N. 566 ORDINANZA (Atto di promovimento) 16 febbraio 1996

                                N. 566
   Ordinanza emessa il 16  febbraio  1996  dalla  corte  d'appello  di
 Palermo  nel  procedimento  civile vertente tra Guli' Eros Gaetana ed
 altra contro l'A.N.A.S.
 Espropriazione per pubblica utilita' - Criterio per la determinazione
 delle indennita' espropriative per la realizzazione di opere da parte
 o per conto dello Stato o di altri enti pubblici (media tra il valore
 dei  terreni  ed  il  reddito dominicale rivalutato, con la riduzione
 dell'importo cosi' determinato del quaranta per cento)  -  Estensione
 di  detto  criterio di valutazione anche alla misura dei risarcimenti
 dovuti  in  conseguenza  di  illegittime  occupazioni  acquisitive  -
 Ingiustificata   deroga   al   principio  civilistico  dell'integrale
 risarcimento  del  danno  da  parte   dell'autore   dell'illecito   -
 Irrazionale   e  ingiustificata  equiparazione  delle  espropriazioni
 regolari e delle ablazioni sine titulo nonche'  delle  espropriazioni
 di  aree  edificabili e aree agricole - Incidenza sul principio della
 tutela del diritto  di  proprieta',  sul  diritto  di  difesa  e  sui
 principi  di  imparzialita' e buon andamento della p.a. - Riferimento
 alle sentenze della Corte costituzionale nn. 283 e  442  del  1993  e
 188/1995.
 (Legge  8  agosto  1992,  n. 359, art. 5-bis, sesto comma, modificato
 dalla legge 28 dicembre 1995,  n.  549,  art.  1,  sessantacinquesimo
 comma).
 (Cost., artt. 3, primo comma, 24, 42, secondo e terzo comma, e 97).
(GU n.26 del 26-6-1996 )
                          LA CORTE DI APPELLO
   Ha  emesso  la seguente ordinanza nella causa civile iscritta al n.
 133/1992 del reg. gen. cont. civ. di questa corte di  appello,  posta
 in  decisione  all'udienza collegiale del 9 febbraio 1996, e promossa
 da  Guli'  Eros  Gaetana  e  Di  Palma  Maria  Angela,  elettivamente
 domiciliate  a  Palermo,  in  via  Tevere  n.  24,  presso  lo studio
 dell'avv.  Antonio Cancaro che li rappresenta e difende per procura a
 margine  dell'atto  di  citazione,  attrici,  contro  l'A.N.A.S.,  in
 persona del Ministro dei LL.PP. pro-tempore, domiciliata a Palermo in
 via  Alcide  De Gasperi n. 81 presso l'Avvocatura distrettuale che lo
 rappresenta e difende, convenuta.
   Letti gli atti,  sentito  il  relatore,  rilevato  che  Guli'  Eros
 Gaetana  e  Di Palma Maria con atti di citazione notificati l'11 e 12
 dicembre 1985, convennero in giudizio davanti al tribunale di Palermo
 l'Azienda nazionale autonoma delle strade, l'impresa Lesca Farsura  e
 la  Cassa  per il Mezzogiorno chiedendo il risarcimento del danno per
 l'occupazione appropriativa di un loro spezzone di terreno esteso  mq
 536  in catasto al foglio 39 part. 1380, radicalmente trasformato con
 la costruzione dell'opera pubblica;
   Ritenuto che il tribunale di Palermo con sentenza del  6  aprile-15
 dicembre  1990,  accogliendo  la  domanda, rilevata la illegittimita'
 della procedura espropriativa e la natura  edificabile  dell'area  ha
 condannato  l'A.N.A.S. al pagamento di L. 59.396.640 per risarcimento
 del danno per l'illegittima occupazione acquisitiva;
   Ritenuto che avverso la sentenza hanno proposto appello  principale
 le  Guli'  e Di Palma censurando soltanto la valutazione adottata dal
 primo  giudice  dell'area  edificabile  irreversibilmente   destinata
 all'opera  pubblica  per  la  quale  si era verificata la occupazione
 acquisitiva;
     che rinnovata la consulenza tecnica  di  ufficio  le  appellanti,
 all'udienza  collegiale  del  9  febbraio 1996, hanno preliminarmente
 eccepito  la  incostituzionalita'  dell'art.  1,   sessantacinquesimo
 comma,  della  legge  28  dicembre  1995,  n.  549,  applicabile alla
 fattispecie  in  esame  che  dispone  che  le  disposizioni   dettate
 dall'art.  5-bis  della  legge  n.  359  del  1992 per determinare la
 indennita' di espropriazione si applica "in tutti i casi in  cui  non
 sono  stati ancora determinati in via definitiva il prezzo, l'entita'
 dell'indennizzo e/o di risarcimento del danno alla data di entrata in
 vigore della legge di conversione del presente decreto";
     che posta la causa in decisione;
   Considerato che la norma in esame che fissa un  nuovo  criterio  di
 liquidazione  del  risarcimento del danno da occupazione acquisitiva,
 identico a quello di cui all'art.  5-bis  sopracitato,  va  applicato
 alla fattispecie in esame che riguarda la determinazione del danno da
 risarcire  per  la  occupazione  appropriativa  dell'area edificabile
 delle appellanti in un giudizio non ancora definito;
     che conseguentemente la eccepita incostituzionalita' e' rilevante
 nel giudizio in esame;
   Ritenuto che la detta nuova disciplina normativa appare viziata  di
 illegittimita'  costituzionale gia' al lume dello stesso fondamento e
 della  ragion  d'essere  dell'occupazione  acquisitiva:   l'istituto,
 infatti,   ritenuto   da   tutti  di  creazione  giurisprudenziale  e
 solitamente attribuito alla nota sentenza 26 febbraio  1983  n.  1464
 delle  S.U.   della Cassazione, in realta', ha rappresentato il punto
 di arrivo (necessitato) di una costante evoluzione  giurisprudenziale
 sviluppatasi  nel corso degli anni 70 con cui la Corte costituzionale
 e  la  Corte  di  cassazione  avevano  sottoposto  a  revisione   gli
 anacronistici  privilegi tradizionalmente riservati alla p.a. in tema
 di occupazione illegittima (ed irreversibile) di immobili privati, in
 base ai quali: a) si considerava inammissibile l'azione  di  condanna
 della p.a. alla restituzione dell'immobile appreso sine titulo per il
 divieto  di  cui  all'art.  4  della  legge  n.  2248 del 1865 (Cass.
