N. 288 SENTENZA 18 - 30 luglio 1997

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Processo  penale  -  Giudizio  abbreviato  -  Inappellabilita'   per
 l'imputato  e  il  p.m.  delle  sentenze  con le quali sono applicate
 sanzioni sostitutive - Ragionevolezza di una disciplina che  realizza
 il  giusto  equilibrio  tra  le esigenze di efficienza e di rapidita'
 nella definizione dei processi e la garanzia  del  doppio  grado  del
 giudizio di merito - Non fondatezza.
 
 (C.P.P., art. 443, comma 1, lett. b)).
 
 (Cost., artt. 2, 3, 10 e 24).
 
(GU n.32 del 6-8-1997 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: dott. Renato GRANATA;
 Giudici: prof.  Giuliano  VASSALLI,  prof.  Francesco  GUIZZI,  prof.
 Cesare  MIRABELLI,  prof.  Fernando   SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
 dott.    Cesare  RUPERTO,  dott.  Riccardo  CHIEPPA,  prof.   Gustavo
 ZAGREBELSKY,  prof.  Valerio  ONIDA,  prof.  Carlo  MEZZANOTTE,  avv.
 Fernanda CONTRI,  prof.  Guido  NEPPI  MODONA,  prof.  Piero  Alberto
 CAPOTOSTI;
 ha pronunciato la seguente
                               Sentenza
 nel  giudizio  di legittimita' costituzionale dell'art. 443, comma 1,
 lettera b), del codice di procedura penale,  promosso  con  ordinanza
 emessa  il  2  ottobre  1996  dalla  Corte  di cassazione sui ricorsi
 riuniti proposti dal procuratore generale militare  della  Repubblica
 presso la Corte militare d'appello di Roma nei confronti di Ruggerini
 Cesare e da Ruggerini Cesare, iscritta al n. 1 del registro ordinanze
 1997  e  pubblicata  nella  Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5,
 prima serie speciale, dell'anno 1997;
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
   Udito  nella  camera  di  consiglio  del  7  maggio 1997 il giudice
 relatore Guido Neppi Modona.
                           Ritenuto in fatto
   1. - Con sentenza in  data  22  luglio  1994,  il  giudice  per  le
 indagini  preliminari presso il tribunale militare di Roma, all'esito
 del giudizio abbreviato, condannava Cesare Ruggerini per il reato  di
 tentata truffa pluriaggravata alla pena di mesi quattro di reclusione
 militare,  sostituita  con  la  liberta' controllata di mesi otto. Il
 Ruggerini  proponeva  appello,  formalmente  qualificato   "atto   di
 impugnazione",  osservando  che  avverso  le  sentenze  pronunciate a
 seguito di giudizio abbreviato, con il quale sono applicate  sanzioni
 sostitutive,  l'appello dell'imputato doveva ritenersi ammissibile e,
 subordinatamente, eccepiva l'incostituzionalita' dell'art. 443, comma
 1, lettera b) del codice di procedura  penale,  in  riferimento  agli
 artt.  3  e  24  della  Costituzione,  sulla  base dei princi'pi gia'
 espressi dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 363 del  1991,
 con  la  quale  era  stata dichiarata l'illegittimita' costituzionale
 della medesima norma nella parte in cui prevedeva  l'inappellabilita'
 per  l'imputato  delle  sentenze  pronunciate  a  seguito di giudizio
 abbreviato  recanti  una  condanna  a  pena  che  "non  deve   essere
 eseguita".
   La  Corte  militare  di  appello,  qualificata  l'impugnazione come
 ricorso  per  cassazione,  trasmetteva  gli  atti   alla   Corte   di
 cassazione.
   Dal  canto  suo,  la Corte di legittimita', con ordinanza in data 3
 luglio 1994, preso atto della  volonta'  "delle  parti"  di  proporre
 appello  e  ritenuta  pregiudiziale  la  soluzione della questione di
 legittimita' ai fini  della  eventuale  investitura  della  Corte  di
 cassazione,  disponeva la restituzione degli atti alla Corte militare
 di appello.
