N. 264 SENTENZA 18 - 23 luglio 1997

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Imposte  in  genere  -  Silenzio-rifiuto   opposto   dalla   pubblica
 amministrazione  alle  richieste  di  annullamento  o  revoca di atti
 illegittimi - Opposizione -  Omessa  previsione  -  Riferimento  alla
 sentenza della Corte n. 120/1992 - Non fondatezza nei sensi di cui in
 motivazione.
 
 (D.-L.  10 luglio 1982, n. 429, art. 12, secondo comma, convertito in
 legge 7 agosto 1982, n. 516; d.P.R. 26 ottobre  1972,  n.  636,  art.
 16).
 
 (Cost., artt. 3, 24, 53 e 97).
 
(GU n.31 del 30-7-1997 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: dott. Renato GRANATA;
 Giudici:  prof.  Giuliano  VASSALLI,  prof. Francesco GUIZZI,   prof.
 Cesare MIRABELLI,   prof. Fernando SANTOSUOSSO,  avv.  Massimo  VARI,
 dott.   Cesare   RUPERTO,   dott.  Riccardo  CHIEPPA,  prof.  Gustavo
 ZAGREBELSKY,
  prof. Valerio ONIDA,   prof. Carlo MEZZANOTTE,   prof.  Guido  NEPPI
 MODONA,  prof. Piero Alberto CAPOTOSTI;
 ha pronunciato la seguente
                               Sentenza
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 12, secondo
 comma, del d.-l. 10 luglio 1982, n. 429, convertito in legge 7 agosto
 1982, n. 516 (Norme per la repressione della evasione in  materia  di
 imposte  sui  redditi  e  sul  valore  aggiunto  e  per  agevolare la
 definizione delle pendenze in materia tributaria), e dell'art. 16 del
 d.P.R.   26 ottobre 1972, n.  636  (Revisione  della  disciplina  del
 contenzioso   tributario),   promosso  con  ordinanza  emessa  il  30
 dicem-bre 1995 dalla Commissione tributaria di primo grado  di  Parma
 sul  ricorso  proposto  da  Fontanili Eugenio contro l'Ufficio IVA di
 Parma, iscritta al n.  728 del registro ordinanze 1996  e  pubblicata
 nella   Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  34,  prima  serie
 speciale, dell'anno 1996;
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
   Udito nella camera di consiglio  del  21  maggio  1997  il  giudice
 relatore Cesare Ruperto.
                           Ritenuto in fatto
   1.  -    Nel corso di un procedimento promosso dall'assuntore di un
 concordato fallimentare, al  fine  di  ottenere  la  "revoca"  di  un
 accertamento  fiscale riguardante l'anno 1984 ed i relativi avvisi di
 irrogazione delle sanzioni, la Commissione tributaria di primo  grado
 di  Parma,  con  ordinanza  emessa  il 30 dicembre 1995, ha sollevato
 questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 12, secondo comma,
 del d.-l.  10 luglio 1982, n. 429 convertito in legge 7 agosto  1982,
 n. 516 (Norme per la repressione della evasione in materia di imposte
 sui  redditi  e  sul  valore  aggiunto e per agevolare la definizione
 delle pendenze in materia tributaria), e dell'art. 16 del  d.P.R.  26
 ottobre  1972,  n.  636  (Revisione  della disciplina del contenzioso
 tributario), "nella misura in  cui  non  prevedono  l'opposizione  al
 silenzio-rifiuto   opposto   dalla   pubblica   amministrazione  alle
 richieste di annullamento o revoca degli atti illegittimi, quando gli
 enunciati  dei  Tribunali  ne   abbiano   sanzionato   condizioni   e
 presupposti  successivamente  alla scadenza dei termini per i ricorsi
 alle Commissioni tributarie contro gli avvisi di accertamento".