 820/1975; 1378/1972; 641/1969; 1018/1964); b)  e,  d'altra  parte  al
 proprietario del suolo, dopo l'esecuzione dell'opera pubblica, veniva
 riconosciuta  una  titolarita'  meramente  nominale,  sostanzialmente
 ridotta alla sola intestazione catastale del proprio immobile  (Cass.
 1345/1978;  1549/1975;  145/1972;  2776/1969).    E,  seppure  gli si
 attribuiva il diritto ad ottenerne,  a  titolo  di  risarcimento  del
 danno, il valore venale espresso in termini monetari, e' pur vero che
 l'amministrazione  espropriante  conservava  un vero e proprio potere
 discrezionale di sanatoria in  via  amministrativa  della  situazione
 illegittima  creata,  mediante  la  facolta'  di emanare in qualsiasi
 momento, pur successivo alla costruzione dell'opera,  il  decreto  di
 espropriazione;  che,  perfino se sopravvenuto nel corso del giudizio
 risarcitorio, questo  estingueva  automaticamente,  anche  contro  la
 volonta'  del  danneggiato,  convertendolo in giudizio di opposizione
 all'indennita'  di  esproprio,  che  restava  la  sola   obbligazione
 gravante  sulla  p.a.  (Cass.  5875  e  3173/1981;  470/1977;  2892 e
 2087/1960).  Questa disciplina e' divenuta insostenibile  non  appena
 la   ricordata   giurisprudenza,   ha   messo  a  nudo  i  limiti  di
 compatibilita' costituzionale del principio di inammissibilita' delle
 sentenze    ripristinatorie    o    restitutorie,    circoscrivendone
 l'applicazione  alle  attivita' provvedimentali dell'amministrazione:
 le sole espressive della funzione amministrativa, e  non  ricorrenti,
 dunque,  in  quelle meramente materiali in mero impiego, sia pure per
 fini pubblici, della proprieta' privata, estranee allo ius imperii  e
 soggette  alla  pienezza  della  funzione  giurisdizionale secondo le
 regole  del  diritto  comune  (Cass.  4423/1977;  118/1978;  5335   e
 5679/1980;  767 e 1004/1981; 3380 e 6363/1982).  E, d'altra parte, la
 Consulta con una serie di interventi (6/1996; 55 e 56/1968; 92/1982),
 aveva impietosamente travolto, nello stesso  periodo,  il  corollario
 della   proprieta'   meramente  nominale  affermando  che  essa  deve
 necessariamente consistere in un complesso di utilita' economicamente
 valutabili e non puo', quindi, sopravvivere alla perdita  dei  poteri
 del  proprietario  di  godere  e  di  disporre  della  cosa; per cui,
 qulunque limitazione e/o imposizione che ne comporti la menomazione a
 tempo indeterminato oltre il suo limite  naturale;  si  trasforma  in
 atto  di  ablazione del diritto stesso, pur in mancanza di un decreto
 di espropriazione.  Da qui la genesi della fattispecie  appropriativa
 con cui le sezioni unite della Cassazione hanno composto il contrasto
 tra  l'interesse  del proprietario del suolo ad ottenerne, in caso di
 espropriazione  di  fatto,  la  restituzione  e  quello   dell'autore
 dell'opera  pubblica  ad  evitarne la rimozione e ad acquisirla nella
 proprieta' pubblica, tenendo presente, da un  lato,  che  il  vigente
 ordinamento   vieta   la  coesistenza  di  due  distinti  diritti  di
 proprieta', uno sul suolo, ed uno sulla costruzione. E dall'altro  le
 fattispecie  similari  di cui agli artt. 934 e segg. cod. civ. in cui
 il  legislatore  sceglie   il   soggetto   portatore   dell'interesse
 prevalente  e  gli  attribuisce  la  proprieta' del tutto; nonche' la
 disposizione  dell'art.  2933  cod.    civ.  che  non   consente   la
 distruzione  di  un  bene  (sostituendovi il risarcimento del danno a
 favore  dell'avente  diritto),  allorche'  sia  di  pregiudizio   per
 l'economia nazionale.