   Con ordinanza del 17 aprile 1996, la Corte di merito dichiarava  la
 manifesta infondatezza della questione di legittimita' e, qualificato
 come  ricorso  l'impugnazione  proposta  dall'imputato,  ordinava  la
 trasmissione degli atti alla Corte di cassazione.
   2. - Con ordinanza in data 2 ottobre 1996, la Corte  di  cassazione
 ha  sollevato questione di legittimita' costituzionale dell'art. 443,
 comma 1, lettera b) cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 2,  3,
 10 e 24 della Costituzione.
   Osserva  in  primo  luogo  la  Corte  che  la  questione  sollevata
 dall'imputato  deve  ritenersi  ammissibile,  nonostante   la   Corte
 militare  di appello si fosse gia' espressa nel senso della manifesta
 infondatezza, in  quanto  spetta  alla  Corte  di  cassazione,  quale
 giudice  funzionalmente  sovraordinato  e  al  quale e' attribuita la
 competenza sulle impugnazioni a norma dell'art. 443, comma 1, lettera
 b) cod. proc. pen., la legittimazione a conoscere di ogni  doglianza,
 eccezione  o  questione proposta con le impugnazioni; tanto piu' che,
 in base all'art. 24 della legge
  11 marzo 1953, n. 87,  l'eccezione  di  incostituzionalita'  di  una
 norma  di  legge, respinta per manifesta irrilevanza  o infondatezza,
 puo' essere riproposta in ogni grado ulteriore del processo.
   Cio' premesso, ad avviso della Corte rimettente la  questione  deve
 ritenersi  non  manifestamente  infondata.  Al  riguardo,  il giudice
 rimettente osserva che anche nel caso di applicazione delle  sanzioni
 sostitutive  di  pene detentive brevi si ha intervento di un elemento
 estrinseco  alla  natura  del   reato,   rappresentato   dal   potere
 discrezionale  riservato  al  giudice  dall'art.  58  della  legge 24
 novembre 1981, n. 689, nei limiti fissati dalla legge e tenuto  conto
 dei  criteri  indicati  dall'art.    133  cod.  pen.,  che sono poi i
 medesimi da osservarsi in  tema  di  sospensione  condizionale  della
 pena:  da  qui  l'assimilazione della situazione presa in esame dalla
 Corte costituzionale con la  sentenza  n.  363  del  1991  (sentenza,
 emessa   a  seguito  di  giudizio  abbreviato,  di  condanna  a  pena
 condizionalmente  sospesa)  a  quella   del   presente   procedimento
 (sentenza  di  condanna,  emessa  a seguito di giudizio abbreviato, a
 pena detentiva sostituita con la liberta' controllata).
   Inoltre, osserva la Corte rimettente, e' possibile che la  sanzione
 sostitutiva   sia   convertita  in  quella  detentiva  sostituita  al
 verificarsi delle condizioni previste negli artt. 66 e 72 della legge
 n. 689 del 1981, con la conseguenza che il condannato, cui  l'appello
 sia  negato  in  forza  della sostituzione operata con la sentenza di
 condanna, non sarebbe poi reintegrato nel diritto  di  esperire  tale
 mezzo  di  gravame. Cio' determinerebbe una irrazionale disparita' di
 trattamento  rispetto  a  chi,  condannato  a  pena   detentiva   non
 sostituita, ha facolta' di proporre appello senza alcuna limitazione;
 ne' la lesione della par condicio potrebbe ritenersi giustificata dal
 verificarsi  solo  "postumo", nel primo caso, delle condizioni per il
 ripristino della pena detentiva.  Appare  dunque  ravvisabile,  anche
 sotto questo profilo, la lesione dell'art. 3 della Costituzione.