   La Commissione rimettente  -  premesso  che  la  controversia  trae
 origine   dalla  mancata  impugnazione  nei  termini,  da  parte  del
 contribuente  (successivamente  fallito  nel  1989),  di  avvisi   di
 rettifica   ed   irrogazione   sanzioni   in   materia  di  IVA,  con
 definitivita'  del  debito  tributario  dal  1988;  che  il  medesimo
 contribuente era stato assolto dalle relative imputazioni tributarie,
 per  non  aver commesso il fatto, con sentenza dell'11 novembre 1988,
 passata in giudicato;  che,  in  ragione  di  cio',  l'assuntore  del
 concordato  fallimentare  aveva  chiesto  all'ufficio  IVA  la revoca
 dell'accertamento del 1984 - ritiene che l'art.  12,  secondo  comma,
 del decreto-legge n. 429 del 1982, nella parte in cui non impone agli
 uffici  l'obbligo  di  uniformarsi al giudicato penale, contrasti: a)
 con l'art.  3  Cost.,  ponendo  in  situazione  identica,  sul  piano
 fiscale,  il  contribuente  condannato in sede penale e quello invece
 assolto; b) con gli artt.  24  e  53  Cost.,  poiche',  impedendo  al
 contribuente  assolto  in  sede  penale  di  far  valere nel processo
 tributario il giudicato sui fatti materiali accertati dal giudice, ne
 violerebbe il diritto di difesa, facendo soggiacere  il  contribuente
 stesso  ad  un  prelievo  fiscale  non in ragione della sua capacita'
 contributiva; c) con l'art.  97  Cost.,  venendo  di  conseguenza  ad
 incidere  negativamente sul buon andamento e sull'imparzialita' della
 pubblica amministrazione.
   Secondo il giudice a quo, inoltre, l'art. 16 del d.P.R. n. 636  del
 1972  renderebbe  di  fatto  inesistente  il  diritto  di  difesa del
 contribuente, non prevedendo la possibilita' di proporre ricorso alla
 Commissione tributaria avverso  il  silenzio-rifiuto  della  pubblica
 amministrazione   sull'istanza  di  revoca  dell'accertamento,  anche
 quando ad esso sia successivo il giudicato penale assolutorio.
   2. - E' intervenuto nel giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri,   rappresentato   dall'Avvocatura   generale  dello  Stato,
 chiedendo la declaratoria  d'inammissibilita'  delle  questioni,  per
 difetto   di   indicazione   dei   parametri  costituzionali  che  la
 Commissione  rimettente  riterrebbe violati dal censurato art. 16 del
 d.P.R. n. 636 del  1972  (con  conseguente  irrilevanza  anche  della
 questione  relativa  all'art.   12 del decreto-legge n. 429 del 1982)
 nonche' per mancata specificazione dell'esatta data di  passaggio  in
 giudicato  della  sentenza  penale  di assoluzione del contribuente e
 dell'avvenuta    costituzione    (o    non)    di    parte     civile
 dell'amministrazione finanziaria in quel processo.
   Nel  merito,  l'interveniente  deduce  l'infondatezza  di  tutte le
 censure,  considerato  che  i  prospettati  vulnera  ai  diritti  del
 contribuente derivano unicamente dalla condotta omissiva, allo stesso
 imputabile, nella non tempestiva impugnazione degli atti assunti come
 lesivi.
                        Considerato in diritto
   1.  -    La  Commissione  tributaria di primo grado di Parma dubita
 della legittimita' costituzionale dell'art. 12,  secondo  comma,  del
 d.-l.  10  luglio 1982, n. 429 (convertito in legge 7 agosto 1982, n.
 516), e dell'art. 16 del d.P.R.  26  ottobre  1972,  n.  636,  "nella
 misura in cui non prevedono l'opposizione al silenzio-rifiuto opposto
 dalla  pubblica  amministrazione  alle  richieste  di  annullamento o
 revoca degli atti illegittimi, quando gli enunciati dei Tribunali  ne
 abbiano  sanzionato  condizioni  e  presupposti  successivamente alla
 scadenza dei termini per i ricorsi alle Commissioni tributarie contro
 gli avvisi di accertamento".
   In particolare, a giudizio  della  rimettente  l'art.  12,  secondo
 comma,  del  decreto-legge n. 429 del 1982, in quanto non impone agli
 uffici l'obbligo di uniformarsi al giudicato penale,  contrasterebbe:
 a) con l'art. 3 Cost., ponendo in situazione identica il contribuente
 condannato  in sede penale e quello assolto; b) con gli artt. 24 e 53
 Cost., impedendo al contribuente assolto in sede penale di far valere
 nel processo tributario il relativo giudicato, violandone il  diritto
 di difesa e facendolo soggiacere ad un prelievo fiscale che prescinde
 dalla  sua  capacita' contributiva; c) con l'art. 97 Cost., incidendo
 negativamente sul buon andamento  e  l'imparzialita'  della  pubblica
 amministrazione.