   L'istituto  in  tal  modo,  oltre  a  costituire  una  esplicazione
 concreta della funzione sociale della proprieta', ha attuato, secondo
 la  Corte  costituzionale  (384/1990),   un   completo   e   perfetto
 contemperamento  dei  contrastanti  interessi  in gioco, riconoscendo
 all'amministrazione espropriante la proprieta' del nuovo (e non  piu'
 scindibile) contesto suolo-opera pubblica. Ma in compenso attribuendo
 al  proprietario  illegittimamente  spogliato  della  titolarita' del
 fondo, in luogo del  semplice  indennizzo,  l'integrale  ristoro  del
 danno  subito,  in  tutte  le componenti indicate dall'art. 1223 cod.
 civ., ivi compresa quella della svalutazione monetaria  collegata  ai
 crediti  di  valore;  ed  infine,  impedendo  alla  p.a. di sottrarsi
 all'adempimento  dell'obbligazione   risarcitoria   con   l'emissione
 tardiva  del  decreto ablativo, ormai considerato ininfluente sia sul
 piano  dell'assetto  proprietario  del  bene,  sia  su  quello  delle
 conseguenze   risarcitorie  del  fatto  illecito  gia'  consumato  ed
 esaurito  (Cass.  S.U.  5597/1985;  12206/1990;  da  ult.  3427/1994;
 11474/1993).
   Siffatto  equilibrio  e'  stato  stravolto  dal  menzionato art. 1,
 sessantacinquesimo comma, della legge n. 549 del 1995 che ha  operato
 una   sorta   di   sanatoria   generalizzata   del   fatto   illecito
 appropriazione, analoga a qualla per decenni consentita al decreto di
 espropriazione  tardivo,  ripristinando  in  tutti  i  profili  della
 vicenda  ablativa  illegittima,  lo  status di supremazia strutturale
 della p.a. antecedente all'affermarsi  dell'occupazione  acquisitiva:
 tramite  questo istituto, infatti, il privato perde definitivamente -
 per   effetto   del   comportamento   illecito   dell'amministrazione
 espropriante  -  la  proprieta'  dell'immobile  nonche' gli strumenti
 processuali per  ottenerne  la  restituzione,  ma  l'ordinamento  gli
 promette  in  cambio,  la  completa  eliminazione  delle  conseguenze
 patrimoniali  dell'ingiusta  lesione subita. Che vengono, invece, pur
 esse disconosciute dalla norma legislativa in esame e sostituite  con
 il  "minimo  contributo e di riparazione" di cui all'art. 5-bis della
 legge n. 539 del 1992, spettante a chi  non  ha  subito  alcun  fatto
 illecito:  con  il  conseguente  sbilanciamento  degli  interessi  in
 conflitto e la completa vanificazione del sistema di tutela garantito
 dall'art. 42 Costit. in caso di sacrificio della proprieta'  privata,
 ora   eludibile   mediante  un  procedimento  divenuto  perfettamente
 alternativo  a  quello  ablatorio  legittimo,  rimesso  alle   scelte
 discrezionali dell'amministrazione espropriante (e degli enti da essa
 delegati),  senza,  neppure  il  rischio  di  maggiori esborsi; e che
 svuota del tutto di contenuto il menzionato  precetto  costituzionale
 laddove  attribuisce soltanto al legislatore di stabilire non solo le
 ipotesi, ma anche le procedure dell'espropriazione per p.u.
   In effetti, la Corte costituzionale (sent. 31 luglio 1990 n.  384),
 nel  giudicare  della legittimita' dell'art. 3 della legge n. 458 del
 1988  che  estende  la  disciplina  dell'occupazione  acquisitiva  al
 settore  dell'edilizia  residenziale  pubblica  (ed  a  cui  e' stata
 riconosciuta la  funzione  di  tertium  comparationis  rispetto  alle
 ipotesi  non comprese nella sua previsione), ha giustamente osservato
 che  l'art.  42,  terzo  comma,  Cost.  non  esige  ipotesi  ablative
 prefigurate   in   via   generale   ed   accompagnate   da   sequenze
 procedimentali costanti ed untiari; e che l'espropriazione puo' esser
 disposta direttamente dalla legge, ed anche in relazione  ad  ipotesi
 atipiche  gia'  verificatesi  nella  realta'  fatturale, come appunto
 accade nella fattispecie estintivo-acquisitiva.
   Tuttavia, la stessa Consulta ha specificato che in tale ultimo caso
 ad impedire la  violazione  del  menzionato  precetto  costituzionale
 concorre  la  sostituzione  "al  mancato  adempimento  della  pretesa
 restitutoria imposto da preminenti ragioni di pubblico interesse  ...
 della   tutela   risarcitoria   di   cui   all'art.  2043  cod.  civ.
 integralmente garantita" (nella specie) dal citato art. 3 della legge
 n. 458.  Il  quale,  anzi,  e'  stato  dichiarato  costituzionalmente
 illegittimo  (sent.  384/1991) nella parte in cui aveva limitato tale
 disciplina  all'ipotesi  di  accessione  invertita  provocata  da  un
 provvedimento  espropriativo poi caducato, senza estenderla a quella,
 del tutto analoga, correlata  alla  mancanza  in  radice  del  titolo
 espropriativo perche' mai emesso.
   E,  proprio  in questa ottica ricostruttiva, la Corte (442/1993) ha
 ritenuto del tutto giustificato che l'ente espropriante, il quale non
 faccia  ricorso  ad  un  procedimento  espropriativo  legittimo   per
 acquisire  l'area  edificabile,  subisca  conseguenze piu' gravose di
 quelle previste ove, invece, sia rispettoso dei presupposti formali e
 sostanziali prescritti dalla legge perche' si determini l'effetto  di
 ablazione dell'area.