   Ma  la  norma  denunciata puo' ritenersi in contrasto anche con gli
 artt. 2 e 10 Cost., con riferimento al protocollo addizionale n.    7
 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
 delle  liberta'  fondamentali, il cui art. 2, comma 1, stabilisce che
 ogni  persona  condannata  ha  diritto  di  fare  esaminare  da   una
 giurisdizione   superiore  la  dichiarazione  di  colpevolezza  o  la
 condanna. Si tratta, osserva  il  Collegio  rimettente,  "di  diritto
 internazionale  formalmente  riconosciuto  dallo  Stato  italiano per
 ratifica dei relativi patti" (legge 9 aprile 1990, n. 98), che sembra
 delineare la necessita' che nell'ordinamento di ogni  Stato  aderente
 alla  convenzione sia previsto il doppio grado di giurisdizione. Tale
 principio,  con  specifico  riferimento   all'ordinamento   italiano,
 implica  "il  concetto  di  un doppio grado di merito, riguardante il
 vaglio delle prove di colpevolezza  e  l'applicazione  dei  parametri
 determinativi  della  sanzione,  posto  che  il  diverso  giudizio di
 cassazione,  delimitato   al   solo   controllo   della   correttezza
 logico-giuridica  di giudizio inferiore, non riguarda direttamente la
 dichiarazione di colpevolezza o di  condanna".  Sarebbe  pertanto  da
 escludere  che  la  "giurisdizione  superiore"  di  cui  alla  citata
 previsione  convenzionale  possa  identificarsi   nel   giudizio   di
 cassazione.
   3.  -  Nel  giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei
 Ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato, che ha concluso per la non fondatezza della questione. La piu'
 favorevole  situazione  venutasi  a  creare  in capo all'imputato con
 l'applicazione di sanzione sostitutiva di quella detentiva  non  puo'
 comportare  una  ulteriore  agevolazione  per  lo stesso soggetto che
 abbia,  in  sostanza,  causato  con  il  proprio   comportamento   il
 verificarsi  delle  condizioni  per  la  conversione  della  sanzione
 sostitutiva in pena detentiva.   Si tratta di  circostanza  non  solo
 successiva  alla  decisione  non  appellabile,  ma  anche  basata  su
 comportamenti antidoverosi dell'imputato,  che  come  tali  non  sono
 meritevoli di tutela.
   Incongruo sarebbe anche il riferimento alla Convenzione europea dei
 diritti  dell'uomo,  sia  perche'  le  disposizioni di tale strumento
 internazionale trovano la  sede  di  tutela  avanti  alla  Corte  dei
 diritti  dell'uomo, unico organo competente ad affermare la esistenza
 o meno delle pretese  violazioni  delle  disposizioni  medesime;  sia
 perche'  la  Convenzione  e'  una  norma  pattizia  che  non  rientra
 nell'ambito di operativita'  dell'art.  10  Cost.,  richiamato  dalla
 Corte  rimettente,  il  quale  ha per oggetto solo norme di carattere
 consuetudinario.
                        Considerato in diritto
   1. - Il giudice rimettente dubita della legittimita' costituzionale
 dell'art. 443, comma 1, lettera b), del codice di  procedura  penale,
 ove  si  stabilisce, in tema di giudizio abbreviato, che l'imputato e
 il pubblico ministero non  possono  proporre  appello  nei  confronti
 delle sentenze con le quali sono applicate sanzioni sostitutive.