   A  sua volta, l'art. 16 del d.P.R. n. 636 del 1972 - nella parte in
 cui  non  prevede  la  possibilita'  di  proporre  ricorso  in   sede
 tributaria    avverso    il   silenzio-rifiuto   dell'amministrazione
 sull'istanza di revoca dell'accertamento, anche quando  ad  esso  sia
 successivo  il  giudicato  penale  - priverebbe il contribuente della
 possibilita' di esercitare il proprio diritto di difesa.
   2.  -   Vanno,   preliminarmente,   disattese   le   eccezioni   di
 inammissibilita' dedotte dall'Avvocatura generale dello Stato.
   E'   infatti   agevole  desumere  dal  contesto  dell'ordinanza  di
 rimessione che, nella fattispecie oggetto  del  giudizio  a  quo,  il
 giudicato  penale  di  assoluzione del contribuente dalle imputazioni
 tributarie ascrittegli, per non aver commesso  il  fatto,  risale  ad
 epoca  successiva  alla  definitivita'  dell'accertamento fiscale per
 mancata impugnazione.
   Ed altrettanto chiaramente  risulta:  a)  che  la  censura  rivolta
 all'art.    16  del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, e' prospettata in
 riferimento esclusivo all'asserita violazione del diritto  di  difesa
 ex  art.  24  Cost.,  del  quale  il  giudice  a quo reputa essere in
 concreto privato il contribuente che non  possa  far  valere  davanti
 alle   commissioni   tributarie   il   giudicato   penale   formatosi
 successivamente alla scadenza dei termini per ricorrere  avverso  gli
 avvisi  di  accertamento;  b) che la denuncia delle norme in esame e'
 finalizzata "secondo la prospettazione"  ad  ottenere  una  decisione
 diretta,  sotto  i profili sostanziale e processuale, ad estendere il
 sindacato del giudice tributario  relativamente  ad  atti  impositivi
 basati  su  una situazione di fatto difforme da quella risultante dal
 giudicato successivamente  formatosi  in  sede  penale:  per  cui  la
 questione  sottoposta  al  vaglio della Corte prescinde dalla portata
 dell'estensione soggettiva degli effetti del giudicato stesso.
   Si puo' dunque passare all'esame del merito.
   3. - Entrambe  le  questioni  sono  infondate,  nei  sensi  di  cui
 appresso.
   3.1.   -  Investita  di  identica  questione  di  costituzionalita'
 dell'art.   12, secondo comma, del  decreto-legge  n.  429  del  1982
 "sollevata con riferimento agli stessi parametri evocati nel presente
 giudizio,  in  una  fattispecie  in  cui  il  giudicato penale si era
 formato anteriormente alla notificazione dell'atto  di  accertamento"
 questa  Corte  ne ha dichiarato la non fondatezza con sentenza n. 120
 del 1992, sottolineando che il potere attribuito  all'amministrazione
 finanziaria  di  verificare  l'eventuale  rilevanza fiscale del fatto
 penalmente accertato,  ai  fini  dei  conseguenti  provvedimenti,  va
 esercitato  in conformita' al principio, desumibile dall'art. 4 della
 legge 20 marzo 1865, n.   2248,  all.  E,  secondo  cui  la  pubblica
 amministrazione   ha   l'obbligo  di  conformarsi  al  giudicato  dei
 tribunali.
   Al di la' dunque del  problema,  agitato  in  giurisprudenza  e  in
 dottrina,  di un'abrogazione tacita della denunciata norma a se'guito
 dell'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale (problema
 implicitamente  risolto   in   senso   negativo   dalla   commissione
 rimettente),  l'inquadramento sistematico della norma stessa comporta
 che al surrichiamato principio di ordine  generale  l'amministrazione
 finanziaria   deve  comunque  uniformarsi,  in  sede  di  autotutela,
 nell'adozione dei provvedimenti ivi previsti.