   Ancor  piu'  significativamente,  poi,  ha,  di  recente (188/1995)
 dichiarato infondata  la  questione  di  legittimita'  della  vicenda
 ablativo-acquisitiva,  perche',  nella  ricostruzione  offerta  dalla
 giurisprudenza  della  Corte  di  cassazione,   la   regolamentazione
 conseguenziale  all'estinzione del diritto dominicale, caratterizzata
 dalla non equiparazione, per sanatoria, di tale atipica fattispecie a
 quella della espropriazione per p.u. e dal  conseguente  diritto  del
 proprietario  al  risarcimento  del danno piuttosto che alla semplice
 indennita', si mostra,  per  un  verso,  coerente  alla  connotazione
 illecita  della  vicenda;  e,  per  altro  verso,  attua  un perfetto
 "bilanciamento fra interesse pubblico (correlato  alla  conservazione
 dell'opera)  e  l'interesse  privato  (relativo  alla riparazione del
 pregiudizio sofferto  dal  proprietario)"  percio'  rientrante  nella
 discrezionalita' delle scelte legislative.
   In  sostanza,  mentre nel procedimento espropriativo legittimo (che
 comporta specifiche garanzie per il  proprietario  espropriato),  ben
 possono  venire in rilievo le opzioni (discrezionali) del legislatore
 nell'individuazione  del  criterio  di  calcolo  dell'indennita'   di
 espropriazione  (con  il  solo  limite dell'effettivita', serieta' ed
 adeguatezza), l'occupazione appropriativa si colloca fuori dai canoni
 di legalita' e, quindi, in essa opera "diverso principio, secondo cui
 chi ha subito un  danno  per  effetto  di  un'attivita'  illecita  ha
 diritto  ad  un  pieno ristoro" (Corte cost. n. 442/1993); sicche' il
 diritto all'integrale risarcimento, come strumento di  reintegrazione
 del  patrimonio  del  soggetto offeso in sostituzione e surrogazione,
 fin dal  momento  dell'atto  illecito  pregiudizievole,  del  diritto
 dominicale  sottratto  dal  comportamento illegittimo altrui, viene a
 cadere - esso stesso - sotto la tutela  dell'art.  42,  terzo  comma,
 Cost.,  divenendo  condizione di legittimita' dell'ablazione di fatto
 (al pari della dichiarazione di p.u. dell'opera).
   E, d'altra  parte  se  nel  conflitto  tra  il  diritto  reale  del
 proprietario  del  suolo  e  quello dell'autore della costruzione, il
 scarificio del primo, pur quando derivi da ablazione  illegittima  e'
 giustificato  non  solo dalla prevalenza dell'interesse pubblico alla
 conservazione  dell'opera,  ma  dal  fatto  che   lo   stesso   viene
 riequilibrato    in    positivo    dalla   previsione   del   diritto
 dell'espropriato all'integrale risarcimento del danno (in  luogo  del
 mero  indennizzo)  compensativo  del  plus  del  sacrificio, connesso
 all'arbitrarieta' dell'occupazione, non e' poi possibile  neppure  al
 legislatore,  come,  invece  ha  fatto  l'art.  1, sessantacinquesimo
 comma,  legge  n.  549/1995,  imporre  all'espropriato   un   secondo
 ulteriore  sacrificio  proprio nella determinazione di detto ristoro;
 che si tradurrebbe in una nuova (parziale) ablazione -  questa  volta
 senza   corrispettivo   -  dell'aliquota  di  risarcimento  non  piu'
 concessa,   percio',   non   consentita   dal   menzionato   precetto
 costituzionale.
   Ma  la  norma  appare in contrasto anche con gli artt. 3 e 24 della
 Costituzione: si e'  detto,  infatti,  della  linea  di  rinnovamento
 interpretativo,  sviluppatasi  a  partire  dai primi anni 70, in base
 alla quale la giurisprudenza della Corte  costituzionale,  dopo  aver
 negato  che l'intangibilita' dell'atto amministrativo traesse origine
 da un (costituzionalizzato) principio della divisione dei  poteri  ed
 avesse  fondamento  costituzionale  (sent.  32/1970  e  161/1971), ha
 enucleato il principio che la p.a.  ha una posizione di preminenza in
 base alla Costituzione non in quanto soggetto, ma in quanto  esercita
 potesta'  specificamente  ed  esclusivamente attribuitele nelle forme
 tipiche loro proprie.  In quest'ottica, condivisa e propugnata  dalla
 Corte  di cassazione, e' protetto non il soggetto, ma la funzione, ed
 e' alle singole manifestazioni della p.a. che e' assicurata efficacia
 per il raggiungimento dei vari fini pubblici ad essa assegnati.