   Ad avviso del giudice rimettente, tale disciplina contrasterebbe:
     con  l'art.  3 della Costituzione, per l'irragionevole disparita'
 di trattamento tra la situazione dell'imputato, a  cui  viene  negato
 l'appello  perche'  gli  e'  stata applicata una sanzione sostitutiva
 della pena detentiva, e quella dell'imputato condannato ad una eguale
 pena detentiva non sostituita, che conserva il  diritto  di  proporre
 appello senza limitazione alcuna;
     con  gli  artt.  3  e 24 della Costituzione, per la irragionevole
 disparita' di trattamento tra categorie di imputati, tale da incidere
 anche sul diritto di difesa, per essere  la  situazione  oggetto  del
 presente  giudizio del tutto analoga a quella presa in considerazione
 dalla sentenza di questa Corte n. 363 del  1991,  che  ha  dichiarato
 illegittimo  l'art. 443, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui
 preclude all'imputato di proporre appello in caso di condanna ad  una
 pena  che  comunque  non  deve  essere eseguita: in entrambi i casi -
 concessione della sospensione condizionale della pena e  applicazione
 della  pena  sostituita  a norma dell'art. 58 della legge 24 novembre
 1981, n. 689  -  la  preclusione  all'appellabilita'  della  sentenza
 sarebbe infatti conseguenza dell'esercizio di un potere discrezionale
 del  giudice,  sorretto dai medesimi criteri desumibili dall'art. 133
 del codice penale;
    con  gli  artt.  2  e  10  della  Costituzione,  in  relazione  al
 protocollo   addizionale  n.  7  della  convenzione  europea  per  la
 salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali,  il
 cui art. 2, comma 1, statuisce che ogni persona condannata ha diritto
 di  fare esaminare da una giurisdizione superiore la dichiarazione di
 colpevolezza  o  la  condanna;   principio   che,   con   riferimento
 all'ordinamento  italiano,  non  potrebbe ritenersi soddisfatto dalla
 possibilita' di proporre ricorso in Cassazione  nei  confronti  della
 sentenza di condanna a sanzione sostitutiva.
   2.  - La questione e' infondata con riferimento a tutti i parametri
 costituzionali evocati dal giudice rimettente.
   3. - Le censure mosse alla disciplina impugnata, con riferimento ai
 profili di illegittimita' costituzionale per contrasto con l'articolo
 3, nonche' con gli artt. 3 e 24 della Costituzione, sono  prospettate
 assumendo  come punto di riferimento la sentenza n. 363 del 1991, che
 il giudice rimettente ritiene abbia  affrontato  una  situazione  del
 tutto analoga a quella oggetto del presente giudizio.
   Il  tema  va  affrontato  -  come  d'altronde era stato fatto nella
 sentenza ora menzionata - nel contesto dei  principi  ispiratori  dei
 riti alternativi al dibattimento. Tali riti, demandati all'iniziativa
 e all'accordo tra le parti (non a caso si parla nei loro confronti di
 "giustizia  negoziata"),  comportano  -  come  e'  noto - la libera e
 consapevole accettazione, unitamente  ai  vantaggi  premiali  che  li
 caratterizzano in forma piu' o meno intensa, di alcune limitazioni di
 diritti e di facolta' dell'imputato, altrimenti riconosciuti nel rito
 ordinario.
   In  particolare,  per  quanto  riguarda  il giudizio abbreviato, il
 "premio" della riduzione di un terzo della pena  si  accompagna  alla
 consapevole rinuncia al dibattimento, al consenso ad essere giudicato
 allo  stato  degli atti e a che vengano utilizzati come prova ai fini
 del  giudizio  gli  atti  contenuti  nel  fascicolo  delle   indagini
 preliminari,  alla  preventiva  rinuncia ad avvalersi dell'appello in
 caso di condanna a pena sostitutiva  e  alla  sola  pena  pecuniaria,
 nonche',  in  caso  di  proscioglimento,  quando  l'appello  tende ad
 ottenere una diversa formula.
   La  posizione  processuale  dell'imputato  incontra  pertanto,  per
 effetto  della  scelta  del giudizio abbreviato, un doppio limite: in
 primo luogo  perche'  l'imputato,  a  seguito  della  sua  richiesta,
 accetta  che  il  giudizio  si  svolga  solo  sulla  base  degli atti
 contenuti nel fascicolo pubblico ministero,  senza  potere  usufruire
 delle  maggiori  garanzie  connesse  alla  formazione  della prova in
 dibattimento;  in  secondo  luogo  perche',  nei  casi  espressamente
 previsti  dall'art.    443,  commi 1 e 2, cod. proc. pen., l'imputato
 rinuncia  preventivamente  al  giudizio  in  grado  di  appello.  Nei
 confronti  di  tale  disciplina,  si puo' parlare di una preventiva e
 consapevole accettazione da parte dell'imputato dell'attenuazione  di
 alcune  facolta'  difensive,  a  fronte dei vantaggi premiali che gli
 vengono assicurati in caso di sentenza di condanna.
