procedimenti (anche se alla fine non e' vero). Con il che il diritto non viene condizionato, ma totalmente sacrificato a seguito di una decisione, discrezionale e non impugnabile dell'organo amministrativo. La tesi suddetta non e' stata da varie parti condivisa (tra cui provveditorato di Torino n. 11690-7 del 9 ottobre 1993) tanto che l'ufficio studi del d.a.p. ha inviato all'ufficio detenuti un motivato parere (n. 694328 - 2/11(6) del 7 marzo 1994) nel quale ha almeno riconosciuto che i colloqui dei condannati con il difensore non possono mai essere conteggiati nei quattro mensili cui hanno diritto i familiari. L'ufficio studi ha poi riaffermato che i motivi di giustizia sono "ragionevoli" per giustificare un colloquio con persona estranea, dietro autorizzazione del direttore, ma sempre richiedendo nel contempo la pendenza del procedimento. Il Ministero ha citato il decimo comma dell'art. 35 reg. che fa riferimento ad "eccezionali circostanze" con il che si apprende con stupore che quando il condannato parla con il suo difensore, dopo aver parlato con i familiari, si verifica non un avvenimento fisiologico, costituzionalmente garantito, ma addirittura una occasione "eccezionale". Grave poi appare l'altra affermazione secondo cui "in via ordinaria" l'espiazione delle pene non richiede contatti con il difensore. In tal modo si vanifica totalmente la nomina, di fiducia o d'ufficio, contenuta nell'ordine di esecuzione emesso dal p.m. Il principio posto dal Ministero e' cosi' il seguente: il direttore deve autorizzare "ove non sussistano motivi specifici che lo sconsigliano" (e quindi in via di totale discrezionalita'|) colloqui del condannato con il difensore "nella misura necessaria a soddisfare le esigenze di giustizia" connesse a "procedimenti" giurisdizionali "in relazione ai quali il difensore medesimo sia stato regolarmente nominato". Qui appare altro inquietante aspetto che conferma la mancanza di autonomia e di garanzie per il condannato, perche' e' ancora e soltanto il direttore che puo' decidere se e fino a qual punto le "esigenze di giustizia" possano essere soddisfatte. Il problema da risolvere rimane uno solo: quando per un condannato definitivo possa parlarsi di "pendenza" di un procedimento giurisdizionale. In altri termini, se viene nominato dal p.m. un difensore, di fiducia o di ufficio, per tassativa disposizione di legge, nel corpo dell'ordine di esecuzione, si e' in presenza di un atto processuale o comunque di nomina che impedisce di qualificare come generico "avvocato" il "difensore" nominato, che cosi' deve fruire senza limitazioni e senza autorizzazioni della facolta' di avere colloqui con il condannato. Non e' ragionevolmente ipotizzabile che con la nomina suddetta non inizi un procedimento giurisdizionale o giudiziario; i concetti di "procedimento" e di "difensore" sono strettamente correlati. Non vi e' procedimento senza difensore e dove c'e' difensore c'e' necessariamente un procedimento, anche nella prima fase della esecuzione oltre che in quella dell'incidente o in quella della sorveglianza. Del resto, se un cittadino viene colpito, pur legittimamente, da un ordine che restringe gravemente la sua liberta' personale, da quel momento e' veramente arduo sostenere che debba essere lasciato senza difesa tecnica, difesa che si dispiega fin dalla prima fase di studio del caso, che e' preliminare alla instaurazione di altri, successivi procedimenti, quello incidentale o quello di sorveglianza. Il punto di fondo rimane uno solo: occorre cessare di considerare l'espiazione un fatto "privato" tra il condannato e l'amministrazione penitenziaria, un momento meramente amministrativo, nel quale il giudice non ha voce (e dove non c'e' il giudice, non c'e' il procedimento e non c'e' difensore). E' questa una considerazione importante, una conquista fino ad oggi fatta soltanto di buoni propositi e di parole. La tesi ministeriale pertanto non convince, alla luce delle premesse. Ripugna infatti considerare un estraneo chi e' investito legittimamente di una funzione processuale precisa, vale a dire il difensore, una delle parti necessarie del procedimento, di tutto il procedimento, a partire dalla fase di cognizione. Al riguardo basti leggere gli artt. 96 e segg. del c.p.p. e 21 e segg. delle disp. att. Di conseguenza, nello schema logico, pur mancando una norma ad hoc che legittimi pienamente la posizione del difensore anche nella fase processuale esecutiva (e cio' per una mera svista dei compilatori del codice), e' possibile giungere alla stessa conclusione solo che si accetti la tesi, secondo la quale tutta la fase esecutiva deve essere assistita dalla garanzia di difesa, indipendentemente dalla circostanza, del tutto eventuale, che le parti si siano rivolte al giudice della esecuzione con il rito di cui all'art. 666 del c.p.p. Del resto, e' evidente che - prima di decidere di passare all'azione concreta - il detenuto ha un innegabile diritto a conferire anche piu' volte con il proprio difensore. In mancanza di tutto cio', rimane solo il vuoto piu' totale. Il detenuto condannato definitivo e' solo nel carcere, privo di difesa e di dialogo, perche' e' del tutto pacifico che ne' il personale della a.p. ne' i magistrati di sorveglianza hanno