   Pertanto, ha affermato la Consulta in numerose pronunce  (138/1981;
 61,  303  e  1104/1988),  al  di  fuori dell'esercizio delle predette
 funzioni, l'azione dell'amministrazione rientra nella  disciplina  di
 diritto  comune,  ed,  ove  venga  a ledere un diritto soggettivo, la
 potenzialita'  di  tutela  di questo affidata al giudice ordinario e'
 completa; e la posizione della p.a.  non  e'  diversa  da  quella  di
 qualsiasi  altro  debitore.    Ora  l'art. 1 della legge n.549 non ha
 modificato la struttura dell'occupazione  appropriativa  fondata  sul
 comportamento  illecito della p.a. che, appreso senza titolo un suolo
 privato, vi costruisca  l'opera  pubblica  rendendone  giuridicamente
 impossibile  la  restituzione,  in consapevole violazione delle norme
 che stabiliscono in quali casi e con quale procedimento la proprieta'
 di un immobole privato puo' essere autoritativamente sacrificata  per
 esigenze  di  pubblico  interesse;  per cui, essendo rimasta immutata
 tale connotazione, allorche'  l'amministrazione  (o  l'ente  da  essa
 delegato)  sceglie  di  non avvalersi della procedura ablativa, ma di
 acquisire il fondo privato tramite l'istituto in esame,  il  rapporto
 necessariamente  rientra,  a causa dell'autoassoggettamento dell'ente
 pubblico al regime di diritto comune da esso  prescelto,  nell'ambito
 di  applicazione  e  nello  schema di cui all'art. 2043 cod.  civ., e
 deve, quindi, trovare nella regola privatistica dettata da tale norma
 la propria misura e la propria sanzione. La quale e', di conseguenza,
 unica per tutti i debitori autori del fatto  illecito  -  siano  essi
 pubblici  o  privati  - e consiste, sempre e comunque, nella completa
 reintegrazione patrimoniale del danneggiato a titolo risarcitorio, di
 cui, peraltro, il controvalore del bene sottratto non e' che uno  dei
 possibili  parametri  di  determinazione:  come,  del resto, e' stato
 confermato nel settore in esame dal menzionato art.  3 della legge n.
 1458 del 1988, prima  delle  modifiche  aportate  dalla  disposizione
 legislativa    denunciata.      Quest'ultima,   invece,   opera   una
 discriminazione non  razionalmente  giustificabile  tra  i  creditori
 della    p.a.    (ovvero    di   privati)   a   titolo   risarcitorio
 extracontrattuale e creditori della p.a. (ovvero di enti dalla stessa
 delegati)  egualmente  a  titolo  risarcitorio,  ma  per  effetto  di
 accessione  invertita,  non  consentendo  soltanto  a  questi ultimi,
 egualmente danneggiati, come  i  primi,  da  un  fatto  illecito,  di
 conseguire  il  ristoro  dell'intero  pregiudizio  subito  secondo  i
 criteri di cui all'art. 1223  cod.  civ.;  e,  quindi,  di  agire  in
 giudizio  per  la  tutela  della  quota  di  credito decurtata, come,
 invece, avrebbero diritto in base al disposto dell'art. 24 Costit.
   E la discriminazione appare ancor piu' palese ed incoerente perche'
 lo stesso legislatore in  ogni  altra  ipotesi  di  interferenza  e/o
 congiunzione   dei   beni   appartenti   a  proprietari  diversi  con
 attribuzione del tutto ad uno solo di essi e sacrificio  del  diritto
 dominicale  dell'altro  (art.  934/940  cod.  civ.),  a  quest'ultimo
 attribuisce non soltanto un  indennizzo,  ma  anche  il  risarcimento
 dell'ulteriore  danno  subito  per  la  perdita  del  bene; e perche'
 analoga conseguenza  e'  stata  garantita  al  suddetto  proprietario
 perfino  dalla  legislazione  antecedente  alla  Costituzione  che ha
 introdotto  (precorrendone  la  disciplina)  singole  fattispecie  di
 occupazione appropriativa (cfr. artt. 70 legge n.  2359 del 1865; 225
 segg.,  nonche'  360  legge n. 2248 del 1865 All.  F; 93 r.d. 350 del
 1895).  Ne' e' sostenibile che le disposizioni delle due categorie di
 creditori siano disomogenee  e  non  comparabili  per  le  specifiche
 finalita'    di    pubblica    utilita'   perseguite   dagli   autori
 dell'accessione invertita, volute tutelare dalla norma, in quanto: a)
 essendo  tutta  l'attivita'  dell'amministrazione  (anche  quella  di
 diritto  comune)  istituzionalmente preordinata alla realizzazione di
 fini ed interessi pubblici, non e'  in  vista  del  perseguimento  di
 questi  o  di  quelli  che la Costituzione consente al legislatore di
 scegliere un trattamento differenziato rispetto agli  altri  soggetti
 dell'ordinamento;  ma, - si e' visto - unicamente in presenza di atti
 e  comportamenti  che  siano  veramente  espressivi  della   funzione
 amministrativa,  come  dimostra  da ultimo, nel versante pubblico, il
 piu' riduttivo criterio mediat scelto dall'art.  5-bis della legge n.
 359  del  1992  per  il  calcolo  dell'indennita'  di  espropriazione
 legittima,  e  giustificato,  secondo  la  Consulta  (283/1993) anche
 dall'intento di contenerne la relativa spesa, "nel  contesto  di  una
 piu'  vasta  ed organica manovra finanziaria dello Stato"; b) d'altra
 parte, nel versante privatistico, la fattispecie di cui all'art. 2043
 cod. civ. e' integrata da una condotta antigiuridica,  dall'esistenza
 di  un  danno  e  dal nesso di causalita' tra la prima ed il secondo,
 mentre restano ad essa estranei sia i motivi che gli scopi per cui il
 danneggiante ha commesso il fatto illecito;  c)  infine,  proprio  la
 valenza  di  questi  ultimi  e' stata considerata dal legislatore una
 prima volta, e giudicata  decisiva  nella  scelta  del  soggetto  cui
 attribuire  la  titolarita'  del nuovo contesto fondo-opera pubblica;
 per cui non ne e' permessa una seconda valutazione, ancora  in  danno
 del  soggetto  gia'  sacrificato  dalla  prima proprio in ordine alla
 consistenza dello strumento riparatorio preordinato a  compensarne  e
 riequilibrarne  gli effetti pregiudizievoli. La quale, in definitiva,
 finisce per ridurre il  fatto  illecito  dell'amministrazione  ad  un
 merum nome, che piu' non si riflette in negativo sul suo autore e del
 quale,  anzi,  sopravvive paradossalmente soltanto il piu' favorevole
 (per l'espropriante) regime della prescrizione di cui  all'art.  2947
 cod.   civ.,   rispetto   a   quello   ordinario  cui  e'  sottoposto
 l'indennizzo.