   Le peculiarita' del giudizio abbreviato sono state  ricollegate  da
 questa  Corte, in adesione alla Relazione al Progetto preliminare del
 nuovo codice di procedura penale, ad esigenze di celerita', rapidita'
 ed economia del procedimento, perseguite, da  un  lato,  evitando  il
 passaggio  alla  fase  dibattimentale,  secondo uno schema deflattivo
 comune a tutti i sistemi  processuali  che  si  ispirano  al  modello
 accusatorio,   e   imponendo  il  giudizio  allo  stato  degli  atti;
 dall'altro, introducendo limiti  all'appellabilita'  della  sentenza,
 destinati a garantire la rapida definizione del processo (sentenze n.
 363 del 1991 e n. 183 del 1990).
   Con   specifico  riferimento  ai  limiti  all'appellabilita'  delle
 sentenze, la gia' menzionata sentenza n. 363 del 1991  a  cui  si  e'
 appunto  richiamato  il giudice rimettente, ha dichiarato illegittimo
 l'art. 443, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui prevede  che
 l'imputato non puo' proporre appello contro le sentenze di condanna a
 una  pena  che  comunque  non deve essere eseguita, per contrasto con
 l'art. 3 della Costituzione,  a  causa  della  "irrazionalita'  della
 limitazione  apportata  che,  in  relazione al rilievo costituzionale
 dell'interesse  inciso,  non  trova  adeguata  giustificazione  nelle
 caratteristiche e nelle finalita' proprie del giudizio abbreviato".
   In  particolare,  questa  Corte  ha  rilevato  che la diversita' di
 posizione  tra  imputati  condannati  ad   una   pena   concretamente
 eseguibile  -  per i quali e' ammesso l'appello - e quelli a pena che
 comunque non deve essere eseguita - per i quali vige  il  divieto  di
 proporre   appello   -   non  trova  "un  fondamento  ragionevolmente
 commisurato all'entita' della limitazione  apportata  al  diritto  di
 difesa". Il criterio in base al quale agli uni e' riconosciuto e agli
 altri  e'  negato  il  diritto  all'appello  assume infatti a proprio
 presupposto - prosegue la Corte - "un elemento estrinseco alla natura
 del reato  commesso  e  ai  caratteri  della  pena  irrogata",  cosi'
 trascurando  "ogni riferimento agli aspetti che piu' sono destinati a
 caratterizzare la  responsabilita'  dell'imputato  e  le  conseguenze
 dell'azione  criminosa,  quali  il  titolo  del  reato,  il  tipo  di
 sanzione, la misura della pena edittale".
   4. - Sulla base di queste premesse, si deve valutare  se  anche  la
 norma  censurata  dal  giudice  rimettente determini un irragionevole
 sacrificio dell'interesse dell'imputato a proporre appello.
   A   prescindere   dalla   qualificazione   dogmatica   delle   pene
 sostitutive,   non  si  puo'  non  constatare  che  tali  sanzioni  -
 semidetenzione,  liberta'  controllata  e  pena  pecuniaria,   giusta
 l'elencazione  contenuta nell'art.   53 della legge 24 novembre 1981,
 n.  689  -  hanno  certamente  natura  meno  afflittiva  delle   pene
 detentive;  inoltre,  operano  nei confronti di categorie di reati in
 assoluto meno gravi rispetto a quelli per cui la pena puo' non essere
 eseguita,  in  quanto  sono  applicabili  quando  la   durata   della
 corrispondente pena detentiva e' contenuta, rispettivamente, entro il
 limite  di un anno per la semidetenzione, di sei mesi per la liberta'
 controllata  e  di  tre  mesi  per  la  pena  pecuniaria,  mentre  la
 sospensione   condizionale,   in  cui  si  sostanzia  l'ipotesi  piu'
 frequente di pena non eseguibile, puo' essere concessa  per  condanne
 alla pena della reclusione o dell'arresto sino a due anni.