titolo per sostituirsi al difensore, essendo ben altre le loro funzioni. D'altronde, si e' sempre rilevato che il diritto alla difesa di cui all'art. 24, secondo comma, della Costituzione si collega alla difesa dei diritti inviolabili dell'uomo di cui all'art. 2 e garantisce ai titolare la possibilita' di difendere i diritti stessi contro l'attacco che venga loro mosso con una qualsiasi procedura, giudiziaria e non. A tale proposito si vedano gia' le sentenze della Corte n. 53 del 24 maggio 1968 e n. 76 del 25 maggio 1970 in cui si afferma che l'art. 24, secondo comma si applica a qualunque procedimento che "indipendentemente dalla sua qualificazione giurisdizionale" possa sfociare in una misura limitativa della liberta' personale (in tema specificamente di misure di prevenzione aventi natura amministrativa). E' vero che la Corte ha detto che il diritto di difesa non e' assoluto, nel senso che deve conciliarsi con altri valori costituzionali, ma i limiti di ragionevolezza non sono insindacabili (sentenze n. 41 del 31 maggio 1965 e 117 del 10 luglio 1973) entro i quali il legislatore puo' creare procedimenti penali di vario tipo, adattando le manifestazioni del diritto di difesa alla particolarita' di ciascuno. Con un solo limite, quello di "non pregiudicare lo scopo e la funzione del diritto" in modo che lo stesso non venga sacrificato o reso estremamente difficoltoso l'esercizio (sent. n. 159 del 9 novembre 1973; n. 162 del 26 giugno 1975; n. 174 del 14 luglio 1976). La piena conferma dei suddetti principi si trova laddove la Corte ha fatto giustizia delle norme del codice Rocco che conosceva una disciplina al riguardo brutalmente sbrigativa o non la prevedeva affatto (come nel caso di esecuzione dell'ordine di carcerazione). Infatti la Corte ha detto che la notificazione e' "strumento necessario ed indispensabile per instaurare il contraddittorio e per dar modo all'imputato di provvedere alla sua difesa" (sent. n. 57 del 6 luglio 1965 e n. 186 del 18 dicembre 1973). Il legislatore ordinario doveva creare le condizioni migliori per rendere possibile all'interessato la "reale conoscenza" dell'atto (sentenza n. 117 del 6 luglio 1970, n. 54 del 22 marzo 1971, n. 177 del 19 giugno 1974). Ed e' cio' che ha fatto il nuovo codice in materia di esecuzione dei giudicati, dietro espresso invito della commissione parlamentare. La stessa cosa, del resto era gia' contenuta nel progetto di codice di cui alla legge delega 3 aprile 1974, n. 108, in tema di irreperibilita'. La Corte, anche nelle decisioni n. 208/1991 e n. 497 del 23 novembre/11 dicembre 1995, sia pure in tema di imputati e di contenuto del decreto di citazione a giudizio avanti il pretore, ha affermato in linea generale che si deve assicurare una garanzia essenziale per il diritto di difesa e si devono prevedere delle conseguenze nel caso che vengano violati obblighi tassativi (come si verifica anche nel caso del condannato qui in esame, a favore del quale e' obbligatoria la nomina dei difensore, fin dall'inizio). L'imputato soffre diminuite potenzialita' difensive se non viene portato tempestivamente a conoscenza di quali sono i suoi diritti. Nel caso del condannato definitivo e' vero che non sono previsti termini decadenziali per adire la magistratura ordinaria o quella di sorveglianza, ma e' evidente il diritto dei soggetto a porre in essere l'azione al piu' presto, per non soffrire piu' pena detentiva di quanto non spetti. In altri termini anche il condannato deve essere messo in condizioni di operare al piu' presto - ed in modo adeguatamente assistito - le proprie scelte strategiche difensive, essenzialmente basate sulla conoscenza di tutte le possibili e varie soluzioni che l'ordinamento presenta atte ad attenuare o rimuovere ogni pregiudizievole conseguenza. Sotto tale profilo per l'imputato il decreto di citazione a giudizio ha un contenuto di contestazione e di conoscenza e la stessa cosa vale per il condannato, cui viene contestata la condanna definitiva e comunicato che deve subire la pena, ma nei modi e con le condizioni anche alternative offerte dalla legge.
P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953; Dichiara pregiudiziale e non manifestamente infondata la questione di costituzionalita' dell'art. 18 ord. pen. nella parte in cui non prevede il diritto del difensore del condannato definitivo detenuto, regolarmente nominato, a fruire di colloqui con le stesse modalita' e nella stessa misura prevista, per gli imputati detenuti, dagli artt. 96 e segg. del c.p.p. (ed in particolare dall'art. 104 stesso codice), per violazione dell'art. 24, secondo comma, della Costituzione, e nella parte in cui il difensore viene considerato come terzo abilitato al colloquio, su discrezionale decisione del direttore dell'istituto, esclusivamente nel caso di pendenza di "procedimenti giurisdizionali" in relazione ai quali sia stato regolarmente nominato, sempre per violazione dell'art. 24; Dispone la sospensione del procedimento e la trasmissione del fascicolo alla Corte cotituzionale; Dispone la comunicazione e le notifiche anche al Presidente del Consiglio dei Ministri ed ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Brescia, addi' 23 marzo 1996 Il magistrato di sorveglianza: Zappa 96C0763