   I precetti degli artt. 3 e 24 Costit. sembrano poi, vulnerati sotto
 altro profilo: cio' perche' l'art. 1, sessantacinquesimo  comma,  non
 solo   sottrae   al   proprietario  vittima  dell'illecita  ablazione
 l'integrale risarcimento del  danno  sofferto,  ma  lo  pone  in  una
 condizione  addirittura  sfavorevole rispetto a quello che ha perduto
 l'immobile con vocazione edificatoria per  effetto  di  una  corretta
 procedura espropriativa.
   Infatti,   seppure   l'indennizzo   espropriativo   in   favore  di
 quest'ultimo deve essere calcolato, secondo il menzionato art. 5-bis,
 in misura pari alla semisomma del valore venale dell'immobile  e  dei
 redditi  dominicali  dell'ultimo decennio (si' da essere pari a circa
 il 50% di detto valore), il proprietario in  questione  puo'  evitare
 l'ulteriore abbattimento del 40% previsto dalla norma (che ridurrebbe
 l'importo  a  circa  il 30% dell'effettivo valore venale), accettando
 l'indennita' determinata  in  sede  amministrativa  e  convenendo  la
 cessione   volontaria   del   bene.      Ma  il  sub-procedimento  di
 determinazione   ed   offerta   dell'indennita'   (provvisoria)    di
 espropriazione  non  puo'  trovare  collocazione  nel  contesto della
 vicenda   estintivo-acquisitiva,   in   cui,    fino    al    momento
 dell'irreversibile   trasformazione   del   fondo,  l'amministrazione
 occupante (al pari dell'ente da essa delegato)  e'  tenuta  alla  sua
 restituzione  ed  esposta  alle  azioni  restitutorie  e  possessorie
 esperibili dal proprietario (Cass. 12266 e 2414/1993; 8418/1992; 1867
 e 1863/1991); mentre successivamente su di essi grava, ex  art.  2043
 cod.  civ., l'obbligazione del risarcimento del danno avente natura e
 funzione affatto  diverse  dall'indennita'  di  espropriazione;  che,
 infatti, nell'ablazione subita dalla Guli' e dalla Di Palma - oggetto
 del  giudizio  che  si  rimette  a  codesta  Corte - non e' stata mai
 determinata ed offerta dall'A.N.A.S.  Ancor meno praticabile e', poi,
 la cessione volontaria (costituente, secondo  la  Consulta,  la  vera
 finalita'   intesa   perseguire   dal   legislatore  del  1992),  pur
 nell'ipotesi che detti enti offrano all'ex proprietario una  somma  a
 titolo  risarcitorio  del danno provocato: perche', al pari di quanto
 si verifica per  il  decreto  ablativo  emesso  successivamente  alla
 vicenda  estintivo-acquisitiva, il contratto di cessione che dovrebbe
 seguire all'accettazione della somma, sarebbe radicalmente nullo  per
 mancanza  di  oggetto  e  di  causa,  non  potendo  l'amministrazione
 acquistare un bene gia' entrato a far parte del suo demanio o del suo
 patrimonio indispobibile (Corte cost. n. 282/1993 in motivaz.).   Per
 cui, in definitiva, per effetto della norma del 1995, il proprietario
 che     subisce     l'occupazione    acquisitiva,    puo'    ottenere
 dall'espropriante soltanto una somma pari a circa il 30%  del  valore
 venale  del  fondo  sottrattogli,  a  differenza del soggetto passivo
 dell'espropriazione   legittima,   che,    accettando    l'indennita'
 offertagli, consegue il 50% dello stesso valore; e beneficia del piu'
 vantaggioso  termine  di  prescrizione  decennale  per richiederne il
 pagamento.   Sussistono ulteriori  profili,  contigui  a  quello  ora
 prospettato,   di   sospetta   violazione   dei  menzionati  precetti
 costituzionali: l'art.    46  legge  n.  2359  del  1865  attribuisce
 un'indennita'  ai  proprietari  dei  fondi  i  quali dalla esecuzione
 dell'opera  di  pubblica  utilita'  vengano  a  soffrire   un   danno
 permanente derivante dalla perdita o dalla diminuzione di un diritto.
   Questa   norma,   costituente   da  decenni  un'ipotesi  tipica  di
 responsabilita' della  p.a.  per  atti  legittimi,  e'  stata  sempre
 interpretata  dalla  Corte  di  cassazione  nel  senso  di  ritenersi
 applicabile, anzitutto, all'ipotesi di distruzione o eliminazione  di
 un  immobile  presistente e, comunque, di annullamento delle facolta'
 costituenti  il  nucleo  essenziale  del  diritto  dominicale   (S.U.
 57/1978;     4380/1987;    9693/1990);    e,    quanto    all'oggetto
 dell'indennizzo, che, seppure dalla sua previsione  esulano  i  danni
 per   lucro  cessante  peculiari  del  solo  risarcimento  per  fatto
 illecito, lo stesso deve necessariamente comprendere l'intera perdita
 di contenuto patrimoniale effettivamente ed  oggettivamente  derivata
 dall'esecuzione  dell'opera  pubblica:  e,  quindi, ove essa consista
 nella distruzione di un immobile o  nell'azzeramento  delle  facolta'
 del   proprietario,   il  controvalore  intrinseco  del  bene  (Cass.