   I   tre   requisiti   giustificativi  del  sacrificio  dell'appello
 risultano pertanto pienamente rispettati in caso di condanna  a  pena
 sostitutiva:    la  minore  gravita'  dei  titoli di reato, la minore
 afflittivita' delle sanzioni sostitutive, i  livelli  necessariamente
 piu'  bassi  della  misura  delle  pene  edittali  escludono  vizi di
 irragionevolezza e consentono di concludere che la disciplina rientra
 negli  spazi  di  discrezionalita'  legittimamente   utilizzati   dal
 legislatore  per  realizzare l'obiettivo della rapida definizione del
 giudizio abbreviato.
   Al  contrario,  nel  confronto  con  la  posizione  degli  imputati
 condannati  a  pena  concretamente  eseguibile, la non appellabilita'
 delle sentenze di condanna a pena che non deve  essere  eseguita  non
 teneva  conto  ne' del titolo di reato, ne' del tipo di sanzione, ne'
 della misura della pena edittale, ma si  basava  su  di  un  elemento
 estrinseco,   ricollegabile   all'entita'  della  pena  comminata  in
 concreto, ovvero alla  circostanza  che  ricorressero  le  condizioni
 personali  per  la  concessione  della sospensione condizionale della
 pena.
   5. - Il giudice rimettente ravvisa la violazione dell'art. 3  della
 Costituzione  anche  con  riferimento al verificarsi delle condizioni
 che, a norma degli artt. 66  e  72  della  legge  n.  689  del  1981,
 determinano  la  conversione o la revoca della restante parte di pena
 sostitutiva  nella  pena   detentiva   sostituita   (rispettivamente,
 conversione  per  l'inosservanza anche di una sola delle prescrizioni
 inerenti alla semidetenzione e alla liberta'  controllata;  revoca  e
 successiva   conversione  in  caso  di  condanne  successive  a  pena
 detentiva): in tali situazioni il condannato  alla  pena  sostitutiva
 non  potrebbe  infatti  essere  reintegrato  nel  diritto di esperire
 appello e sarebbe pertanto esposto ad una irragionevole disparita' di
 trattamento  rispetto  a  chi,  originariamente  condannato  a   pena
 detentiva  di  eguale misura, avrebbe potuto esperire l'appello senza
 alcuna limitazione.
   La specifica censura non e' conferente, per la  ragione  assorbente
 che  i  casi  di conversione e di revoca della pena sostitutiva hanno
 come presupposti comportamenti  e  fatti  successivi  ascrivibili  al
 condannato,  imprevedibili  e  del  tutto  indipendenti  ed  estranei
 rispetto al titolo del reato,  alla  qualita'  e  alla  misura  della
 sanzione,  di  cui l'imputato affronta consapevolmente il rischio nel
 momento in cui chiede  di  essere  ammesso  al  giudizio  abbreviato.
 L'interesse   che  in  tali  situazioni  l'imputato  conserverebbe  a
 proporre  appello  non  appare,  cioe',  suscettibile   di   autonoma
 considerazione  rispetto  al piu' generale interesse a fare valere la
 propria innocenza; interesse che, per le ragioni sopra  esposte,  non
 risulta comunque irragionevolmente sacrificato dalla inappellabilita'
 della condanna a pena sostitutiva.
   6.  - Il giudice rimettente lamenta inoltre che la proponibilita' o
 meno dell'appello deriverebbe dalla  scelta  meramente  discrezionale
 del  giudice  nel  momento  in cui decide, a norma dell'art. 53 della
 legge n. 689 del 1981, se applicare la pena detentiva ovvero la  pena
 sostitutiva,  alla stregua di una valutazione non dissimile da quella
 sottostante alla concessione  della  sospensione  condizionale  della
 pena.