   D'altronde,    l'adeguamento    della    fattispecie     tributaria
 all'accertamento  dei  fatti  operato dal giudice penale va compiuto,
 dietro eventuale sollecitazione del contribuente, senza soggiacere al
 limite  temporale  della  scadenza  del  termine  per  l'accertamento
 tributario:  limite  che  "secondo una lettura della norma conforme a
 Costituzione, e condotta alla stregua  del  principio  generale  come
 sopra enunciato" e' da ritenersi vincolante in modo assoluto soltanto
 con  riguardo all'attivita' degli organi fiscali diretta a modificare
 in peius la posizione del contribuente.   Sicche' lo  svolgimento  di
 tale  attivita' conformativa avviene a prescindere dal momento in cui
 si forma il giudicato. Ne' assume rilevanza la mancata partecipazione
 dell'amministrazione al giudizio penale, stante  il  diverso  a'mbito
 decisionale di questo rispetto al procedimento amministrativo.
   Tanto   basta   per   rendere   immune   dai  prospettati  vizi  di
 incostituzionalita' la disposizione in esame.
   3.2. - Correlativamente a quanto sopra osservato,  va  ribadita  la
 legittimita'  dell'art. 16 del d.P.R. n. 636 del 1972 (gia' affermata
 dalla sentenza n. 120 del 1992), attesa la sua idoneita'  a  tutelare
 in  modo  adeguato  il  diritto  di  difesa  del contribuente (il cui
 concreto  tempestivo  esercizio  e'  ovviamente  rimesso   alla   sua
 diligenza).
   Tale  norma  infatti  prevede il ricorso, non solo contro i diversi
 atti "con i quali per la prima volta si e' stati messi  a  conoscenza
 della  pretesa  impositiva",  ma  anche  contro  il  provvedimento di
 rigetto dell'istanza di rimborso o il silenzio-rifiuto  sulla  stessa
 (v. pure l'art. 19, comma 1, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, che
 ha  sostituito la norma censurata). Mentre - in difetto del pagamento
 dell'imposta gia' definitivamente accertata dall'ufficio  tributario,
 e dunque nell'impossibilita' di ricorrere contro l'eventuale rigetto,
 espresso  o tacito, dell'istanza di rimborso - al contribuente e' pur
 sempre dato di  avvalersi  dei  rimedi  apprestati  in  via  generale
 dall'ordinamento    giuridico    nei    confronti    della   pubblica
 amministrazione che ometta di adeguarsi al giudicato penale.  Sicche'
 il suo diritto di difesa deve considerarsi pienamente tutelato.
   Ne' sarebbe comunque da ritenersi costituzionalmente illegittima la
 sottrazione  di  codesta materia alla giurisdizione delle Commissioni
 tributarie, atteso che - secondo la costante giurisprudenza di questa
 Corte  -  la  mancata  ricomprensione  di  taluni  atti   e   materie
 nell'a'mbito   di   tale   giurisdizione  costituisce  manifestazione
 dell'ampio grado di discrezionalita' di cui gode il legislatore,  sia
 nel  conformare i singoli istituti processuali (v. ordinanza n. 5 del
 1996 e sentenza n. 295 del 1995), sia nel ripartire la  giurisdizione
 fra  i vari organi previsti dalla legge, in base ad una non vincolata
 valutazione di ordine politico e sociale (v.  ordinanza  n.  152  del
 1997).
                           Per questi motivi
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni
 di legittimita' costituzionale dell'art. 12, secondo comma, del d.-l.
 10  luglio  1982,  n.  429, convertito in legge 7 agosto 1982, n. 516
 (Norme per la repressione della evasione in materia  di  imposte  sui
 redditi  e  sul  valore aggiunto e per agevolare la definizione delle
 pendenze in materia tributaria), e dell'art. 16 del d.P.R. 26 ottobre
 1972, n. 636 (Revisione della disciplina del contenzioso tributario),
 sollevate,  in  riferimento  agli  artt.  3,  24,  53  e   97   della
 Costituzione,  dalla  Commissione tributaria di primo grado di Parma,
 con l'ordinanza indicata in epigrafe.
   Cosi' deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 18 luglio 1997.
                        Il Presidente: Granata
                         Il redattore: Ruperto
                       Il cancelliere: Di Paola
   Depositata in cancelleria il 23 luglio 1997.
               Il direttore della cancelleria: Di Paola
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