 778/1993; 11782/1992; 3188/1984; 77/1975).
   In base a queste considerazioni  appare  palese  la  disparita'  di
 trattamento  tra  il  proprietario del fondo contiguo che per effetto
 dell'opera pubblica, perda  definitivamente  l'immobile  o  comunque,
 subisca  il  totale  svuotamento  delle  facolta'  dominicali,  ed il
 proprietario dell'immobile appreso per  la  realizzazione  dell'opera
 suddetta;   perche'  il  primo,  perfino  nell'ipotesi  di  ablazione
 legittima, puo' ottenere l'equivalente del  bene  ex  art.  46  della
 legge  n.  2359  (e,  nell'ipotesi  di ablazione illegittima, anche i
 danni per lucro cessante: cfr.  Cass. 6754/1994), laddove  l'art.  1,
 sessantacinquesimo  comma,  in  esame attribuisce al secondo soltanto
 un'aliquota pari a circa il 30% del valore del fondo illegittimamente
 sottrattogli.    Eguale  disparita'  di  trattamento,  la  Corte deve
 ravvisare tra quest'ultimo  e  lo  stesso  proprietario  che  subisca
 l'occupazione illegittima del proprio fondo, tuttavia non trasformata
 in   opera  pubblica  (e,  comunque,  per  il  periodo  compreso  tra
 l'occupazione sine titulo e la irreversibile trasformazione),  ovvero
 trasformata  senza  alcuna  dichiarazione di p.u.: in queste ipotesi,
 infatti,  costituenti  una  fattispecie   di   illecito   di   natura
 permanente,  secondo  la  giurisprudenza  della  Corte di cassazione,
 ormai  consolidata  da  decenni,  al  sudetto   proprietario   spetta
 l'integrale   risarcimento   del   pregiudizio  subito  in  tutte  le
 componenti di cui all'art. 2043  cod.  civ.  (ivi  incluso  il  lucro
 cessante    derivante   dalla   perduta   possibilita'   di   vendita
 dell'immobile ovvero di utilizzarlo per scopi  edilizi);  e  soltanto
 nell'ipotesi  in  cui  egli  si  sottragga  all'onere  di  fornire la
 relativa prova, gli interessi legali annui sull'intero valore  venale
 del   fondo   occupato  (Cass.     2791/1989;  2617/1985;  1196/1986;
 3590/1983).  Analogo criterio vale per il  proprietario  che  subisca
 l'imposizione  di  fatto  di una servitu' (di elettrodotto, gasdotto,
 acquedotto ecc.)  sul proprio fondo, anch'egli titolare  del  diritto
 all'integrale  ristoro  del danno provocatogli dall'asservimento, pur
 ricevendo un  pregiudizio  inferiore  rispetto  al  proprietario  che
 subisca  l'accessione  invertita  (Cass.  S.U.  8065/1990; 2724/1991;
 nonche' 3573/1992; 250/1995).   E seppure,  secondo  la  Consulta  il
 principio  di eguaglianza esige la presenza di situazioni omogenee e,
 quindi,  comparabili,  quali  per  certi  versi   non   sono   quelle
 rappresentate  nelle  ultime  fattispecie,  e'  pur vero che siffatta
 giurisprudenza ne preclude l'applicazione allorche' la situazione  di
 chi  l'invochi  sia  deteriore  rispetto  a  quella  legislativamente
 privilegiata o comunque priva di  quei  presupposti  di  fatto  e  di
 diritto che questa, invece, possiede.
   Ma,  nel  caso,  la  discriminazione  che  si  denuncia e' di segno
 opposto nel senso che, pur provocando il fatto illecito in  esame  la
 lesione  e  le  conseguenze  pregiudizievoli massime ipotizzabili nel
 settore dei diritti  reali,  le  stesse  ricevono  una  minor  tutela
 rispetto  alle  altre situazioni evidenziate, per effetto della norma
 contestata; che trasmoda percio',  in  un  regolamento  arbitrario  e
 ridondante  in  una  ingiustificata  disparita' di trattamento: tanto
 piu' irrazionale in quanto la  Corte  costituzionale  aveva,  semmai,
 ritenuto conforme ai canoni costituzionali che l'autore dell'illecita
 approvazione  subisca  conseguenze  economiche piu' gravose di quelle
 previste dal  legislatore  allorche'  venga  osservata  la  procedura
 ablativa.  La stessa norma, infine, non sembra rispettosa neppure del
 precetto  dell'art.  97  Costit.:  dalla  disposizione  dell'art.  42
 Costit. secondo cui la proprieta' puo' essere espropriata  "nei  casi
 preveduti  dalla legge", consegue necessariamente non solo che spetta
 al legislatore questi casi determinare e regolare mediante specifiche
 procedure  ablative,  ma  anche   che,   allorquando   le   pubbliche
 amministrazioni  e  gli  enti da esse delegate intendono avvalersene,
 gli  stessi  ed  i  loro  funzionari   sono   tenuti   ad   osservare
 rigorosamente  i procedimenti suddetti: lo richiedono, del resto, non
 solo il principio di legalita' dell'azione  amministrativa  (art.  13
 segg.,  24 e 113 Costit.), ma anche quelli di buona amministrazione e
 di imparzialita' dell'azione amministrativa, espressamente  enunciati
 dall'art.  97  (e  dall'art.    98, primo comma) Costit., al lume dei
 quali   l'occupazione   appropriativa   non  costituisce  affatto  un
 procedimento alternativo  (e  discrezionale)  rispetto  a  quelli  di
 espropriazione  disciplinari  dalla  legge,  ma  soltanto una vicenda
 patologica e del tutto anomala; che infatti (proprio  perche'  lesiva
 del  diritto  dominicale dell'espropriato), ha fino ad ora esposto la
 p.a. ai maggiori e piu' gravosi esborsi previsti dall'art. 2043  cod.