   Il  fatto che sia l'art. 58 della legge citata, sia l'art. 164 cod.
 pen. si richiamino all'esercizio di  una  valutazione  discrezionale,
 ancorata  ai  criteri  e alle circostanze indicati nell'art. 133 cod.
 pen., non implica che il giudice sia titolare di  scelte  arbitrarie,
 volte   a   provocare,   in   caso  di  applicazione  della  sanzione
 sostitutiva, l'inappellabilita' della  sentenza,  e  in  quanto  tali
 suscettibili   di   determinare   una  ingiustificata  disparita'  di
 trattamento rispetto all'ipotesi  di  concessione  della  sospensione
 condizionale della pena, la quale dopo l'intervento della sentenza n.
 363  del  1991  non  produce  piu' - come gia' precisato - effetti in
 ordine alla proponibilita' dell'appello. Al riguardo, e'  sufficiente
 rilevare  che  l'esercizio  del  potere  discrezionale del giudice di
 sostituire o meno la pena detentiva e' sorretto dai  precisi  criteri
 indicati  dall'art.  58  della  legge  n.  689 del 1981, tra cui sono
 richiamate in primo luogo le circostanze di  cui  all'art.  133  cod.
 pen; inoltre il giudice deve scegliere tra le pene sostitutive quella
 piu'  idonea  al  reinserimento  sociale  del  condannato  e non puo'
 comunque provvedere alla sostituzione  della  pena  detentiva  quando
 presume  che  le  prescrizioni  non saranno adempiute dal condannato;
 infine, deve in  ogni  caso  indicare  specificamente  i  motivi  che
 giustificano la scelta del tipo di pena erogata.
   La  conseguenza  della  improponibilita' dell'appello e' quindi del
 tutto estranea alle valutazioni discrezionali del giudice che applica
 la pena sostitutiva, ma si pone come un possibile effetto negativo di
 cui l'imputato e' in condizione di tenere conto  quando  presenta  la
 richiesta  di giudizio abbreviato e di cui accetta preventivamente il
 rischio in caso di sentenza di condanna a pena sostituita.
   7. - Infine, infondata e' pure la denunciata violazione degli artt.
 2 e 10 della Costituzione, con riferimento all'art. 2, comma  1,  del
 protocollo   addizionale  n.  7  della  convenzione  europea  per  la
 salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,
 adottato  a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato dal Presidente
 della Repubblica Italiana in seguito ad  autorizzazione  conferitagli
 dalla  legge  9 aprile 1990, n. 98, ed entrato in vigore per l'Italia
 il 1 febbraio 1992.
   Premesso che l'art. 2 del Protocollo sopra menzionato ha introdotto
 nel comma 1 il principio che il colpevole di  una  infrazione  penale
 "ha  il  diritto  di  sottoporre  ad un tribunale della giurisdizione
 superiore la dichiarazione di colpa o la  condanna",  rinviando  alla
 legge  per  la  disciplina  dell'esercizio  di  tale  diritto  e  per
 l'individuazione dei motivi per cui puo' essere invocato,  e  che  il
 secondo  comma  stabilisce  che  il diritto "potra' essere oggetto di
 eccezioni in caso di infrazioni minori",  il  giudice  rimettente  ha
 erroneamente  dato per scontato che l'art. 2 faccia riferimento ad un
 secondo giudizio di merito.
   Il tenore dell'art. 2, comma 1, del protocollo  addizionale  n.  7,
 anche  attraverso  il  confronto  con quanto gia' disposto in tema di
 impugnazioni dall'art. 14, comma 1, del patto internazionale relativo
 ai diritti  civili  e  politici  del  19  dicembre  1966,  ratificato
 dall'Italia  con  legge  25  ottobre  1977, n. 881, non legittima una
 interpretazione per cui il riesame ad opera di un tribunale superiore
 debba coincidere con un giudizio di merito. La formulazione dell'art.
 2, nel demandare al legislatore interno ampi spazi per la  disciplina
 dell'esercizio  del  diritto  all'impugnazione, non esclude, infatti,
 che  il  principio  si  sostanzi  nella  previsione  del  ricorso  in
 Cassazione,  gia'  previsto  dalla  Costituzione  italiana. La norma,
 anche  alla  luce  dell'interpretazione  sostenuta  dalla  prevalente
 dottrina  con  riferimento  all'analogo principio enunciato dal comma
 primo dell'art. 14 del Patto internazionale del  1966,  e'  volta  ad
 assicurare   comunque  un'istanza  davanti  alla  quale  fare  valere
 eventuali errori in procedendo o  in  iudicando  commessi  nel  primo
 giudizio,  con  la  conseguenza che il riesame nel merito interverra'
 solo ove tali errori risultino accertati.
   Ove si volesse, poi, sostenere che, essendo  la  ricorribilita'  in
 Cassazione  gia'  prevista  dalla Costituzione, l'art. 2, comma 1, ha
 introdotto il diritto ad un secondo grado di giudizio di  merito,  si
 incorrerebbe   in   un  palese  vizio  logico,  in  quanto  la  norma
 convenzionale verrebbe interpretata alla luce  del  diritto  interno,
 come  se la disposizione pattizia avesse il ruolo di riempire i vuoti
 dell'ordinamento nazionale.  Vuoto che, tra l'altro, non si  porrebbe
 in  contraddizione  con  l'ordinamento  costituzionale italiano, alla
 luce della consolidata giurisprudenza di questa Corte in tema di  non
 rilevanza  costituzionale  della  garanzia  del  doppio  grado  della
 giurisdizione di merito (vedi, da ultimo, sentenze n. 438 del 1994  e
 n. 543 del 1989).
   A  prescindere dalle considerazioni sino ad ora svolte, il richiamo
 del giudice rimettente all'art. 10, primo comma, della  Costituzione,
 appare  comunque  incongruo,  posto che la costante giurisprudenza di
 questa Corte ha affermato che tale disposizione,  nel  richiamare  ai
 fini  dell'adeguamento  del  diritto  interno  le  norme  di  diritto
 internazionale generalmente riconosciute,  si  riferisce  alle  norme
 internazionali  di  natura consuetudinaria, e non a quelle di origine
 pattizia (vedi, da ultimo, sentenze n. 146  del  1996  e  n.  15  del
 1996).
   8.  -  La  disciplina  denunziata  non  determina,  quindi, ne' una
 ingiustificata  disparita'  di  trattamento,  ne'  un   irragionevole
 sacrificio  dell'interesse dell'imputato al doppio grado del giudizio
 di merito, e non si pone in contrasto con il  protocollo  addizionale
 n.  7  della  convenzione  europea  per  la  salvaguardia dei diritti
 dell'uomo e delle liberta' fondamentali.
   Tale disciplina, che del  resto  si  inquadra  in  un  sistema  che
 prevede   altre   ipotesi   di   inappellabilita',  riferite  sia  ai
 procedimenti speciali  che  al  rito  ordinario  (vedi,  ad  esempio,
 articoli  448, comma 2; 469; 593, comma 2, cod. proc. pen.), realizza
 un non irragionevole equilibrio tra le esigenze di  efficienza  e  di
 rapidita'  nella  definizione  dei  processi e la garanzia del doppio
 grado del giudizio di merito.
                           Per questi motivi
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara non fondata la questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.  443,  comma  1, lettera b) del codice di procedura penale,
 sollevata,  in  riferimento  agli  artt.  2,  3,  10   e   24   della
 Costituzione, dalla Corte di cassazione, con l'ordinanza in epigrafe.
   Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 18 luglio 1997.
                        Il Presidente: Granata
                      Il redattore: Neppi Modona
                       Il cancelliere: Di Paola
   Depositata in cancelleria il 30 luglio 1997.
               Il direttore della cancelleria: Di Paola
 96C0957