 civ. (soprattutto in caso di acquisizione di aree edificabili); ed ha
 costituito, di riflesso, possibile causa di responsabilita' contabile
 dell'amministratore  (o funzionario) pubblico che li ha provocati non
 osservando  la  procedura  ablativa.     Questo  sistema   e'   stato
 recentemente completato dagli artt. 4 e segg.  della legge n. 241 del
 1990  che  hanno  creato  la  figura del funzionario responsabile del
 procedimento amministrativo (cfr. anche gli artt.   23 legge  n.  144
 del  1989  e  123  d.-l. n. 77 del 1995 che, infrangendo il principio
 dell'impersonalita'   dell'apparato   pubblico,   hanno    introdotto
 un'ipotesi  inedita  di responsabilita' direttta e personale di detto
 funzionario per  gli  effetti  dell'attivita'  contrattuale  da  esso
 compiuta in violazione delle disposizioni di legge sulla contabilita'
 di alcuni enti pubblici).
   Con  tale  contesto,  volto  al recupero del senso di legalita', di
 correttezza e di responsabilita' della p.a. e dei suoi funzionari, si
 pone in piena collissione la norma  denunciata,  la  quale  non  solo
 rimette  al  mero arbitrio dell'una e degli altri la scelta del fatto
 illecito piuttosto che del procedimento legittimo  per  acquisire  la
 proprieta'  privata,  ma  li induce necessariamente a privilegiare il
 primo, perche' divenuto, in seguito al nuovo parametro  risarcitorio,
 piu'   rispondente  agli  interessi  economici  dell'amministrazione:
 nell'ipotesi comune e normale,  infatti,  il  procedimento  ablatorio
 legittimo  si  svolge attraverso un periodo di occupazione temporanea
 d'urgenza non superiore ai  cinque  anni  (piu'  volte  prorogati  da
 recenti  e  ben  note  disposizioni  legislative),  prima  della  cui
 scadenza  viene   adottato   il   decreto   di   esproprio;   sicche'
 l'espropriante  e'  tenuto al pagamento di un indennizzo per il detto
 periodo di occupazione oltre  all'indennita'  di  espropriazione.  La
 quale, nell'ipotesi in cui venga accettata dal proprietario, e' pari,
 come  si  e'  visto,  a  circa il 50% del valore venale dell'immobile
 determinato con riferimento temporale alla data del decreto ablativo,
 in  cui  il  valore  del  bene  ha  subito  una  (talvolta  notevole)
 lievitazione rispetto al momento dell'iniziale occupazione.
   Invece, con l'espropriazione di fatto, divenuta piu' conveniente in
 forza  della  norma  censurata,  la p.a. puo' evitare, sia il ricorso
 all'occupazione temporanea (con gli oneri economici  correlati),  sia
 l'offerta  dell'indennita'  provvisoria  con la conseguente ulteriore
 riduzione dell'obbligazione risarcitoria ad una somma  corrispondente
 a  circa il 30% del valore del suolo appreso, per di piu' determinato
 all'epoca  dell'irreversibile  trasformazione  (solitamente  di  poco
 successiva  alla  materiale  apprensione  del  bene):  e,  quindi, in
 definitiva meglio attenersi alle direttive economiche perseguite  dal
 legislatore  del  1995,  seppur  con sacrificio del ricordato art. 97
 Costit. che le impone di confrontare e comparare sempre  e  comunque,
 nel  perseguimento  dei  compiti  affidatile,  le  disposizioni e gli
 interessi dei privati anche quando siano confliggenti e  contrastanti
 con  quelli  propri  (cfr.  art. 13 T.U. n. 3 del 1957).  Anche sotto
 questo profilo, dunque, la norma si rileva, per un  verso,  priva  di
 qualsiasi  ratio che non sia quella di privilegiare le esigenze della
 finanza pubblica; e si palesa, per altro verso, come  una  negazione,
 non  solo  del  buon  andamento e dell'imparzialita', ma anche di una
 razionale e coerente attivita'  dell'amministrazione.    Considerato,
 pertanto,  che  la  questione  prospettata  risulta  rilevante per il
 giudizio in corso non puo' essere definito senza la sua decisione;
                               P. Q. M.
   Visti gli artt. 134 della Costituzione; 1 della  legge  9  febbraio
 1948, n. 1, e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
   Dichiara  non manifestamente infondata la questione di legittimita'
 costituzionale del sesto comma dell'art. 5-bis della legge  8  agosto
 1992,  n.  359,  nel testo modificato dall'art. 1, sessantacinquesimo
 comma, della legge 28 dicembre 1995, n.  549,  con  riferimento  agli
 artt. 3, primo comma, 24, 42, secondo e terzo comma, nonche' 97 della
 Costituzione;
   Dispone  la  sospensione  del  giudizio  e l'immediata trasmissione
 degli atti alla Corte costituzionale  ed  ordina  che  a  cura  della
 cancelleria  la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa
 e comunicata in copia ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
     Palermo, addi' 16 febbraio 1996
                        Il presidente: Giardina
 96C0811